lunedì 16 luglio 2018

Repubblica 16.7.18
Lettera dall’Europa
Se il fascismo rischia di tornare
di Béatrice Delvaux


Si sono ritrovati, come ogni anno, anche in questo inizio d’estate del 2018. È la decima volta, quasi non credono ai loro occhi. Dieci anni che si riuniscono in un paesino italiano, legati dall’ammirazione per Leopold Unger, alias Pol Mathil, il grande giornalista polacco scomparso che amavano tanto e la cui penna ha lavorato da Bruxelles a Varsavia per The Herald Tribune, Le Soir, Gazeta Wyborcza o Radio Free Europe. In questo luogo isolato, dove tante volte hanno discusso delle cose del mondo e dei giornali, sono per una volta, distrutti, testimoni e attori impotenti di un orientamento del presente. Sono belgi, polacchi, tedeschi, vivono in Polonia, a Bruxelles, in Germania, in Italia, e osservano increduli il loro “paesaggio” europeo: l’Italia di Salvini, la Polonia di Kaczynski, la Germania di Merkel che non ha saputo contenere il trionfante Afd. Il Belgio, da parte sua, ospita la sede di un’Europa che rischia di esplodere sotto i colpi della cosiddetta crisi migratoria.
Per alcuni di loro, stanno riemergendo le ombre di un passato terribile e con esse il terrificante fallimento del “mai più” promesso ai loro figli. Non si sentono più in grado di giurarlo ora, loro, le cui madri sono sopravvissute ai campi di concentramento.
Il ritorno dei fascismi? Il fenomeno era considerato “gestibile” finché i segnali riguardavano l’Ungheria e la Polonia. Ma ora si stanno infiltrando in Germania e in Italia — e la Francia deve a un solo uomo, Emmanuel Macron, di essere sfuggita all’estrema destra. Lottano, manifestano, ma non sanno più come svegliare “l’Europa” — gli Stati Uniti, lasciamo perdere —: come fermare il flusso dei popoli nuovamente sedotti da questi messaggi semplicistici ed egoisti?
Il giornalista belga Jean-Paul Marthoz, cronista di Le Soir, ha scritto: «Questa è indubbiamente la lezione principale della storia: non c’è mai stato l’happy end, che il populismo si dica di destra o di sinistra. Il populismo inizia a volte come una farsa, ma finisce sempre in tragedia».
Il cronista ricorda un episodio degli anni Trenta avvenuto in un momento in cui, come oggi, il peggio non era ancora certo, ma mostrava già i denti. Il 3 ottobre 1931, un giovane rifugiato italiano, Lauro De Bosis, decolla da Marsiglia al comando del suo aereo, Pegaso, diretto a Roma. Dal suo piccolo aereo, lancia 400.000 manifestini antifascisti sulla capitale italiana prima di inabissarsi in mare. Pochi giorni dopo, il giornale Le Soir pubblica un testo intitolato “Storia della mia morte”. In queste pagine, spiega il suo gesto: «Andiamo a Roma per diffondere in pieno cielo quelle parole di libertà che ormai sono proibite come delittuose». Ma, aggiunge, «nessuno prende il fascismo sul serio. Per questo motivo, è necessario morire. Spero che, dopo di me, molti altri seguiranno e riusciranno a scuotere l’opinione pubblica».
Nell’ottobre del 1931, Mussolini si infuriò quando venne a conoscenza dell’audace impresa del giovane compatriota. Ma nessuno si sollevò: «I semi che Lauro De Bosis aveva lanciato scomparvero tra la zizzania del fascismo trionfante. In quell’inizio degli anni Trenta, i treni arrivavano in orario, la malaria andava scomparendo nelle paludi pontine». Il parallelo con oggi? È nel vedere questi popoli che cedono di nuovo alle sirene delle frustrazioni, delle esasperazioni, degli odi.
Ci sono delle alternative? «Non ne vedo», ha detto l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi. Questa oscura prospettiva — quella di aspettare che “questo” passi, senza sapere quanti orrori potrà costare — non ci sottrae, tuttavia, alla tentazione dell’immobilismo. Al contrario, ci pone di fronte a quello che possiamo definire “il dilemma di De Bosis”: contarsi tra gli schiavi al di là del mare o tra i lanciatori di manifestini. Sarà necessario stare molto attenti a non perdere, con le nostre azioni, le nostre parole, la nostra anima.
© Le Soir/ LENA, Leading European Newspaper Alliance Béatrice Delvaux è editorialista di Le Soir Traduzione di Luis E. Moriones

Repubblica 16.7.18
“Misure simili all’apartheid”. La legge che scuote Israele
Netanyahu e le nuove modifiche “ costituzionali”
di Antonello Guerrera


C’è chi ha paragonato questo disegno di legge «all’apartheid sudafricana». Altri addirittura alla «fine della democrazia in Israele». Ma il premier Benjamin Netanyahu l’ha ripetuto più volte: «È la maggioranza che decide».
Da giorni in Israele si litiga sulla cosiddetta “Legge della nazione”, e cioè di una imminente legislazione (di cui si discute da quasi dieci anni) per determinare «la natura dello Stato di Israele come Stato del popolo ebraico».
In pratica, si tratta di ulteriori linee guida fondamentali dello Stato di Israele a difesa dell’ebraicità nel Paese, della sua cultura e della sua preservazione in ambito legislativo. Misure che il governo Netanyahu vuole far approvare questa settimana. Ma c’è un passaggio della legge che ha allarmato in molti: «Autorizzare una comunità composta da persone che hanno la stessa fede e nazionalità a mantenere il carattere esclusivo di quella comunità».
Una frase «pericolosissima», perché secondo i suoi critici aprirebbe la strada a quartieri “per soli ebrei”, a segregazioni, a discriminazioni religiose e razziali, soprattutto nei confronti della comunità araba in Israele e Cisgiordania (secondo il governo Netanyahu invece è necessario perché ciò già accade nei confronti degli stessi coloni ebrei). Non solo: nel disegno di legge è prevista una estensione della legge religiosa ebraica in ambito civile e il declassamento dell’arabo da lingua ufficiale a lingua “con status speciale”.
Sabato sera — come accade con una certa ricorrenza da mesi a causa dei guai giudiziari del premier — migliaia di persone sono scese in piazza a Tel Aviv per protestare contro il governo Netanyahu. Le manifestazioni ( foto), i moniti allarmati dello stesso presidente israeliano Rivlin, le proteste di parte delle opposizioni e gli allarmi di accademici e associazioni di diritti umani, ieri hanno costretto il capo dell’esecutivo a fare una (piccola) retromarcia. D’accordo con il ministro dell’Istruzione Bennett, la nuova dicitura del passaggio contestato della legge adesso recita: «Lo Stato considera lo sviluppo degli avamposti ebraici come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuoverne il loro consolidamento». Un restauro lessicale che però ha scontentato i falchi estremi dell’esecutivo e non ha affatto convinto i detrattori della legge.
Legge che tecnicamente è una “basic law”, una “legge fondamentale”, e cioè un articolo che avrebbe valore costituzionale. Israele non ha una Costituzione scritta — sempre rimandata nei decenni — bensì alcune “basic laws” approvate negli anni dal parlamento Knesset che si basano sulla Dichiarazione d’Indipendenza del ‘48 e che poi dovrebbero costituire i fondamenti della futura Carta Costituzionale. Per questo l’eventuale approvazione di questa legge è più cruciale del solito: le leggi fondamentali “basic laws”, una volte approvate, possono poi essere modificate soltanto con una “supermaggioranza” alla Knesset.

Repubblica 16.7.18
Resistenze Cultura e potere
Elogio del libro contro tutti i muri
di Massimo Recalcati


La civiltà dell’immagine e della digitalizzazione sospinta ha messo all’angolo il libro e con esso l’esperienza stessa della lettura. Lo si constata in ogni luogo: nelle sale d’attesa di ogni genere, nei vagoni della metropolitana o del treno, nei parchi o nelle spiagge, dentro le nostre case. La testa china del lettore sulle pagine del libro sembra aver lasciato il posto al movimento veloce della mano che scorre sugli smartphone e che consente il passaggio rapido da una informazione all’altra, da un’immagine all’altra.
L’iperattivismo della nuova tecnologia touch sembra aver stracciato l’amuleto del libro e il suo fascino segreto. La lenta pratica della lettura ha lasciato irreversibilmente il posto al consumo compulsivo delle immagini che come un’aspirapolvere perennemente in moto risucchia ogni genere di contenuto sparso nell’orizzonte caotico del Web.
In un convegno di qualche anno fa assistevo strabiliato all’orazione appassionata di uno psicologo nordamericano che sentenziava che in un futuro recente i libri sarebbero stati, rispetto alla digitalizzazione tecnologica della comunicazione, come i velieri per la nautica contemporanea: antichi relitti di una storia gloriosa ma definitivamente alla nostra spalle.
In una straordinaria installazione dell’artista messicano Jorge Mendez Blake titolata L’impatto del libro (2003) viene messa in scena con grande incisività la forza del libro. Alla base di un lungo muro fatto di mattoni rossi è stato inserito un libro. La sua presenza introduce un dislivello che, seppur minimo, si ripercuote sulla presenza immobile del muro. Non è questa la forza che abita il libro?
Generare una incrinatura nel muro, minare la sua apparente solidità, introdurre nella sua compattezza una discrepanza, una fessura. Mentre, infatti, il muro chiude, definisce confini e identità rigide, il libro apre, spalanca mondi nuovi, contamina la nostra vita con quella di infiniti altri libri. Mentre il muro vorrebbe riparare la vita dalla sua esposizione all’alterità, il libro impone al lettore l’incontro rinnovato con una alterità sempre nuova e sempre in movimento. La lezione del libro è la lezione dell’aperto contro il chiuso. Se il muro si impegna a difendere la vita dallo straniero, il libro ci invita invece a fare amicizia. Se il muro innalza il confine, il libro lo dilata. La lezione del libro consiste, infatti, nello scompaginare ogni muro, nel rompere l’illusione tetra del muro perché nella lettura del libro l’identità deve perdersi in un nuovo mondo prima di ricostituirsi. In ogni libro impariamo l’esistenza di mondi e di lingue differenti. Se il muro vive nella nostalgia dello Stesso (incarna il bastione, la difesa, la fortezza, la cortina), il libro si offre sempre come nudo, fragile, aperto. La sua esistenza cartacea non lo può riparare dal fuoco e dall’offesa. I fascisti di ogni tempo hanno sempre bruciato i libri. Hanno innalzato muri e bruciato libri. La mano di Goebbels di fronte all’evocazione del libro non poteva non impugnare la pistola. Ma il libro è nemico dell’odio salvo quando non diventa esso stesso muro. Allora una metamorfosi orrenda lo investe.
Ogni libro che diviene “sacro” rischia di trasformarsi in un muro. La sua sacralizzazione impone la sua solidificazione. Il Corano o il Libro rosso di Mao Tze Tung, la Bibbia o gli Scritti di Lacan, allo stesso modo, se diventano Il Libro – se cioè escludono altri libri possibili, tutti i libri che oltrepassano necessariamente Il Libro trasfigurano fatalmente il libro in muro. È il destino cupo di ogni dogmatismo. Quando un libro diventa un oggetto di culto perde il respiro del libro per solidificarsi in muro. Noi abbiamo invece bisogno di libri come dell’aria che respiriamo.
Abbiamo bisogno di libri capaci di incrinare i muri. Mentre il Libro che diventa muro grazie al potere ipnotico del dogma è un libro che esclude con arroganza tutti gli altri libri, dovremmo sempre ricordare che ogni libro può contenere una infinità di libri. La lezione del libro è che esistono sempre altri libri al di là di ogni libro. Sicché nessun libro può mai essere la fine del Libro.
Ogni libro sopravvive alla sua fine attraverso l’esistenza di altri libri. Per questa ragione i sogni di biblioteche straordinarie in grado di raccogliere tutti i libri del mondo si svelano sempre come deliranti. Non esiste possibilità di una simile biblioteca perché anche se essa esistesse non potrebbe mai raccogliere tutto il sapere; in nessun libro, può, infatti, essere scritto esaustivamente il libro del mondo. Il libro non si lascia mai ridurre alla semplice presenza della cosa. Ogni vero libro è un libro vivo. Per questo tutte le dittature devono riscrivere i libri, devono cioè rendere il libro morto, privo di vita. Devono cancellare i libri con altri libri nell’illusione di fare del libro un muro. Ma la grande lezione del libro è la lezione della bellezza dell’apertura. Ogni libro non è un muro ma un mare e come il mare ogni libro è sempre aperto.
Mentre apre a mondi impensati, inauditi, non ancora visti, non ancora conosciuti, apre anche la testa del lettore, ovvero lo aiuta a rinunciare alla tentazione folle del muro.
I fascisti di ogni tempo hanno sempre innalzato barriere e bruciato volumi ma la lettura è nemica dell’odio
Però ogni testo che diviene “sacro” e cioè esclude altri testi va incontro al destino cupo del dogmatismo

Repubblica 16.7.18
Mappe
Il sondaggio Demos-Coop
“Il leader del futuro è Putin” Gli italiani non puntano sull’Europa
Merkel si conferma la più apprezzata ma il presidente russo è considerato il più forte in prospettiva
Trump non sfonda: rappresenta già il passato. Macron all’ultimo posto con il 15% di consensi
di Ilvo Diamanti


I russi. Più in alto di tutti.
Davanti agli americani. Alla vigilia dell’incontro fra Donald Trump e Vladimir Putin, a Helsinki, i “popoli” guidati dai due presidenti, nella visione degli italiani sono proiettati in alto. Verso il futuro.
“Molto” più in alto rispetto agli spagnoli, ai tedeschi e ai francesi.
È la rappresentazione tracciata dagli Italiani, nel Mapping delle parole, realizzato (da Demos-Coop) alcuni giorni fa.
La “visione futura” si distanzia, in parte, dalla percezione delineata in base al “sentimento”. Gli spagnoli, infatti, risultano i più “simpatici”, davanti agli americani e ai russi. Tanto più, ai tedeschi. Ma soprattutto, ai francesi. I “cugini” d’oltralpe, oggi, suscitano insofferenza.
Ancor più che in passato.
Le polemiche e le vicende dell’ultimo periodo, intorno al tema dei migranti e delle migrazioni, evidentemente, hanno lasciato un segno profondo. Non solo sul piano delle relazioni politiche. Anche negli atteggiamenti. Nella percezione reciproca. (Ed è facile immaginare che, dopo la vittoria ai mondiali, il distacco si allargherà...). Non sono piaciute e non piacciono, agli italiani, le chiusure dei francesi nei confronti dell’Italia.
“Chiusure” in senso letterale, che sigillano le frontiere per bloccare ogni passaggio di immigrati.
“Chiusure” a senso unico. Perché i militari francesi, da parte loro, possono scavalcare i nostri confini per entrare nei centri di accoglienza (si fa per dire), alla “ricerca di ricercati”. Com’è avvenuto a Bardonecchia, alcuni mesi fa.
I francesi: tengono lontani gli immigrati che, naturalmente, sbarcano sulle nostre coste. A differenza degli spagnoli. Gli unici a permettere l’arrivo dell’Aquarius. Respinta dal governo, o meglio, dal ministro Salvini. Per motivi simbolici. Visto che altre imbarcazioni, cariche di disperati, hanno continuato ad approdare. Gli spagnoli. Anche per questo, ma non solo, risultano i più simpatici. Condividono, con noi, l’immagine e la fama di “ultimi della classe”. Forse “penultimi”. In Europa. (Dietro ci sono ancora i greci, per ora). Gli spagnoli: contano poco nelle vicende internazionali. Al contrario degli altri popoli considerati in questa Mappa.
I russi e gli americani anzitutto.
Ma anche i tedeschi. E i francesi.
Russi e americani sono e restano i più importanti, secondo gli italiani. Anche in prospettiva futura. Più degli stessi tedeschi.
Anche se il (la) loro premier, Angela Merkel, appare la più apprezzata fra i leader, presso gli italiani. Più di Vladimir Putin.
Che, tuttavia, è il leader del futuro. Al contrario di Donald Trump. Gli italiani lo collocano in basso a sinistra. In “poche parole”: il suo “nome” (e, quindi, “lui”) non piace. È ancorato al passato. E Trump, a sua volta, considera gli europei: “nemici”.
Accanto a Trump, incontriamo il nome di Emmanuel Macron.
Trump e Macron. Vicini, uno all’altro, nella Mappa del sentiment verso popoli e leader. I meno amati. E, al tempo stesso, i meno considerati, in prospettiva futura. Forse perché aspettative e sentimenti, pre-visioni e sensazioni: si mischiano e si sovrappongono.
Diventano auspici, evocati nella speranza che si auto-avverino...
Questi orientamenti assumono un significato specifico e, in alcuni casi, molto diverso, se valutati in base alla posizione politica e alla scelta di voto degli intervistati.
Vladimir Putin e Donald Trump, in particolare, appaiono i più apprezzati dai leghisti. I quali guardano, invece, con diffidenza soprattutto Macron. E, in misura più ridotta, Angela Merkel.
Insomma: i leghisti confermano, con enfasi, il loro distacco dalla Ue e dalle figure che ne interpretano, in maggior misura, le ragioni. In particolare, esprimono in-sofferenza verso i leader dell’asse franco-tedesco.
Al contrario, approvano, o meglio: sostengono in modo convinto, Putin e Trump. I “capi” dei popoli che “assediano” l’Europa. Russi e americani, nella Mappa delle parole (di Demos-Coop), sovrastano, non per caso, il “nome” della Ue.
La rappresentazione dei leghisti non è molto diversa da quella delineata – con toni più sfumati dagli elettori di Forza Italia. I quali dichiarano simpatia per Putin e Trump, ma si mostrano freddi, per non dire ostili, verso la Merkel. Riflesso e memoria dei rapporti difficili con Berlusconi.
Quando il Cavaliere era al governo. E dileggiava la Cancelliera. “Gelidamente” ricambiato. Ma il distacco maggiore gli elettori di Forza Italia lo manifestano verso Macron. In parte, per gli orientamenti critici manifestati dai governi francesi – senza differenze di colore politico verso Berlusconi. Puntualmente ricambiati. Anche di recente, come dimostrano le battute, non propriamente gentili, di Berlusconi a proposito della “madre” di Macron, che lo accompagna sottobraccio. Quasi come una moglie...
Gli elettori del Pd propongono, invece, una mappa semantica sostanzialmente diversa. Rivelano simpatia verso la Merkel e, in misura molto più ridotta, per Macron. Freddezza, per non dire ostilità, nei confronti di Putin e Trump. Insomma, sono “un altro popolo”... Gli elettori del M5S, infine, mostrano orientamenti trasversali. Come sempre. Tiepidi verso tutti. Ma soprattutto verso Putin. La differenza rispetto agli “alleati” appare evidente. Gli elettori di Lega e 5 Stelle ammirano capi e popoli diversi.
Ma stanno egualmente insieme.
Più per forza che per amore. Più per divisione – dagli altri – che per con-divisione. Reciproca.
Questa “Mappa delle parole” conferma un dubbio. Inquietante. Anche nel teatro europeo, Putin e Trump, quando si esibiscono, recitano le parti dei protagonisti, mentre la Ue occupa la platea. Le poltrone del pubblico.

La Stampa 9.7.18
Romano Prodi: “Africa, un pano Europa-Cina per regolare i flussi migratori”
Il Professore: serve una politica intelligente e profetica, sembra utopia ma è l’unica via per il futuro
intervista di Andrea Malaguti

qui

La Stampa 9.7.18
Praga attacca: “Non prendiamo migranti, quella italiana strada per l’inferno”. Chiude l’Ungheria
Open Arms di nuovo in viaggio verso la Libia, Salvini: “Risparmi tempo”

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La Stampa 16.7.18
Cortocircuito sovranista e i leghisti insistono
“C’è sintonia con Orban”
di Marco Bresolin Francesca Schianchi


Il cortocircuito tra l’esibita amicizia del governo giallo-verde coi Paesi Visegrad e la loro fermezza nel dire no all’accoglienza dei migranti si concretizza a due settimane di distanza dall’ultimo Consiglio europeo. Esplode la grande contraddizione: gli Stati spesso indicati come modello dal nostro ministro dell’Interno, Matteo Salvini, sono proprio quelli che non tendono una mano all’Italia.
Da Palazzo Chigi ufficialmente non commentano, limitandosi a mostrarsi soddisfatti per i sì di Parigi, Berlino e degli altri, ma in ambienti Cinque stelle l’irritazione sale. Non solo nell’area «ortodossa» rappresentata dal presidente Fico, che arriva a evocare «pesanti sanzioni». Ma anche nel governo, tanto che il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano si lascia andare a una dichiarazione pubblica: «Babis non ha ancora colto il senso di cosa significhi far parte di un’Unione».
La Lega guarda alle frontiere
Nessun nervosismo trapela invece nella Lega, anzi, perché ci si aspettava la posizione di Visegrad e la sintonia con quei Paesi la si interpreta come un grimaldello per raggiungere nel medio periodo l’obiettivo comune: sigillare ermeticamente le frontiere europee. «Siamo amici di Orban perché pensiamo che il suo approccio sia quello giusto», dice il deputato salviniano Claudio Borghi: «Bisogna arrivare al punto in cui si bloccano in Africa le partenze. Se tutti fossero intransigenti come loro, se tutti chiudessero le frontiere, avremmo la possibilità di fare lo stesso riaccompagnando i migranti in Libia», vede in prospettiva un vantaggio nell’atteggiamento di Visegrad. E infatti, dalla Russia dove assiste alla finale mondiale, Salvini si compiace perché «fermezza e coerenza pagano», e dice chiaramente che «il prossimo obiettivo» sarà «riaccompagnare gli immigrati dove sono partiti». Probabilmente, quel che fanno Babis o Orban, a parti invertite lo farebbero anche i leghisti. «Il messaggio politico che stiamo lanciando è che in Italia, e quindi in Europa, non si arriva più facilmente – riassume il sottosegretario agli Esteri del Carroccio Guglielmo Picchi – vogliamo perseguire i trafficanti già prima dell’arrivo in Libia, nei loro Paesi, e creare le condizioni nei Paesi d’origine perché le persone non partano. Questo pensiamo noi, questo pensano i Visegrad». Ma intanto a esultare sono loro. L’aver inserito il concetto di “volontarietà” nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo viene considerata come una grande vittoria proprio dai Visegrad. Che nella notte di trattative avevano puntato i piedi per aggiungere l’emendamento-chiave al testo che Conte - in collaborazione con Macron - stava cercando di far passare.
Molti Paesi restano scettici
La ritrosia sulla redistribuzione, comunque, non è affatto confinata all’area dell’Est Europa. Perché il concetto di «ripartizione automatica» dei migranti in arrivo sulle coste italiane preoccupa più di un governo. Non a caso, finora, soltanto cinque Paesi (su ventisette) hanno risposto presente all’appello. Gli altri se ne stanno zitti, mandano avanti Praga o Budapest a protestare, ma al tempo stesso si rifiutano di contribuire.
I motivi di questi timori diffusi nell’intera Unione combaciano con quelli esposti ieri dal premier ceco Andrej Babis, che ha giudicato la strategia italiana una «strada verso l’Inferno». La redistribuzione automatica di tutti i migranti diretti sulle coste italiane, secondo la maggior parte dei governi, è un fattore di attrazione. E dunque un invito ai trafficanti, che possono così promettere a chi si mette in viaggio un approdo sicuro in Europa. Non soltanto in Italia, che spesso non è la meta più ambita. Per molte capitali si tratta quindi di un precedente rischioso. Paesi come Belgio, Olanda o Svezia si sono sempre dimostrati disponibili a un’equa ripartizione dei migranti. Ma soltanto di chi ha diritto all’asilo. Quei governi avevano spinto per introdurre il meccanismo delle quote obbligatorie nella riforma di Dublino, da sempre chiesto dall’Italia e osteggiato dai Visegrad. Però oggi non hanno alcuna intenzione di farsi carico dei cosiddetti irregolari e della loro espulsione.

Repubblica 16.7.18
Il dossier
Le acquisizioni di cittadinanza
Stranieri, l’invasione che non c’è crolla il numero dei nuovi italiani
Per la prima volta dal 2006, le concessioni diminuite del 27,3% Effetto del calo degli arrivi, iniziato già dieci anni fa con la crisi economica
di Vladimiro Polchi


ROMA Crolla il numero dei nuovi italiani.
Nell’estate dei porti chiusi e della battaglia ai flussi migratori dichiarata dal ministro dell’Interno Salvini un dato rischia di passare inosservato: il calo improvviso delle cittadinanze. Dopo un trend positivo di oltre 10 anni, infatti, per la prima volta nel 2017 diminuiscono i nuovi passaporti tricolore: 146.605, 55mila in meno rispetto al 2016. Con buona pace dello ius soli, riforma affossata nella scorsa legislatura e scomparsa ormai dall’orizzonte politico. Un passo indietro. In base alla legge del ’92, la cittadinanza può essere richiesta dagli stranieri dopo dieci anni di residenza nel nostro Paese o dopo due anni di matrimonio con un italiano.
Questi due casi assorbono ben oltre il 60% delle concessioni di passaporti tricolore. Chi nasce in Italia da genitori stranieri deve invece aspettare di diventare maggiorenne per poter richiedere la cittadinanza.
«Parallelamente a quanto avviene per i minori e su cui nella scorsa legislatura si è tentato invano di intervenire — scrivono i ricercatori della Fondazione Leone Moressa in uno studio sulle cittadinanze 2017 — anche per la naturalizzazione degli adulti la normativa italiana è una delle più rigide d’Europa. La legge concede la cittadinanza per residenza dopo almeno dieci anni. In Francia e nel Regno Unito il requisito è di 5 anni, in Germania 8 e in Spagna 10, ridotti a 2 per chi proviene dalle ex colonie. Inoltre, le procedure di valutazione delle richieste durano almeno 2-3 anni per ogni pratica». Eppure questo non ha impedito al nostro Paese di raggiungere record di concessioni. Per la precisione, dal 2006 al 2016 il numero di nuove cittadinanze è andato costantemente crescendo, con un boom negli ultimi 4 anni: nel 2013 è stata superata quota 100mila acquisizioni, nel 2016 addirittura 200mila. Un trend apparentemente inarrestabile.
Invece, nell’ultimo anno, è successo qualcosa che smentisce le stime al rialzo fatte fin qui. Per la prima volta nel 2017 si registra infatti un forte calo nelle cittadinanze: 146.605 nuovi italiani, il 27,3% in meno rispetto al 2016. «Rapportando questo dato alla popolazione straniera residente — si legge nello studio della Moressa — osserviamo un tasso di naturalizzazione del 2,9%». Tradotto: solo 3 stranieri su 100 sono diventati italiani. Il crollo maggiore si è avuto in due regioni: Piemonte (-45%) e Puglia (-40%). Come si spiega?
Semplicemente: si sta riducendo la platea degli aventi diritto. «I cittadini che nel 2017 hanno ottenuto la cittadinanza sono infatti prevalentemente quelli giunti in Italia tra il 2005 e il 2007: ai dieci anni previsti dalla legge vanno aggiunti i tempi tecnici di lavorazione della pratica. Ebbene: dal 2007, anno d’inizio della crisi, gli arrivi sono progressivamente calati, principalmente a causa della restrizione dei decreti flussi».
Non è tutto. Quello che salta agli occhi è lo scollamento tra numeri reali e percezione: gli anni della cosiddetta “emergenza immigrazione” (2014-2017) hanno infatti fatto registrare circa la metà degli arrivi del 2007-2008. «In quegli anni gli ingressi erano prevalentemente per motivi di lavoro — spiegano dalla Moressa — mentre oggi sono ricongiungimenti familiari e motivi umanitari». Tra le regioni, la Lombardia è quella con il maggior numero di nuovi italiani nel 2017 (42mila); seguono Veneto (oltre 20mila) ed Emilia-Romagna (poco meno di 19mila). Le province record sono Milano (11.400), Brescia (8.153) e Roma (7.619). Negli ultimi cinque anni, infine, oltre un quinto dei nuovi italiani proviene dal Marocco. Seguono albanesi, romeni, indiani, bangladesi.

Repubblica 16.7.18
Firmato durante la campagna elettorale
Legittima difesa, il patto d’onore tra Salvini e la lobby delle armi
Un “contratto” impegna il ministro dell’Interno a coinvolgere le potenti associazioni quando si discute dei loro interessi
A partire dal ddl caro alla Lega che autorizza le vittime di reati a sparare agli aggressori
di Marco Mensurati e Fabio Tonacci


Se Matteo Salvini farà ciò che, per iscritto e «sul suo onore», si è impegnato a fare una volta eletto, l’Italia avrà presto una legge sulla legittima difesa scritta a quattro mani con la lobby delle armi. L’11 febbraio scorso, in piena campagna elettorale, il vicepremier e ministro dell’Interno ha firmato un documento, articolato in otto punti, col quale si è impegnato pubblicamente a «coinvolgere e consultare il Comitato Direttiva 477 e le altre associazioni di comparto ogni qual volta siano in discussione provvedimenti che possano influire sul diritto di praticare l’attività sportiva con armi e/o venatoria, o su quello più generale a detenere e utilizzare legittimamente a qualsiasi titolo armi, richiedendone la convocazione presso gli organi legislativi o amministrativi in ogni caso si renda opportuno udirne direttamente il parere».
Il Comitato D-477
Ma cos’è questo Comitato? Lo spiega a Repubblica il suo presidente, Giulio Magnani.
«Siamo un’associazione che tutela i privati cittadini che hanno armi da fuoco. In Italia rappresentiamo la Firearms United (confederazione europea dei possessori di pistole, ndr) e collaboriamo con Anpam, Conarmi e Assoarmieri». Cioè le più importanti sigle dei fabbricanti di armi, un settore che vale più o meno lo 0,7 % del Pil (2.500 imprese, tra indotto e produzione, 92.000 occupati) e si rivolge a 1,3 milioni di titolari di licenza.
Cacciatori, tiratori sportivi, appassionati di armi (anche da guerra) e gente comune in cerca di sicurezza, che riempie i poligoni, meglio se privati.
Insomma, il Comitato è il braccio operativo di una lobby molto pesante. «La parola lobby non ci spaventa affatto — rivendica Magnani — Non facciamo niente di illegale, difendiamo solo i diritti di molte persone perbene, diritti che sono stati erosi da leggi scritte in malafede». Tra gli sponsor del sito del Comitato c’è Brownells, la filiale italiana della Brownells inc, multinazionale dell’Iowa. Il suo CEO, Pete Brownell, nel 2017 è stato eletto presidente della potente National Rifle Association americana, che ha sponsorizzato la scalata di Trump. «Ma al di là del banner, il rapporto con la Nra è ancora embrionale», precisa Magnani.
“Sul mio onore”
L’intestazione del foglio firmato da Salvini, in qualità di candidato premier e a nome dell’intera Lega, recita: «Assunzione pubblica di impegno a tutela dei detentori legali di armi, dei tiratori sportivi, dei cacciatori e dei collezionisti di armi». La firma è stata messa durante la sua partecipazione all’Hit Show di Vicenza, la più importante fiera delle armi del nostro Paese. Almeno altri 12 candidati (8 della Lega, 2 di Fratelli d’Italia e 2 di Forza Italia) hanno condiviso quel documento. La cosa, però, è passata inosservata, perché i media si sono concentrati sulla scelta di consentire ai bambini l’accesso ai padiglioni dove erano esposti fucili e pistole.
Oggi però, torna di attualità. E non solo per l’imminente discussione del disegno di legge della Lega sulla legittima difesa, il cui senso è già stato anticipato dal ministro dell’Interno («il cittadino che si difende non deve essere processato»). In agenda ci sono altre due scadenze fondamentali per la lobby delle armi.
La legittima difesa
Con il documento (punto 8) Salvini si è vincolato «a tutelare prioritariamente il diritto dei cittadini vittime di reati a non essere perseguiti e danneggiati (anche economicamente ) dallo Stato e dai loro stessi aggressori».
È l’interesse di chi vuole difendersi in casa propria o nel proprio negozio, sparando. Il caso Stacchio, per capirci.
Il disegno di legge leghista depositato in Commissione Giustizia al Senato modifica l’articolo 52 del Codice penale, introducendo proprio la «presunzione di legittima difesa» a cui si può appellare «colui che compie un atto per respingere l’ingresso o l’intrusione mediante effrazione o contro la volontà del proprietario (...) con violenza o minaccia di uso di armi di una o più persone, con violazione di domicilio». In soldoni, viene cancellata la necessità di dimostrare la proporzionalità tra difesa e offesa. Si spara, e poi si vede. Casualmente, è ciò che ha chiesto il Comitato.
La direttiva europea
Ma ancor più importante, per la lobby, è il recepimento delle modifiche volute da Bruxelle alla direttiva europea numero 477 (da cui il nome del Comitato). La riforma è nata sull’onda dello sconcerto per la strage di Charlie Hebdo, quando i terroristi entrarono nella redazione del giornale satirico di Parigi, uccidendo 12 persone a colpi di kalashnikov. Le indagini hanno dimostrato che quei fucili provenivano dal giro dei poligoni francesi, dove, come in Italia, i più appassionati chiedono di sparare con costose armi d’assalto.
La riforma della 477 ha, dunque, l’obiettivo di limitarne la circolazione e introduce norme anche per ridurre la disponibilità dei caricatori. Si tratta di un passaggio cruciale.
A seconda di come l’Italia recepirà le novità, infatti, si potrebbero aprire o chiudere importanti occasioni di mercato. E non è un caso che il Comitato e le associazioni, attraverso siti e riviste specializzate, seguano ogni singolo passaggio della riforma, che avrebbe dovuto conoscere, lo scorso 22 giugno, uno snodo fondamentale. Quel giorno scadeva il termine per i pareri delle commissioni parlamentari sullo schema di legge predisposto dal governo Gentiloni, ma, con un blitz, il nuovo parlamento a trazione leghista si è dato altri 40 giorni di tempo, rimandando il termine al 31 luglio e assecondando le istanze del Comitato che insiste per evitare di inserire troppe regole.
«Continuiamo a sostenere l’azione del Comitato, che per la prima volta ha dimostrato come la comunità dei possessori d’armi, se unita, può fare veramente la differenza», è stato il commento di Firearms united a questa prima battaglia vinta.
La guerra però è ancora lunga. Ma la lobby, a questo punto, si sente garantita da Salvini. Scrive Armi e Tiro, rivista di settore vicina alle posizioni del Comitato: «L’Unione europea ha adottato misure manifestamente sproporzionate. I parlamentari della Lega-Salvini premier, hanno manifestato una grande attenzione ai diritti dei cittadini appassionati di armi».
Del resto, nell’impegno firmato da Salvini si fa esplicito riferimento (punto 4) al modo in cui il Governo avrebbe dovuto recepire la «direttiva armi».
Sì dirà che niente c’entra con questo, che trattasi di una generica promessa fatta in campagna elettorale senza obblighi contrattuali. E però, a domanda, il presidente del Comitato spiega: «Dopo la vittoria elettorale Salvini è stato troppo impegnato, ma abbiamo continui contatti con esponenti della Lega di cui non voglio fare i nomi».
I poligoni privati
C’è poi una terza scadenza che preoccupa la lobby. Riguarda l’emanazione da parte del Viminale del regolamento per i poligoni privati. In Italia ci sono due tipi di strutture in cui si può sparare: quelle «pubbliche» del Tiro a segno nazionale (Tsn), in cui vigono norme di sicurezza molto severe e rigorosi controlli; quelle “private” per le quali si parla da anni di far west normativo. I controlli sono scarsi, in alcuni poligoni viene data la pistola in mano anche a chi non ha la licenza e basta farsi un giro su google per trovare fotografie di campi tiro abborracciati, copertoni di automobili usati come protezione e linee di tiro occupate da cecchini improvvisati che impugano M16, AR15 e altri fucili di uso militare. È dal 2010 che il ministero deve scrivere un regolamento ad hoc ma, a causa delle pressioni della lobby, non lo ha mai fatto.
Nel marzo del 2017 gli uffici del ministero, allora retto da Marco Minniti, hanno finalmente prodotto una bozza di decreto che però ha mandato su tutte le furie il Comitato D-477 e le altre associazioni che sono riuscite, con la nuova legislatura, a bloccarla.
A mandare all’aria lo schema di regolamento del 2017, una interrogazione parlamentare presentata dalla senatrice leghista Anna Bonfrisco, che ha chiesto al ministro dell’Interno (allora uscente) «di porre la massima attenzione ai possibili effetti sull’occupazione, diretta ed indiretta, che deriverebbero dall’introduzione di nuove regole in un settore che, in tanti anni di attività ha sempre funzionato senza creare particolari problemi per la sicurezza e per l’incolumità dei cittadini». Con la bozza ferma in Parlamento, il settore continuerà a macinare milioni di euro. Grazie a una legge del 1931.

Il Fatto 16.7.18
“A Zingaretti dico: adesso nel Pd cambiamo dirigenti e politiche”
Gianni Cuperlo - “Ormai è finita la stagione di Renzi e dei suoi profondi sbagli, come lasciare il M5S alla Lega urlando al lupo e aprendo la gabbia”
di Giampiero Calapà


Gianni Cuperlo ritorna al vertice del Pd, nominato nella segreteria di Maurizio Martina.
Dopo quattro anni mi è stato chiesto di dare una mano e io provo a darla. Detto ciò mi sarei atteso da un ex ministro (Calenda, ndr) l’appello a inviare mail civili di protesta al Viminale, non al Nazareno. Ma capisco di essere un uomo all’antica.
Aver posto al centro dell’agenda politica il tema migranti è stato un errore?
Il punto non è l’agenda ma le azioni. Io rivendico come un atto di civiltà la scelta di andare a salvare migliaia di vite nel Mediterraneo mentre Salvini ferisce il diritto e la nostra cultura. Tanto più che non esiste alcuna emergenza. Da inizio anno gli arrivi in Italia sono stati poco più di 16mila. Il nodo è che dal 2010 sono chiusi i canali di ingresso legali col risultato che il solo modo per arrivare qui sono i barconi. E allora bisogna riaprire quei canali e accompagnarli con politiche di sviluppo: è l’unica via per superare la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici.
Ma su questo vede la responsabilità dell’ex ministro dell’Interno Minniti?
Dopo che l’Europa ha pagato la Turchia perché stoppasse la rotta balcanica noi abbiamo trattato coi libici una forma di blocco navale. L’effetto è stato un calo degli sbarchi ma anche un numero alto di persone rinchiuse in campi di detenzione dove i diritti umani sono carta straccia. Così non si risolve il dramma. Ha ragione Prodi, serve un piano tra Europa e Cina per spingere il continente africano verso regimi stabili e un governo dei flussi migratori. È il solo modo per stroncare la tratta di esseri umani e affrontare la questione demografica.
Salvini sta con Germania e Austria nell’asse dei volenterosi anti-sbarchi.
Qui siamo al paradosso. I principali alleati di Salvini sono i più agguerriti nemici dell’Italia, quelli che vogliono chiudere tutti i migranti a casa nostra. Come se il Napoli per vincere si alleasse a Cristiano Ronaldo. La cosa assurda è che un bel po’ di italiani applaudono, il che dimostra che Tafazzi non vive solo a sinistra.
Lei pensa che il governo Conte sia di destra?
Guardo gli atti. Su migranti, flat tax, o il pan-penalismo del contratto il governo, ha un impianto di destra. Detto ciò la Lega interpreta un nazionalismo bellicoso che fonde temi sociali con l’estremismo reazionario. Qui c’è lo scarto con la destra degli anni ’90. Nel rovesciare lo schema fondato sulla miscela di economia liberista e valori progressisti. La conseguenza è che l’attacco in Europa non è ai tecnocrati ma ai pilastri delle democrazie liberali. Poi ci sono i 5 stelle che incarnano una confusa democrazia della rete segnata dal ruolo opaco della Casaleggio associati.
Lei adesso è responsabile “alleanze” nella segreteria Martina, è possibile riaprire un dialogo coi 5 stelle?
È stato un errore tifare perché un movimento carico di ambiguità ma che ha anche raccolto voti da sinistra si saldasse alla destra peggiore. La logica di chi urlando “al lupo” ha fatto di tutto per aprirgli la gabbia è la cosa meno comprensibile di questi mesi.
È stato un errore lasciar cadere il tentativo del presidente Roberto Fico?
Sì, e non perché l’indomani dovessimo fare un governo con Di Maio, ma perché la sinistra ha sempre cercato di rompere la saldatura dell’altro campo. Non so quale sarà l’evoluzione del M5s. Nel primo tratto la Lega ne ha divorato l’immagine rovesciando i rapporti di forza. Vedo l’anima di destra anche nel partito di Grillo ma lì vivono contraddizioni profonde: compito di una opposizione intelligente è farle emergere.
E il post-Martina? Apprezza Nicola Zingaretti?
Lo apprezzo per la serietà e le capacità di governo. Fa bene a spiegare ciò che intende fare. A lui ho detto ciò che ripeto da tempo, serve discontinuità con le ultime stagioni in termini di impianto, classe dirigente, concezione del potere. Mi batto per questo e lavorerò per la soluzione che meglio potrà garantirlo.
Cosa deve cambiare nel Pd e come?
Mi piacerebbe un congresso diverso da una conta con una fase per riscrivere l’alfabeto del progetto. Poi la scelta di un leader che nasca dal confronto tra piattaforme alternative. Perché, lo dico con rispetto a Calenda, una cosa è il Fronte Repubblicano, altra ricostruire un centrosinistra figlio di larghe alleanze sociali prima che politiche.
Il meccanismo delle primarie per eleggere il segretario, invece, è tramontato? È meglio lasciare quello strumento soltanto alla scelta del candidato premier?
Fosse per me restituirei il potere di scegliere il segretario agli iscritti ma capisco che apparirebbe un ritorno al passato. Però fissare regole chiare mi pare il minimo. E allora un vero Albo degli elettori in modo da verificare la regolarità del voto.
…per il “candidato premier” primarie di coalizione, addio mito dell’auto-sufficienza del Pd?
Sì certo, per il candidato premier penso a primarie di coalizione anche se la legge attuale per il Parlamento ha un impianto proporzionale.
Cambierebbe anche nome al partito?
No. Abbiamo passato vent’anni a sciogliere e rifondare partiti. Però vorrei ripensare daccapo il Pd, aprendolo a chi ha smarrito ogni fiducia in noi.
Che sinistra vorrebbe?
Vorrei una cultura che rimettesse al centro la libertà materiale di ciascuno resettando molte categorie, che non temesse di misurarsi col reddito di base e riscoprisse il valore del conflitto. Vorrei una forza con lo sguardo piantato sul mondo, sensibile ai temi della pace e rigorosa nell’azione politica e nella lingua. Al fondo vorrei semplicemente una sinistra in asse col tempo.
Vede giovani con potenzialità di leadership a parte i nomi dei noti non-giovani?
Certo, giro l’Italia e scopro ragazze e ragazzi appassionati, curiosi del mondo. Animano riviste, curano blog e chiedono radicalità.
La stagione di Renzi è tramontata?
Se il riferimento è alla frattura del centrosinistra rispondo di sì. Poi credo che la vita riserva sempre nuove prove e gli auguro ogni bene. Io so di non aver combattuto la persona ma gli errori profondi della sua politica. Questo per me fa la differenza.

Repubblica 16.7.18
Lo spettro di una nuova scissione
La condanna del Pd sospeso tra immobilismo e guerra civile
Basta il varo di una segreteria a tempo per riscatenare le faide. Zingaretti: “Congresso subito o non resta niente”. Zuffa con Orlando, Calenda molla: del partito non mi occupo più
di Goffredo De Marchis


ROMA Marco Minniti la vede così: «La tragedia è che sta parlando chiunque e la qualunque. Senza uno straccio di soluzione. Una volta Chiaromonte, durante un’infuocata assemblea, disse: “Ricordo ai compagni che prima di parlare bisogna pensare”». Nel Pd chiacchierano in molti eppure il partito appare immobile. Gli italiani giudicano inesistente la sua opposizione al governo giallo-verde, buona al massimo a produrre qualche battutina su Twitter. Il neosegretario Maurizio Martina vara un nuovo gruppo dirigente (non proprio nuovo) per reggere la baracca fino al congresso e tenere dentro tutte le correnti. Passano cinque minuti e si comincia a litigare sul nulla, ovvero un gruppo dirigente destinato a durare qualche mese.
Carlo Calenda insulta Francesco Boccia, Luca Lotti s’infuria per la presenza di Gianni Cuperlo, Michele Emiliano ritira Boccia perché le garanzie non sono sufficienti, la scelta di Marianna Madia alla Comunicazione non è la più popolare. Uno evoca il suicidio (harakiri), un altro le macerie. Clima luttuoso. Martina incassa le polemiche. Prova a crederci. «Il Pd c’è. Credo nell’unità e nell’apertura.
Testardamente. Servono tenacia e umiltà». Intorno però è il deserto e allo stesso tempo la Torre di Babele.
Non a caso due possibili candidati alle primarie, Nicola Zingaretti (quasi sicuro) e Stefano Bonaccini (incerto), lanciano un allarme al limite dell’epitaffio. «Facciamo subito il congresso per cambiare tutto e voltare pagina o del Pd non resterà più niente», scrive il governatore del Lazio sui social.
Gli fa eco il presidente dell’Emilia Romagna, possibile sfidante: «Sbrighiamoci o saremo condannati all’irrilevanza».
Il principale indiziato dell’immobilismo, come al solito, è Matteo Renzi. In effetti, c’è da capirlo: in una situazione di stallo può avere maggiore controllo sul partito che lo ha eletto segretario appena un anno fa. Se cambia tutto, i suoi numeri sono destinati a diminuire drasticamente. A Roma e a livello locale. L’altro ieri è stata rinviata l’assemblea dei dem in Toscana perché i renziani non volevano scegliere tra un reggente e il congresso subito.
Meglio non toccare nulla, dal loro punto di vista.
Una soluzione lucida per risolvere in parte il problema l’ha offerta Luigi Zanda: «Renzi va battuto nel congresso». Cioè con il voto dei militanti. Le manovre non servono, i batti e ribatti nemmeno. È la stessa idea di Dario Franceschini e Paolo Gentiloni. Ma se stai fermo non è detto che il mondo ti segua. Si nota una fuga dal Pd che non è solo degli elettori. Sergio Chiamparino oggi dice: «Mi ricandido in Piemonte solo sotto il simbolo di un rassemblement, non del Pd». I vertici dem della Basilicata hanno iniziato un giro di ricognizione per la candidatura in regione dopo l’arresto del governatore Pittella. Ai sondati spiegano: «Abbiamo deciso che il candidato dev’essere un civico, uno che non ha mai avuto la tessera del Pd». In Sicilia, alle ultime amministrative, molti aspiranti primi cittadini hanno preferito nascondere le loro origini. A Bisceglie ha vinto un sindaco del Pd che aveva rotto con il Pd tempo fa e ha corso con una lista civica. E il neoiscritto Calenda, dopo aver discusso con Andrea Orlando su Twitter e aver aggiunto altri tre-quattro nomi alla sua segreteria collettiva, scrive ai follower: «Non mi occupo del Pd».
Si capisce bene che la cristallizzazione conviene solo a Renzi, che non ha ancora uno sfidante per le primarie e non sa se riuscirà a orientare il dibattito congressuale sul terreno preferito: alleati di Grillo sì o no? I renziani pensano che a questo punto l’unica scelta sia tornare indietro. Altro che avanti.
Costruire una federazione tra partiti. Con il Pd, una forza centrista tipo Macron, un’altra di sinistra. L’Ulivo o meglio l’Unione. «Come il centrodestra. Il problema è che manca il federatore», dicono dalle parti dell’ex premier. Un dettaglio. La novità è che la suggestione trova ascolto anche tra gli anti-Renzi. In assenza di un nuovo Prodi, il Pd dovrebbe svolgere il ruolo di tessitore. È il ritorno al passato, la sconfessione degli ultimi dieci anni di storia della sinistra. Ma a stare immobili, seduti in panchina, vengono strane idee.

Corriere 16.7.18
La Rai in bilico L’ora delle scelte
Oltre 13 mila dipendenti e poco traffico online: una rinascita necessaria
Attesa per i nuovi vertici
di Milena Gabanelli


Svincolata dai partiti, doveva decollare tre anni fa. Invece la più grande azienda culturale del Paese è rimasta nel parcheggio, invischiata nelle clientele e nelle inefficienze di sempre. Mamma Rai impiega 13.058 dipendenti, di cui 1.760 giornalisti, suddivisi in 8 diverse testate: Tg1, Tg2, Tg3, TgR, Rainews 24, Il Giornale Radio, Rai Parlamento e Rai Sport. Il contratto giornalistico Rai è il più «blindato» d’Italia: il costo azienda medio annuo è di 200.000 euro per ciascuno dei 210 capiredattori, 140.000 euro per i 300 capiservizio, 70.000 euro per i neoassunti.
Record europeo di Tg
Nel mondo, nessuna Tv pubblica ha tanti telegiornali nazionali. Un’anomalia che risale ai tempi della «lottizzazione»: a ogni partito la sua area di influenza. Negli anni ha generato costi enormi poiché ogni testata ha un direttore, i vicedirettori, i tecnici, i giornalisti. E tutte le testate a coprire lo stesso evento. Che senso ha, visto che ogni rete ha già gli spazi dedicati agli approfondimenti e ai talk, proprio per rappresentare le diverse letture dei fatti? La Bbc, una delle più grandi e influenti istituzioni giornalistiche al mondo, diffonde in Gran Bretagna un solo Tg: BBC news. La Rai, con le tre testate nazionali, realizza ogni giorno oltre 25 edizioni di Tg; in Francia e Germania le edizioni quotidiane sono 7, nel Regno Unito e in Spagna 6. All’offerta ipertrofica si aggiunge il canale Rainews 24, che trasmette notizie 24 ore al giorno. Abbiamo la più grande copertura informativa d’Europa e un esercito di giornalisti, eppure, nonostante i telespettatori siano inesorabilmente in calo perché si informano sul mondo digitale, la Rai non ha un sito di news online.
Le 22 sedi e i piani vuoti
Poi c’è il tema delle sedi regionali: i 660 giornalisti fanno capo alla direzione Tgr, mentre le 22 sedi, con altrettanti direttori, che si occupano solo dei muri e dei tecnici, fanno capo a una fantomatica Direzione per il coordinamento delle sedi regionali ed estere. Gli edifici sono faraonici, con interi piani inutilizzati, ma la qualità della cronaca locale non è sempre brillante: potenzialità enormi, inefficienza cronica. Ma, essendo i Tg regionali luoghi in cui sindaci e governatori esercitano la loro influenza, oltre che bacino di consenso per il potente sindacato Usigrai, si tira a campare.
Le inefficienze
Qualche esempio. In Emilia Romagna non c’è una buona copertura del segnale e, in alcune zone, si vede il Tgr Veneto o il Tgr Marche; è presente una obsoleta «esterna 1» per le dirette, un mastodonte costoso usato solo per la messa della domenica, con una squadra di 5 persone che, per ragioni sindacali, non può fare altro quando il mezzo è fermo. Al Tgr Lazio regna il degrado: dalle luci al neon fulminate alle cuffie della radiofonia fuori uso; tutti i giornalisti stanno a Saxa Rubra, nessun corrispondente dalle province. A Torino, per poter usare un mezzo satellitare leggero, adatto alle dirette, la Tgr deve chiedere l’assenso a 4 diversi responsabili, una procedura che non si adatta ai tempi delle news. In Puglia, i due redattori territoriali hanno la telecamerina in dotazione, ma non la usano perché il sindacato non vuole. A Sassari, 4 specializzati di ripresa non escono con la troupe, non guidano la macchina e stanno in studio, per quei due movimenti di camera che potrebbero anche fare i tecnici. Il caporedattore non può decidere sul loro utilizzo, perché dipendono dal direttore di sede. In Sicilia, gli impiegati di segreteria sarebbero disponibili e qualificati per archiviare e metadatare le immagini, ma non hanno accesso al sistema. La Tgr Lombardia (con 50 giornalisti) è quella che collabora di più con i Tg nazionali; però Tg1, Tg2, Tg3, Rainews e Rai Sport hanno comunque tutti i propri giornalisti a Milano. Il materiale grezzo viene buttato, perché nessuno lo cataloga. Poi c’è un aspetto che la dice lunga sulle competenze dei dirigenti: le testate nazionali e quelle regionali sono state digitalizzate con sistemi che non comunicano fra loro, per cui è difficile lo scambio di immagini.
Giornalisti senza Rete
Il Consiglio d’amministrazione insediato nel 2015 è partito in quarta dando vita a Ray Play, ma la mission era proprio quella di rendere più efficiente la TgR, riorganizzare l’offerta informativa nazionale e colmare il gap digitale. In questi 3 anni, il Cda è riuscito a far naufragare tutti i progetti. Incluso quello per la nascita del sito unico di news online, già sviluppato dalla Direzione Digital e con la formazione presso le redazioni regionali già avviata (oggi sei regioni hanno il loro sito). Il motivo? Prima di dar vita a una nuova testata, bisognava ridurre il numero di quelle già esistenti. Sta di fatto che il sito nazionale esistente è dentro a Rainews 24 e produce un traffico irrilevante. Questa è la classifica Audiweb degli utenti unici giornalieri, nell’ultima settimana di giugno: RaiNews 95.000, TgCom 967.000, Corriere della Sera 1.300.000, Repubblica 1.400.000. In sostanza tutti i cittadini sono obbligati a pagare il canone (1 miliardo e 700 milioni l’incasso del 2017), ma chi si informa soltanto online non ha un servizio pubblico degno di questo nome. In compenso, lo stesso Cda ha portato avanti uno studio di fattibilità di un nuovo canale tradizionale in lingua inglese. Ad occuparsene in prima persona la presidente Monica Maggioni, a fine mandato, e quindi in cerca di una futura direzione.
Nomine, le scelte di Tria
Questa è la Rai, che attende il prossimo giro di giostra. Il capitale umano che lavora ai piani bassi, dove si realizza il prodotto, ha bisogno di una forte spinta; speriamo che la giostra sia un «calcinculo». Con un management esperto e libero dai condizionamenti della politica, potrebbe uscirne un’azienda leader in Europa. Alitalia è stata sventrata da decisioni scellerate, poi è arrivato un Commissario capace che la sta rianimando. La responsabilità di indicare il nuovo Amministratore delegato è nelle mani del ministro Tria: potrà reclutarlo in base alla lunghezza del curriculum o in base ai risultati prodotti nella gestione di aziende complesse. Le due cose non coincidono quasi mai.

La Stampa 16.7.8
A due anni dal tentato golpe in Turchia Erdogan prende il controllo dell’Esercito
di Marta Ottaviani


Il Presidente della Repubblica turca, Recep Tayyip Erdogan, non perde tempo e a meno di un mese dalla vittoria nell’election day dello scorso 24 giugno, ha messo le mani su quello che ha sempre ritenuto il nemico numero uno insieme con la magistratura: le Forze Armate.

Nel giorno del secondo anniversario del golpe fallito, che il 15 luglio 2016, per sole sei ore, sembrò a mettere a rischio la tenuta del potere del leader islamico, è arrivato l’ennesimo decreto presidenziale che pone lo Stato Maggiore sotto il ministero della Difesa. Che la decisione del Capo di Stato sarebbe arrivata presto, lo si era intuito lo scorso 9 luglio, quando Erdogan aveva nominato Hulusi Akar, capo di Stato maggiore, ministro della Difesa. Il suo posto a capo delle Forze Armate è stato preso da Yasar Guler, suo vice allo Stato Maggiore con cui Akar lavora da anni.
L’alibi
Il presidente della Repubblica ha spiegato alla stampa che il si è trattato di una decisione dettata dalle condizioni poste dall’Unione Europea per i negoziati di adesione. «Abbiamo posto fine alla divisione fra civili e militari» ha commentato Erdogan soddisfatto, che ha aggiunto: «I legami fra il ministero della Difesa e lo Stato Maggiore saranno basati sulla solidarietà, non ci sarà nessuna tensione sulle decisioni da prendere». Il decreto presidenziale ha anche portato cambiamenti in due importanti organi. Il primo è lo Ysk, il Consiglio Militare Supremo, che decide le nomine degli alti gradi delle Forze Armate, e il Mgk, il Consiglio nazionale di sicurezza, dove i militari hanno sempre avuto una presenza preponderante e dove adesso avranno solo il ruolo di consiglieri della politica. L’Mgk si riunirà una volta ogni due mesi, mentre prima la riunione era a cadenza mensile, ovviamente su convocazione del presidente della Repubblica.
Le Forze armate
Con cinque interventi nella vita civile nello stato, il primo nel 1960 e l’ultimo nel luglio 2016, le Forze Armate, storiche garanti dello stato laico fondato da Mustafa Kemal Atatürk hanno sempre rappresentato una presenza, più o meno gradita, a seconda delle epoche, nella vita civile turca. Di certo un grosso pericolo per chi, come Erdogan e prima ancora il suo padre politico, Necmettin Erbakan, ha cercato di instaurare un modello di Islam politico nel Paese. A differenza dei primi quattro interventi, che erano comunque autorizzati dalla Costituzione di allora, quello del 2016 è avvenuto fuori da questi parametri per questo è stato considerato subito un atto terroristico, portato avanti, secondo l’accusa, da Fethullah Gülen, ex imam in autoesilio negli Usa, ex alleato, ora nemico numero uno di Erdogan e a capo di una corrente della destra islamica turca, pressoché sgominata in patria grazie alle purghe post golpe, ma ancora influente all’estero.
L’accentramento
Di certo c’è che il Presidente non sta perdendo un solo minuto di tempo per accentrare tutti i poteri, come previsto dalla nuova costituzione, approvata tramite referendum, fra numerose accuse di brogli, nell’aprile 2017, con il quale la Turchia è passata da Repubblica a regime parlamentare a presidenziale forte. In meno di un mese, il Presidente ha emesso decreti che gli garantiscono il controllo sulla Direzione generale della Stampa e dell’Informazione, che emette gli accrediti per i giornalisti, sulle nomine dei rettori universitari e sui direttori dei teatri di prosa e balletto di tutto il Paese. Il presidente può anche contare su un esecutivo dove ha nominato solo fedelissimi, primo fra tutti il genero, Berat Albayrak, passato dal ministero dell’Energia a quello, molto delicato, per via della situazione economica traballante, delle Finanze.

La Stampa 16.7.18
Cuba
La nuova Costituzione apre all’economia di mercato
di Francesco Iannuzzi


Cuba, uno degli ultimi baluardi del socialismo reale, ha deciso di aprire uno spiraglio al capitalismo e al mercato. Nella bozza della nuova costituzione riconoscerà «il ruolo del mercato» all’interno del sistema socialista e reintrodurrà le cariche di Presidente della Repubblica e di Primo ministro. Il nuovo testo mantiene come «principi essenziali la proprietà socialista del popolo sui mezzi fondamentali di produzione» ma riconoscerà «il ruolo del mercato e nuove forme di proprietà, anche private».
Gli investimenti stranieri
L’isola caraibica strizza anche l’occhio agli «investimenti esteri per lo sviluppo economico del Paese, con le dovute garanzie». Dopo decenni di controllo statale dell’economia, alcuni settori governativi hanno visto gli investimenti stranieri come «un male minore» e hanno riconosciuto di aver bisogno di oltre 2,5 miliardi di dollari all’anno di investimenti esteri per sviluppare l’economia nazionale. Dal 2014, l’isola caraibica ha una nuova legge e, in base a essa, secondo dati ufficiali, 110 nuove imprese che coinvolgono società straniere sono state autorizzate a operare nel Paese. Il presidente cubano Miguel Diaz-Canel ha dichiarato che il turismo «è una priorità per Cuba», sottolineando che questo settore è «la locomotiva» dell’economia del Paese, e anche se si è fatto molto, l’obiettivo non è stato concretizzato a pieno». Inoltre la nuova Costituzione manterrà la libertà religiosa e conterrà il rigetto esplicito delle discriminazioni di genere, anche se i media ufficiali non hanno specificato se i matrimoni omosessuali saranno riconosciuti come richiesto dalla comunità Lgbt.
Il presidente
Il nuovo testo stabilirà un limite di due mandati quinquennali per il presidente della Repubblica, una modifica già annunciata dall’ex presidente Raúl Castro. In ogni caso il Partito comunista rimarrà la forza politica dominante a Cuba, infatti nel testo è scritto che manterrà «il ruolo guida di Cuba come forza trainante della società e dello Stato». Dal mese scorso, un gruppo di 33 deputati guidati proprio Raúl Castro, sta studiando le modifiche dell’attuale Costituzione approvata nel 1976. La maggior parte dei cambiamenti annunciati sembrano offrire una base legale a molte delle riforme già attuate proprio per dare più spazio all’iniziativa privata. Si prevede che il nuovo testo sarà presentato al Parlamento cubano il 21 luglio per l’approvazione dei deputati e sarà successivamente sottoposto a un referendum popolare per l’approvazione finale.

Il Fatto 16.7.18
Sovrani e sovversivi
La vendetta di Pisacane, morto suicida o assassinato
Il 22 agosto 1818 nasceva a Napoli il patriota rivoluzionario che trovò la morte il 2 luglio 1857 a Sanza (Salerno) in circostanze ancora non chiare
di Massimo Novelli


Duecento anni fa, il 22 agosto del 1818, nasceva a Napoli Carlo Pisacane, una delle personalità più notevoli, e romantiche, del nostro Risorgimento democratico. Figlio di Gennaro Pisacane, duca di San Giovanni, e di Nicoletta Basile de Luna, e destinato alla carriera militare nell’esercito borbonico, il rampollo di quell’antica casata divenne – per rammentare quanto scrisse lo storico Franco Della Peruta – un personaggio di primo piano nella “storia della democrazia risorgimentale”. Con lui, infatti, “il lento e faticoso processo di elaborazione di un programma di rivoluzione popolare e nazionale, alternativo da ‘sinistra’ a quello mazziniano ed orientato in modo conseguente verso una soluzione socialista del problema italiano, raggiunge il suo punto di maturazione più alto”.
Il nobiluomo napoletano, che aveva abbandonato Giuseppe Mazzini per approdare al socialismo di stampo anarchico, morì a Sanza, in provincia di Salerno, il 2 luglio del 1857. Cadde nel corso della spedizione, partita da Genova con il piroscafo “Cagliari”, che aveva promosso con un gruppo di patrioti per sollevare le popolazioni del Mezzogiorno in nome dell’unità italiana e della rivoluzione sociale. Pisacane e i suoi volontari, i 300 “giovani e forti” della famosa poesia La spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini, vennero massacrati dai contadini e dai gendarmi borbonici. Ma le circostanze della morte di Pisacane, ancora oggi, non sono chiare. Quasi tutti quelli che si sono occupati di lui, da Nello Rosselli a Della Peruta, hanno affermato che il rivoluzionario, per non finire in mano alla plebaglia assassina, decise di suicidarsi e si sparò. Altri studiosi, invece, sostengono che fu ammazzato; uno dei suoi assassini, poi, sarebbe stato a sua volta eliminato alcuni anni dopo.
Lo storico ed editore campano Giuseppe Galzerano ha affrontato in modo approfondito la figura di Pisacane e, soprattutto, la sua morte. Nell’introduzione agli scritti del patriota napoletano (pubblicati nel volume La Rivoluzione, edito dallo stesso Galzerano), documenta che una delle guardie locali, un certo Sabino Laveglia, il 3 luglio, il giorno dopo l’eccidio, “con le mani ancora macchiate di sangue innocente, si presenta dal giudice Leoncavallo e, autoelogiandosi, tra l’altro ascrive a sè il merito dell’uccisione di Carlo Pisacane, affermando: ‘Al primo colpo del dichiarante quegli della banda rivoltosa che faceva da capo cadde’”. Secondo Gaetano Enter, però, “un gendarme congedato di Napoli, residente a Sanza, dove faceva l’ebanista, nella deposizione resa al giudice Leoncavallo il 7 luglio, il merito dell’uccisione di Pisacane spetterebbe a lui”.
L’Enter, continua Galzerano, “riferì anche che durante il conflitto ‘aveva sentito chiamarlo in nome dai suoi compagni, Pisacane fatti più in qua’. In realtà a Sanza non ci fu combattimento. Le ‘tre ore’ di duro scontro furono una vanteria di Sabino Laveglia per accrescere i suoi meriti omicidi. Si trattò solo di una vile aggressione contro inermi e sconosciuti cittadini. Che non ci fu nessun combattimento è provato anche dal fatto, inconfutabile, che nessuno dei sanzesi risultò ferito”. Il re delle Due Sicilie, Ferdinando II, “compensò lautamente gli abitanti di Sanza: furono distribuite più di cento medaglie e Sabino Laveglia fu nominato cavaliere, mentre al comune andarono duemila ducati, utilizzati per costruire la strada per Buonabitacolo. Stando alle deposizioni sembra che sia da escludere la massiccia partecipazione della popolazione di Sanza all’eccidio.
Lo scontro sarebbe avvenuto nella prima mattinata e il farmacista Filippo Greco Quintana, dopo aver fatto sfondare la porta della chiesa, fece suonare le campane a stormo per avvertire la popolazione del pericolo. Nei loro interrogatori né le guardie urbane, né i prigionieri fecero riferimento all’intervento della popolazione. Solo il sottocapo Sabino Laveglia dichiarò che era intervenuta anche la popolazione, probabilmente per procurare dei premi ai compaesani”.
Il fallimento nel sangue del moto di Pisacane e dei suoi compagni, tra i quali c’era anche il futuro ministro Giovanni Nicotera, che si salvò e fu imprigionato, venne accolto con soddisfazione dai governi italiani.
Scrive Galzerano che all’indomani “del fallimento della spedizione, Cavour manifestò la solidarietà del governo piemontese al governo napoletano, perseguitò la compagna di Pisacane e accusò Mazzini. Nella famosa lettera Al Conte Cavour, Mazzini stigmatizzò con roventi espressioni lo sfratto della ‘vedova’ di Pisacane, contro cui nessuna voce si era levata alla Camera, sfratto dovuto alla scoperta della corrispondenza con Mazzini. Cavour non fu il solo”.
“Il 9 luglio 1857 – apprendiamo ancora da Galzerano – L’Indipendente di Torino scrive: ‘Nella storia non vi ha tiranno che abbia versato tanto sangue come Giuseppe Mazzini; questo sciagurato è circondato da una immensa quantità di capi mozzi di giovani da lui portati al patibolo’. In un dispaccio del 10 luglio il ministro inglese Hudson lo accusava di essere ‘malvagio, orgoglioso e senza scrupoli’ e ‘come al solito, procurava di tenersi lontano da ogni pericolo’. Anche Carlo Marx, con poche parole, ne condannava l’operato: ‘Il putsch di Mazzini assolutamente nel vecchio stile ufficiale. Avesse almeno lasciato fuori Genova!’ ”. Altrettanto certo, secondo Galzerano, è che nel 1860 il patriota Cristofaro Ferrara “di San Biase, una frazione del comune di Ceraso, vendicò l’uccisione di Pisacane. Partì da Vallo della Lucania con altri liberali per recarsi a Sapri con l’intenzione di giustiziare i parenti del prete Peluso, che nel 1848 aveva fatto uccidere Costabile Carducci”, un patriota ucciso dai birbinici.
“Fu dissuaso da Garibaldi – narra lo studioso campano – e allora si recò a Sanza, dove giunse il 6 settembre e, costituito un tribunale, processò Sabino Laveglia, il fratello Domenico, il farmacista Filippo Greco Quintana e Giuseppe Citera, che vennero condannati a morte e fucilati il 7 nelle prigioni di Sanza. Enter era deceduto per morte naturale nel gennaio del 1860. ‘Giustizia’ era fatta”.

Il Fatto 16.7.18
Ulisse, l’ultimo degli eroi contro gli dèi capricciosi
“Rapporti di potere” - Il teatro civile di Marco Paolini dall’Odissea al Piccolo Strehler di Milano, dove ritornerà la prossima primavera
di David Perluigi


Marco Paolini è stato capace, ancora una volta, di ipnotizzare il pubblico con il suo Il Calzolaio di Ulisse – Oratorio in una tre giorni, appena conclusa, da tutto esaurito nella splendida cornice di uno dei monumenti più suggestivi e importanti di Verona, il Teatro romano. L’attore e drammaturgo veneto, grazie alle sue indiscusse doti affabulatorie, ha messo in scena uno spettacolo della durata di oltre due ore, capace ogni volta di sfuggire a formule o generi di comodo. Il testo, scritto in modo magistrale con il sodale Francesco Niccolini, offre momenti intensi e a volte divertenti, capaci di suscitare emozioni. Il tutto sorretto da una regia solida, quella di un altro grande compagno di viaggio, Gabriele Vacis. Uno dei registi più innovatori e importanti del nostro teatro. Senza dimenticare l’allestimento di Roberto Tarasco, capace di giocare su una scenografia minima, ma potente allo stesso tempo. Dove i suoni (perfettamente mescolati e alternati alle musiche ricercate) e le luci, tra le cifre stilistiche di questo consolidato gruppo di lavoro, riescono a inchiodare gli spettatori.
Al centro lui, Paolini, che interpreta sul palco un Ulisse cinquantenne che dopo la strage dei Proci, come penitenza, comincia un vagabondaggio che dura un altro decennio e dove finge di essere il Calzolaio del protagonista dell’Odissea di Omero. Un pellegrinaggio verso l’ignoto dove porta con sé sempre un remo in spalla per un cammino “in senso ostinato – recita Paolini – e contrario agli dèi”. Un lungo viaggio, si legge nel libretto di questa opera, “dove le storie di dèi, mostri, uomini e guerrieri, maledettamente imparentati e legati fra di loro hanno come perno Ulisse, nipote di Hermes, amato e protetto da Atena, perseguitato da Poseidone, immensamente desiderato da Calipso e concupito da Circe”. “Intorno a questo signor Nessuno – dice Paolini – prima o poi incontri tutto il resto, ramificato e contorto come l’immenso ulivo nel quale scolpì il talamo nuziale suo e di Penelope, la donna che per vent’anni – non si sa come – seppe attenderlo. Infiniti i fili del racconto: se ne potrebbe fare non uno, ma dieci di spettacoli. E dato che tutto qui dentro è collegato nel più incredibile e sorprendente ‘effetto domino’ che la storia ricordi, è obbligatorio rifarsi da zero, riavvolgere il nastro e da lì ripartire. E a grandi falcate, o bracciate, oppure ancora in volo sulle spalle di un dio, raggiungere quel piccolo scoglio mediterraneo: Itaca. Questo canto, antico di quasi tremila anni, passato di bocca in bocca, e di anima in anima, è il soul per eccellenza. È la storia dell’Occidente. A noi, oggi, non resta che cantarla a modo nostro: larga, divertita, sensuale, commossa, ironica, crudele, bugiarda, eccitante, straziata. E piena di musica, perché è impossibile immaginare un aedo senza la sua cetra, che nella nostra versione ha la forza ritmica di un ensemble variegato, musicisti e voci che insieme sono Mediterraneo: mare, terra, sangue, carne, profumo, lacrime, salso, vino, vento. E un sonno profondo e magico ci porta – aggiunge Paolini – dove un giorno dobbiamo arrivare: là dove un vecchio calzolaio cieco intreccia trame destini e rimpianti”.
“Lo spettacolo – afferma il regista Vacis – attraverso la figura di Ulisse e le sue difficoltà di movimento nella complessità contemporanea, racconta la difficoltà, forse l’impossibilità di comprendere di rapporti di potere nel nostro presente. Un presente in cui noi occidentali, per esempio, ci ritroviamo nella posizione degli dèi capricciosi dell’Odissea, che dispongono del migrante Ulisse”. Ad accompagnare l’artista di Belluno un gruppo di interpreti bravissimi, come la poliedrica Saba Anglana, attrice, scrittrice e cantante di origine somala dalla voce avvolgente, il giovanissimo e promettente Vittorio Cerroni e due bravissimi musicisti come Lorenzo Monguzzi ed Emanuele Wiltsch (bellissima la loro versione arrangiata di It’s Five O’Clock degli Aphrodite’s Child).
Un lavoro e uno studio monstre quello di Paolini su Ulisse che è cominciato nel 2003 con lo spettacolo U. e via via, dopo varie rivisitazioni, è arrivato ai giorni nostri e che, dopo che avrà toccato altri teatri italiani, prenderà corpo nello spettacolo intitolato Nel tempo degli dèi che andrà in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano dal 14 marzo al 18 aprile 2019.

Corriere 16.7.18
«Bruciante segreto», il film che Kubrick non realizzò mai
di Matteo Persivale


Ritrovata la sceneggiatura tratta dalla novella di un autore austriaco
Tredici film. Stanley Kubrick (1928-1999) ha lasciato solo tredici film, abbastanza per garantire a sé stesso un posto nella storia del cinema e a un vasto numero di accademici materiale su cui lavorare per molti decenni. Adesso però, scriveva l’inglese The Observer, uno di questi professori mentre faceva ricerche d’archivio per un libro su Eyes Wide Shut, ha trovato accidentalmente una sceneggiatura inedita di Kubrick, preparata per un film che non girò mai.
Risale al 1956, da decenni era considerata perduta nei meandri della carriera del giovane Kubrick, e invece il professor Nathan Abrams della Bangor University l’ha trovata, intatta. È un dattiloscritto di oltre cento pagine, l’adattamento cinematografico di una novella dello scrittore austriaco Stefan Zweig, Bruciante segreto, e racconta una storia che davvero impressiona per il suo essere una sorta di Lolita all’incontrario: l’amicizia tra un ragazzino dodicenne in villeggiatura — è convalescente dopo una malattia — e un uomo adulto, un barone, che in realtà comincia a frequentare il ragazzino per poterne avvicinare la madre (la storia del romanzo di Vladimir Nabokov, Lolita, è quella di un uomo che sposa una donna perché è in realtà innamorato della figlia dodicenne).
Kubrick adattò la novella insieme con il romanziere Calder Willingham, con il quale aveva lavorato a un’altra sceneggiatura (che invece riuscì a realizzare), quella per Orizzonti di gloria.
Le sceneggiature inedite di Kubrick ricevono grandissima attenzione da Hollywood: Steven Spielberg qualche anno fa ha girato un film, A.I., tratto da una sceneggiatura di Kubrick, e ora è probabile che un produttore riesca a trasformare in film anche Bruciante segreto. Novella che peraltro ha già avuto una trasposizione cinematografica: nel 1988, diretta da Andrew Birkin (fratello di Jane ed ex assistente di Kubrick) con Klaus Maria Brandauer e Faye Dunaway. I motivi per i quali Kubrick abbandonò il progetto? La natura un po’ inquietante della trama, complicata da far digerire a produttori e censura nel 1956, fu indubbiamente un fattore. Ma la copia ritrovata da Abrams ha sulla copertina il timbro della Mgm, che potrebbe aver cancellato il progetto a causa del «tradimento» del regista che l’anno dopo rinunciò al suo contratto con la casa di produzione per girare altrove Orizzonti di gloria.
In ogni caso la teoria relativa alla natura «scandalosa» della trama di Bruciante segreto — l’adulterio, la vicinanza tra un adulto e un ragazzino — come causa della non realizzazione del progetto sembra un po’ debole considerando che soltanto sei anni dopo Kubrick riuscì realizzò il ben più scandaloso Lolita.
Ma di sicuro la sua carriera di regista fu costellata di false partenze: e anche per questo ha firmato soltanto tredici film (morì poco prima che Eyes Wide Shut arrivasse nei cinema), lasciando incompiuti, tra gli altri, progetti di film storici su Napoleone e sulla Shoah. Kubrick amava le coincidenze: in questa storia ce ne sono tante, una tira l’altra (il suo socio Willingham era molto amico di Nabokov). Di questa vicenda, c’è da pensare, avrebbe sorriso: nella certezza che i suoi copioni, girati da un altro, anche con il genio di Spielberg, non sarebbero diventati film belli come i suoi.