Repubblica 17.7.18
Revisioni
Il vero Freud e la psicoanalisi parola per parola
di Vittorio Lingiardi
Cosa disse effettivamente dell’omosessualità? E della cultura americana? E qual è il significato reale di alcuni termini-chiave? Sarà presto disponibile in lingua inglese la nuova edizione integrale della sua Opera omnia
Le bozze sono corrette, i nuovi indici analitici sono redatti. Dopo qualche falso allarme (doveva uscire nel 2014) la nuova edizione inglese dell’opera freudiana presto sarà nelle nostre biblioteche. Il nome ufficiale dei 24 volumi è Revised Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud. Si abbrevia in RSE e sarà affiancata dai 4 volumi dei
Neuroscientific Works. Chi si è preso la briga di revisionare la
Standard Edition ( SE) curata più di mezzo secolo fa da James Strachey per la Hogarth Press e tanto lodata da Anna Freud? Chi si è fatto carico di questa fatica immensa? Mark Solms, psicoanalista sudafricano e professore di neuropsicologia all’Università di Città del Capo.
Lo conosciamo perché ha scritto, con Oliver Turnbull, un libro affascinante, Il cervello e il mondo interno, e perché ha fondato una nuova disciplina, la neuropsicoanalisi. Proprio per questo alcuni clinici, poco inclini alle neuroscienze psicoanalitiche, lo considerano un collega un po’strano con la passione per la fisiologia e l’anatomia cerebrale. Argomenti che invece non dispiacevano a Freud, il quale nasce neurologo e, con il Progetto di una psicologia del 1895, tentò di immergere la nascente psicoanalisi nelle neuroscienze dell’epoca.
«Quello di revisionare la SE non può che essere definito un compito “grande”», dice Solms.
Per affrontarlo, ha passato al setaccio ogni frase tradotta da Strachey (e da sua moglie Alix), ha verificato il tedesco, è tornato sui manoscritti originali. Questa, in poche righe, la filosofia con cui ha lavorato: «Ogni volta che mi imbattevo in un errore di Strachey il mio compito era semplice: lo correggevo». Se le correzioni erano sostanziali, o sorprendenti, aggiungeva brevi note redazionali. Strachey stesso, del resto, aveva tenuto un elenco di correzioni e aggiunte, molte delle quali sono oggi incorporate nella nuova edizione. L’ultimo volume contiene infatti tutti i commenti di Solms relativi alla traduzione di molti termini tecnici, esattamente 53. Tra questi, Anlehnung (“appoggio”), Besetzung (“investimento”), Einfall (“idea improvvisa”, ma anche “associazione”),
Einfühlung
(“immedesimazione”, ma Solms preferisce “empatia”),
Nachträglichkeit (“posteriorità” nell’edizione italiana, deferred action in quella inglese; ma oggi tutti usiamo il francese
après- coup), Trieb (Strachey, sbagliando, lo traduce instinct, Solms sceglie drive; in italiano è reso con “pulsione”). «Ma il principio su cui ho basato la mia revisione — conclude Solms — è stato paradossalmente quello di conservare il lavoro di Strachey». Rivederlo, non sostituirlo.
Strachey sosteneva di aver tradotto Freud come se fosse un «uomo di scienza inglese». Una posizione che Solms rispetta.
Secondo lui, quando si traduce si deve scegliere se usare le convenzioni della lingua di partenza oppure di arrivo.
Nessuna delle due soluzioni è la migliore, ma impiegarle entrambe è impossibile.
Laplanche, quando ha tradotto le OEuvres complètes in francese, ha scelto la prima opzione; Strachey, la seconda.
A quale Freud dare più voce?
Come rendere quel termine?
Alcuni ricorderanno i violenti pareri di Bettelheim contro la traduzione di Strachey, accusato di aver reso troppo tecnica e medicalizzata la lingua di Freud. Si sa che le questioni linguistiche diventano prima editoriali, poi scientifiche e infine politiche (soprattutto nella comunità analitica, piuttosto accanita sul piano esegetico).
Su questo punto l’edizione italiana voluta da Paolo Boringhieri, diretta da Cesare Musatti, curata e in gran parte tradotta da Renata Colorni, è molto consapevole: «La terminologia psicoanalitica è uno dei problemi della psicoanalisi e le sue variazioni possono considerarsi strumenti e indici della sua storia». Alla pluripremiata Colorni, che ha saputo trasformare le diverse traduzioni di Freud nel testo di un “autore unico”, fondando un corpus terminologico coerente, chiedo se davvero la versione di Strachey aveva bisogno di una revisione: «Saluto con gioia questa nuova edizione», esordisce Colorni, «e spero in una resa della terminologia psicoanalitica meno tecnica, specialistica e gergale di quella adottata da Strachey, più rispettosa della scelta di Freud di attingere, anche quando si è trattato di inventare parole nuove per la scienza nuova che andava costruendo, alla lingua corrente, quotidiana, oltre che alla cultura letteraria, filosofica e scientifica del suo tempo.
Spero, in sostanza, che a Freud sia pienamente restituita, anche in lingua inglese, la bellezza letteraria che gli è stata riconosciuta dal Premio Goethe nel 1930».
Un’altra importante novità dell’edizione Revised riguarda il materiale freudiano che non è incluso nella vecchia Standard e nemmeno nell’edizione italiana. In un recente articolo, Solms racconta che, tra i documenti aggiunti, molti riguardano le opinioni di Freud su due temi specifici: l’omosessualità e l’America. Per esempio, ha inserito una dichiarazione del 1905 sull’idoneità delle persone omosessuali a diventare analiste (lui era favorevole). Oppure una lettera tranquillizzante (oggi diremmo “gay-friendly”) che Freud scrisse nel 1935 alla madre angosciata di un giovane omosessuale americano.
Un’altra aggiunta riguarda una parte del poscritto a Il problema dell’analisi condotta da non medici, all’epoca espunta, su consiglio di Eitingon e Jones, a causa della natura poco “diplomatica” delle opinioni di Freud sull’America in generale e sulla psicoanalisi americana in particolare. Secondo Jones, biografo ufficiale di Freud, la parte espunta ammontava a tre frasi, in realtà si tratta di almeno sei paragrafi. Alla fine dei quali emerge che buona parte dell’antipatia di Freud nei confronti di ciò che era americano dipendeva dal disprezzo che Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921, aveva espresso per la cultura tedesca.
Oggi, nel mondo, Freud è più letto in inglese che in tedesco.
Questo spiega l’enorme importanza di una nuova edizione inglese: inevitabilmente influenzerà lo studio e la trasmissione del pensiero freudiano più di quella tedesca. La versione di Solms uscirà all’inizio del prossimo anno e non vediamo l’ora. Le nuove traduzioni vanno sempre accolte con entusiasmo e curiosità.
Come dice Colorni, sono un modo di «accogliere lo straniero», di farlo dialogare con noi.
Questo lavoro influenzerà gli studi e la trasmissione del suo sapere
il manifesto 17.7.18
Il «caso» di Torino. Ebrei e israeliani sull’orlo di una separazione
di Moni Ovadia
Lo spunto per questa riflessione, l’incipit di un articolo sul ebraismo di Philip Roth pubblicato sull’ultimo numero del settimanale statunitense The Nation a firma di Eric Alterman.
Queste le sue parole: «I media hanno avuto recentemente un risveglio riguardo ad un fenomeno spesso argomento di discussione sulle pagine di questa rivista: che la cultura ebraica americana mainstream e la cultura israeliana mainstream sono nel corso di una separazione permanente dei loro cammini…Una recente indagine promossa da un comitato ebraico-americano, secondo quanto riportato da William Galstone sul Wall Street Journal, dice che Israele è uno stato rosso (repubblicano) e l’ebraismo americano è uno stato blu (democratico). Loro odiano Obama e amano Trump; noi il contrario. Loro vogliono mantenere i loro insediamenti e occupare il West Bank per sempre, si fotta la democrazia; noi siamo ancora democratici. Loro non sono per nulla disturbati dagli orrori di ciò che avviene a Gaza; noi ne siamo turbati. Loro permettono a Rabbini fondamentalisti di dire chi possono sposare, chi può essere sepolto e dove e persino chi è e chi non è un vero ebreo. Noi chiamiamo tutto ciò una porcheria!».
Mi scuso per questa lunga citazione ma la ritengo necessaria per il lettore italiano che è tendenzialmente disinformato su ciò che si muove nel mondo ebraico e in particolare nella più grande comunità ebraica della diaspora riguardo alla realtà israeliana, al netto della retorica e della propaganda sionista e soi- disant «filo-semita».
È bene ricordare almeno che il sostegno delle organizzazioni sioniste e pro governo israeliano a Trump, fingono artatamente di ignorare che il tycoon repubblicano è stato votato da nazisti, suprematisti bianchi, razzisti e antisemiti a vario titolo.
Ma per riportare la questione al piccolo e rigido microcosmo delle principali istituzioni ebraiche del nostro paese, esse perseguono con miope accanimento la trasformazione dell’ebraismo italiano organizzato in legazioni diplomatiche del governo di Bibi Netanyahu.
I dirigenti delle nostre comunità probabilmente ricevono ordini precisi e li eseguono con zelo.
Il primo «comandamento» da seguire è: Il governo e l’esercito di Israele hanno sempre ragione.
Il secondo è: gli israeliani sono sempre vittime anche se muoiono i palestinesi.
Terzo chi difende i diritti autentici del popolo palestinese è un agente di Hamas.
Quarto, chi denuncia ingiustizie, sadismi, stillicidi perversi contro i civili palestinesi è un antisemita e così via.
Per servire in modo non rischioso lo scopo di assolvere sempre e comunque il governo israeliano c’è la tecnica del silenzio omertoso o quello di contrastare ogni iniziativa di confronto sul tema dei diritti violati del popolo palestinese da parte dei militari o dei coloni israeliani.
E, nel caso che qualche associazione o qualche gruppo riesca egualmente ad organizzare incontri e confronti sul tema, la immancabile reazione delle comunità ebraiche è quella di intervenire sulla stampa o sui media criminalizzando gli organizzatori.
Il lettore si domandi se ha mai visto affrontare il tema della ultracinquantennale occupazione e colonizzazione israeliana della Palestina in uno dei principali talk show politici? Impossibile.
In questo quadro si inserisce il recentissimo episodio accaduto a Torino dove il consiglio comunale del capoluogo piemontese ha approvato un ordine del giorno in cui si esprime una condanna nei confronti dell’uso spropositato della forza da parte di Israele contro manifestanti disarmati di Gaza che legittimamente manifestavano contro la sciagurata decisione presa da parte del governo Trump in accordo con il plaudente Netanyahu di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, in violazione delle risoluzioni dell’Onu.
L’ordine del giorno chiedeva anche di chiamare Israele alle sue responsabilità verso i civili come potenza occupante.
Subito si è levata la canea della Comunità ebraica torinese al grido di «antisemiti» e di «offesa agli ebrei».
Di questo si occupano invece di prendere coscienza della catastrofe incombente sull’ebraismo e sui suoi valori.
il manifesto 17.7.18
Fiom: una rete di solidarietà antirazzista
A Lamezia Terme. Re David: abbiamo 40mila iscritti migranti, costruiamo con le associazioni la risposta al fascismo montante
Mettere in contatto le diverse realtà che si occupano di migranti per costruire una rete dell’accoglienza e della solidarietà. Ieri a Lamezia Terme (Cz) la Fiom ha tenuto l’iniziativa “Il Cammino della speranza, migranti: accoglienza, dignità, lavoro». Gli interventi di iscritti arrivati in Italia sui barconi, rappresentanti delle Ong, Mimmo Lucano, sindaco di Riace, di Marco Bertotto di Medici Senza Frontiere, di Valerio Cataldi, presidente Carta di Roma hanno portato all’idea di creare una rete fra sindacato e associazionismo. «Questa iniziativa nasce dall’appello dei migranti della Fiom, dopo il caso della nave Aquarius – dichiara Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil -. Abbiamo circa 40mila iscritti migranti. Vogliamo dare una risposta per contrastare disumanità e razzismo in preoccupante aumento. Abbiamo scelto di mettere in rete le diverse realtà che si occupano di migranti per una rete dell’accoglienza e della solidarietà. Il fascismo è nato proprio dall’idea che una razza è superiore ad un’altra. Il razzismo è presente anche nei luoghi di lavoro, è per questo che nelle Regioni del Nord stiamo organizzando diverse iniziative antifasciste e antirazziste. Dobbiamo sviluppare tutte le forme di lotta democratica per contrastare questa ondata di odio contro essere umani sfuggiti da povertà e guerre».
il manifesto 17.7.18
Omissione di soccorso, potere di dare la morte
Migranti. Sulle navi delle Ong, in realtà, i corpi di donne e uomini di buona volontà già si muovono da tempo. Sono quelli dei componenti degli equipaggi, dei soccorritori e dei volontari, ma anche quelli di coloro che hanno deciso di testimoniare quanto accade loro di vedere
di Luigi Manconi
Nella giornata di oggi le navi Astral e Open Arms della Ong spagnola Proactiva saranno nella zona Sar auto assegnatasi dall’attuale e traballante regime libico. Ed è probabile che saranno le sole due imbarcazioni.
Le sole che per l’intera estate potranno garantire un presidio di vigilanza e salvataggio nel Mediterraneo. In altre parole, sembra vicino a realizzarsi quel disegno, prima non dichiarato, poi fieramente rivendicato, di «liberare il Mediterraneo dalle Ong». Ciò avviene parallelamente al ripiegare della Guardia costiera italiana verso le nostre coste. E all’inevitabile sottrarsi dei mercantili e delle navi militari dalle aree di maggior rischio per le imbarcazioni di profughi. E, soprattutto, alla delega del soccorso alla Guardia costiera libica, oscillante tra fallimentare imperizia e complicità criminale. Tutto ciò non può che incrementare il numero dei morti.
È questa una delle ragioni per cui non ho trovato nulla di retorico nella lettera aperta inviata da Sandro Veronesi a Roberto Saviano, e nella risposta di quest’ultimo. E nemmeno di letterario, se non per il fatto che – a dialogare – sono due valenti scrittori. Sulle navi delle Ong, in realtà, i corpi di donne e uomini di buona volontà già si muovono da tempo. Sono quelli dei componenti degli equipaggi, dei soccorritori e dei volontari, ma anche quelli di coloro che hanno deciso di testimoniare quanto accade loro di vedere. Nella missione attualmente in corso, un deputato di Liberi e Uguali, una giornalista di Internazionale e uno di Reuters, un noto cuoco. Veronesi, nella sua lettera, chiama quello presente il «tempo del corpo». E il corpo è da sempre al centro della politica, ne costituisce la posta in gioco e il fine ultimo, l’oggetto di cura dei governi e la vittima del potere dispotico. E ancora, il corpo è la sede profonda dell’identità umana e dei diritti fondamentali che ne discendono. In alcune circostanze – dittatura, guerra, conflitto mortale – la tutela del corpo vivo, o la sua soppressione, assumono l’intero senso della politica nella sua forma massima e ultima.
Un passo indietro nel tempo: nell’antica Roma il pater familias poteva disporre del destino dei propri figli fino a sopprimerli. Disponeva, cioè, del potere di vita e di morte nei confronti di chi lo avesse disonorato o avesse violato leggi fondamentali. Qui, oggi, l’arcaico potere di dare la morte torna ad agitare i pensieri collettivi e la nostra vita sociale, trovando due pretesti alla propria volontà di imporsi. Il primo rimanda all’antico fondarsi del potere sull’interesse dello stato. Dare la morte o la vita come conseguenza del soccorrere o del non soccorrere si collega alla necessità della sicurezza statuale (difendere i confini, respingere l’invasione, proteggere i cittadini dal nemico). Il secondo motivo risiede nella riduzione di tutto ciò che è universale alla misura del particolare. Interessi generali e valori comuni devono sottomettersi a provvedimenti locali e a vantaggi prossimi. Ne discende inevitabilmente una spirale di chiusura ed esclusione: il soccorso non riguarda tutti e non tutti sono meritevoli di soccorso.
È il rovesciamento radicale del principio di uguaglianza e dell’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Il potere di dare la morte – come altro chiamare il rifiuto di soccorso? – torna nelle mani dell’autorità che vendica una violazione (dei confini, delle competenze territoriali, delle leggi nazionali). Ma che cosa davvero violano quei fuggiaschi che vogliono raggiungere le nostre terre? Dietro tutto ciò c’è la negazione di quel principio naturale che è la pulsione dell’essere umano ad aggregarsi ad altri esseri umani. Tra i tanti motivi che tengono insieme una comunità – dalla cooperazione economica alla difesa comune contro insidie esterne e interne – il legame primo è quello che nasce dal bisogno dell’altro. Della protezione da parte dell’altro. La società organizzata nasce proprio per rispondere in maniera efficace, attraverso un’attività di reciproco soccorso e vicendevole tutela, alla rivelazione della debolezza di chi si trovi solo e in stato di pericolo. È il mutuo soccorso. È per questa ragione che negare o indebolire il diritto/dovere al salvataggio corrisponde a erodere la stessa identità umana e quel passaggio essenziale da individuo isolato a comunità associata.
E credo che questo sia il compito che ci spetta oggi: creare una rete di sostegno reciproco contro le violazioni dei diritti fondamentali. Una rete di mutuo soccorso, appunto: civile, culturale, politico e legale. Su tale questione, negli ultimi giorni, abbiamo verificato la disponibilità di persone come Giovanni Maria Flick, Liliana Segre, Alessandro Bergonzoni, Valerio Onida, Luigi Ferrajoli, Emma Bonino, Paolo Virzì, Valentina Calderone, Vladimiro Zagrebelsky, Costanza Quatriglio, Giuliano Pisapia, Alessandro Gamberini, Alessandra Ballerini, Antonella Soldo, Gad Lerner, Pierfrancesco Majorino, Andrea Pugiotto, Riccardo Magi, e molti altri ancora. Un sodalizio, una lobby virtuosa, che inalberi quel nome: «Mutuo Soccorso», e sia capace di far sentire la propria voce, più alta del silenzio complice come dello strepito interessato.
Nella consapevolezza che il diritto/dovere al soccorso è un principio assoluto. Che precede le Costituzioni dei singoli stati, gli ordinamenti giuridici e i codici nazionali, e che prevale su tutto. Assoluto, appunto. Se ne sono mostrati ben consapevoli i membri del Consiglio costituzionale francese che, valutando negativamente la legge istitutiva di una sorta di reato di solidarietà, hanno scritto: «Va protetta la libertà di aiutare gli altri per spirito umanitario, regolare o irregolare che sia il loro soggiorno sul territorio nazionale».
il manifesto 17.7.18
La Ue contro Salvini: «Non consideriamo sicura la Libia»
Bruxelles. Bertaud, portavoce della Commissione Europea per l'immigrazione: «Nessuna imbarcazione europea riporterà i profughi in Libia»
di Andrea Colombo
La scelta cinica di adoperare i migranti come ostaggi da spendere nel braccio di ferro con l’Unione europea ha forse fatto le prime vittime. Il ministro Salvini, da Mosca, trascura il particolare. Conferma di procedere sulla stessa linea e ingaggia un nuovo scontro con l’Europa. Chiede alla Ue di considerare la Libia «porto sicuro». Incassa un secco no da parte della portavoce della Commissione europea, Natasha Bertaud: «Non consideriamo che lo sia». Nessun Paese nessuna imbarcazione europea riporteranno i profughi su quelle spiagge. Il ministro italiano replica minaccioso: «O si cambia o saremo costretti a procedere da soli».
SIA CHIARO, se la cura suggerita da Salvini, cioè la blindatura dei confini, «il blocco delle partenze aiutando Tunisia, Marocco, Libia ed Egitto a controllare mari, porti e confini», è totalmente sbagliata, non si può dire altrettanto della diagnosi. Quando accusa l’Europa di doppiezza dargli torto è impossibile: «C’è un’ipocrisia di fondo in base alla quale si danno i soldi ai libici, si forniscono le motovedette, si addestra la Guardia costiera ma poi si ritiene la Libia un porto non sicuro». In effetti da un lato, giustamente, l’Europa riconosce che respingere i profughi significherebbe metterli nelle mani di torturatori e stupratori, ma allo stesso tempo la commissaria Mogherini vanta come risultato eccezionale la «caduta degli sbarchi dell’85% rispetto all’anno scorso». Come se fosse inumano riportare i migranti nei lager libici ma non lasciarceli per impedirgli di arrivare in Europa.
LE STESSE FONTI della Commissione devono percepire la contraddizione, perché fanno filtrare una spiegazione di tipo giuridico e non politico. C’è una sentenza del 2012 della Corte europea per i diritti dell’uomo che va in questo senso, spiegano. Ecco perché sia Salvini che la stessa Mogherini che la sottosegretaria agli Esteri Del Re insistono sulla possibilità che la Libia venga dichiarata invece «Paese sicuro» nel prossimi futuro. Pensando alle notizie che dalla Libia arrivano, suona come una beffa macabra.
Salvini ci spera. Punta a fare della Fortezza Europa la nuova strategia dell’intera Ue: «Non far partire e non far più sbarcare nessuna persona è l’obiettivo. La Ue deve convincersi che è l’unica soluzione». E sul divieto dei respingimenti: «Qualcosa che è vietato oggi può diventare normalità domani». Non è la linea di Conte, che mira a ripetere lo schema di accordi bilaterali con vari Paesi che ha sbloccato la situazione dei 450 profughi tra sabato e domenica. Non è la linea degli «alleati a metà» della Lega, i forzisti che, al contrario, insistono con la Gelmini sulla revisione di Dublino. Non è neppure, ovviamente la linea della Ue, che però gela anche Conte. «Siamo contenti che nel weekend si sia trovata una soluzione sulle due navi, ma siamo convinti che soluzioni ad hoc non possano durare a lungo termine», commenta infatti il portavoce della Commissione Schinas. «La politica estera non si improvvisa», chiosa la capogruppo azzurra al Senato Bernini.
TRA LA FINE di questo mese e l’inizio del prossimo la Commissione cercherà di mettere a punto una soluzione provvisoria basata sui «centri sorvegliati» nei Paesi di primo ingresso e sul tentativo di codificare maggiormente le ridislocazioni. La Mogherini insisterà per un’accelerazione della già prevista modifica della missione Sophia. L’idea di Conte è apportare una modifica lieve ma radicale: ripartire nei diversi paesi i porti di sbarco, mentre al momento le navi arrivano tutte in Italia. Far accettare la proposta è però un’impresa quasi impossibile. Difficilmente però la «revisione» metterà in discussione la guida italiana della missione. Perdere il comando significherebbe infatti avere meno argomenti e minor potere contrattuale. Sarebbe autolesionismo anche per Salvini, che pare essersi convinto.
LA SITUAZIONE è in realtà lontanissima da una soluzione. Le parole di Salvini da Mosca, dopo aver minacciato il veto sulla conferma delle sanzioni contro la Russia, sfiorano la dichiarazione di guerra: «La Ue vuole continuare ad agevolare lo sporco lavoro degli scafisti? Non lo farà in mio nome».
La Stampa 17.7.18
Bruxelles fa infuriare Salvini: la Libia non è un porto sicuro
La replica: favorite gli scafisti
L’Ue avvisa: la ripartizione volontaria non è sostenibile nel lungo periodo
di Carlo Bertini
All’alba sbarcano in 450 a Pozzallo, molti in condizioni precarie, alcuni con la scabbia. I racconti sono agghiaccianti, un ragazzo quindicenne narra di esser partito col padre, morto nel deserto. Oltre 128 sono minori senza genitori, un’altra tragedia nella tragedia. E quattro di loro pare siano morti (la Polizia indaga) prima del trasferimento sulle due navi italiane Protector di Frontex e Monte Sperone della Guardia di Finanza. Altri otto, tra cui sei bambini, vengono trovati senza vita in Libia, per le esalazioni della benzina trasportata, dentro un tir dove erano stipate un centinaio di persone.
E tra Italia ed Ue è alta tensione. Sui porti in Libia, che per Bruxelles non possono esser considerati sicuri, a differenza di quanto chiede un Salvini infuriato: «L’Ue vuole continuare ad agevolare il lavoro sporco degli scafisti?». E su quella che per l’Ue è «una soluzione ad hoc» (ripartizione di profughi nei vari Paesi) ma che per l’Italia invece è un primo importante risultato.
«Oggi per la prima volta possiamo dire che sono sbarcati in Europa», è il commento di Palazzo Chigi dopo aver ricevuto l’impegno di cinque Paesi (Francia, Germania, Malta, Spagna, Portogallo) ad accogliere 50 migranti ciascuno, con l’Irlanda che ne prenderà 20 e il Belgio che potrebbe aggiungersi in coda. «Finalmente ben sette Paesi dell’Europa si sono svegliati da un lungo sonno», esulta il ministro dell’Interno da Mosca.
Alta tensione con l’Ue
Ma qui si innesca il botta e risposta. Quando il vicepremier dice che «bisogna cambiare la normativa e rendere i porti libici porti sicuri»; quando Salvini attacca «questa ipocrisia di fondo in Europa, in base alla quale si danno soldi ai libici, si forniscono le motovedette e si addestra la Guardia costiera, ma poi si ritiene la Libia un porto non sicuro», viene rintuzzato prima da un portavoce dell’Ue e poi anche dalla Mogherini.
«Nessuna operazione europea e nessuna imbarcazione europea riporta i migranti salvati in mare in Libia, perché non consideriamo che la Libia sia un paese sicuro», puntualizza la portavoce dell’esecutivo Ue, Natasha Bertaud. E il fatto che i porti libici non siano sicuri, «è una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, quindi è una valutazione puramente giuridica sulla quale non c’è una decisione politica da prendere», chiarisce l’Alto commissario per la politica estera della Ue. Insomma, la commissione europea, «condivide pienamente il senso di urgenza», ma fa sapere che le «soluzioni ad hoc» come la ripartizione dei migranti sbarcati a Pozzallo nei Paesi Ue che si sono offerti di accoglierli, «non possono essere sostenibili nel lungo periodo».
Corriere 17.7.18
Il reportage. Un paese senza stabilità
Lì dove i profughi iniziano la traversata
La Tripoli in mano alle quattro milizie
di Maurizio Caprara
TRIPOLI Si è scolorita la scritta Finally we are free, finalmente siamo liberi, tracciata nel 2011 sul lungomare di Tripoli. Risale ai giorni della cacciata di Muhammar el Gheddafi. Sulla via al Shat, parallela alla costa, palazzine nuove e cantieri bloccati si alternano a case con facciate dalla vernice scrostata. Quasi nessun pedone. Su un muro di cinta spicca una toppa in mattoni larga tre metri, sutura di uno sfondamento. Più avanti, due luna park deserti e giostre coperte da veli di sabbia portata dal vento. Panorama spettrale, mentre sulle carreggiate il traffico delle auto si ingolfa.
«Usate medicine salvavita? Dobbiamo sapere di quali avreste bisogno qualora foste feriti e veniste operati», ha domandato poco fa in inglese l’agente di scorta su un’auto blindata. «Dobbiamo saperlo prima di muoverci», aveva aggiunto. Vista da occhi stranieri anche questa è la routine nella Libia che a sette anni dalla guerra non trova autentica pace. Assaggiata nel 2011, la libertà è svanita. Ancora più dei colori vivaci che aveva la scritta.
La capitale del Paese del quale in Italia si parla solo come piattaforma di partenza per migranti e profughi è in mano a quattro milizie. Sono queste i veri poteri più che il governo di accordo nazionale guidato da Fayez Mustafa al Sarraj, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale. Dal 2017 le milizie hanno sulle istituzioni un controllo senza precedenti.
Uno dei vice del presidente del Consiglio nazionale al Sarraj, Fathi al Majbari, di recente, ha diffuso una dichiarazione. Insoddisfatto della ripartizione dei proventi del greggio, il generale Khalifa Haftar aveva sottratto alla National Oil Corporation il controllo di pozzi petroliferi per affidarlo a una struttura parallela dell’Est della Libia. Al Majbari aveva approvato la scelta. Il 26 giugno, stando a una fonte a lui vicina, gli è stata assaltata la casa. Stava per essere rapito. È fuggito.
Non che Haftar sia buono. Il generale appoggiato da Egitto e Russia che domina la Cirenaica impiega metodi brutali. E il suo blocco di alcuni pozzi, terminato in seguito a pressioni di Stati Uniti, Francia e Italia, aveva ridotto di oltre la metà la produzione libica di greggio che era in febbraio di un milione e 280 mila barili al giorno.
A Tripoli se un ordine si rintraccia è nella struttura verticale delle milizie, simile più a quella della mafia che alla rete orizzontale della camorra. Ogni fazione ha ambiti di supremazia, ma i perimetri delle rispettive influenze oscillano. Appena collidono, cortocircuito. Scatta una sparatoria. Prevedere quando accade è difficile.
La «Rada» o «Sdf» — Special deterrence force, Forza speciale di deterrenza — è guidata da Abdeurrauf Kara e cacciò gli uomini di Haftar nel 2014. La «Trb» — la Tripoli revolutionaries brigade di Haitham al Tajuri — ha in mano la Polizia diplomatica che si occupa delle ambasciate, tra le quali la italiana è la sola dell’Unione Europea in funzione. La Nawasi brigade — salafita — è collegata a Kara e controlla tra l’altro la base della Libyan coast guard, la Marina. La Abdul Salim unit dell’Apparato di sicurezza centrale — detta anche «al Kikli», dal comandante Abdelghani al Kikli — è forte nell’area di Abu Salim. Un decreto, il 555 del Consiglio presidenziale, ha potenziato la Sdf riconoscendole un ruolo anti-terrorismo. Dettaglio: a dirigerla è un uomo accusato di violazione dei diritti umani.
Tra le principali fonti di introiti dei gruppi in armi rientrano la speculazione sul dinaro, la moneta locale, e il pizzo. La prima viene compiuta così: emissari delle milizie ottengono lettere di credito per importare beni, ricevono euro o dollari al cambio ufficiale e invece di spenderli li vendono al mercato nero. In porto arrivano container vuoti. Servono a far finta che si sia importato qualcosa.
Il pizzo si avvale della crisi di liquidità. Davanti ad alcune banche o simil-banche si creano file. Un miliziano si fa intestare un assegno da una persona in attesa. Poi entra, ritira una somma x di danaro e a chi ha emesso l’assegno ne dà x meno y. Protestare sarebbe più caro.
Ai giornalisti stranieri occorre un’autorizzazione anche per intervistare passanti. Da quando nel 2017 la Cnn ha mostrato schiavi venduti all’asta, i potentati giudicano gli inviati presenze ostili. È in questa atmosfera che le esortazioni provenienti dall’estero a istituire in Libia centri per filtrare quanti chiedono asilo in Europa sono percepite come mire inquietanti. Tra i libici, oltre sei milioni di abitanti, c’è chi teme che i migranti arrivino dal Sud spinti da un piano volto ad alterare la demografia del Paese. Passi dei quali da noi non si calcolano gli effetti aumentano le difficoltà per le organizzazioni internazionali che l’Italia ha contribuito dieci mesi fa a far agire a Tripoli.
Più che un aumento dei fondi, alla Libia serve stabilizzazione. Sarraj non controlla quasi niente fuori dalla capitale. E oggi i finanziamenti non rafforzano necessariamente autorità centrali, bensì fazioni. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, a Tripoli, ha detto: «È necessario raddoppiare gli sforzi per ripristinare un’efficace unità nazionale. Per garantire la stabilità necessaria allo sviluppo». È così. Se l’anarco-oligarchia fosse sostituita da vere autorità centrali, l’economia crescerebbe. Con la ricostruzione, ai migranti dal Sud non interesserebbe solo l’Europa. La prima da costruire, però, è una pace.
il manifesto 17.7.18
Praga: «Pronti a missione Frontex a guida italiana sul suolo libico»
Nazionalismi centroeuropei. Dopo la replica di Babis a Conte, Orban rilancia: Victor Orban «Gli irregolari non vanno fatti partire. Punto e basta»
di Jakub Hornacek
Praga «È una via per l’inferno». Non usa mezzi termini il premier ceco Andrej Babiš commentando sul suo profilo Twitter la lettera inviata dal premier italiano Giuseppe Conte che esortava ad accogliere una parte dei migranti e rifugiati arrivati a Pozzalo. «Il nostro Paese non accetterà alcun rifugiato. Al Consiglio europeo siamo riusciti a far approvare il principio di volontarietà e ci atterremo a esso», ha continuato il premier ceco, nella cui visione il contributo volontario equivale, evidentemente, a contributo zero.
LA POSIZIONE di Babiš non è affatto una sorpresa. Da tempo il miliardario populista predica la tesi, per cui la politica di salvataggio e accoglienza nel Mediterraneo sarebbe un potente fattore d’attrattività per i migranti e soprattutto per gli scafisti. Sulla stessa linea d’onda di Babiš anche i suoi alleati di governo, i socialdemocratici della Ssd e i comunisti di Ksm. «La crisi migratoria non verrà risolta con l’apertura delle frontiere a un flusso incontrollato», ha ribadito il ministro degli esteri e capo della Ssd, Jan Hamácek che ha confermato che la Repubblica Ceca è disposta a inviare in Italia i suoi poliziotti e a partecipare con un contingente a un’eventuale missione Frontex a guida italiana sul suolo libico. D’altronde già il precedente governo, a guida socialdemocratica e con Babiš vicepremier, si vantava di essere tra i donatori in denaro più generosi alla Guardia costiera libica. Dei rifugiati previsti dalle quote di ricollocamento ne sono arrivati solo dodici e la Repubblica Ceca dovrà per questo giustificarsi davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
OLTRE A BABIŠ si è fatta sentire anche l’Ungheria di Orbán. I toni sono meno accesi ma la sostanza è la medesima. Dinnanzi a un moto di simpatia peloso, «sappiamo anche noi come sia difficile difendere la frontiera sotto costante pressione», il ministro degli esteri ungherese Péter Szijjártó ha ribadito la contrarietà ad alcuna accoglienza. «I migranti non in regola non dovrebbero essere distribuiti tra i vari Paesi europei ma rimandati a casa – fa sapere il governo ungherese – E l’Ungheria può aiutare solo in questo secondo caso». Il gruppo di Visegrad sembra quindi ancora più granitico al suo interno. I leader dei quattro Paesi del centro Europa sono convinti che l’evoluzione dello scenario negli ultimi mesi abbia dato ragione alla loro politica sui rifugiati.
L’ABBANDONO delle quote e i cambiamenti di orientamento in Austria e soprattutto in Germania, considerata la vera avversaria in questa partita, sono lì a dimostrare che tener duro rispetto alle pressioni giunte da Bruxelles ha pagato. E ormai tutti parlano del modello australiano o di spostare, di fatto, le frontiere comunitarie in Africa, come chiedeva il quartetto. Difficile quindi che in questo scenario la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria e la Polonia cambino il loro atteggiamento di fronte a una lettera arrivata da una capitale considerata di secondo rango.
La chiusura ai rifugiati tuttavia non significa che i quattro Paesi siano chiusi agli stranieri. In realtà alla Polonia e alla Repubblica Ceca, dove ci sono 300mila posizioni lavorative scoperte e una situazione di piena occupazione di fatto, fanno molta gola i lavoratori qualificati e subito inseribili nella produzione dei Paesi extracomunitari circostanti.
IL GOVERNO guidato da Babiš ha deciso di rialzare le quote per importare forza lavoro dal Ucraina, Mongolia e Serbia promettendo di rilasciare tutti i visti necessari ai datori di lavoro. Lo stesso Babiš, d’altronde, impiega nelle sue industrie manodopera extracomunitaria pagata poco più del minimo nazionale. Con l’arrivo massiccio dei lavoratori esteri le imprese vorrebbero «stabilizzare il mercato del lavoro» e quindi fare in modo che cessino i tira e molla per ogni singolo dipendente, che stanno portando a una crescita dei salari vicina al 10%. Insomma, quando ci sono i profitti da tutelare, anche la xenofobia si deve far da parte.
Repubblica 17.7.18
“Gli italiani devono difendersi” E il patto pro armi diventa un caso
Il ministro dell’Interno Salvini conferma l’impegno sottoscritto con la lobby dei produttori
“Ma il ddl sulla legittima difesa non c’entra”. Il Pd attacca: “Questo governo è pericoloso”
di Marco Mensurati e Fabio Tonacci
Roma Gli interessi della lobby delle armi, per il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini, non sono un problema. «Quando parlo di latte sento gli agricoltori, quando parlerò di armi sentirò i produttori di armi » , dice a Repubblica, con mirabile sintesi, il giorno dopo l’inchiesta che ha dato conto di un documento firmato durante la campagna elettorale con il quale Salvini si è impegnato pubblicamente a coinvolgere il Comitato Direttiva 477 e le altre associazioni di armieri in ogni provvedimento che riguardi, in senso stretto e in senso lato, fucili e pistole. E nei prossimi giorni, come vedremo, le occasioni non mancheranno.
Sin dal mattino l’opposizione ha manifestato preoccupazione per l’esistenza del documento. Alessia Morani, capogruppo del Partito democratico a Montecitorio: « L’unica lobby che allunga la manina sul serio per ora è quella delle armi con cui Salvini ha sottoscritto un patto, serve una mobilitazione perché questi signori sono veramente pericolosi » . Il vicepresidente Pd della Camera Ettore Rosato: «Mentre tutto il mondo cerca un argine alla diffusione della armi, il ministro dell’Interno forza la mano per sostenere la sua lobby » . È intervenuto anche l’esponente di Possibile Andrea Maestri, che ha notato il silenzio del Movimento 5 Stelle, partner di governo della Lega. « Quella di Salvini non è una riforma della legittima difesa, ma un Far West, un Italia americanizzata che produrrebbe solo più delitti. E il Movimento 5 Stelle è pienamente d’accordo». Alle polemiche, rimbalzate per tutta la giornata di ieri sulle agenzie di stampa, ha risposto il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, con una linea che, alla luce del documento, suona assai debole: «Le armi non c’entrano nulla con la legittima difesa. La Lega non fa accordi con lobby o cooperative».
Le acque della politica si sono dunque improvvisamente agitate sul tema delle armi. E non solo per la notizia in sé. Proprio domani, infatti, in commissione al Senato, si comincia a discutere la legge che più sta a cuore al leader leghista: la riforma della legittima difesa. Cinque sono le proposte di legge presentate: una di iniziativa popolare, una di Fratelli d’Italia, due di Forza Italia e una della Lega, a firma del capogruppo al Senato Massimiliano Romeo. Nel frattempo entra nel vivo anche l’iter parlamentare per il recepimento nel nostro ordinamento della direttiva europea nata, tra le altre cose, per limitare la diffusione nei poligoni di certi tipi di armi da guerra molto amate dagli appassionati.
Dopo la lettura di Repubblica, il dubbio che la lobby italiana dei produttori di fucili e pistole possa in qualche modo far valere il suo peso ( 2.500 imprese, 92.000 occupati, in totale lo 0,7 per cento del Pil), appoggiandosi ai buoni rapporti con Salvini, è venuto a tanti. Sul punto il ministro dell’Interno ci tiene a precisare: « L’eccesso colposo di legittima difesa per me è un reato che non deve esistere e lo dico da sempre. La proposta di legge non c’entra niente con il documento che ho firmato, per altro pubblicamente. Quello si rivolge ai legittimi detentori di armi ed è una serie di impegni sul recepimento della demenziale delibera voluta dall’Europa, che complica la vita a chi vuole andare a sparare al poligono o detiene regolarmente armi da collezione, da caccia, per uso sportivo o per difesa » . In realtà, al punto 8 del foglio che porta la sua firma, si parla anche di legittima difesa. Salvini però ribadisce che niente c’entra con il progetto di legge: «La mia posizione è libera e scevra da condizionamenti esterni».
Alla domanda se, in qualità di ministro dell’Interno, può garantire agli italiani che la lobby dei produttori non avrà voce in capitolo nella discussione sulla legittima difesa, così risponde: « Ce l’avrà come ce l’avranno tanti altri soggetti: le associazioni delle vittime dei reati violenti, la polizia e i carabinieri, i giudici, gli avvocati».
I produttori e i commercianti di armi da fuoco sono però portatori di interessi assai diversi da quelli delle altre categorie citate. Come obiettivi hanno la crescita del fatturato e, nei limiti dei controlli di sicurezza, la deregolamentazione del settore. «Non voglio la corsa alle armi, né mi interessa far vendere le pistole » , ribatte però Salvini. «Tabaccai, gioiellieri, uomini delle forze dell’ordine e privati cittadini nelle loro case che, in estrema necessità, si difendono, non devono poi passare i mesi successivi in Tribunale a pagare avvocati. E comunque il fatturato di questo tipo di aziende dipende molto dalle esportazioni all’estero: io, neanche volendo, potrei influire».
Salvini non ha difficoltà a rivendicare il suo rapporto con il Comitato Direttiva 477, l’associazione che rappresenta in Italia la Firearms United ( confederazione europea dei possessori di pistole, ndr) e coltiva rapporti ( « ancora in fase embrionali » , sostiene il presidente del Comitato Giulio Magnani) con la National Rifle Association, la potentissima lobby americana sostenitrice del presidente Trump. « Ho conosciuto diversi rappresentati del Comitato, quando ero europarlamentare » , dice il ministro. « Tutte persone per bene » . Di finanziamenti alla Lega in campagna elettorale da parte dei produttori di pistole e fucile, Salvini non ne ricorda. Nega che ci siano stati. « Ma se arrivano, e sono alla luce del sole, dichiarati e garantiti, non avrei alcun problema ad accettarli».
Repubblica 16.7.18
Intervista
Il presidente di Assoarmieri
“Noi parliamo con tutti ma solo la Lega ci ascolta”
di Franco Vanni
GARDONE VAL TROMPIA (BRESCIA) Antonio Bana, penalista milanese, è presidente di Assoarmieri. A Gardone Val Trompia nel Bresciano, cuore dell’armeria italiana, ha organizzato un convegno su legittima difesa e “uso e non abuso” delle armi. Nella sede della Beretta si sono confrontati professori di diritto, procuratori e giudici. In platea, oltre a produttori e venditori di armi, parlamentari di Lega e Forza Italia. «Ma sia chiaro, come associazione non professiamo vicinanza politica. Alle nostre iniziative abbiamo sempre invitato rappresentanti di ogni parte. È importante che la politica conosca i temi di cui deve occuparsi. Che sia poi la Lega a rispondere, è una scelta loro».
Cosa pensa dell’impegno firmato da Salvini a coinvolgere le associazioni di appassionati di armi nelle scelte sul settore?
«Di quel documento non sapevo nulla. E dire che alla fiera delle armi di Vicenza, Salvini l’ho invitato io.
Ho fatto lo stesso con esponenti del Pd, sono pronto a farlo con i 5 Stelle. In ogni caso leggo la dichiarazione di Salvini come un’apertura al dialogo, un segno di attenzione che non può che fare piacere».
Come associazione avete mai finanziato direttamente o indirettamente la Lega?
«No. Mai, nel modo più assoluto».
Cosa vi aspettate da questo governo?
«Che agisca con competenza in un settore delicato come quello delle armi, che va conosciuto a fondo da un punto di vista normativo. Oggi c’è attenzione, anche perché l’Ue si è occupata del mercato delle armi con la direttiva 477 che dovrà essere recepita nel nostro ordinamento».
Cosa chiedete a governo e parlamento sul tema della legittima difesa?
«Che non faccia errori. Che eviti modifiche prive di solidità giuridica. Da avvocato so bene che bisogna andare coi piedi di piombo, Costituzione e norme comunitarie pongono limiti precisi. E ricordiamoci che i casi di legittima difesa domiciliare in Italia sono davvero rarissimi. Il tema vero per noi è il recepimento della direttiva 477, per molti versi problematica».
Cosa non vi piace della direttiva?
«È nata male. È un documento tecnico sul libero commercio di armi nell’Unione, ma anziché muovere da valutazioni tecniche, è stata fatta sull’onda emotiva dell’attentato terroristico alla redazione di Charlie Hebdo. Il focus non è sul mercato ma sulla paura.
Manca una valutazione dell’impatto economico che potrebbero avere regole irragionevoli, come il numero dei colpi nei caricatori.
Cosa cambiano due colpi in più?
Eppure, si mettono in difficoltà molte aziende».
Nelle istituzioni, chi sono i vostri interlocutori abituali?
«Veniamo convocati in commissioni ministeriali in cui si discute di armi, da sempre».
Servirebbe il testo unico sulle armi?
«Certo. Oggi le fonti normative sono troppe e la giurisprudenza è contraddittoria. Il settore è spesso regolato da circolari ministeriali discordanti fra loro».
Ci sono altri Paesi da cui l’Italia dovrebbe trarre ispirazione nel regolamentare le armi?
«No. Il nostro Paese è il più severo in assoluto, ma sarebbe assurdo e poco serio fare pare paragoni o proporre modelli. Ogni stato ha un suo ordinamento e ci si muove in quei margini.
Repubblica 17.7.18
L’illusione dell’autodifesa
Il culto americano per la pistola nel Paese dei 100 morti al giorno
di Vittorio Zucconi
WASHINGTON Più armi da fuoco, più morti innocenti. Tutto qui. Bambini, studenti, familiari, bersagli di stragisti, suicidi, incidenti, questa semplice equazione che da 40 anni la lobby americana delle armi cerca di nascondere spendendo tre milioni all’anno per sopprimere ricerche e comprare parlamentari, dovrebbe essere l’inizio e la fine di ogni illusione e di ogni discussione sulla “difesa a mano armata”. Ma non lo è.
Avvinghiata alla Costituzione che sembra — ma nel tempo l’interpretazione è variata — concedere a ogni cittadini il diritto di portare armi e appesa al falso senso di sicurezza che stringere in pugno il calcio di un’automatica o imbracciare un fucile semiautomatico produce — lo so, l’ho provato, è un sentimento intossicante — la “gun culture”, la cultura della pistola, vende legalmente dieci milioni di armi da fuoco ogni anno per 12 miliardi di dollari. E delle 36mila persone che cadono sotto i colpi al ritmo di quasi cento al giorno, la percentuale di criminali violenti fermati da cittadino armato per legittima difesa, o per legittimo sospetto, è microscopica, ridotta a qualche caso aneddottico. Quella pistola, quell’AR, il fucile d’assalto, uccidono chi li possiede più che chi li aggredisce.
Non basta un articolo di giornale per riassumere e illustrare i 62 studi accademici migliori, quelli che non servono cioè interessi o pregiudizi politici, selezionati dagli anni ’90 a oggi, per dimostrare la ovvietà di un rapporto di causa ed effetto che la logica illustra e la paura nasconde dietro l’illusione dell’autodifesa.
Dal 1992, quando il Centro per il Controllo delle Malattie di Atlanta tentò di completare senza successo una ricerca definitiva sulla relazione fra armi e vittime e fu aggredito dalla Nra, la lobby degli armaioli che scatenò una campagna nazionale accusando il Centro di «scienza spazzatura», la diffusione delle Glock, Colt, Armalite è cresciuta. E con essa il numero di vittime, confermando un antico proverbio: “Quando un proiettile lascia la canna non ha più amici o nemici, ma soltanto bersagli”.
I casi singoli — il padre che fredda in Texas il figlio che rientrava a casa di nascosto nella notte scambiato per un intruso, il bambino che gioca con la pistola di papà, la lite familiare per “futili motivi” che degenera in sparatoria per la presenza di un’automatica in casa — non escono neppure dal nido delle notizie locali. Esplodono invece le stragi, quelle che un tempo prevedevano almeno quattro vittime per essere definite tali e oggi sono scese a tre morti, vista la diffusione, che increspano la superficie dell’opinione pubblica, accendono lumini, producono marce e omelie, prima che l’acqua si quieti e tutto torni come prima. Con un effetto paradossale: se la politica o l’opinione pubblica si agitano e mostrano segni di risveglio dall’incantesimo a mano armata, la vendita di armi schizza in alto.
Nel 2016, quando l’elezione di Hillary Clinton, favorevole a una limitazione del commercio, sembrava imminente, gli armaioli vendettero cifre record, 12 milioni di pezzi.
È un gorgo irresistibile, nel quale ogni tentativo di introdurre elementi di moderazione senza intaccare l’apparente dettato della Costituzione viene inghiottito e che la lobby alimenta, senza fare distinzione fra Repubblicani e Democratici. Perché nessuno, negli stati del Sud, rischia la trombatura per denunciare l’insensatezza ci norme che permettono in alcuni casi di portare con sé le armi nascoste e autorizza a sparare nel “sospetto” di essere minacciati.
Non ci sono politici progressisti o conservatori che osino prendere di petto la lobby che ora sta raggiungendo anche il governo italiano attraverso Matteo Salvini, ma non soltanto perché hanno le tasche profonde e la spregiudicatezza di usare senza pudore. Non osano perché il dogma del libero possesso di armi è ormai nel tessuto della cultura popolare.
Se smagliature si aprono, come accadde dopo il massacro dio Parkland, in Florida, che ha portato centinaia di migliaia di giovani a Washington per piangere e promettere mobilitazione, le volpi della politica, a partire da Trump idolo della lobby, spendono qualche buona parola, invitano a pregare, promettono qualche lodevole modifica a norme che permettono anche ai casi psichiatrici di acquistare armi e poi aspettano che il mare si calmi.
Le ricerche dicono che soltanto fra i giovanissimi sotto i 24 anni, l’opposizione alle armi è forte, ma con l’aumentare dell’età il richiamo del West torna e gli anziani vogliono restare aggrappati alle loro pistole e fucili, fino a quando «qualcuno me le strapperà dalle mie mani fredde» come disse Charlton Heston, il “mosè” che divenne il volto e la voce mistica degli spacciatori di armi. E i vecchi, a differenza dei giovani, votano, garantendo la maggioranza ai pro-gun.
L’illusione dell’autodifesa, della propria casa trasformata in fortezza, è troppo seducente, troppo elementare, soprattutto nel tempo della paranoia sapientemente sfruttata e moltiplicata dalle infezioni dei Social e delle notizie false, contro le orde di assassini, stupratori, gangster, rapinatori riversati dalle invasioni apparenti di immigrati illegali.
Un’anziana signora aggredita da un immigrato fa esplodere la collera e fa fiondare cittadini da armaiolo per spendere i 1200 dollari necessari per un fucile semiautomatico o i 200 per una Glock, la pistola preferita del momento. Su quell’aggressione, la lobby costruirà cattedrali di paura, monumenti di voti e camionate di dollari. Sui bambini della elementare del Connecticut stroncati da un giovanotto armato (dalla mamma) come Rambo, lumini, veglie e lacrime.
Corriere 17.7.18
La denuncia ai pm e al Vaticano. Bufera su don Zanotti
«In comunità ho subito gli abusi di quel frate»
Bergamo, accuse al fondatore della comunità «Oasi 7»
di Fiorenza Sarzanini
Roma I filmini e le foto hard sono già stati depositati in Vaticano e alla Procura di Roma, insieme a una denuncia per violenza sessuale. Mostrano padre Antonio Zanotti, fondatore della comunità di accoglienza per profughi e minori in difficoltà «Oasi 7», in compagnia di un ragazzo che viveva lì da oltre quattro anni. Lo straniero, trasferito adesso in un luogo protetto, racconta di essere stato costretto a diventare l’amante del frate cappuccino, di essere stato minacciato e infine picchiato quando aveva deciso di scappare proprio per sottrarsi a «un’esperienza terribile per cui ho anche tentato di togliermi la vita». Per questo, assistito dall’avvocatessa rotale Laura Sgrò, ha deciso di chiedere aiuto ai vertici della Santa Sede e alla magistratura. Non è l’unico. Altri due giovani hanno già depositato presso lo studio Bernardini De Pace la propria testimonianza e sono pronti a parlare con i pm e con le autorità ecclesiastiche.
Gli approcci
Il giovane ha un passato complicato. Arriva in Italia a 6 anni, quando ne ha 10 i genitori adottivi lo mandano in collegio «perché mi consideravano un bambino complicato». Comincia il peregrinare in vari istituti, nel 2014 entra all’Oasi 7. «Nei primi mesi — racconta nella denuncia — mi sentii accolto dal frate e dalla comunità, ma notai subito l’eccessivo lusso nel quale era abituato a vivere padre Zanotti, molto lontano dai costumi francescani. Per circa un anno svolsi attività lavorativa in cambio di solo vitto e alloggio, nonostante padre Zanotti mi avesse promesso una assunzione regolare in tempi brevi presso la cooperativa “Rinnovamento” di Antegnate in provincia di Bergamo. Dopo circa 3 mesi dal mio ingresso all’“Oasi 7” il frate cominciò ad approcciarmi sessualmente, prima con abbracci, poi dopo avermi invitato a bere nella sua stanza. Nonostante non fosse mio desiderio avere rapporti sessuali con il frate, non riuscivo a oppormi. Padre Zanotti cominciò a farmi dei regali costosi, qualunque cosa chiedessi me la acquistava. Se accondiscendevo alle sue richieste, mi faceva trovare dei soldi».
Il pestaggio
«Mi minacciava che senza di lui e la sua bontà avrei passato la mia vita in mezzo alla strada insieme ai disperati». Dopo un anno il ragazzo va via. «Me ne andai senza niente e senza un soldo e vissi senza un tetto sulla testa per qualche tempo. Quasi un anno dopo, rassicurato da padre Zanotti che le cose sarebbero cambiate e che avrei avuto un alloggio tutto mio dove poter vivere tranquillo insieme a uno stipendio vero, decisi di tornare. In effetti, come mi era stato promesso, ebbi assegnato un alloggio che contribuii a rifinire con le mie prestazioni lavorative, ma fu l’inizio della fine. Padre Zanotti divenne ancora più possessivo e geloso nei miei confronti».
Il giovane entra nei dettagli, descrive le avances del frate, le altre richieste: «Mi costrinse a prendere del Viagra. Mi diceva sempre: “Ci vogliono i soldi, caro mio, io ne ho tanti e tu non hai niente”. Il degrado umano nel quale mi aveva gettato padre Zanotti fu tale che nel marzo del 2018 fui costretto, per non impazzire, ad andare a lavorare fuori dalla struttura. Due mesi fa, a causa degli ultimi gravi abusi subiti, sempre nelle stesse modalità delle minacce miste a lusinghe e ricatti, trovai la forza di andarmene definitivamente, preferendo vivere per strada piuttosto che vivere l’annullamento della mia persona. A seguito di ciò sono stato aggredito, picchiato e minacciato. Mi trovavo nella stazione di Bergamo quando due albanesi che conoscevo, perché residenti nella comunità di padre Zanotti, mi hanno circondato e riempito di pugni e schiaffi, lasciandomi a terra sanguinante, non prima di avermi detto: “Non tornare più là dentro e vedi di stare molto lontano da qui”. Adesso vivo in un luogo protetto, ma ho paura che possa accadermi qualcosa di brutto».
Lo stato laicale
L’istanza dell’avvocatessa Sgrò alle gerarchie vaticane è esplicita: «Erogare misure cautelari urgenti nei confronti di padre Zanotti e ridurlo allo stato laicale». Anche ai magistrati, chiarisce il legale, «abbiamo chiesto un intervento urgente, soprattutto tenendo conto che nella comunità sono ospitati numerosi giovani in difficoltà che devono essere protetti. E perché vogliamo sapere da dove provengono tutti i soldi che padre Zanotti ha a disposizione e come mai finora non gli è stato chiesto conto del loro utilizzo».
Corriere 17.7.18
Oscar Farinetti
«Io, il parroco e Marx»
di Roberta Scorranese
Oscar Farinetti, lei nel 1968 aveva solo quattordici anni. Non sono pochi per definirsi un autentico sessantottino?
«Certo, ma non sono stato a guardare il movimento dalla finestra. Andavo a scuola, ovviamente, ma lì la mia parte l’ho fatta».
Andiamo per ordine. Nato e cresciuto ad Alba, provincia di Cuneo, figlio di un socialista nenniano, buone scuole.
«Frequentavo il liceo Govone, quello dove ha studiato Beppe Fenoglio. Ottimo istituto, un preside gentile e colto. Eppure io e altri non sfuggimmo all’istinto della lotta di sinistra. Ci organizzammo con scioperi e proteste».
Per esempio?
«Per esempio, poco prima che finisse la scuola, una volta tutti insieme in aula voltammo le spalle al professore di latino e greco: non volevamo studiare più la Grecia antica, bensì chiedevamo di approfondire le vicende della guerra in Vietnam».
E per il resto dell’estate?
«Non ci fermammo. Io frequentavo la Alba di sinistra, Carlin Petrini era già il nostro guru, per me è stato un maestro di lotta politica. Eppure non ho mai smesso di andare in parrocchia. Ricordo il prete, don Valentino Vaccaneo, uno che quando mi presentai da lui per dirgli una cosa tipo “basta con le preghiere, ho scoperto Il Capitale di Marx e ora non sono mica così sicuro che Dio esista”, mi diede una pacca sulla spalla, non si scompose e rispose: “Va bene Oscar, ma nel dubbio per favore continua a comportarti bene”».
Fu dunque un’estate tra Marx e un Salve Regina?
«Ma nella mia città di allora non era così strano. Alba era Medaglia d’oro alla Resistenza però è stata a lungo amministrata dai democristiani; si lavorava sodo ma si pregava regolarmente. Bra no, perché Bra era più per intellettuali. Tanto è vero che lì, anni dopo, fondarono Radio Bra Onde Rosse, con Petrini. Io andavo lì quando volevo parlare di politica e cultura e restavo ad Alba per parlare di lavoro. La faccenda dell’ottimismo non è un’invenzione: da noi ci si appassionava davvero al mestiere e si faceva tutto con molto entusiasmo».
A proposito di imprenditori, appena l’anno prima, nel 1967, suo papà aveva dato vita a UniEuro.
«Ecco, l’utopia della rivoluzione, in me, è sempre stata in qualche modo sfumata o arricchita, faccia lei, da un pragmatismo piemontese».
Suo padre, il mitico comandante partigiano Paolo. Come prendeva lui il suo attivismo politico giovanile?
«Ovviamente mi capiva. Anche perché io ho una militanza variegata, sono stato iscritto anche al Psiup. Ma mio padre era uno di altri tempi. Per dire, lui fu quello che anni dopo, nel 1994, organizzò un corteo per impedire a Gianfranco Fini, all’epoca vicepremier nel governo Berlusconi, di inaugurare la fiera del Tartufo ad Alba. Mio padre era un rivoluzionario vero, uno di quelli che allargava le braccia e se ne usciva con frasi tipo: “In fondo Curcio non ha ucciso nessuno”».
Furono dunque vacanze di lotta?
«Diciamo che approfittai di quell’estate per guardarmi intorno, cercare modelli. Prendevo esempio da quelli più grandi di me, come Degiacomi o Vittorio “Toio” Manganelli, primo direttore dell’Università di Scienze Gastronomiche e autore dell’Atlante del Vino Italiano. Persone coltissime e impegnate».
Altri ricordi della sua militanza?
«Anche se eravamo adolescenti, non ci siamo mai sottratti al dovere della solidarietà. Siamo pure scesi in piazza con gli operai, come si usava allora. Io ho preso parte a diverse manifestazioni al fianco dei lavoratori: ho protestato, per esempio, con gli operai della Miroglio e della Ferrero».
Diciamo che, in seguito, lei diventerà uno più simile a Ferrero che ai suoi lavoratori...
«Sì, ma il Sessantotto per me è stato importante anche perché mi sono calato nella realtà vera del lavoro. Ho visto come funziona la macchina dall’interno, come si muovono i suoi ingranaggi. Certo, capivo poco. Era come se stessi assorbendo una lezione più grande di me, un insegnamento che avrei assimilato solo con il tempo e con l’esperienza».
Sia più preciso.
«Ero un ingenuo perché vedevo personaggi come Lenin o Mao Tse Tung come icone del bene, figure nobili che si sacrificavano per il bene dell’umanità. Ero molto giovane e prendevo alla lettera i discorsi che si facevano durante le assemblee o nelle riunioni politiche. Mi mancava un preciso senso del discernimento. Questo è arrivato più tardi, quando mi sono messo a lavorare e sono diventato io stesso un imprenditore. Ma la vera eredità del Sessantotto è stata l’avermi insegnato ad avere coraggio».
Il Fatto 17.7.18
Le biblioteche, trincee di civiltà
Nessun governo le considera una priorità: mancano fondi per comprare i libri, l’età media del personale è di 60 anni, volumi antichi sono inavvicinabili, tutto è affidato alla buona volontà dei singoli - La politica le ha dimenticate
di Filippomaria Pontani
“La biblioteca pubblica è lo spazio libero per eccellenza: un luogo di cultura, sostenuto dalla comunità, aperto a tutti e gratuito”. Da questo principio prende le mosse la partecipazione finlandese dell’ultima Biennale di Architettura di Venezia, che espone nel piccolo padiglione progettato da Alvar Aalto ai Giardini una serie di edifici bibliotecari sparsi in tutta la Finlandia, da Helsinki alle remote plaghe del nord, insistendo sul loro ruolo di perno e cerniera per molte comunità, le quali vi si ritrovano per condividere tempo, spazi e conoscenza.
È lo stesso modello che, su un’altra scala, ha descritto il massiccio documentario di Frederick Wiseman The Library (2017), dedicato alla Biblioteca Pubblica di New York, non solo nel suo storico edificio di Bryant Park a Manhattan, ma anche nelle sue mille propaggini che coagulano la vita sociale dei quartieri più difficili della Grande Mela.
L’idea della biblioteca come luogo centrale per la costruzione e l’organizzazione del sapere, per il consolidamento dell’alfabetizzazione e per la promozione di una reale parità di accesso alla conoscenza, e dunque per la “formazione della cittadinanza” (Jacques Le Goff), è di lunga data (il Premio Nobel per la Pace 1913, Henri La Fontaine, fu anche il fondatore dell’Istituto Internazionale di Bibliografia), ma risulta nuova e attuale nel mondo digitale: quanto più il flusso di informazioni è vasto e incontrollato, infatti, tanto più urgono strumenti culturali in grado di filtrarlo, e strumenti tecnici in grado di farlo giungere anche ai meno abbienti. Questa idea “alta” di biblioteca, tuttavia, non sembra molto popolare presso i governi del nostro Paese, che pure vanta un patrimonio impareggiabile a livello mondiale. Mentre attendiamo di conoscere i dettagli del lodevole piano straordinario di 6.000 assunzioni annunciato dal ministro Alberto Bonisoli, l’ultimo titolare dei Beni Culturali, Dario Franceschini (Pd), ha puntato molto sulla “valorizzazione” dei musei, e su una riforma (contestata) delle soprintendenze, ma nel piano di 500 assunzioni varato nel 2016, solo il 5 per cento – ovvero 25 posti – era destinato alle biblioteche, a onta del fatto che queste versano in una gravissima sofferenza di personale (in seguito a quell’umiliante ripartizione si è dimessa l’intera commissione biblioteche e archivi del Consiglio superiore dei beni culturali, capeggiata da Giovanni Solimine, curatore con P. G. Weston dell’impareggiabile Biblioteche e biblioteconomia, Carocci 2015).
A distanza di due anni, le assunzioni sono state poi ben più di 25, nel senso che anche parecchi idonei del concorso del 2016 sono stati assorbiti per colmare alcuni dei buchi più evidenti dovuti ai massicci pensionamenti dei bibliotecari entrati (talvolta senza nemmeno la laurea) al principio degli anni 80. Tuttavia, da un lato gli organici continuano a essere così lacunosi da mettere a repentaglio i servizi minimi (alla Marciana di Venezia mancano oltre 15 persone, alla Nazionale di Roma più di 20); dall’altro – ora che sono praticamente ineludibili azioni manageriali come l’outsourcing di alcuni servizi e il fundraising per garantire una minima crescita – s’insiste a non dotare ogni biblioteca di un adeguato staff di gestione (tra le ultime assunzioni per amministrativi al ministero nemmeno una è stata destinata alle biblioteche); e in generale si fatica a rinverdire l’età media degli impiegati, oggi prossima ai 60 anni, proprio in un momento in cui la linfa di persone giovani – sia per le novità tecnologiche sia per lo slancio progettuale – sarebbe invece essenziale.
A questo si accompagna la mortificazione di molti istituti di medio-grandi dimensioni: ormai soltanto 6 biblioteche nazionali (Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino, Venezia) sono dotate di un vero Direttore, mentre le altre o sono state ricondotte sotto il locale Polo Museale (dunque di fatto private di autonomia: è accaduto da ultimo alla Braidense di Milano) o hanno direttori che differiscono ben poco – in termini di status e di stipendio – dai loro peraltro mal pagati sottoposti: è possibile che chi governa la Biblioteca Palatina di Parma, la Biblioteca Estense di Modena, o la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, scrigni di inestimabili tesori per studiosi di mezzo mondo e dunque fonti di enormi responsabilità per chi li gestisce, abbia come unica remunerazione aggiuntiva 2.500 euro all’anno? Ci si può sorprendere se in questa situazione la medesima Laurenziana rischia di vedersi sfrattata dagli spazi che da decenni ha in affitto dall’attigua Basilica di San Lorenzo, perché il Ministero non paga più il canone di 50 mila euro? E che dire delle gloriose piccole biblioteche di Roma (Vallicelliana, Casanatense etc.) che mancano spesso di un organico amministrativo atto a sbrigare il lavoro minimo? E della Biblioteca Universitaria di Pisa, forte di 600 mila volumi, che sin dal terremoto dell’Emilia del 2012 risulta di fatto inagibile, e ha lasciato nel tessuto culturale di quella città un vuoto che si fatica a rimarginare?
La mancanza d’investimenti sulle persone porta spesso con sé, per le grandi biblioteche nazionali di conservazione, la difficoltà di offrire servizi di livello internazionale e di organizzare mostre di alto profilo – e questo nonostante gli sforzi davvero ammirevoli di tanti impiegati di alto livello che promuovono splendide attività con personale sacrificio e dispendio –. Altro discorso vale per le biblioteche territoriali dipendenti dagli enti locali, molto spesso esse pure depositarie di inestimabili tesori, ma per natura rivolte anche a un pubblico più vasto: lì il budget varia da Regione a Regione, da Comune a Comune, ed soffre le ristrettezze di trasferimenti statali sempre più esigui. Le iniziative tese a fare rete e a offrire servizi avanzati agli utenti più diversi (dagli studenti ai nuovi Italiani, dai professori ai disoccupati) sono così demandate non di rado alla creatività volontaria dei dipendenti e all’iniziativa locale: non frequenti, purtroppo, casi come quelli del Comune di Milano e della regione Friuli-Venezia Giulia, che da soli hanno investito in biblioteche e programmi a favore della lettura più di quanto il ministero tutto spende in un anno.
Sia a livello locale sia a livello nazionale pesa l’assenza di un adeguato supporto di rete che renda agevole la fruizione delle risorse digitali, così come di risorse atte a inverare il piano di digitalizzazione dei patrimoni interni (soprattutto fondi antichi, manoscritti, stampe etc.). E poi, una biblioteca è viva nella misura in cui continua a comprare sia libri nuovi (per i quali ci sono sempre meno soldi) sia libri antichi – e qui le risorse per intervenire sul mercato antiquario (anche esercitando il diritto di prelazione nell’acquisto da privati) sono obiettivamente al lumicino. I bravi bibliotecari fanno miracoli scovando occasioni, ma talvolta la necessità aguzza l’ingegno: commuovono i casi di crowdfunding come quello della Provinciale di Foggia dove l’abbonamento ai quotidiani è garantito da associazioni private, o quello della Biblioteca Civica di Belluno, che grazie ai propri lettori si è assicurata una rara edizione della Grammatica dell’umanista locale Urbano Bolzanio (1512), sviluppando attorno a questa acquisizione incontri e laboratori capaci di familiarizzare la popolazione (anche i giovanissimi) con un pezzo importante del proprio passato.
Corriere 17.7.18
Polemiche per la sentenza
La Cassazione e la violenza: se la vittima si è ubriacata non c’è aggravio della pena
di Elvira Serra
Se la vittima di uno stupro si è ubriacata non c’è aggravio della pena. Questa la sentenza della Cassazione che doveva esprimersi sul caso di una donna che aveva subito violenza sessuale da due uomini, condannati a tre anni. I giudici confermano il reato di «violenza sessuale di gruppo con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica» ma escludono l’aggravante che si applica quando la violenza è imposta «con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa».
Chiamiamola Francesca. Esce a cena con due cinquantenni che conosce. Beve molto. I commensali approfittano della sua debolezza e hanno con lei dei rapporti sessuali non consenzienti. Lei va al Pronto soccorso: il referto parlerà di leggeri segni di resistenza. La storia finisce in Tribunale: nel 2011 il giudice di Brescia in primo grado assolve gli imputati; nel 2017 la Corte di Appello di Torino li condanna a tre anni per violenza sessuale di gruppo.
E arriviamo a ieri, alla sentenza numero 32462 della terza sezione penale della Cassazione, che conferma il reato di «violenza sessuale di gruppo con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica» della vittima, come era Francesca a causa dell’alcol; ma esclude l’aggravante prevista dall’articolo 609 ter comma due del Codice penale, che si applica quando la violenza è imposta «con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa». C’è stata violenza, ma non l’aggravante specifica.
Le reazioni non tardano. Alessia Rotta, vicepresidente vicaria dei deputati del Partito democratico, parla di sentenza «che ci riporta indietro di decenni. Si trovano attenuanti, come l’aver bevuto volontariamente, a un reato tanto grave quanto odioso». E Annagrazia Calabria, deputata e leader di Forza Italia Giovani, si dichiara «sconcertata»: «Far passare anche solo lontanamente l’idea che approfittare della mancanza di pieno autocontrollo da parte di una donna non sia un comportamento da punire in maniera ancora più dura è un passo indietro nella cultura del rispetto e nella punizione di un gesto ignobile e gravissimo qual è lo stupro».
Davvero gli ermellini hanno fatto un balzo indietro nel tempo? «La sentenza è giuridicamente corretta», chiarisce subito la penalista Francesca Longhi. «Sarebbe stato scandaloso se i supremi giudici avessero teorizzato che lo stupro non c’era perché la vittima si era ubriacata. Nessuno ha detto: è colpa tua perché hai bevuto. La violenza sessuale è stata ritenuta sussistente. Ma l’aggravante dell’alcol non è imputabile a chi ha commesso il reato, perché si applica nei casi in cui la vittima viene fatta ubriacare, per esempio, con la benzodiazepina, la polverina dello stupro».
Non trova punti critici neppure la collega Caterina Malavenda. «L’assunzione di alcol incide sul consenso: se tu bevi non puoi più prestare il consenso a un rapporto sessuale; in quelle condizioni non c’è mai. L’aggravante c’è se lo stupratore ha creato la situazione facendo bere la vittima; si applica solo quando c’è una precisa intenzione di farla bere per approfittare di lei. Stando ai fatti accertati, invece, la donna ha bevuto di sua volontà». La legale, tuttavia, va oltre: «Certo, ora la Corte di Appello dovrà rivalutare tutto e, in particolare, capire chi ha fatto bere la vittima e perché. Tu puoi bere senza rendertene conto se c’è qualcuno che ti riempie continuamente il bicchiere. Ma perché lo sta facendo?».
Repubblica 17.7.18
La sentenza
Signor giudice niente sconti sullo stupro
di Michela Marzano
È difficile capire cosa sia passato per la testa dei giudici della Corte di Cassazione quando hanno stabilito che, se la vittima di uno stupro collettivo si ubriaca, non ci debba essere né aggravante né aumento di pena per i colpevoli. Certo, la vittima in questione avrebbe assunto volontariamente l’alcol e non si può dunque accusare gli stupratori di averla forzata a bere. Ma non è proprio lo stato di confusione mentale e di assenza di controllo che rende una persona ancora più vulnerabile? Non è proprio quando si è confrontati alle debolezze e alle fragilità che si impone il rispetto di chi ci è di fronte?
Ormai lo sappiamo da tempo: approfittare dello stato di minorata difesa in cui ci si può trovare, indipendentemente dalle modalità e dalle ragioni, rende ancora più odioso quello che resta, per una donna, il peggior crimine di cui possa essere vittima. Quando si viene stuprati, è il proprio mondo che crolla: ci si sente sporchi, senza valore, inutili; si perde fiducia negli altri e in se stessi; talvolta si sta talmente male che non si riesce nemmeno a trovare la forza per rompere il silenzio e dire il dolore, dire la vergogna, dire l’offesa.
Lo spiega bene la filosofa americana Susan Brison in un libro autobiografico in cui definisce lo stupro un “assassinio senza cadavere”: la violenza sessuale distrugge “ogni riferimento logico” e annienta il “valore dell’essere”; all’improvviso, ci si scopre impotenti e fragili; d’un tratto, si dubita di se stessi e della propria dignità, ci si chiude a chiave e si pensa di non meritare più nulla. Al punto che spesso ci vogliono anni e anni anche solo per raccontare quello che è successo, dubitando della propria memoria e rimettendo in discussione tutto quello che si è sempre fatto o pensato. Non è un caso che, da sempre, le donne si battano affinché le violenze sessuali siano punite senza “se” e senza “ma”: è assurdo trascurare le aggravanti; è incomprensibile cercare di individuare, per gli aggressori, eventuali scuse o attenuanti.
Certo, sono passati ormai quarant’anni da quando Loredana Dordi filmò per la Rai il processo per stupro di una ragazza di 18 anni mostrando come, in questo tipo di processi, la vittima diventasse inesorabilmente l’imputata. Era il 1978, e l’idea che una “brava ragazza” non potesse mai essere violentata era ancora molto diffusa.
Ecco perché, partendo dalla constatazione che la ragazza conosceva uno degli imputati e che non presentava segni di maltrattamenti, gli avvocati della difesa potevano ancora permettersi di cercare di addossarle la responsabilità della violenza subita.
Oggi però lo sappiamo bene che la responsabilità di uno stupro è solo di chi, quella violenza, la commette. Oggi sappiamo bene che, senza consenso, un atto sessuale è sempre uno stupro.
Esattamente come sappiamo che il consenso non lo si può esprimere quando ci si trova in uno stato di confusione mentale o di debolezza psichica. Qual è allora la ratio della decisione dei giudici della Corte di Cassazione?
Forse il problema è che, anche se sono passati quarant’anni dal processo filmato dalla Dordi, la tentazione di tornare indietro è sempre presente.
Basta abbassare la guardia, e la necessaria protezione delle donne viene meno. Basta non essere vigili, e qualcuno ci riprova a insinuare il dubbio di una possibile connivenza tra la vittima e i colpevoli.
Repubblica 17.7.18
La storia
Corsi e ricorsi
I populismi spiegati da Shakespeare
di Siegmund Ginzberg
Un esponente di primissimo piano dei “poteri forti”, inventa un suo partito. Lo fonda nel corso di una disputa in giardino su assurdi e incomprensibili cavilli legali.
Coglie una rosa bianca e invita i convenuti che vogliano stare dalla sua parte a fare lo stesso. Un potente suo rivale gli risponde invitando i propri partigiani a cogliere invece una rosa rossa. Le rose fungono da tessere d’iscrizione. È la nascita dei partiti politici secondo Shakespeare.
Nell’Enrico VI, parte prima, i partiti litigano e si insultano senza costrutto. Il re è troppo debole per mediare. Il Lord protettore che cerca di porre freno al caos viene impallinato in Parlamento con false accuse di corruzione. Le cose vanno di male in peggio finché il duca di York, capo della Rosa bianca, mette in atto un’idea cinica quanto assolutamente geniale per scalzare i rivali e impadronirsi di tutto il potere: fomentare malcontento e risentimenti popolari contro le élite (di cui lui fa parte), contro la corruzione (che pratica al pari degli altri), contro ingiustizie e privilegi (lui è un ultra privilegiato), contro chi svende l’Inghilterra ai diktat stranieri (la Francia, non c’era ancora l’Europa). Non lo fa in prima persona ma da dietro le quinte, da gran burattinaio.
Ingaggia un prestanome, un demagogo coi fiocchi che sappia parlare alla pancia del popolo ( Enrico VI, parte seconda).
Il lanaiolo Jack Cade, il prescelto, è uno che sa mantenere il segreto su chi lo muove e lo finanzia in modo occulto. Sa promettere mare e monti e pure la luna.
Promette «riforme coraggiose»: che, quando governerà lui «in Inghilterra si venderanno per un soldo sette pagnotte da un soldo», che «il boccale da tre decilitri conterrà un litro intero, e sarà reato bere birre piccole». Che «non ci sarà più bisogno del denaro, tutti mangeranno e berranno sul suo conto». Promette che non ci saranno più tasse, né vagabondi, o immigrati a dare fastidio. Che ci penserà lui a fare le leggi: «Bruciate tutti i registri del Regno. D’ora in poi sarà la mia bocca il Parlamento d’Inghilterra».
Non lo turba per nulla dire qualcosa e contraddirsi l’istante dopo. Oratore formidabile, sa bene come eccitare la sua audience. Attenzione: non è fatta di diseredati, mendicanti e migranti; ma di artigiani, lavoratori, gente operosa, dissanguata dalle tasse: l’equivalente medievale del popolo delle partite Iva. Tra i suoi luogotenenti ci sono un macellaio, un tessitore, un taglialegna, e un tamburino. Sono arrabbiatissimi.
Ce l’hanno con i nobili che li stanno spellando vivi a suon di gabelle, con le guardie, ma soprattutto gli intellettuali spocchiosi e i giudici. «Per prima cosa ammazziamo gli avvocati», gli grida uno dalla folla. «È esattamente quel che intendo fare», coglie al balzo lui. «Grazie buon popolo», il modo in cui risponde agli applausi. Nella sua marcia sulla capitale (Londra, non Roma) fa impiccare il primo che confessa di sapere leggere e scrivere. Promette di far pulizia a fondo, di tagliare la testa ai politici che avrebbero svenduto l’Inghilterra ai francesi (oggi si direbbe all’Europa). A cominciare dal Tesoriere d’Inghilterra (il ministro delle Finanze) che «sa parlare francese, quindi è un traditore». Quando esagera e porta il paese nel caos, i suoi committenti, che hanno già raggiunto i propri fini, lo abbandonano. Viene ammazzato quando in fuga, affamato, si introduce in un orto per rubare dell’insalata. Quel che non sappiamo è che parti prendessero gli spettatori, se compiangevano il ribelle o applaudivano l’assassino. Un altro protagonista dei drammi storici di Shakespeare è molto più cinico e crudele. Nel Riccardo III il duca di Gloucester è uno proprio “cattivo dentro”. Non si arresta di fronte al alcuna nefandezza. Fa ammazzare tutti i possibili concorrenti, compresi il re suo padre, suo fratello e gli innocenti nipotini rimasti orfani. La trovata profetica del drammaturgo è però che al potere questo tipaccio ci arriva non con la forza, come sarebbe stato più che normale a quei tempi, ma attraverso una regolare elezione. Grazie a una campagna politica a suon di menzogne, di diffusione capillare di fake news, di calunnie che distruggono la reputazione degli avversari, di promesse e prebende, di ostentazione di pietà religiosa, di sistematica esagerazione di supposte minacce alla sicurezza nazionale. Riccardo è un mostro. Un mostro che riesce a farsi temere. Ma al tempo stesso a sedurre.
C’è un curioso episodio raccontato da un contemporaneo di Shakespeare. Il più famoso degli interpreti era Richard Burbage, che compariva in scena con una mostruosa finta gobba.
Affascinava al punto che una signora lo invitò a presentarsi a casa sua quella notte facendosi annunciare come “Riccardo Terzo”. Shakespeare che aveva origliato l’invito, precedette Burbage. Si stava divertendo con la Signora quando vennero a dire che era arrivato il Signor Riccardo Terzo. Ditegli che lo ha preceduto Guglielmo il Conquistatore, suggerì Shakespeare.
Sono assaggi. Solo un paio della caterva di populisti e aspiranti tiranni che popolano il gustoso ed erudito The Tyrant. Shakespeare on Power, di Stephen Greenblatt.
In italiano non è stato ancora tradotto. Per le citazioni abbiamo fatto ricorso, con pochi ritocchi, alla monumentale edizione bilingue de I drammi storici di Shakespeare ( Tutte le opere, volume III) appena pubblicato da Bompiani. Qualcuno ha rimproverato Greenblatt, che è uno dei più prestigiosi studiosi di Shakespeare al mondo, di eccesso di attualizzazione. Ma cosa possiamo farci se i populisti storici, o di pura invenzione, di Shakespeare ci evocano Trump, Putin, Erdogan e qualche imitatore nostrano? Censurarlo?
Nell’Enrico VI l’ex lanaiolo diventato leader promette: “Daremo per un soldo sette pagnotte da un soldo”
Nel Riccardo III il protagonista si fa eleggere dopo una campagna tutta a base di menzogne
La Stampa 17.7.18
Islam e pluralismo
La democrazia e il Corano non sono in contrasto
di Karima Moual
Se l’arma vincente contro il radicalismo jihadista e la barbarie dell’oscurantismo che prova a cancellare una civiltà, quella islamica, tenendola in stallo, fosse proprio la risorsa del pluralismo?
A Casablanca, in Marocco, si sono riuniti dal 9 all’11 luglio teologi, accademici e filosofi di fama internazionale per discutere del pluralismo nella fede islamica, con l’obiettivo di rispondere alle numerose domande che la modernità esige, così come le nuove società multiculturali sempre più in crescita. Il seminario è stato organizzato da Reset Dialogues in collaborazione con la fondazione King Abdul Aziz Al Saud per gli studi islamici e scienze umane e il Granada Institute for higher Education and Research.
Amin Abdallah, professore di filosofia islamica e studi islamici, studioso di primo piano dell’ermeneutica coranica che attraverso il suo lavoro su religione scienza e cultura ha influenzato fortemente l’istruzione superiore islamica in Indonesia, intervenendo al seminari ha provato a portare l’esperienza del suo Paese di origine, l’Indonesia. Qui risiede la più grande popolazione musulmana al mondo, e qui teologi e politici hanno scelto una teologia politica islamica e pluralista senza timore di contraddire gli insegnamenti del Corano: «Il pensiero islamico politico discute incessantemente del problema dell’esclusivismo, inclusivismo e pluralismo - ha precisa Amin Abdullah -. Il musulmano modernista sottolinea l’importanza della diversità e del pluralismo, mentre l’islamista, conservatore o salafi-wahabita che sia, preferisce assumere un punto di vista esclusivista. Ai tempi del profeta Maometto, il musulmano aveva la Carta di Medina (la costituzione scritta dal Profeta che contemplava i diritti delle minoranze) come simbolo e strada per affrontare la questione del pluralismo, ma è un peccato che questa eredità non sia stata sostenuta e sviluppata nelle generazioni successive».
Proprio in Marocco, nel 2016, è stata firmata la dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nel mondo islamico (dove è menzionata la Carta di Medina). Quella Conferenza internazionale aveva accolto trecento personalità provenienti da cento Paesi. La stessa dichiarazione invitava al rinnovamento dell’interpretazione dei testi sacri per combattere le distorsioni dell’estremismo.
Il sufismo
In questa città il lavoro sul contrasto all’estremismo è iniziato già dal 2003 dopo gli attacchi terroristici a Casablanca. Una vera politica religiosa con riforme concrete e riorganizzazione di consigli e strutture religiose per promuovere l’islam moderato «malikita», dove il sufismo ha avuto un ruolo chiave.
«Il sufismo - spiega Meriem El Haitami, professoressa alla Université Internationale di Rabat - è stato citato come parte dell’identità religiosa marocchina, facendo guadagnare al Paese una reputazione di “eccezionalità”. Il sufismo è risorto nella scena politica come risposta alle sfide dell’islam politico».
Ma non basta, perché il Paese sembra essere entrato in una nuova fase post-sufi, grazie alla complessità, alle esigenze e alle curiosità della sua comunità.
Il futuro
Tuttavia, sembra paradossalmente che il passato sia stato meglio del presente nel mondo islamico in generale. E su questo dilemma prova a riflettere Oliver Leaman, mettendo al centro il pluralismo e la legge islamica, senza però trovare una risposta definitiva, il che conferma la difficoltà nel fare quel passo in avanti. Insomma la campana è suonata e anche forte, e le chiavi per superare lo stallo sembrano a portata di mano. Il pluralismo, dicono in molti, è già dentro il Corano e la Sunna. Bisogna dunque rileggerlo con gli occhi del presente e del futuro. Che se ne discuta sempre di più e in libertà. Il fatto che il dibattito sia affrontato da accademici internazionali è già una finestra aperta su un’orizzonte prima irriconoscibile.