domenica 15 luglio 2018

Corriere 15.7.18
«Stop ai bambini dimenticati in auto» Sensori obbligatori al costo di 100 euro
Il piano del governo: acquisti a Iva agevolata
di Andrea Ducci


ROMA Un parcheggio, il sole a picco sull’auto, un’imperdonabile distrazione nella testa di un genitore. Mix micidiale di fattori che può portare a dimenticare un bambino legato al seggiolino all’interno di una vettura. Sono tanti i casi di cronaca: negli Stati Uniti viene stimato che ogni dieci giorni un bambino perda la vita, proprio perché dimenticato in auto sotto il sole. In Italia l’ultima volta è capitato nel maggio scorso a un padre in provincia di Pisa. L’obiettivo è scongiurare che si ripeta. La soluzione risiede in una modifica del codice della strada all’articolo che disciplina l’utilizzo delle cinture di sicurezza e i sistemi di ritenuta per i bambini.
A dirlo è il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, che anticipa la norma per rendere obbligatorio l’utilizzo di sensori che rilevino la presenza di bambini all’interno dell’auto, segnalando le eventuali «distrazioni». Il funzionamento è semplice e in commercio esistono già vari dispositivi. Alcuni seggiolini auto dispongono di sensori integrati, oppure si tratta di installare sui vecchi seggiolini un dispositivo che segnali la presenza di un bimbo a bordo. Un sistema digitale consente ai sensori di collegarsi e dialogare con uno smartphone, così come con i sistemi di assistenza alla guida delle vetture più recenti oppure con un semplice braccialetto da indossare al polso. In caso di dimenticanza, se il guidatore si allontana dall’auto e lascia il bambino all’interno il sistema fa scattare un allarme acustico che segnala la distrazione. «Sono un papà che, come tanti, vive tempi complicati e stressanti che possono portare a distrazioni. La vita dei nostri figli — osserva Toninelli — vale il costo di 100 euro ad iva agevolata». Il tema economico, del resto, ha un suo peso considerato che si renderebbe obbligatorio l’utilizzo di nuovi seggiolini dotati di sensori o l’installazione di sensori sui vecchi seggiolini.
Al ministero dei Trasporti hanno cominciato a fare qualche calcolo, partendo dal costo dei dispositivi che varia appunto da circa 70 a 100 euro. Il tema è individuare le coperture per una misura che dovrebbe diventare legge entro l’autunno: Toninelli immagina, infatti, un beneficio fiscale al 50% per l’acquisto dei seggiolini o dei sensori, con tetto massimo della detrazione a 200 euro. La stima è che ogni anno in Italia siano venduti circa 200 mila nuovi seggiolini auto. Ma l’obbligo di utilizzo dei cosidetti «sistemi di ritenuta» vale per tutti i bambini al di sotto di 1,5 metri di statura, ossia anche ragazzini fino a 11-12 anni. In totale, la platea di seggiolini da sostituire o da rendere più sicuri potrebbe in tal caso superare i 2 milioni. E la norma richiederebbe molte decine di milioni di euro da reperire.

Il Fatto 15.7.18
“Per ogni morto in mare ce ne sono almeno due nel deserto”
di Andrea Valdambrini


“PER ogni morto in mare ce ne sono almeno due nel deserto”, ricorda Alessandra Morelli, rappresentante dell’Unhcr (l'Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati) nel Niger. Dalla Capitale nigerina Niamey dove lavora, Morelli descrive l’immagine di un Sahara “ingarbugliato”, tra flussi di spostamenti tradizionali (dall’Africa subsahariana verso Algeria e Libia) e nuove rotte di migranti e richiedenti asilo verso l’Europa, dove chi non ne esce vivo “rimane spesso anonimo, perfino di più che nel Mediterraneo”. Il cuore del deserto è un gigantesco cimitero da molti anni ormai. Nel giugno 2016 erano stati ritrovati al confine tra Niger e Algeria i corpi di 34 persone, stroncate dalla sete, di cui quasi la metà donne e bambini. L’anno scorso, sempre in Niger, sono stati ritrovati più di 40 corpi solo grazie alla denuncia fatta dai sopravvissuti riusciti a raggiungere il villaggio più vicino: i trafficanti li avevano abbandonati dopo il guasto del furgone su cui viaggiavano. Un episodio non raro né isolato.
Un’inchiesta giornalistica pubblicata poche settimane fa dall’agenzia stampa Associated Press (AP) ha rivelato come più di 13 mila persone – incluse donne incinte e bambini - siano decedute negli ultimi 14 mesi a causa dei respingimenti da parte dell’Algeria, che persegue una politica di porte chiuse agli immigrati. Abbandonati nel nulla senza acqua né cibo e costretti dalla polizia di frontiera algerina a camminare per raggiungere il primo villaggio del Mali o del Niger, che si trova come minimo a 10 o 20 chilometri di distanza. Con il rischio, molto spesso tradotto in realtà, di perdersi nel deserto o di soccombere per disidratazione e fatica. Algeri da parte sua si rifiuta di fornire numeri ufficiali riguardo alle espulsioni, ma in generale, l’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (Oim) stima in almeno 30.000 i ca- duti nel deserto africano a partire dal 2014. Si trat- ta più o meno lo stesso numero di chi negli ultimi 16 anni ha attraversato il Mediterraneo. Il cimi- tero Sahara, purtroppo, è davvero immenso.

Repubblica 15.7.18
La leggenda dei 35 euro ora ogni profugo costa meno della metà
Il nuovo appalto per il Cara di Mineo assegna a chi lo gestirà 15,60 euro a ospite. Ben lontano dalle cifre indicate dal Viminale
di Alessandra Ziniti


Roma Tolte di mezzo le Ong, “ avvertite” a dovere navi militari e private che se continuano a sottrarre migranti alle amorevoli cure delle motovedette libiche possono ritrovarsi fuori dai porti italiani, l’ultima crociata che Matteo Salvini rilancia un giorno sì e un giorno no sui suoi profili social è quella sui famigerati 35 euro, il costo che — a suo dire — graverebbe sui bilanci della comunità italiana per ogni migrante “ mantenuto”. Lo ha ribadito ancora ieri in una diretta Facebook da Verona: «Siamo tenuti a garantire servizi che costano molto meno e penso che, rispettando la legge e i driitti umani, entro l’estate i nuovi appalti avranno costi assolutamente inferiori», ha detto, annunciandol’obiettivo di un risparmio annuo di 500 milioni.
Il ministro, si sa, non può essere certo “corretto”, meno che meno da una prefettura, neanche da quelle ( e sono più d’una in Italia) che una bella sforbiciata ai costi dell’accoglienza l’hanno già data. E non per passare i fondi risparmiati dalle strutture che ospitano i migranti ai rimpatri ( perchè questo, come il ministro ben sa ma omette di dire non si può proprio fare), ma semplicemente perché questo già prevedeva una circolare a firma Minniti dell’anno scorso con la quale il Viminale aveva già dato disposizioni di rivedere al ribasso i costi di alcuni servizi.
Lo scandalo del Cara di Mineo e del suo mega appalto da 100 milioni di euro finito nelle mani degli “amici” di Luca Odevaine e di Mafia Capitale non è, per fortuna, passato invano. E così, ad esempio, proprio dal Cara di Mineo ( lo stesso centro che Salvini ha più volte visitato da segretario della Lega prospettandone la chiusura in campagna elettorale se fosse stato eletto) arriva il più evidente esempio di risparmio.
Costi più che dimezzati senza bisogno di aspettare Salvini. Le cifre parlano chiarissimo: le aziende o i raggruppamenti di imprese ( quattro e non più una sola come era prima) che da settembre subentreranno alla gestione commissariale del più grande centro per richiedenti asilo d’Europa con i suoi 2.400 ospiti prenderanno 15,60 euro a migrante per garantire alloggio, vitto, assistenza sanitaria e psicologica, pulizie, e ancora attività fondamentali per l’integrazione dei richiedenti asilo, dalle lezioni di italiano allo sport ai corsi di formazione.
I cento milioni di euro dell’appaltone scandalo sono diventati 50 per tre anni nel nuovo capitolato d’appalto predisposto dalla prefettura di Catania secondo le linee guide emanate dal Viminale lo scorso anno, scesi ancora a poco più di 40 in virtù del ribasso medio dei quattro lotti sulla base d’asta. Appalto che dovrebbe essere aggiudicato a fine mese non appena gli uffici della prefettura di Catania avranno ultimato tutte le verifiche sulla certificazione antimafia delle imprese aggiudicatarie.
Insomma, forse il ministro Salvini che continua a sventolare minaccioso i suoi “ tagli” all’accoglienza lasciando intendere alla sua platea di populisti che «è finita la pacchia negli hotel a 5 stelle che accolgono i migranti » e che dice di aver dato mandato agli uffici del Viminale di elaborare una « mappa di voci da tagliare » potrebbe semplicemente andare a guardare sul sito della prefettura di Catania alla voce “amministrazione trasparente” e perdere qualche minuto nell’esaminare le singole voci dei capitolati d’appalto.
Giusto per citarne qualcuna a titolo esemplificativo: 7,50 per tre pasti al giorno a testa, 0,95 centesimi a testa per biancheria da letto e vestiario, 0,70 per l’assistenza sanitaria, 0,30 per il trasporto, appena cinque centesimi a testa al giorno per la lavanderia, due per il materiale didattico e ludico, un centesimo per il barbiere. A cui vanno sommati 5,20 centesimi per il personale addetto e i 2,50 centesimi quotidiani di pocket money, gli unici soldi che vanno in tasca ai richiedenti asilo.
Perché ovviamente di richiedenti asilo stiamo parlando, quelli che hanno diritto a trovare ospitalità nel circuito dell’accoglienza, e non di migranti a qualsiasi titolo sul territorio italiano. Forse val la pena di ricordare anche questo per riportare i fatti ad una corretta narrazione.

Repubblica 15.7.18
Il lusso cresce a Est alla Cina un terzo dei consumi mondiali
Mercato in crisi in Europa e Stati Uniti, Oriente verso il sorpasso grazie all’espansione della classe media e degli acquisti online
di Sara Bennewitz


Milano Nel mondo del lusso il 2018 segnerà l’anno del sorpasso dell’Est rispetto all’Ovest e una tendenza che peraltro sarà difficile da invertire. E sì, perché l’emisfero orientale del mondo, con la Cina come traino, diventa ufficialmente il maggior consumatore di beni di alta gamma, mentre il mondo occidentale con l’Europa, come cuore creativo e produttivo, viene relegata in cavalleria insieme agli Usa e alle Americhe in genere. « È importante ricordare che, considerando anche i dati delle carte di credito – spiega Federico Bonelli, Partner Ey– già da tre anni i cinesi sono al primo posto per il consumo di lusso, consumo che avviene per due terzi fuori dal territorio cinese, prevalentemente in Europa e Stati Uniti». Secondo la ricerca Altagamma Ey, nel 2017 su 320 miliardi spesi in borse, scarpe, vestiti, accessori e trucchi di alta gamma, 25 miliardi sono stati spesi in Cina, e altri 75 da cittadini cinesi in giro per il mondo di cui oltre la metà (circa 35 miliardi) in Europa.
Morale, secondo le stime di Mc-Kinsey, nel 2018 il mercato si dividerà quasi a metà tra Oriente e Occidente, ma già nel 2025 il 55% dei consumi totali si verificherà al di fuori di Europa e Nord America, una tendenza che andrà progressivamente accentuandosi con la crescita del digitale, che di qui al 2020 dovrebbe registrare una crescita media del 10% all’anno. Anche perché, oltre il Giappone, gli Emirati Arabi e la Corea del Sud – tutti mercati di sbocco importanti per il lusso – in Cina più che in tutte le altre geografie del mondo, continua a crescere una classe media che aspira ad affermarsi anche attraverso l’acquisto di beni di alta gamma.
« La Cina ha una centralità crescente non solo come mercato di riferimento per il lusso, ma anche perché su temi come il digitale è sicuramente un paese dove sperimentare e imparare – spiega Antonio Achille, senior partner e responsabile globale per il lusso di McKinsey - Non a caso tra le 40 start up digitali sopra il miliardo di dollari, i cosiddetti “ unicorni” che hanno un potenziale fino a 10 miliardi, ben 23 sono asiatiche. In quest’ottica va letto anche l’accordo tra Jd.com e Farfetch, dove uno dei maggiori gruppi dell’e- commerce cinese ha rilevato il 20% del gruppo europeo del lusso online».
Nell’online avere scala è cruciale, e la Cina è un mercato di sbocco enorme che anche i colossi Usa come Google e Amazon fanno fatica a dominare. Peraltro il digitale nel mondo del lusso, è diventato il canale per parlare ai Millenials, ovvero la nuova generazione di compratori di alta gamma che ha portato alle stelle marchi come Burberry o la Gucci di Alessandro Michele e Marco Bizzarri, che peraltro spesso si è ispirata anche come gusto alla cultura orientale. E lo spostamento del baricentro dei consumi da Ovest verso Est, potrebbe avere conseguenze sul turismo, sugli affitti dei negozi e sull’ondata di fusioni e acquisizioni. « In uno scenario in cui la distribuzione digitale sarà dominata in Cina da player locali, la forza e l’unicità del marchio – ricorda Achille – diventano ancora più importanti. La storia e l’emozione che i marchi, soprattutto europei, suscitano nei consumatori cinesi sono un asset unico. Per questo, per eventuali gruppi cinesi che volessero giocare un ruolo da protagonista nel settore, l’acquisizione di marchi di lusso europei, vedi Buccellati, è la strada più semplice da percorrere » . Simili considerazioni da altri esperti del settore. «La Cina già oggi è tra le prime cinque nazioni da cui provengono i buyer nel settore lusso - ricorda Roberto Bonacina, Partner M&A di EY - mentre l’Italia è spesso terra di conquista. È naturale che crescerà il numero di marchi che verranno acquisiti da capitali cinesi, sia con investimento diretto o in ambito retail e immobiliare, che attraverso fondi di private equity con capitali cinesi alla ricerca di marchi del Made in Italy appetibili per il consumatore cinese ».
In proposito l’ultimo caso è quello di Nou Capital, che in Italia ha investito nel vino e nel design di alta gamma, rilevando il 12% del segmento Elite di Borsa Spa, che è quello che prepara tante aziende del made in Italy a diventare grandi abbastanza per sbarcare sul mercato azionario.

Storia del comunismo
Il Fatto 14.7.18
Gli spari a Togliatti e il lato oscuro dei comunisti italiani
14 luglio ’48 - 70 anni fa l’attentato al segretario del Pci rischiò di far esplodere l’apparato paramilitare non rassegnatosi alla vittoria Dc
Gli spari a Togliatti e il lato oscuro dei comunisti italiani
di Salvatore Sechi


Quattro pallottole la mattina del 14 luglio 1948, in Via della Missione a Roma colpiscono il segretario del PCI Palmiro Togliatti. A sparare è un ragazzotto siciliano, solitario, un po’ monarchico, un pò fascistoide, Antonio Pallante. Dietro di lui non c’è nessuna trama né complicità di partiti o gruppi nazionali o internazionali.
Stalin deplora, in un telegramma pubblico, che il gruppo dirigente italiano non abbia saputo difendere il suo leader. I partiti fratelli sono colti di sorpresa da un attacco così sperticato. Ma il capo del Cominform non ha alcuno stupore da condividere. Meno di dieci anni prima aveva aperto un’inchiesta contro Togliatti, sulla base delle accuse pesanti mosse dalla famiglia di Gramsci. In seguito ad essa Togliatti perderà il posto di rilievo che aveva nella segreteria del Cominform e verrà spedito in esilio nella Repubblica sovietica della Baschiria, negli Urali.
L’attentato scatenò più problemi di quanti ne abbia risolti. Togliatti non muore. Il partito finisce nelle mani di Pietro Secchia, che è più cominternista dello stesso segretario generale. Nel leader piemontese, titolare del settore cruciale dell’organizzazione, ripongono grandi speranze quanti dentro il partito e tra il proletariato di fabbrica di Milano, Torino, Venezia e altre città non avevano mandato giù: che la guerra di liberazione non avesse reciso le radici economiche e sociali del fascismo e dell’imperialismo. L’alternativa di classe al capitalismo, che era nei programmi del partito era risultata ibernata.
Il 14 luglio sconvolge ogni equilibrio. Il Pci vede contestata dalla base la linea della parlamentarizzazione e della lotta politica, e lo stesso paradigma liberal-democratico della via legale subisce colpi. L’umore prevalente è che, malgrado la sconfitta nelle elezioni del 18 aprile 1948, i voti non solo si contano, ma si devono pesare. E diventa centrale la risposta al telegramma di Stalin: il segretario del più grande partito comunista occidentale non può essere lasciato finire sotto quattro colpi di revolver.
A capirlo sono lo Stato Maggiore della Difesa, i capi dei maggiori reparti militari e del ricostituito servizio segreto (su cui disponiamo dei nuovi documenti ai quali ha avuto accesso il professor Pardini). In 12 province la reazione all’attentato è di tipo insurrezionale o para-insurrezionale. Le forze militari e di polizia schierate sono fronteggiate, disarmate o prese in ostaggio (è il caso di Vittorio Valletta, prigioniero oper alcuni giorni alla Fiat) in città come Genova, Napoli, Taranto, Varese, Milano, Rovigo, Piacenza, Livorno, Forlì, Siena, Torino, Venezia.
In alcuni casi si tratta di una risposta violenta. In altri dello spiegamento di unità di combattimento ben equipaggiate e ben addestrate alla guerra di guerriglia.
L’apparato paramilitare del Pci pare fosse al comando del generale Alfredo Azzi, che può contare sulla cura di Longo e Secchia. Sono circa 200-250 mila uomini, di cui 25 mila ben addestrati e muniti di armi ancora efficienti.Non è un esercito centralizzato, ma ha reparti distribuiti su gran parte del territorio che era stato teatro della guerra di liberazione.
È grande il pericolo e la paura che traligna dagli Stati Uniti. I rapporti della Cia, le analisi del National Security Council e del corpo diplomatico dislocato in Italia temono che con queste unità i comunisti possano tenere in scacco per qualche mese il paese, dividerlo e dare luogo all’inizio di un nuova guerra se dalla Jugoslavia e dall’’Urss arrivassero unità di supporto.
Chi finanzia questo “esercito rosso”? La documentazione proveniente da Mosca è impeccabile: tra il 1951 e il 1991 il PCUS, attraverso il Kgb, ha versato al Pci (da Togliatti fino a Berlinguer) la quota maggiore dei circa 3.990 miliardi di dollari destinati ai comunisti europei e ai loro alleati.
Ma all’apertura di un conflitto armato per abbattere il governo De Gasperi o far dimettere il ministro dell’Interno Mario Scelba sono contrarisssimi Stalin e il Cominform. C’è ancora la Grecia in fiamme. Mosca non vuole che un altro incendio divampi nel Mediterraneo, con epicentro l’Italia.
Il PCI è isolato sia sul piano internazionale sia all’interno. Dopo alcune decine di anni si renderà conto, con Massimo D’Alema, che la socialdemocrazia aveva vinto, e il comunismo era stato storicamente battuto.
La sinistra ha cercato di sopravvivere a questa debacle epocale. Anche se non formalmente, finirà per ammettere che non era costituzionalizzato l’atteggiamento di ricevere un finanziamento mensile da un paese non alleato e poco amico come l’Urss e, in secondo luogo, che il tenere in piedi un braccio armato negava il principio del monopolio statale della violenza legittima.

Corriere 15.7.18
L’impossibile «mea culpa» sui crimini del regime sovietico
di Sergio Romano


Durante un incontro di storici a Mosca, una decina d’anni fa, ho detto ad alcuni studiosi russi che anche il loro Paese, prima o dopo, avrebbe dovuto chiedere pubblicamente scusa per le molte malefatte del regime sovietico nel corso della sua storia, dalle purghe staliniane e dalla espulsione di intere popolazioni sino alla repressione dei movimenti democratici nei Paesi satelliti. Il fenomeno del «mea culpa» era europeo e mi sembrava obbedire a una sorta di calendario comune. In Gran Bretagna la stagione del perdono aveva fatto la sua prima apparizione dopo l’inizio del declino dell’Impero britannico; in Francia, Germania e Italia, dopo i movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta; in Spagna dopo la vittoria dei socialisti nelle elezioni del 2005. Dovunque coincideva con l’arrivo di una nuova generazione che rimetteva in discussione le «verità» della generazione precedente e chiedeva conto a padri e madri di ciò che avevano fatto negli anni in cui la Germania occupava militarmente una larga parte dell’Europa e stava sterminando gli ebrei del continente.
Ero convinto che prima o dopo qualcosa del genere sarebbe accaduto anche in Russia.
Uno storico russo con cui avevo una vecchia familiarità mi disse che sbagliavo. La Russia aveva già regolato i suoi conti con le repubbliche del Baltico e non era tenuta a saldarne altri. Intendeva dire probabilmente che soltanto gli estoni, i lettoni e i lituani potevano considerarsi vittime, agli occhi di Mosca, mentre gli altri Paesi non erano privi di responsabilità e non avevano il diritto di essere risarciti con le pubbliche scuse del governo russo.
Non parlò invece dei gulag, delle grandi purghe, dei contadini condannati a morte dalla politica staliniana. Un motivo del silenzio è certamente quello ricordato da Pier Luigi Battista (Corriere del 2 luglio) dopo l’articolo di Fabrizio Dragosei sulle disavventure di uno storico, Jurij Dmitriev, impegnato con l’associazione Memorial nella ricerca dei molti cimiteri in cui sono state sepolte le vittime della repressione. Il sistema post-sovietico vuole ricreare la gloriosa continuità della storia russa e non può fare meno del ruolo di Stalin nella grande epopea della guerra patriottica.
Credo che vi siano, oltre a questo, altri due motivi. In primo luogo la classe dirigente russa non è stata incoraggiata dalla morbosa febbre dell’autoflagellazione che è arrivata sino alle soglie della Santa Sede e che avrebbe dovuto suscitare molte perplessità anche in Europa. In secondo luogo la nuova Russia post-sovietica non era soltanto piena di vittime e dei loro congiunti. Era anche piena di carnefici e aguzzini. E accadeva spesso che l’aguzzino fosse il vicino della porta accanto. Una interminabile cerimonia del perdono avrebbe diviso il Paese e la festa della memoria sarebbe diventata una guerra civile.

Il Fatto 15.7.18
Gianni Vattimo Il filosofo: “Mi chiedo come si possa essere ottimisti
Il mio sogno sarebbe quello di una Internazionale papista di sinistra”
“La paura si è fatta governo, l’unica speranza è Francesco”
intervistadi Antonello Caporale

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il manifesto Alias 15.7.18
Destino e carattere: le stesse prigioni per filosofi diversi
Pensiero del '900. Ernst Cassirer, Martin Heidegger, Ludwig Wittgenstein, Walter Benjamin: questi i protagonisti di un libro che ripercorre le loro vite e il loro pensiero analizzando biografie, carteggi, letteratura: «Il tempo degli stregoni 1919-1929», da Feltrinelli
di Stefano Velotti


Il decennio 1919-1929, quasi coincidente con la durata della Repubblica di Weimar, è la scena ricostruita da Wolfram Eilenberger nel suo Il tempo degli stregoni 1919-1929 Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero (traduzione di Flavio Cuniberto, Feltrinelli, pp. 405, € 25,00) per raccontare di quattro fra i più importanti filosofi del ’900: Ernst Cassirer è il più vecchio, quindici anni di differenza lo separano da Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein, coetanei; Walter Benjamin il più giovane, ma è il primo a morire, suicida – come si sa – a Port-Bou, sui Pirenei, credendosi erroneamente perduto, destinato a finire nelle mani dei nazisti.
Fisionomie distanti
A chi ne conosca un po’ la personalità e abbia letto qualcuna delle loro opere, questi quattro Zauberer («maghi», «stregoni», «incantatori») – come li chiama l’autore – non potrebbero apparire più diversi. Cassirer, colto ebreo borghese ben assimilato nella cultura tedesca, cosmopolita, ammiratore di Kant e Goethe, erede della grande tradizione illuminista; Heidegger, «l’ultimo sciamano», il maestro più amato e odiato, uno dei filosofi più controversi di tutti i tempi, per la sua grande mente e per la sua umanità meschina, per i suoi amori extraconiugali (il più celebre ed enigmatico, quello con Hannah Arendt) e le orripilanti lettere scritte alla moglie, per la profondità del pensiero e il suo delirante antisemitismo, nonché, ovviamente, i discussi rapporti con il nazismo; coetaneo di Heidegger – ma morto di tumore ben prima del coboldo della Selva nera – era l’ex-miliardario austriaco Wittgenstein, colto e omosessuale, scostante e tormentato, il cui ritorno a Cambridge nel 1929 (dopo la sua prima grande opera, il Tractatus, la sua rinuncia alle ricchezze di famiglia e un decennio trascorso in un paesino austriaco a fare il maestro elementare) veniva descritto, in una lettera di Keynes, con queste parole: «Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto»; e infine Benjamin, forse ancora più «irregolare» di Wittgenstein, forse altrettanto geniale, ma di indole tutta diversa. A eccezione di Heidegger, figlio di un sacrestano cattolico – erano tutti ebrei: Cassirer finì a Yale, Wittgenstein abbandonò l’Austria ben prima del nazismo, Benjamin ne fu vittima, Heidegger complice.
Una esigenza comune
Cosa tiene insieme queste figure così diverse nell’avvincente puzzle narrativo messo insieme dall’autore? Tutto il libro di Eilenberger – nell’ottima traduzione del filosofo Flavio Cuniberto – si dipana tra un punto di partenza comune e un punto d’arrivo che sembra coinvolgere solo Cassirer e Heidegger – rappresentanti di due modi lontanissimi di concepire la filosofia e la vita, la cultura e i suoi compiti – ma a cui Eilenberger immagina che potesse partecipare anche Benjamin. Tra buona divulgazione filosofica, biografia, storia, e fantafilosofia (situazioni e dialoghi tra i protagonisti mai accaduti, ma solo immaginati), Eilenberger descrive l’esigenza comune che muove questi diversi caratteri, segnati da destini altrettanto diversi: «La sfida specifica che i giovani filosofi si trovano a fronteggiare nell’anno 1919 si può riassumere anche così: si tratta di fondare, per sé e per la propria generazione, un progetto di vita che si muova al di fuori della “gabbia” di “destino e carattere”». Sul piano biografico, ciò significa tentare di evadere da schemi famigliari, religiosi, nazionali allora dominanti e, in secondo luogo, «trovare un modello di esistenza che permetta di metabolizzare l’intensità dell’esperienza bellica, trasferendola nell’ambito del pensiero e dell’esistenza quotidiana».
Attingendo alle maggiori biografie dei quattro «stregoni» – oltre che alla loro corrispondenza, alle loro opere e a una ricca letteratura – Eilenberger è capace di restituire al lettore, nei tratti più generali, i loro percorsi di pensiero, ma entrando talvolta in brevi e chiare esegesi di passi famosi e meno famosi. Sul piano storico-biografico, il libro è pieno di avventure di diversa importanza, dagli amori che si fanno e si disfano alle risonanze dei grandi eventi europei e mondiali, dai rapporti tra la famiglia Cassirer e i vicini antisemiti alle trame accademiche: veniamo a sapere, per esempio, che nel 1919 (l’anno in cui fu assassinata Rosa Luxemburg), Cassirer – che aveva appena cominciato a lavorare a quella che sarà la sua opera più importante, la Filosofia delle forme simboliche – riceve una lettera dal professore William Stern, dell’Università di Amburgo, che gli offre finalmente una cattedra.
William Stern era un famoso psicologo, ma era anche il padre di Günther, noto con lo pseudonimo di Günther Anders, che sarà allievo eretico di Heidegger, primo marito dell’amante del suo maestro (Hannah Arendt), ostinato e stravagante profeta del disastro tecnologico-mediatico-militare della nostra epoca, critico della «pseudoconcretezza» del pensiero heideggeriano, artefice della fuga in America della sua ex-moglie e del suo nuovo marito e così via. Peccato che di lui non vi sia alcuna traccia nel libro.
Ma se, come si diceva, il punto di partenza viene identificato nei diversi tentativi dei quattro «stregoni» di scardinare la gabbia di «carattere e destino» che li opprime, il punto focale dell’intero libro è «la disputa del secolo» tra Heidegger e Cassirer, avvenuta a Davos nel 1929. In questa «tempesta di parole» si affronta apparentemente una diversa lettura del pensiero kantiano, al cui centro – però – sembra esserci la quarta domanda posta da Kant, dopo quelle celebri su quel che posso conoscere, su quel che devo fare e sperare: che cosa è l’uomo? Dalla risposta a questa domanda – che ricomprende le prime tre – discendono conseguenze decisive riguardo al compito della filosofia, alla natura della libertà umana, a quella della stessa civiltà nel suo complesso.
Cassirer e Heidegger
Si confrontano, insomma, due visioni diverse di stare nel mondo, riassunte così dall’autore: «La tesi di Cassirer: liberatevi dall’angoscia in quanto esseri creativi, liberatevi dalle vostre ristrettezze e dai vostri limiti originari attraverso la pratica dei linguaggi come scambio di segni condivisi. La tesi di Heidegger: liberatevi dalla cultura come pura inerzia e sprofondatevi, come quegli esseri gettati e infondati che siete, ciascuno per sé nell’origine liberatoria della vostra esistenza: il nulla e l’angoscia!». Di lì a poco Cassirer sarebbe emigrato con la sua famiglia negli Stati Uniti, e Heidegger avrebbe scritto opere straordinarie, macchiandosi al tempo stesso di infamie indelebili per le sue collusioni con i nazisti e il suo delirante «antisemitismo metafisico».

il manifesto 15.7.18
La resa dell’intelletto di fronte alla natura
Filosofi del '900. Concluso nel 1932 e tradotto ora da Adelphi, il saggio «L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna» è una messa in questione del principio causale come agente regolativo del «vero» sapere
Nicolas de Staël, Nature morte au poêlon blanc, 1955
di Giovanni I. Giannoli


Nei primi anni del suo soggiorno parigino, dopo il 1927, il venticinquenne Alexandre Kojève aveva scelto di dedicarsi allo studio della fisica e della matematica, con una apparente deriva rispetto agli interessi più giovanili, rivolti alla mistica orientale e alla teosofia russa. Negli stessi anni, riflettendo sulla filosofia di Hegel e sul contributo di Marx (mentre maturava il contenuto delle sue fondamentali lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito), Kojève aveva raggiunto la convinzione che soltanto il «Mondo storico» (frutto del lavoro umano) sia suscettibile di una piena comprensione: «affermare, come fa Hegel, che ogni comprensione è dialettica e che il Mondo naturale è comprensibile, significa affermare che questo Mondo è l’opera di un Demiurgo, di un Dio-creatore concepito a immagine dell’Uomo lavoratore». Al contrario, sulla scorta di Marx: «Solo il mondo trasformato dal Lavoro umano si rivela nel e mediante il Concetto, esistente empiricamente nel Mondo senza essere il Mondo. Il Concetto è dunque il Lavoro, e il Lavoro è il Concetto».
Giocando con Kant
Ora, al di là di questa distinzione tra mondo-trasformato e mondo-dato, restava da chiarire perché mai il secondo debba sfuggire di necessità alla comprensione umana. E la ragione – secondo Kojève – non risiede soltanto nel fatto che il mondo-dato, quello della natura, non è un prodotto dell’attività umana. Ci sono ragioni di merito, più specifiche, che costringono l’intelletto alla resa – secondo Kojève – quando questo pretende di confrontarsi con il mondo fisico. Queste ragioni sono esposte appunto in un volume che precede di circa un anno le lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito, e che riguarda direttamente la fisica classica e quella contemporanea. Nel libro (concluso nel 1932 e ora pubblicato in italiano con il titolo L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (a cura di Mauro Sellitto, Adelphi, pp. 328, euro 32.00), Kojève mette in questione quello scire per causas che dalla fisica aristotelica è pervenuto alla scienza e alla filosofia moderna, come principio regolativo della vero sapere.
Come il titolo del volume rivela, la fragilità del «principio causale» non verrebbe alla luce con le rivoluzioni scientifiche del XX secolo; già nella fisica classica il determinismo – ossia la tesi secondo la quale «nel mondo fisico nulla è fortuito, tutto è prevedibile; ogni fenomeno ha una causa che necessariamente lo precede, cosicché, conoscendo la causa, se ne conosce di conseguenza l’effetto» – sarebbe soltanto un’idea limite, un principio regolativo, «indispensabile solo per speculazioni generali, sperimentalmente incontrollabile e dunque estraneo al campo proprio della fisica». E, sebbene questa tesi sia ampiamente condivisibile (perché: 1) tutte le misure sono affette da errori; 2) la maggior parte dei fenomeni fisici consente soltanto previsioni approssimate; 3) la potenza dei calcoli non è illimitata), appare per molti versi bizzarra la strategia che Kojève utilizza, per raggiungere il suo obiettivo polemico: il mondo per il quale il principio causale viene messo alla prova è infatti la totalità delle cose esistenti, e comprende dunque le stesse menti che lo osservano, per valutarne le proprietà. Il mondo classico che Kojève analizza coincide allora con quelle totalità (o idee trascendentali della ragion pura) che Kant aveva indicato come fonti di paralogismi (il Mondo, ovvero la totalità dei fenomeni esterni; l’Anima, ovvero la totalità dei fenomeni esterni; Dio, ovvero la totalità dei fenomeni, sia interni che esterni).
Insomma: è come se Kojève si divertisse ad utilizzare argomenti giudicati fallaci da Kant, per mostrare che essi vanno a investire la stessa relazione causale, una categoria necessaria dell’attività trascendentale dell’intelletto, che per Kant era in grado di conferire all’esperienza un valore universale. Del resto, questo «giocare» con Kant – giudicato da Kojève come il filosofo più importante, nella storia della filosofia – non deve stupire: di lì a qualche anno Kojève avrebbe sostenuto che quello kantiano è in definitiva un sistema proto-hegeliano, che mascherava a stento un’aspirazione teologica, camuffando Iddio nella figura della cosa-in-sé.
Ma è nell’analisi della fisica del Novecento che la critica di Kojève al determinismo trova una sponda scientifica. Qui, leggendo i suoi argomenti, si avverte subito l’ambiente culturale della sua formazione, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso: il periodo immediatamente successivo al convegno di Como, del 1927, durante il quale i più grandi fisici del tempo (Plank, Bohr, Rutheford, Marconi, Heisenberg, Dirac, Pauli, Majorana, Fermi e tanti altri) si erano radunati per discutere il significato della nuova fisica. Tra i grandi, Albert Einstein era assente, in esplicita polemica con il fascismo italiano; ma la sua presenza incombeva, così come quella dell’altro grande assente Erwin Schrödinger, entrambi inclini a non rinunciare a qualche forma di determinismo.
Kojève sposa invece, con slancio, le tesi di Bohr; e soprattutto quelle di Heisenberg, poi classificate sotto l’etichetta «interpretazione di Copenaghen». In particolare, il punto cruciale dell’indeterminismo quantistico viene individuato da Kojève nel cosiddetto «effetto osservatore», cioè nell’interazione tra sistema di misura e sistema osservato; un’interazione che – secondo l’interpretazione canonica – sarebbe l’autentica origine dell’impossibilità di conoscere simultaneamente le grandezze dinamiche necessarie, perché si possa parlare sensatamente di relazioni causali. In verità, l’indeterminazione delle grandezze in questione (posizione ed impulso) non dipende dal fatto che le si osservi: è già implicito nel modo in cui esse sono definite, nella fisica quantistica. E l’argomento che Kojève utilizza, per sostenere la sua tesi (quello dell’interazione tra sistema di misura e sistema osservato) è proprio quello tuttora aperto (e per molti aspetti misterioso) nella fisica che abbiamo ereditato dal Novecento: è il problema della misurazione, legato al fatto che il passaggio dall’indeterminato al determinato – quando si misura una certa grandezza osservabile, in un sistema quantistico – deve essere introdotto come un postulato della teoria, imponendo uno scarto stranissimo rispetto a ciò che la stessa teoria afferma da un’altra parte, circa l’evoluzione spontanea (e assolutamente determinata) di un sistema quantistico che evolva nel tempo.
Le osservazioni di Kandiskij
A parte questi limiti – che datano assai le riflessioni di Kojève, all’attualità del suo tempo – il libro resta una testimonianza vivissima di cosa possa l’intelligenza di un filosofo e di un umanista, quando s’interroghi, con cognizione di causa, sui dettagli di una teoria scientifica: con una freschezza, una precisione, un’attenzione ai dettagli che è molto difficile trovare nelle riflessioni dei protagonisti della scienza. Ed anche con un’ironia sottilissima: mentre Kojève coltivava, per sua stessa ammissione, un’ammirazione per Stalin (e qualcuno volle attribuirgli addirittura una vicinanza al KGB, il servizio segreto sovietico), suo zio Vasilij Kandinskij – leggendo il manoscritto – volle riconoscervi «la libertà, come capacità di ironizzare sulla Legge Causale (Kausalgezetz), così esibita dai “maestri del Cremlino”, così come dai nazisti che hanno voluto chiudere il Bauhaus».

Il Fatto 15.7.18
La lezione perduta delle leggi razziali
di Furio Colombo


“A 80 anni di distanza dalla infamia delle leggi razziali, la dignità umana è ancora in pericolo. Si assiste a un crescente manifestarsi di atti di intolleranza razziale, odio e pericolosa radicalizzazione. Non pensavamo di veder nuovamente leggi e decreti democraticamente approvati, ma che violano fondamentali principi. Questi atti di intolleranza sono purtroppo alimentati e legittimati anche da esponenti delle istituzioni”. Sono parole di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane, pubblicate dal giornale Pagine Ebraiche (13 luglio).
Nel governo del cambiamento le nuove leggi razziali sono nell’aria, ispirano frasi come “difesa della razza bianca” (detta in campagna elettorale), stimolano l’antica ostilità verso i rom, inducono a vedere ogni singolo nero come “l’invasione” e certe mamme a ritirare i figli dalle scuole multietniche. Ma la difficoltà è che l’Italia ha già fatto la brutta esperienza di approvare, di imporre e di osservare leggi razziali che hanno marchiato la nostra storia. Sono le leggi razziali contro gli ebrei, una stagione tragica e non dimenticabile, nella quale una rigorosa propaganda e una paurosa ubbidienza hanno portato a riconoscere all’improvviso differenze che non esistevano e non c’erano mai state, e a operare o accettare respingimenti ed espulsioni (e poi arresti e deportazioni) che un minuto prima sarebbero sembrate impossibili. In Italia il razzismo che torna pone adesso bianchi contro neri, cittadini contro stranieri, paura, attentamente coltivata, che crede nei confini chiusi. Come insegnano le tragiche vicende che l’Italia ha già vissuto, il razzismo è come il gas misterioso usato in questi giorni in Inghilterra da certi agenti segreti per eliminare avversari altrettanto misteriosi. Basta un soffio d’aria contaminata per morire. Più grave se quel gas è manovrato dalle istituzioni. Il razzismo italiano costringe gli italiani a respirare a pieni polmoni storie non vere sulle frontiere, sugli stranieri, sul salvataggio in mare, prima descritto come un “business” e poi, in mancanza di prove, vietato anche se costa la vita ai migranti, e non importa se sono bambini. Provo a ricordare i tre punti su cui si basa la “difesa della razza” nell’Italia dei nostri giorni. Comincio con la parola d’ordine “prima gli italiani”, che è un grimaldello potente per far saltare un minimo di legame tra residente e straniero. Sappiamo tutti che non è una trovata italiana. Sappiamo anche che è barbara perché esime da ogni senso di fratellanza e di solidarietà. È un proclama di egoismo assoluto che considera colpa (o reato, diranno le leggi razziali in arrivo) dare una mano, anche in situazione di estrema emergenza, a chi non sia italiano. È anche un diffusore di falsa euforia. Induce a credere che ci siano tante cose che ci vengono negate perché se le godono gli stranieri. Ma se calpestiamo gli stranieri, e neghiamo i loro diritti, tutto finalmente tornerà a noi. Naturalmente non c’era nulla e non torna nulla. Ma avremo collaborato a spingere indietro e umiliare e mettere sotto il nemico. Un secondo modo per avviarsi verso la completa estirpazione di sentimenti umani è di lanciare il famoso grido di disprezzo verso i non razzisti: “Allora prendete i profughi in casa vostra”. La frase non nasce da un rigurgito di rabbia in strada, ma da un partito diventato governo e potente istituzione. Ridicolizza il difensore dei migranti e finge di credere che difendere chi muore è il passatempo dei ricchi e il business di grandi speculatori. È una trovata che punta a scansare l’accusa di irresponsabilità e a far apparire fatui e boriosi coloro che scendono in campo nel tentativo di difendere. Il loro numero diminuisce costantemente.
Ma il più potente gesto di discriminazione resta la pretesa distinzione fra chi fugge da una guerra e chi viene in cerca della bella vita. Le poche volte che qualcuno parla con finta serietà di questa inesistente e impossibile distinzione (“chi fugge da una guerra verrà sempre accolto”) sembra non sapere nulla dell’Africa e di tutte le sue guerre, e finge di ignorare del tutto l’afflusso di profughi da Medio Oriente e Oriente, compresi i luoghi in cui, pur non essendoci alcuna guerra, esplode una autobomba al giorno. Che la povertà e il terrore di restare a vivere in certi luoghi diventino un unico sentimento (disperazione) viene ignorato fornendo statistiche false. Ma tutto è falso sui migranti (tranne il numero dei morti in mare). Il falso sarà ratificato dalle nuove leggi razziali. C’è, fra noi, chi ha imparato tanto tempo fa che senza menzogna, le leggi razziali non possono esistere.

Repubblica 15.7.18
Brescia, ronde di Forza Nuova nel quartiere multietnico
Militanti di destra presidiano la periferia: “Qui gli italiani hanno paura”. Ma è polemica
di Paolo Berizzi


Brescia A cinquanta passi dall’Ambasciata, la nuova sede di Forza Nuova nel cuore di via Milano, un indiano Sikh tampona con un fazzoletto la fronte imperlata di sudore. Gli chiediamo se sa cos’è la “ casa dei patrioti”, questo avamposto neofascista appena inaugurato (con tanto di contro- corteo di collettivi e sindacati) e dedicato al giovane camerata Simone Riva. « Io lavoro e basta», dice l’immigrato.
Da qui, vestiti con maglie nere sulle quali spicca la scritta “ Trincea urbana”, partono in gruppo la sera militanti forzanovisti e ultrà del Brescia per pattugliare i “quartieri della vergogna”. La periferia, anzitutto. La stessa via Milano un tempo roccaforte operaia, Fiumicello e poi nel cuore della città il vecchio Carmine, e più in là la stazione. Siamo nella seconda città della Lombardia, ma lo schema si sta riproducendo in tutta Italia. “ No go area”: le chiamano così i “ neri” dell’ultradestra. Sono le zone dove — propagandano — « lo Stato non entra e gli italiani hanno paura». Per riprendersele, nel preoccupante tentativo di sostituirsi alle forze dell’ordine — ora considerate addirittura un «fastidio» — Forza Nuova ha lanciato una campagna nazionale: da Recanati a Castelvolturno, da Jesolo a Sanremo. Manipoli di “ vigilantes” riconoscibili da t-shirt e felpe impongono le loro passeggiate per la sicurezza. Iniziative sempre più diffuse e partecipate, da Nord a Sud. Parchi, strade, treni, autobus, metropolitane, spiagge, parcheggi, anche i cimiteri ( è accaduto pochi giorni fa nel biellese). « Lo Stato non ci va? Ci andiamo noi » , dice Luca Castellini coordinatore di FN per il nord Italia. Ronde. Ronde anti-immigrati, ronde contro gli ambulanti, ronde patriottiche. Ronde “ miste” e “ interforze”. Come quelle notturne di EuropeAwake sulle spiagge di Rimini dove gli estremisti polacchi dell’ONR (Obóz Narodowo — Radykalny) hanno dato manforte ai “ fratelli” forzanovisti. Non potrebbe esserci miglior terreno fertile — per i volontari fascisti delle varie “operazioni sicurezza” — del clima di paura, chiusura e odio che si sta diffondendo nel Paese. Né sembrano arretrare di fronte alle prese di posizione di questori e prefetti — alcuni — che ritengono inopportuni e illegittimi questi giri organizzati. C’erano una volta le ronde leghiste tra Lombardia e Veneto: era il 2008. Velleitarie, animate da cittadini con ambizioni da sceriffo, si rivelarono infine un flop e questo ancor prima che l’allora ministro dell’Interno Maroni riuscisse a varare il decreto legge per renderle operative. Dieci anni dopo, con la Lega al governo e un ministro dell’Interno molto più a destra del suo collega di partito, le ronde ritrovano vigore: da esperimento autarchico ambiscono a diventare fenomeno quasi strutturale del neofascismo. Forza Nuova, Casa-Pound, Lealtà Azione le propongono ogni giorno, decine, dalle metropoli ai piccoli Comuni. E molti cittadini gradiscono. «Già tanti bresciani sono venuti a ringraziarci » , scrive in un post Luca Castellini.
La strategia è consolidata: soffiare sul conflitto tra ultimi ( gli immigrati) e penultimi (gli italiani poveri). Dopo l’offensiva della scorsa estate contro i venditori ambulanti sulle spiagge, CasaPound adesso ha preso di mira i parcheggiatori abusivi: ultimi blitz a Cagliari e a Ostia. Forza Nuova sale sui vagoni dei treni (linea Cesena-Forlì), sugli autobus e sulle metropolitane, e si propone di ripulire i centri storici. Eccoli, a sorpresa, alla Pigna, il borgo antico di Sanremo. I nemici da allontanare? Immigrati, prostitute, senza tetto e i soliti ambulanti. Rimbalzano sui social le parole d’ordine: “ Prima gli italiani” ( slogan della Lega); “non tutti gli italiani si sono arresi”, “patria e tradizione”. Silvia Brena, segretaria della Camera del lavoro di Brescia, è preoccupata. «Fermiamo i fomentatori di odio, le ronde razziste, l’intolleranza scellerata che politici e nuovi fascisti cercano di insinuare tra la povera gente. In questi giorni a Brescia sono stati annunciati 314 licenziamenti di dipendenti della multinazionale Medtronic Invatec. La maggioranza sono donne che provengono da decine di Paesi del mondo. In queste settimane di sciopero e presidio si è manifestata tanta solidarietà vera tra la gente comune, quella in difficoltà che vive del proprio lavoro. È la migliore risposta alle ronde nere».

il manifesto 15.7.18
I dannati della Libia
Il dolore è scritto sulla pelle, nei corpi, ma il vissuto di chi è stato torturato e violentato nei «mezra», depositi di umanità, in Libia viene fuori a poco a poco, prima negli incubi o con strani disturbi fisici. Cinque anni di storie raccolti all’ospedale di Senigallia
di Angelo Ferracuti


Quando dall’entrata principale con l’ascensore saliamo al sesto piano, i reparti amministrativi dell’ospedale di Senigallia dove incontro Stefania Pagani sono deserti. Lei è una dottoressa bionda, piccola di statura, e un viso espressivo con grandi occhi castani, l’accento ibrido mescola il tarantino d’origine che circola in quello marchigiano della terra dove si è trasferita da adolescente.
NEGLI ULTIMI CINQUE ANNI come medico legale ha visitato e ascoltato le storie tragiche di più di trecento richiedenti asilo, arrivati dagli Sprar e dai centri di accoglienza (Cas) della Prefettura. Ha visitato soprattutto giovani con meno di trent’anni, donne e uomini, venuti da Ghana, Senegal, tanti dalla Nigeria, una nazione divisa da tensioni etniche tra cristiani e musulmani, ma anche dal Gambia, dalla Costa D’Avorio, dilaniata da una guerra civile, dal Mali, dove imperversano le insurrezioni jihadiste. Donne e uomini che avevano affrontato il deserto, e li accumunava aver subito torture, gente scappata da guerre, perseguitata per motivi religiosi o di orientamento sessuale.
PIÙ DI TRECENTO, racconta. «La medicina forense umanitaria viene incontro alle persone che attraverso le loro storie raccontano di aver subito violenze, nel corpo e nella psiche», dice, seria e decisa. E allora lei, quando incontra una persona, quando questa entra nell’ambulatorio, comincia a leggerla, decifra le ferite sugli arti, le mutilazioni. «I segni che hanno sulla pelle, sui corpi»- dice ancora – «raccontano già il dolore e i drammi, il corpo diventa testimone».
NELLE PRIGIONI LIBICHE i torturatori più efficaci sono quelli in grado di esercitare una violenza che più si avvicina al confine con la morte, i volts da non superare durante le scariche elettriche inferte sui genitali, per non provocare l’arresto cardiaco, l’acqua bollente versata da grandi pentole sulle braccia o sul ventre. Quelli più esperti nella pratica della falaka o falanga sanno come colpire le piante dei piedi con spranghe di ferro di uomini legati tenuti a testa in giù che urlano terrorizzati e non riusciranno più a camminare per mesi. Lo spavento che provocano, deve restare a vita nella memoria e nei cuori palpitanti di quelle persone. Questa è la nota situazione in Libia dopo l’accordo tra il governo Gentiloni e quello di Fayez Al Sarraj, definito disumano dalle Nazioni Unite, che ha fatto dire all’Alto commissario Zeid Raad Al Hussein: «La sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».
QUEI RICORDI e quelle paure spesso si spostano nella vita onirica e diventano incubi. Stefania dice che non è facile farli parlare, «ci vuole tempo», riferisce mentre prendo appunti sul mio taccuino e siamo da una parte e dall’altra di una lunga scrivania. «Inizialmente raccontano di avere disturbi del sonno, cefalee persistenti, somatizzazioni. Ma gli esami sono sempre negativi, perché sono i sintomi di qualcosa di molto più profondo». Raccontano solo la punta dell’iceberg.
UNA RAGAZZA che aveva subìto violenze sessuali di gruppo lungo la traversata nel deserto – racconta – «nella memoria del corpo aveva sviluppato una serie di sintomi, aveva dolore all’orecchio, non sentiva bene, avvertiva un ronzio, e poi lamentava bruciore agli occhi». Gli esami anche nel suo caso furono negativi. Mentre la violentavano, le avevano gettato sabbia negli occhi e fatto tagli alle gambe. «Era piccola, graziosa, impaurita da morire», dice Stefania, sorridendo con dolcezza.
«IL RACCONTO di un sintomo di un ghanese non è uguale a quello di un italiano o di un francese, sono sempre affiancata da mediatori culturali capaci di interpretare i segni e i sintomi, ma prima deve svilupparsi tra me e loro un’empatia, e poi una vera e propria alleanza terapeutica». I mediatori a volte piangono, si commuovono, «perché quando ascolti una storia di violenza della tua terra, è come se facessero una violenza anche a te». Quella sessuale nelle carceri libiche è una forma etologica di dominio. Le donne sono spesso stuprate, anche le bambine sono costrette a fare sesso con i miliziani, e quando ne arrivano di nuove, i carcerieri scelgono quelle tra di loro fisicamente più debilitate o incinte e le uccidono, poi chiedono alle sopravvissute di pulire in terra le macchie di sangue versato e di sotterrare i corpi. Di ognuno si deve ricostruire la storia, ma a volte alcuni hanno crisi di pianto o alterazioni spazio temporali, ci sono ragazzi che hanno subìto abusi da persone dello stesso sesso, costretti a rapporti anali, violati in gruppo da detenuti minacciati dai carcerieri che urlavano “violentatelo o vi uccido!”».
Quando queste persone arrivano, intimidite nell’ambulatorio, Stefania Pagani si mette pazientemente in ascolto, poi li fa spogliare e accomodare sul lettino. «Certificare che certi segni sono compatibili con le storie raccontate, per loro ha un grande valore, riesce a ridare una dignità alla persona, la tortura ha invece l’obiettivo di distruggere», dice abbassando il tono di voce e diventando più intima.
Alessandro Leogrande ne La frontiera (Feltrinelli,) il libro che meglio ha raccontato questi nuovi dannati della terra, riferisce alla perfezione cosa significa tutto questo: «Alla base di ogni viaggio c’è un fondo oscuro, una zona d’ombra che raramente viene rivelata, neanche a se stessi. Un groviglio di pulsioni e ferite segrete che spesso rimangono tali. Ma capita altre volte che ci siano dei viaggiatori che ne hanno passate così tante da esserne saturi. Sono talmente appesantiti dalla violenza e dai traumi che hanno dovuto subire, nauseati dall’odore della morte che hanno avvicinato, da non voler far altro che parlarne».
UNO DEGLI ULTIMI CASI di cui Stefania si è occupata, riguardava un ragazzo africano vissuto per due anni nelle prigioni libiche. «Si riteneva fortunato perché era arrivato vivo qui per raccontare la sua storia, da testimone, anche per i tanti che non ce l’avevano fatta». Mi riferisce quella di un ragazzo africano giovanissimo che a otto anni è andato a lavorare in un Paese lontano.
Minorenne, è assoldato e costretto a combattere da un gruppo di ribelli, torturato e obbligato a uccidere sotto l’effetto di droghe, poi a scavare fosse dove mettere i corpi. Durante la visita, ricordando quelle storie, diceva a Stefania che non doveva avere paura di lui, li aveva uccisi ma non era un assassino. «Il suo cruccio era che le persone potessero giudicarlo per le cose che raccontava» dice la dottoressa. Era fuggito, aveva attraversato il Mali, il Burkina Faso, poi era arrivato in Libia. Lì era stato catturato e portato nei «magazzini», i mezra, dove i trafficanti di esseri umani segregano le persone. Lì sono torturati, privati delle unghie, le gambe legate con una corda, il corpo viene sollevato, e colpito in modo continuativo fino a tramortirlo.
Un altro ragazzo, raccontava che per umiliarlo lo facevano camminare accosciato in un terreno pietroso. «Aveva escoriazioni sulle gambe, sulle mani», ricorda di quella visita. Il più delle volte si fa raccontare la parte di storia finalizzata alla valutazione del trauma, «non dall’inizio, però, per non ritraumatizzare: il fatto di dover raccontare troppe volte, nel ricordo può riacutizzare il dolore».
È UN LAVORO che si fa in équipe, altri medici intervengono singolarmente, c’è sempre uno psichiatra, così come può esserci un dermatologo, un vulnologo capace di valutare ustioni e lesioni della cute. «La loro pelle è diversa, tende a fare cheloidi in maniera superiore alla pelle chiara».
Mi fa vedere alcune foto che ha sul display del telefonino, sono parti di corpi che appartengono a persone che hanno subìto violenze, immagini atroci di mani o di piedi ai quali sono state amputate dita, segni di arma da taglio sul petto, stampi di frustate sulla schiena. Alcuni altri hanno scarificazioni, segni o incisioni tribali, simboli di appartenenza a gruppi etnici-religiosi: ormai è capace di riconoscere anche quelli. Essendo un medico imparziale, questo lo ripete più volte, deve solo capire se il segno è verosimile, «mi limito a dare una compatibilità a una lesione, riconducibile a una violenza particolare, devi far capire loro che non sei lì per giudicarli, il tuo compito è valutare se la manifestazione fisica e i segni sono compatibili con ciò che raccontano».
Molti non sanno se riusciranno mai a dimenticare lo strazio di quello che hanno vissuto, «sono persone che soffrono incubi notturni, alcuni hanno subìto più lutti, prima violenze nel loro Paese, poi hanno perso amici e parenti lungo la traversata».
UNO DI LORO – penso mentre stiamo attraversando il lungo corridoio, avvicinandoci lentamente all’uscita – si chiamava Emmanuel Chidi Nabdi. Cristiano, con la moglie Chinyere era scappato dalla Nigeria dalla violenza terrorista dei fondamentalisti islamici di Boko Haram. Usciti salvi all’assalto a una chiesa, nell’esplosione avevano già perso una figlia e i genitori. Durante la traversata dalla Libia verso Palermo sua moglie incinta è stata picchiata e ha abortito. Lui è stato ucciso il 5 luglio di due anni fa a Fermo, nella mia città, da un razzista che prima di colpirlo con un pugno ha chiamato la sua sposa «scimmia africana».

Il Sole 15.7.18
L’inchiesta. La fuga da un continente
Africa: in 10 milioni «senza terra», il 2% prende il mare
In Europa solo il 2% degli africani in fuga
di Riccardo Barlaam e Giuseppe Chiellino


Il fronte Sud. Nel 2017 gli sfollati sono stati 10 milioni, appena 172mila hanno raggiunto le nostre coste dal Mediterraneo secondo l’Unhcr I nodi. Rispetto ai picchi del 2015-2016 gli arrivi sono diminuiti di cinque volte, restano gravi problemi di gestione a cominciare dall’integrazione
Il fronte Sud. Nel 2017 gli sfollati sono stati 10 milioni, appena 172mila hanno raggiunto le nostre coste dal Mediterraneo secondo l’Unhcr I nodi. Rispetto ai picchi del 2015-2016 gli arrivi sono diminuiti di cinque volte, restano gravi problemi di gestione a cominciare dall’integrazione
Si parte per disperazione. Come facevano i nostri avi ai primi del Novecento con le valigie di cartone. Per fame. Siccità. Per assenza di lavoro. Per guerre e persecuzioni politiche. Ma ridurre il problema delle migrazioni dall’Africa al cosiddetto «fronte Sud» è solo parte della verità, che è molto più complessa e tremendamente più estesa. È come voler limitare lo sguardo davanti a un affresco solo su un particolare.
L’Africa, ma sarebbe più corretto parlare di Afriche, è un continente enorme con oltre un miliardo di persone, 54 Stati diversi per condizioni politiche, economiche, climatiche e sociali. E poi ci sono i numeri. Che non parlano di una «invasione degli immigrati» verso l’Italia ma al contrario di un decremento degli sbarchi: nei primi sei mesi dell’anno gli arrivi sulle coste europee sono diminuiti di cinque volte rispetto ai picchi del 2016, dati Unhcr. Considerando che in Italia ci sono lavori che nessuno vuole più fare. Che i nostri vecchi sono accompagnati nell’ultima fase della vita da un esercito silenzioso di badanti. Che in agricoltura e in molte fabbriche sarebbe complicato immaginare di continuare la produzione senza la forza lavoro a basso costo degli immigrati regolari.
L’America è diventata la prima potenza mondiale grazie all’integrazione delle seconde generazioni di migranti. Il più grande imprenditore americano, Steve Jobs, era di origini siriane. L’attuale inquilino alla Casa Bianca è figlio di un immigrato tedesco. Il suo predecessore aveva una genìa kenyana. Addirittura l’uomo che siede sul soglio di Pietro, Papa Francesco, viene dell’Argentina ma è figlio di immigrati italiani. Il punto non è tanto «l’invasione» ma piuttosto una vera integrazione che trasformi i migranti, da scappati di casa in cittadini. Da fuggitivi a parte della società, energie vive per la comunità civile. Senza dimenticare i problemi. Che ci sono, dal contrasto al traffico di esseri umani alla ripartizione degli oneri dell’accoglienza. E andrebbero affrontati dalla politica in bancarotta etica - divisa - e non sui social. Per dirla con Rogers Waters, mente creativa dei Pink Floyd, che in questo periodo apre i suoi concerti con una frase, sempre la stessa, che ricorda il titolo del libro di un giornalista italiano più conosciuto all’estero che da noi, Vittorio Arrigoni, ucciso dagli islamisti nel 2011: «Restiamo umani».
Intanto le parole. È sbagliato parlare di immigrati. Ci sono i migranti economici che arrivano da Sud o da Nord: sono quelli che vanno via dall’Africa per cercare un posto migliore dove stare. Poi ci sono i rifugiati. Quelli che scappano. Dal 2015 secondo la già ricordata Agenzia Onu per i rifugiati, le persecuzioni, le guerre e la siccità hanno portato a un aumento delle migrazioni forzate. Una persona ogni 113 nel mondo è costretta alla fuga. Dal 2015 - complice la guerra in Siria - 65,3 milioni di rifugiati hanno lasciato il loro Paese: un numero superiore agli abitanti di nazioni come Italia, Francia o Gran Bretagna. Ogni minuto in qualche posto del mondo 24 persone sono costrette a lasciare casa. Fino al 2005 erano sei al minuto.
In Italia, nonostante la percezione, in termini assoluti il numero di rifugiati e di migranti è aumentato ma è basso se si considera il trend globale. I profughi nel 2017 in Africa sono raddoppiati, stando ai dati del Global report on internal displacement (Grid) del Norwegian refugee council. L’Africa subsahariana rappresenta solo il 14% della popolazione mondiale ma quasi la metà dei nuovi rifugiati si registra dal Sahara in giù: 5,5 milioni di persone, 46,4% del totale mondiale. Nord Africa e Medio Oriente hanno avuto 4,5 milioni di rifugiati. A questi vanno aggiunti i migranti economici. In totale nel 2017 hanno lasciato la loro casa in Africa circa 10 milioni di persone. Ma dal «fronte Sud» di Italia, Spagna e Grecia sono transitate verso l’Europa 172.301 persone, con 3.139 tra morti e scomparsi stimati (morti che potrebbero essere evitati con un accordo politico con i Paesi nordafricani, e una semplice rete di radar come accadde anni fa con i gommoni provenienti dall’Albania). Su 10 milioni di profughi africani insomma 172mila prendono la via del mare.
Il Paese africano che ha il più alto numero di rifugiati è la Repubblica democratica del Congo (2,2 milioni) dove è in corso una guerra civile dimenticata da decenni nel Kivu con violenze e scontri tra bande armate e truppe governative. E dove è partita una nuova “corsa dell’oro” legata alla conquista dei minerali per alimentare le batterie. Batterie che muovono il mondo, dagli smartphone alle auto elettriche. Le major minerarie si affidano a sub fornitori locali per la gestione del processo estrattivo. In questo passaggio la catena produttiva allenta le maglie e si creano situazioni di sfruttamento e inquinamento ambientale. Centinaia di migliaia di persone lavorano nelle miniere, compresi donne e bambini in condizioni di lavoro durissime. Secondo Amnesty International, almeno un quinto della produzione di cobalto in Congo viene estratta da «minatori improvvisati». Chi può scappa. Il report Grid giudica la risposta internazionale alla crisi in Congo «gravemente insufficiente». Una crisi seconda solo alla Siria a livello mondiale.
Per la prima volta sono state censite anche le persone costrette a spostarsi a causa della siccità in Etiopia, Somalia, Burundi e Madagascar (1,3 milioni). La World Bank stima che nel 2050 i rifugiati per gli effetti del cambiamento climatico saranno oltre 140 milioni. Numeri allarmanti di rifugiati si registrano anche in Sud Sudan (932mila) e Repubblica Centraficana, da anni alle prese con guerre civili a singhiozzo. Un’area di crisi recente è quella del Nord del Camerun con le violenze degli indipendentisti e gli attentati degli islamisti di Boko Haram che sconfinano dalla Nigeria. I ribelli sparano, i terroristi si fanno esplodere e la gente scappa. L’86% dei rifugiati africani vengono accolti nei campi Unhcr, in Paesi a basso reddito, vicini alle aree di crisi. I principali sono in Uganda, Sudan, Etiopia Kenya e Libano.

Eritrea
Dal Corno d’Africa all’Italia in fuga da dittatura e povertà
Tra eredità coloniale e dittatura

Tanti degli eritrei che scappano dall’Africa sperano di arrivare in Italia. Dove, per un’eredità coloniale, esiste una numerosa comunità, tra Roma e Lazio, ma anche in Lombardia, trapiantata da molti anni e ben integrata.
L’Eritrea è un Paese indipendente dal 1993. Governata da allora dal partito-Stato del Fronte popolare per la democrazia e la giustizia e dal suo presidente, Isaias Afewerki. L’Eritrea è agli ultimi posti nella classifica mondiale di Human rights watch per il rispetto dei diritti umani. Ed è in una condizione di isolamento e di estrema povertà. Con un reddito pro capite annuo di 1.400 $ e il 50% della popolazione al di sotto della soglia di povertà. È un regime oppressivo e militarizzato: tutti i giovani di sesso maschile sono obbligati al servizio militare obbligatorio perpetuo, che dura fino a oltre i 50 anni di vita, per chi ci arriva. Per questo chi può scappa. il 3 ottobre 2013 nel mare davanti a Lampedusa morirono 366 persone in un barcone partito dalla Libia. La maggior parte delle vittime rimaste senza nome venivano dall’Eritrea. Scappavano dal regime di Afewerki. Il governo italiano - il premier era Enrico Letta - rappresentato dal ministro degli Interni Angelino Alfano alla cerimonia pubblica per le vittime, il 21 ottobre, ad Agrigento, invitò tra le contestazioni l’ambasciatore dell’Eritrea in Italia. Il rappresentante di quel regime dittatoriale da cui le oltre 300 vittime scappavano. Nei giorni scorsi, dopo 20 anni di guerra, l’Eritrea ha firmato l’accordo di pace con l’Etiopia (proprio ieri Afewerki è arrivato ad Addis Abeba per una visita di tre giorni). Asmara sarà meno isolata nel contesto internazionale. Addis Abeba avrà uno sbocco sul Mar Rosso.

Nigeria
Un gigante economico con enormi diseguaglianze
Tra petrolio e terrorismo


La Nigeria è un paese pieno di contraddizioni. Repubblica federale composta da 36 stati e nazione più popolosa del continente nero con oltre 180 milioni di abitanti. Ha una disparità di condizioni economiche enorme. A partire dal 2014, con la revisione dei metodi di calcolo del Pil di Fmi e World Bank, ha superato il Sudafrica ed è diventata la prima economia africana. Ma è ancora un Paese a reddito medio-basso, con elevati tassi di corruzione, disoccupazione e inflazione alle stelle. A Nord predominano i musulmani e da qualche anno spadroneggiano i terroristi di Boko Haram. A Sud, nell’area del Delta del Niger,le estrazioni petrolifere continuano a ritmo rallentato. Così come gli attacchi dei gruppi terroristici, che sorgono a decine con nuove sigle. Sullo sfondo c’è la situazione di estrema povertà della gente del Delta del Niger e la corruzione. Molti scappano. La Nigeria è il paese da cui proviene la maggior parte dei migranti subsahariani che sbarca sulle coste italiane. Migranti economici che scappano dalle aree rurali o dal Delta. Ma anche le donne nigeriane destinate allo sfruttamento sessuale nelle strade italiane. A centinaia. Si affidano a trafficanti di uomini per giungere in Europa e diventano schiave per ripagare i debiti del viaggio che può costare anche decine di migliaia di euro. Poi ci sono i nigeriani che fuggono dagli attentati degli islamisti di Boko Haram che hanno causato dal 2009 migliaia di morti, anche tra i civili, e 2,5 milioni di sfollati che si sono rifugiati in altri stati della Nigeria, in Chad e in Camerun che ne accoglie oltre centomila. Una parte di questi migranti decide di prendere la strada verso il Mediterraneo con i trafficanti
di uomini.

Sudan
Dal Darfur alla guerra civile crisi umanitaria permanente
Un popolo di sfollati


Dal Sudan sono arrivati in Italia nei primi cinque mesi dell’anno 737 migranti, quinta nazionalità più rappresentata. Ma il Paese è stato nell’ultimo decennio il luogo di partenza o di transito di circa un quarto di tutte le persone sbarcate in Italia. Molti sono in realtà proprio abitanti delle tormentate terre sudanesi, dilaniate da scontri etnici e guerra civile da almeno 15 anni: prima nella regione occidentale del Darfur (dal 2003), dove è attualmente in corso una tregua tra governo e ribelli estesa proprio nei giorni scorsi; poi, con il riaccendersi degli scontri tra Nord e Sud, che non si sono del tutto placati neppure dopo il 2011, quando il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza. L’immigrazione ha qui una chiara matrice politica o etnica: decenni di conflitti a intermittenza tra le forze governative ed i gruppi armati ribelli, sommati agli scontri intertribali e al banditismo armato (con il contorno di saccheggi, stupri ed esecuzioni sommarie), hanno causato lo sfollamento su larga scala delle popolazioni civili e una grave crisi umanitaria.
Anche la situazione economica è critica, con aree come il Kordofan del Sud e Nilo Blu dove alcune stime fissano al 40% la percentuale della popolazione malnutrita.
Omar al-Bashir, presidente del Sudan dal 1989, è stato accusato dalla Corte penale internazionale di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Il che complica e rende estremamente controversi accordi o memorandum di intesa per i rimpatri forzati dei migranti. Un ricorso presentato da 40 cittadini sudanesi, fermati nel 2016 dalla polizia a Ventimiglia, espulsi e rimpatriati a seguito di un accordo di cooperazione tra le polizie italiana e sudanese, è stato dichiarato ammissibile in gennaio dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

il manifesto 15.7.18
Germania, i bruni nel palazzo
Neonazisti. Dopo la sentenza contro i terroristi neonazi della Nsu, parla Massimo Perinelli, della Fondazione Rosa Luxemburg che descrive le complicità istituzionali di cui hanno goduto
Monaco di Baviera, manifestazione dei parenti della vittime e degli antifascisti dopo la lettura della sentenza per gli omicidi razzisti della Nsu
di Federica Matteoni


Berlino Dopo più di cinque anni si è concluso in prima istanza a Monaco di Baviera il processo al gruppo neonazista Nsu (Clandestinità Nazionalsocialista). Ergastolo per la principale imputata, la 43enne Beate Zschäpe. È lei l’unica appartenente ancora in vita del gruppo che tra il 1999 e il 2011 ha seminato il terrore nelle comunità turche della Germania ed è ritenuto responsabile di nove omicidi a sfondo razziale, dell’uccisione di un’agente di polizia, di due attentati dinamitardi e di almeno quindici rapine in banca. Condanne tra i due e i dieci anni per gli altri quattro imputati, considerati fiancheggiatori del gruppo.
Ancora prima dell’inizio del processo nel 2013 era emerso come Zschäpe e i suoi due complici, morti sucidi nel 2011, non potevano essere entrati in clandestinità ed aver ucciso e compiuto attentati senza una rete di riferimento politico e senza alcun sostegno logistico, economico e militare. Nel corso di questi cinque anni sono emerse molte informazioni non solo sul neonazismo organizzato ma anche sul coinvolgimento dei servizi segreti nella galassia neonazista. Tutti aspetti che sono stati tenuti fuori dal processo, al centro del quale è rimasta fino all’ultimo la cellula composta dai tre di Zwickau, nonostante durante il procedimento siano stati ascoltati più di 20 testimoni che hanno ammesso di avere avuto legami con l’Nsu. Troppe sono le domande rimaste senza risposta in questo processo. Per questo, ora, sono in molti a dire «non è finita qui». Lo dicono innanzitutto i familiari delle vittime, ma anche giornalisti, politici e antifascisti che da anni denunciano quanto il pericolo neonazista sia stato sottovalutato nella Germania riunificata e che vogliono sia fatta luce su quello che chiamano il «Complesso Nsu».
Ne abbiamo parlato con Massimo Perinelli, storico ed esperto di politica delle migrazioni presso la Fondazione Rosa Luxemburg di Berlino che ha organizzato un Tribunale sui crimini dell’Nsu.
Perché il processo non finisce con questa sentenza?
Perché non ha fatto luce sulla questione più importante, quella riguardante, oltre alle responsabilità personali dei singoli imputati, le strutture che hanno reso possibile i loro crimini. Nel complesso si può dire che il processo ha avuto la funzione contraria, quella di coprire la rete e di negare il carattere terroristico del complesso Nsu. L’immagine che il processo ha fatto passare è quella di cinque imputati legati tra loro dall’ideologia neonazista ma politicamente isolati, senza connessioni al di fuori della loro cellula. Un paragone con il processo alla Raf nel 1977 per capire la differenza: Per il processo ai «terroristi rossi» fu addirittura costruito un edificio speciale adiacente al carcere di Stammheim, a sottolineare l’eccezionalità dei crimini commessi. Il processo di Monaco invece doveva sembrare un normale processo penale.
Doveva passare il messaggio che in Germania non esiste il terrorismo di destra?
Esatto. Tutto in questo processo doveva confermare tale tesi. Ora le cose si fanno più complicate perché le sentenze stesse affermano invece che questo terrorismo è esistito, gli imputati sono stati condannati per il loro sostegno a un gruppo terroristico. L’ipotesi del trio neonazista isolato è servita inoltre a coprire un altro aspetto molto importante, che definisco di «razzismo strutturale». Il comportamento delle autorità tedesche nei confronti delle vittime ne è un esempio eclatante. Nelle comunità turche si parlò fin dai primi attentati di estrema destra e razzismo, tuttavia le indagini si indirizzarono verso la pista del regolamento di conti familiare e nell’ambito nella criminalità organizzata turca, mentre la stampa etichettava gli omicidi con l’espressione «delitti del Kebab». Tutto questo avveniva, lo ricordiamo, negli anni successivi alla riunificazione, quando la Germania fu investita da un’ondata di violenza xenofoba che ha fatto decine di vittime.
La vicenda dell’Nsu ha fatto emergere un altro aspetto, riguardante il ruolo dei servizi segreti nelle strutture neonaziste. Che ruolo avevano gli «informatori», i V-Männer in queste strutture?
Sicuramente non erano agenti al servizio della democrazia come il nome dell’autorità alla quale rispondevano potrebbe suggerire (Verfassungschutz, alla lettera «difesa della Costituzione»). Si trattava di persone appartenenti ai circuiti bruni che i Servizi reclutavano, pagando, per ottenere informazioni. I V-Männer erano figure di una certa importanza nei circuiti neonazisti, perché erano quelli che avevano contatti, soldi, telefonini, che si occupavano della propaganda, già allora attiva su internet. I gruppi Blood and Honour e Tühringischer Heimatzschutz, da cui poi è scaturito l’Nsu, non sarebbero stati pensabili senza l’intervento attivo dell’intelligence.
Perché parlate di «sistema Nsu»?
Per sottolineare che i membri dell’Nsu sono certamente responsabili per i morti e i feriti che hanno provocato, ma un intero sistema – autorità inquirenti, politica, polizia, media – ha reso possibile che questa violenza xenofoba potesse rimanere impunita per più di un decennio. È questo sistema che ha aggredito le vittime e i loro familiari più volte: non si è riconosciuto il loro ruolo di vittime, non si è ascoltata la loro verità, anzi, si è tentato di nasconderla, fino all’ultimo. Hanno testimoniato in tanti appartenenti a quelle strutture, ma nessuno ha subito conseguenze di alcun tipo.
Il verdetto contro Zschäpe e gli altri quattro imputati è passato quasi inosservato. Pensi che questi anni di processo abbiamo avuto un impatto sull’opinione pubblica?
C’è stata una grande mobilitazione in questi cinque anni, non solo nell’area antifascista. Ci sono state manifestazioni, sono nati collettivi di ricerca, c’è stata una grande produzione di testi, documentari, un grande lavoro culturale. Uno degli aspetti fondamentali di tutto ciò è che ha coinvolto anche i migranti e più recentemente i profughi arrivati negli ultimi anni. Intorno a questo processo si è creata una narrazione che ha messo al centro il ruolo del razzismo nella società tedesca. Si tratta della rinascita di un movimento antirazzista che non si vedeva dagli anni Novanta.
Però oggi ci ritroviamo a manifestare contro le stragi nel Mediterraneo. Non siamo tornati indietro?
È vero. Ed è per questo che l’antirazzismo deve diventare una delle priorità della sinistra a livello globale. Occorre superare il momento dell’indignazione, che pure è essenziale perché qualcosa si muova, per portare il tema dell’immigrazione al centro del discorso politico e far capire che indietro non si torna, la società post-migrante è il futuro. La Keupstraße di Colonia, dove i neonzaisti fecero esplodere un ordigno caricato a chiodi nel 2004 è tuttora un simbolo di quella società, venuta dopo i Gastarbeiter rinchiusi nelle fabbriche. Una società fatta di cittadini di origine straniera – piccoli commercianti, gestori di ristoranti – perfettamente integrati nell’economia della città.
Con attivisti, giornalisti, avvocati e familiari delle vittime ha organizzato un Tribunale sul «sistema Nsu».
L’idea era quella di dare voce a chi la violenza xenofoba l’aveva subita. A Colonia esisteva già un comitato dei sopravvissuti all’attentato del 2004, che fin da subito parlarono della pista neonazista. E nel 2006, in città, fu organizzata la prima grande mobilitazione turca dopo la Riunificazione. Con l’inizio del processo, poi, molte cose si sono messe in moto, dapprima a Colonia per poi connettersi in tutta la Germania con i familiari delle vittime e nelle città dove erano avvenuti gli omicidi. Il lavoro della rete creatasi intorno al processo all’Nsu ha generato una quantità enorme di informazioni, non solo sul neonazismo organizzato ma ha anche fatto luce sulla riluttanza delle autoritá, dei media, della società nel suo complesso a dare al problema il suo vero nome: razzismo. Volevamo rendere tutto questo sapere accessibile, ma avevamo bisogno di un luogo, da contrapporre, anche fisicamente, alla sala dall’Alta Corte di Monaco. E cosí abbiamo deciso di organizzare in un teatro di Colonia un tribunale sui crimini dell’Nsu.
Chi erano gli imputati, chi i giudici?
Nel nostro atto d’accusa compaiono i nomi di novanta persone che riteniamo responsabili di quello che chiamiamo il complesso Nsu: neonazisti, agenti dell’intelligence, politici, giornalisti. Non volevamo fare i giudici come nel Tribunale internazionale Russel ad esempio, dove intellettuali famosi hanno accusato interi Stati per crimini contro i diritti umani. Il punto fondamentale per noi non era pronunciare una sentenza, quanto piuttosto redigere un’accusa insieme ai diretti interessati: che l’Nsu era una rete operante in tutta la Germania, che uccidevano per razzismo, che erano relativamente sicuri dell’impunità. Abbiamo scritto la nostra accusa e l’abbiamo consegnata alla società.

il manifesto 15.7.18
Cecchini e raid aerei: uccisi quattro ragazzi palestinesi
Gaza. La giornata peggiore dal 2014: Tel Aviv bombarda 45 volte, dalla Striscia lanciati 60 missili. Ospedali in allerta. Il Cairo media, il premier Netanyahu minaccia: basta aquiloni incendiari
di Chiara Cruciati


Le donne piangono, si portano un fazzoletto al volto per asciugare le lacrime; gli uomini trasportano il corpo di Othman dalla casa di famiglia alla moschea. Ieri mentre a est di Gaza City si celebravano i funerali di Othman Rami Heles, 15 anni, colpito da un cecchino israeliano venerdì, all’Ospedale Europeo di Khan Younis si spegneva Mohammed Nasser Sharab, 18 anni. Anche lui centrato da una pallottola il giorno prima, durante la Marcia del Ritorno. Iniziata il 30 marzo non è mai finita.
Come non finisce la conta delle vittime: sale a 139, 14mila i feriti, un massacro di manifestanti che non rappresentano pericoli per la vita dei soldati israeliani (a riprova, dal 30 marzo, oltre 100 giorni, non si sono registrati feriti né tra i militari né tra i civili israeliani).
Ma ieri Gaza piangeva altre vittime, altri due adolescenti: Amir al Nimra, 15 anni, e Louai Khail, 16, sono rimasti uccisi in uno dei 45 bombardamenti israeliani sulla Striscia. Sono morti in piazza al-Katiba, a Gaza City. All’orizzonte, l’ennesima escalation militare: la giornata di ieri è stata la peggiore dal 2014.
Alle proteste di venerdì e al lancio di aquiloni incendiari, l’esercito israeliano ha risposto nella notte con una trentina di raid aerei su postazioni di Hamas. La reazione è stata immediata: tra l’alba e il pomeriggio di ieri sono stati lanciati oltre 60 missili verso il territorio israeliano attivando per 130 volte le sirene di allarme tra Ashkelon e Eshkol e ferendo tre israeliani vicino una sinagoga, mentre si intensificavano i raid di Tel Aviv: secondo l’aviazione sono stati colpiti tunnel, magazzini di armi, campi di addestramento e centri logistici di Hamas, oltre al quartier generale di Beit Lahia.
Per tutto il giorno, a est e a sud ma anche lungo la costa, la Striscia è stata bombardata, terrorizzando la popolazione, che in 10 anni ha subito tre pesanti offensive: il ministero della sanità ha decretato la massima allerta e il governo ha avvertito di non uscire se non necessario.
Nel mirino anche il Katiba Building, palazzo governativo ormai deserto a Gaza City, già danneggiato nel 2014 e dove sono stati uccisi i due giovani: la piazza è ritrovo di bambini che giocano, famiglie a passeggio
Il bilancio parla anche di una ventina di feriti, che si aggiungono ai migliaia di questi tre mesi e mezzo, un peso enorme per Gaza sotto assedio e con il blocco che si stringe ancora: da venerdì Tel Aviv ha chiuso il valico di Kerem Shalom, l’unico da cui transitano medicine e cibo.
Anche in questo caso Israele ha citato il lancio di aquiloni incendiari, confermando di fatto l’uso di misure etichettabili come punizioni collettive. Ora, aggiunge, Tel Aviv, saranno fatti entrare beni solo su base individuale, si valuterà caso per caso.
Intanto le operazioni aeree israeliane si fanno più frequenti, come il lancio di missili, di cui è stato difficile in passato attribuirne la paternità vista l’assenza di effettive rivendicazioni: dall’agosto 2014 Hamas non ha più compiuto azioni, evitando di violare il cessate il fuoco, con gli sporadici lanci degli anni passati imputabili a milizie islamiste minori.
Stavolta è il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, a mettere per iscritto la «rivendicazione» collettiva dell’azione, senza però attribuirla direttamente agli islamisti: «A seguito dell’aggressione spietata di Israele che ha colpito Gaza sabato mattina, le fazioni della resistenza palestinese hanno risposto in modo appropriato».
E se nelle settimane passate sono proseguiti i tentativi di mediazione egiziani, con Il Cairo che intende imporre a Gaza la fine delle proteste, secondo il quotidiano israeliano Haaretz in questi giorni era stato l’esercito israeliano a inviare messaggi (via intermediari) alla leadership di Hamas per far cessare il lancio di aquiloni.
Non la sola strategia, anzi: il governo israeliano sta valutando una serie di opzioni, riportava ieri il Times of Israel, tra cui l’omicidio mirato di alcuni leader del movimento islamista e l’uso di forze di terra. L’obiettivo è chiaro: porre fine alla Grande Marcia del Ritorno, iniziativa popolare che non intende cessare e che ha già creato più di un imbarazzo a Israele. Ieri Netanyahu ha promesso di «estendere la reazione»: «Se Hamas non ha compreso il messaggio, lo comprenderà domani», ha detto convocando per oggi il consiglio di difesa.
In mezzo si inseriscono Egitto e Nazioni unite: Il Cairo lavora a una tregua, secondo fonti egiziane al sito Walla, mentre l’inviato Onu per il Medio Oriente Mladinov avrebbe incontrato funzionari egiziani e israeliani. Ma Israele ha già sul tavolo le sue precondizioni, comunicate a Egitto e Usa: nessuna escalation solo se terminerà il lancio di aquiloni.
La tensione si alza mentre Washington è impegnata in visite alle corti arabe per ottenere sostegno all’Accordo del Secolo. Il Cairo è una di loro e ha già detto sì.

il manifesto Alias 15.7.18
Liceo classico, liquidare o riformare? La confusione è grande
Federico Condello, «La Scuola Giusta. In difesa del Liceo Classico», Mondadori
di Carlo Franco


Le discussioni sul problema del liceo classico si son fatte numerose. Molte le terapie proposte, e non tutte indirizzate alla guarigione del «paziente», sballottato tra liquidazioni frettolose e apologie commosse. Su tutto fa chiarezza Federico Condello, filologo dell’Università di Bologna, con La scuola giusta In difesa del liceo classico (Mondadori, pp. 272, € 18,00): un libro serio, denso, documentato, quindi utile, perché non contiene grandi frasi sui classici, ma dati e riflessioni. Questo il punto di partenza: «chi intende liquidare il liceo classico deve sapere (…) che cosa rischiamo di perdere; chi intende riformarlo deve avere alternative credibili; chi ne diffida a priori, come chi a priori lo idolatra, deve chiedersi perché».
Questa nettezza è importante. Sul classico pesano pregiudizi: con scrupolo, ma senza pedanteria, Condello li esamina e ne svela la fallacia. Per esempio, che la scuola del greco e del latino nacque con Gentile: non è così, perché deriva semmai da interventi attuati già dopo l’unità. Sicché identificare il classico con una fase storica è operazione ideologica e mal fondata, tanto più che Gentile voleva ridurre il numero di studenti nei licei classici (ma le cose non andarono come egli voleva). Su simili errori s’appoggiano molti critici del classico (chiamato così per distinguerlo da altri tipi di liceo). Eppure i suoi difensori sono tuttora molto numero, e certo tanta unanimità insospettisce. Il classico pare proprio un oggetto speciale, che sa generare dibattiti e suscitare reazioni opposte: si strilla che va eliminato perché «è sempre uguale», si vorrebbe rifarlo com’era, perché «non è più lo stesso». Largamente inverosimile è la retorica di chi ritiene il liceo del greco e del latino una scuola «immobile», incapace di adattarsi ai tempi. Infatti questo è un altro mito: almeno a partire dalla Carta della scuola di Bottai (1939) il classico e la scuola italiana sono stati investiti da una valanga di ritocchi, riordini, e contrordini, più frenetici negli ultimi anni. Talvolta è finita in nulla: la riforma di Biggini fu travolta nel 1945 dal crollo della R.S.I., quella di Renzi sta per soccombere a un altro crollo. Ma la confusione è grande.
In riferimento al liceo classico, Condello mostra come sconclusionati interventi ne abbiano disassato l’equilibrio interno: e non per colpa del destino «cinico e baro» o della sorte, ma per scelte politiche precise. La «riforma» Gelmini, ora pudicamente detta «riordino», ha emarginato la componente scientifica, dando vita a un «inverosimile liceo classico per classicisti». Un ritocco in apparenza innocuo (e raccontato come «potenziamento») sta rendendo il classico una scuola di nicchia, che risulta sempre meno appetibile in vista dell’università. La soluzione finale verrà infatti dal calo delle iscrizioni, unico criterio di giudizio nell’epoca del «misurabile»: se un «prodotto» non va, è inevitabile ritirarlo dal «mercato» per scarsa richiesta. Il libro analizza seriamente i dati: ne risulta che «il classico ha perso il suo prestigio presso i ceti che più costantemente lo hanno alimentato». Questa è una diagnosi sociale e culturale importante, per un fenomeno che parte da lontano. Ai sedicenni protagonisti in un romanzo di De Carlo (Due di due) il liceo appare nel 1968 come «una vecchissima drogheria» dove si lavora di mala voglia non capendo che «la clientela originaria è tutta estinta».
Riluttanza alla modernità
La serie delle accuse è lunga: da quella, rivoltagli da un indimenticato ministro, per cui il classico non educa gli studenti alla «manualità» (!), a quella per cui li distoglie dalla cultura scientifica (!). Dunque i peggiori difetti della formazione italiana: come ignorando che il classico rappresenta una nicchia, e che oggi i leader li prepara la rete, o il Grande fratello, con palese vantaggio della polis. E infatti molti han cercato di correggere questo patologico simbolo di riluttanza alla modernità. Sotto tiro sono finiti, anche con argomentazioni rispettabili, temi come la «grammatica» o il «nozionismo», rimpiazzati da nuovi orizzonti e contenuti. Una generale liquidazione dello storicismo, con l’obiettivo, si direbbe, di ottenere una frattura culturale definitiva. Nozioni e difficoltà però appaiono inutili, anzi letali, solo al classico: solo in questo caso la difficoltà sarebbe inutile, giacché non risultano richieste di rendere lievi o piacevoli la botanica, la chimica o le derivate (però appassionanti problemi sulle mattonelle spuntano ormai tra le prove di matematica).
Secondo le rilevazioni sui percorsi post-diploma, gli studenti del classico ottengono risultati importanti non solo in area umanistica. Ma questo non prova abbastanza l’efficacia del percorso: anzi, il «pesante» classico deve cambiare, acquisire «leggerezza». Il tormento della scuola, dall’agonia delle medie al cantiere perenne delle superiori, ha causato, complici altri mutamenti, una perdita di senso difficile da sanare. Per il classico sembra prossima una sorte tipicamente italiana, che Leopardi espresse con parole tratte da una (non memorabile) ode di Orazio: «Virtù viva spregiam, lodiamo estinta».
Il dibattito è vivacissimo soprattutto sul tema della traduzione dal greco e dal latino, oggetto di interventi anche di Condello. Qui sta la linea di «difesa» del liceo: ma la tenuta è incerta. Al termine degli studi viene proposta anche una prova di traduzione, alternando greco e latino. Gli esiti sono spesso deludenti. Di qui l’argomento per abolire (pardon, trasformare) un esercizio giudicato inutile, faticoso, difficile, superato. L’Aristotele poco amichevole dell’Esame di Stato 2018 sembra scelto apposta per confermare queste critiche. Per Condello invece la traduzione è un elemento irrinunciabile, e il lamento sull’incapacità di «tradurre» non conta, giacché lo si ode da quando esistono le scuole classiche. La traduzione è in sé «destinata agli abilissimi». Il fatto che pochi riescano a affrontarla compiutamente non è decisivo: forse che quanti studiano una lingua moderna saprebbero tutti tradurre un testo filosofico mai veduto prima, di qualunque autore (Kant, Popper, Sartre)?
È comunque un bene proporre agli studenti una simile complessità. Eliminarla, per Condello, e con essa ridimensionare lo studio della lingua, cancellerebbe un modello di prassi «trasversale», lasciando alla scuola classica solo un «esangue belletrismo». Non buona gli appare l’idea di integrare le prove con percorsi di «civiltà», della quale sarebbe difficile definire i prerequisiti. Senza nozioni estese di filologia, storia, antropologia e altro, gli studenti potrebbero solo scrivere pensieri generici di commento al testo. Ché anzi nella scuola odierna, in cui qualunque cosa conta più dell’attività in classe, il tempo disponibile per insegnare, approfondire, imparare operazioni complesse si sta riducendo drasticamente. Anche iniziative quali l’alternanza scuola-lavoro impediscono un lavoro adeguato, e lasciano spazio solo a frettolosi e inutili «percorsi» o a fumose «competenze». Da dove dovrebbe venire, in tanta progettata banalità, la creatività di uno sguardo divergente, che si finge di richiedere ai «giovani»? Di fatto, l’irruzione di nuove pratiche sta cancellando «un patrimonio di metodi, di tradizioni didattiche, di prassi intellettuali».
Regressione da evitare
Chi parla di «ridimensionare» la traduzione per «alleggerire» gli studi si cela dietro eufemismi; chi valorizza la «inutilità» degli studi aiuta quanti vogliono rendere la scuola classica più facile (con gioia dell’utenza), ma anche «letteraria» e quindi elitaria. Si tratta di una regressione da evitare: è bene che il classico resti un luogo che «lascia libero chi lo sceglie di maturare per strada la sue preferenze», praticando una formazione culturale lenta, con saperi specialistici. Dopo recenti interventi, è in crisi anche il ruolo sociale del classico come esperienza di «democrazia formativa e culturale», dove lo studio dei classici, destinato prima ai pochi, è stato proposto in modo inclusivo, da un’istruzione pubblica e laica, con funzione di «ascensore sociale». Quando il classico aveva molti iscritti, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, non si trattava solo di tradizione familiare, ma di una opportunità di cultura richiesta da nuovi ceti. E oggi? I disegni futuri della scuola italiana sono imperscrutabili. Condello mostra fiducia negli e nelle insegnanti, ma non in politici, pedagogisti, ministeriali. Spetta però a loro decidere se andare verso la piccola scuola dei pochi, o verso una ben fatta scuola dei tanti. È vero che il liceo classico «può costituire ancora un efficace strumento di equità culturale e sociale». Purché questo obiettivo non sia ormai un lusso che non ci si può (o vuole) più permettere.

La Stampa 15.7.18
Così Pareto fondò la scienza politica
di Alberto Mingardi


Il 15 luglio 1848 nasceva Vilfredo Pareto. Già nell’anno di nascita era scritto un destino. Solo poche settimane prima Parigi era stata teatro dell’insurrezione «più grande e singolare della nostra storia e forse di qualsiasi altra» (Tocqueville). Cosa muove l’azione politica? La domanda perseguita Pareto dalla militanza politica giovanile fino alla morte nel 1923, fra la marcia su Roma e il delitto Matteotti: una certa prossimità al fascismo gli costa il biasimo dei posteri. E tuttavia, persino nel ’23, persino su Gerarchia, Pareto mette in guardia dal «pericolo di avventure forestiere», da una «dedizione al partito cattolico» che faccia dimenticare che «vi è più male da temere che bene da sperare da limitazioni della libertà religiosa» e suggerisce di tener cara la libertà di stampa.
Oggi Pareto è ricordato dai più per l’«ottimo» (l’equilibrio che non può essere alterato a vantaggio di uno senza creare danni ad altri); per la legge di distribuzione dei redditi; per aver fondato la scienza politica con la teoria delle élite. Contributi immersi in una vita di passioni e travagli profondi, su cui fa luce l’importante biografia di Fiorenzo Mornati. Il primo volume, uscito nel 2015, riguardava gli anni giovanili, il secondo ha per titolo Illusioni e delusioni della libertà (1891-1898) (Roma: Edizioni di Storia e Letteratura).
Pareto nasce a Parigi, madre francese, e rientra in Italia sei anni dopo. Il padre Raffaele è ingegnere e mazziniano: ne influenza la scelta degli studi (frequenta a Torino il Politecnico) ma non le idee. Prima ancora di avere un «sistema» della libertà, Pareto ne aveva l’istinto, una epidermica insofferenza verso il potere che le esperienze di vita confermeranno. Professore lo diventerà a oltre 40 anni, chiamato a succedere a Leon Walras a Losanna. E dall’insegnamento comincia presto a sognare di ritirarsi, appena l’eredità dello zio Domenico glielo rende possibile, per intraprendere il cantiere del suo Trattato di sociologia.
Prima che professore, Pareto era stato manager. Tocca da sé i guasti dell’interventismo, che minaccia i settori che meglio conosce, umiliando la creatività, distribuendo rendite col pretesto della gloria nazionale. Del resto, noterà anni dopo, la parola «individuo» indica una realtà concreta, mentre dietro i vessilli della «società» marcia un assembramento di nozioni plastiche e vaghe.
Il Pareto giovane pensatore liberale è assertivo, entusiasta. Legge con avidità, piega la sua prosa alle correzioni di Emilia Peruzzi per migliorarla, lavora con Felice Cavallotti, cerca alleati all’estero. L’ambiente liberale italiano comincia a spiacergli, vede che si sono persi «i principi del conte di Cavour»: la borghesia è ben felice che lo Stato ingrassi se è lei a trarne profitto. Guarda alla sociologia, per capire i fenomeni sociali. Cosa muove l’azione politica?, appunto.
Forse nelle formule fascinose e talora oscure del Trattato di sociologia generale c’è molto che possa aiutarci a comprendere la nostra, di attualità politica. E non solo perché Pareto, «ateo di tutte le religioni», era insofferente verso ogni interesse privato travestito da bene pubblico. Convinto che «chi crede ai dogmi del suffragio universale può anche credere all’origine divina degli eroi», pensava che le «favole» fossero più o meno utili, ma favole restassero. Ma anche perché al centro della sua riflessione c’era la consapevolezza dell’interdipendenza dei fenomeni sociali. La realtà è un organismo complesso e fragile. L’impetuosa azione politica non riesce a farci i conti. Così le buone intenzioni preparano disastri.

il manifesto Alias 15.7.18
Storia e teorie degli affetti nel Medioevo
Medioevo. Da Lattanzio ad Agostino, dalla cultura monastica ai trattati filosofici sull’amore: Boquet e Nagy, «Medioevo sensibile», Carocci
di Francesco Stella


La storia delle emozioni, lanciata nel 1941 sulle mai abbastanza celebrate Annales da un pionieristico articolo di Lucien Febvre su La sensibilitè et l’histoire, non ha avuto finora molto seguito almeno fino agli anni 2000, quando è timidamente emersa una «svolta emozionale» che ha portato all’elaborazione dei concetti di «comunità emozionale» (Barbara H. Rosenwein), di «regime emotivo» e di «emotivo» tout court (William M. Reddy). È in questa scia che si inserisce Medioevo sensibile Una storia delle emozioni (secoli III-XV) (Carocci «Frecce», pp. 388, euro 32,00) di Damien Boquet e Piroska Nagy, con traduzione, non facile e quasi sempre eccellente, di Gian Mario Cao. I due autori sono ben consapevoli delle insidie di un’indagine su oggetti così sfuggenti: in primo luogo per la tipologia delle fonti che, essendo scritte, costituiscono solo una filtrata mediazione del reale, e in secondo luogo per la terminologia, che non consente una corrispondenza precisa nel lessico delle emozioni fra lingue moderne e documenti antichi, prevalentemente in latino, più raramente in antico francese.
Nonostante questi limiti, connaturati a qualsiasi ricerca del genere, e il raggio forse troppo vasto della ricerca, che intende coprire quasi un millennio di storia del continente, Boquet e Nagy sono riusciti a dipingere un affresco di lettura attraente, con contenuti relativamente nuovi e attendibili. L’impianto è cronologico e il filo rosso delle fonti punta sui testi ecclesiastici «culturali» (trattati filosofici e lettere) escludendo sia le fonti documentarie, che su questo tema sarebbero state inevitabilmente più aride, sia – come purtroppo fanno quasi tutti – fonti letterarie e poetiche, che certamente avrebbero potuto fornire materiali più vivi e che qui sono richiamate solo in rari casi (le poesie di Alcuino di York). Fondarsi su trattati genera una sorta di equivoco permanente che indebolisce l’analisi, attribuendo statuto di «emozione» a ciò che gli antichi studiano come affetti o addirittura vizi e virtù, ma conferisce una maggiore coerenza all’impianto.
Medioevo sensibile parte dal tardo impero romano, formalmente pre-medievale, come periodo di fondazione di un paradigma di «affettivizzazione» della vita pubblica e privata dovuto alla ristrutturazione cristiana delle basi culturali ed etiche e all’introduzione dello scenario soteriologico, che si affianca a quello puramente antropologico dell’antichità. Emblematiche su questo piano le posizioni di Lattanzio, che rifiuta le teorie storiche sull’apatia valorizzando l’apporto delle emozioni (affectus) alla vita dell’uomo e di Agostino, che lancia in forma occasionale i primi semi di una nuova antropologia delle emozioni, intenzionalmente autonoma dalle basi filosofiche greche.
Ma la vera svolta si verifica nel primo medioevo, quando Evagrio Pontico e poi Cassiano, pionieri della cultura monastica, fondano una teoria degli affetti nel tentativo di catalogare vizi e virtù, da una parte recuperando l’eredità platonica, che guida i monaci a un dominio assoluto sul corpo; dall’altra creando un super-affetto, l’amicizia, che assume un profilo intimo e pervasivo (completamente nuovo rispetto a quello sociale dell’antichità classica) e diventerà dominante sia negli ambienti unisessuali dei monasteri sia, per travaso scolastico, su tutte le espressioni letterarie dell’alto medioevo. Descrivendone le applicazioni «laiche» Boquet e Nagy si soffermano opportunamente sui fondamenti giuridici del concetto di amicizia nell’alto medioevo franco, le cui leggi facevano di questo sentimento un’espressione pubblica e comitale di solidarietà familiare e politica. La convergenza di valori plurimi sull’amicitia ha come conseguenza, fra le altre, l’intensificarsi di termini di tenerezza anche in lettere ufficiali, istituzionali, scolastiche o militari, che arrivano a sfiorare sfumature erotiche oggi valorizzate ampiamente, anche oltre quanto consenta una corretta interpretazione filologica, in raccolte di testi di letteratura a orientamento omosessuale molto diffuse sulla Rete. A questa forzatura strizza l’occhio anche Medioevo sensibile, in poche pagine dedicate alle coppie di eroi maschili (come Orlando e Olivieri nella Chanson de Roland), espressione di quella che gli autori chiamano «omoaffettività aristocratica».
L’amicizia diventa così il perno sia delle relazioni ecclesiastiche sia di un mondo di valori nobiliari che presto saranno santificati dall’etica e dall’etichetta cavalleresche. Fin d’ora, «il vocabolario dell’amicizia o dell’amore spirituale delimita in primo luogo le reti relazionali».
Questo quadro vira gradualmente verso tonalità sempre più intense nel monachesimo riformato dell’XI secolo (camaldolesi, cisterciensi ecc.), fino a confluire nell’«invenzione dell’amore», come è stata chiamata già nei secoli scorsi, che domina il XII secolo creando la cultura e la poesia cortesi e la nuova tipologia di definizione dell’amore che, in un breve giro d’anni, è fatta oggetto o paradigma specifico di almeno una decina di trattati sia telogici sia mistici sia profani: fra questi il celebre De amore di Andrea Cappellano, qui presentato come fonte del modello di eros eterosessuale e considerato «l’unico tentativo del XII secolo» di teorizzare l’amore cortese, mentre agli storici della letteratura sono noti anche altri testi, come l’anonimo De zelotipia, tradotto in italiano molti anni fa da Eugenio Massa, per non parlare delle più tarde teorizzazioni in versi, come il Roman de la Rose e i suoi derivati anche italiani (il Fiore pseudodantesco).
Nella valorizzazione di quelle che Boquet e Nagy chiamano emozioni positive (gioia, desiderio, godimento) sembra farsi strada una sorta di inedita tolleranza verso le loro manifestazioni fisiche e quindi verso una nuova cultura del corpo, non più demonizzato come nella fase platonico-ascetica dell’alto medioevo monastico. Lo testimoniano espressioni «materiali» del De amicitia di Aelredo di Rievaulx e testi d’eccezione come I quattro gradi dell’amore violento in cui Riccardo di San Vittore, o chi per lui, introduce la panoplia metaforica della malattia d’amore (colpo, ferita, sangue, febbre, sofferenza, catena ecc.) che fornirà topoi di immenso successo alla lirica provenzale, stilnovista, petrarchesca.
Un rovesciamento dell’attitudine si registra fra XII e XIII secolo nella filosofia scolastica, cui si è fatta risalire «l’invenzione dell’antropologia» in quanto scienza delle connessioni fra emozioni e fisiologia umana. In questo capitolo interessantissimo (il VI) si esaminano le posizioni dei teologi che, come Abelardo, introducono distinzioni fra l’istinto naturale, a loro avviso non condannabile né giudicabile, e l’adesione dell’anima a un moto riprovevole: una strada che porta all’analisi dell’emozione fisica come fenomeno indipendente, ricondotto spesso alla teoria ippocratica dei quattro umori e temperamenti (collera, flemma, bile gialla, bile nera o melancolia) rispetto al sentimento spirituale. Qui il modello più raffinato è di Arnaldo di Villanova (m. 1311), che distingue tra cause esterne di percezione sensoriale, cause interne di valutazione dell’impulso e predisposizione a una risposta da parte degli umori specifici dell’individuo.
Cominciano così a comparire i primi rimedi fisico-emotivi: i bagni d’acqua salata contro la tristezza (antenati della talassoterapia?), tisane di cannella e finocchio come ansiolitici, mentre contro la depressione Taddeo Alderotti consiglia un cambio di regime alimentare associato a un mutamento di abitudini: vestirsi meglio, ascoltare musica, godere le gioie della vita. Si sviluppa così una medicina psicosomatica rifessa perfino nel concilio Laterano IV del 1215, che consiglia ai medici del corpo di invitare i pazienti a consultare prima un medico dell’anima. E comincia lo studio del mal d’amore così ben documentato da Natascia Tonelli in Fisiologia della passione (2015). Questa è ciò che gli autori definiscono «antropologia riconciliata», tipicamente cristiana, che chiude radicalmente col dualismo platonico e stoico. All’antichità ci riconduce invece uno dei capitoli finali, dedicato ai sentimenti dei prìncipi, che già i classici (si pensi al De clementia o al De ira di Seneca) avevano provato ad analizzare in funzione di sussidio all’analisi ed elaborazione di strategie di gestione del potere. Ma non poteva mancare uno dei versanti più esplorati dell’antropologia medievistica, cioè l’emozione mistica, la cui espressione Claudio Leonardi e Gianni Pozzi avevano già mirabilmente valorizzato negli anni ottanta, anche se questo filone di studi in italiano non è sfruttato da Boquet e Nagy: qui non si poteva dire molto di nuovo, ma certo in un percorso progressivo sulla storia delle emozioni acquista nuova luce la valorizzazione del linguaggio «incarnato» che si affaccia nelle stimmate di Francesco d’Assisi o nelle visioni di Angela da Foligno, con la forte presenza di similitudini erotiche e di ebbrezza del sangue destinate a largo séguito nella devotio moderna del beghinaggio nordeuropeo e nell’immaginario del cattolicesimo barocco. Di ancor maggiore freschezza il capitolo conclusivo sulle comunità emotive e le loro espressioni rituali, dai festini alle cacce alle processioni, nel tardo medioevo, quando la condanna dell’autorità civile di Orvieto contro manifestazioni estreme del dolore (fino al denudamento) durante cerimonie funebri rivela una tensione all’ostentazione emozionale che rimane un valore nobiliare e cavalleresco ma da cui le istituzioni politiche «nuove» del XIII secolo si vogliono emancipare canalizzandola. Una forma alternativa di gestione e utilizzo delle emozioni collettive è la cosiddetta «pastorale delle emozioni», così definita da Carla Casagrande, che viene accuratamente illustrata nei trattati sulla predicazione, abituati a insistere soprattutto sul terrore dell’aldilà ma anche a utilizzare modi umoristici per attirare l’attenzione degli ascoltatori, fino a generare un vero e proprio teatro omiletico con Roberto d’Uzès a fine Duecento.
Certo le emozioni di cui parla Medioevo sensibile sono quasi sempre sentimenti concettualizzati, costruzioni metaforiche, oggetti teologici. Ne restano fuori la malinconia, il rimpianto, la sorpresa, lo smarrimento, il delirio sensuale, lo sconcerto, la speranza, la solitudine, il disprezzo, la ribellione, la dolcezza, la tenerezza filiale o genitoriale, insomma tutte le emozioni vere che non troveremo mai nei trattati o nelle summae ma solo nella poesia, estranea all’affresco di Boquet e Nagy e da quasi tutte le ricostruzioni storiche. Medioevo sensibile effettua comunque un primo meritorio e preziosissimo passo verso la storicizzazione delle emozioni che supera vecchie dicotomie fra psicologico e sociale e analizza la rappresentazione dei sentimenti come modi di comunicazione sociale e come conseguenze della rivoluzione culturale portata dal cristianesimo, che cominciò a sperimentarla nei laboratori dei primi monasteri fino a elaborarne un modello antropologico nuovo.
Ma la dolcezza della nostalgia che Valafrido, scrivendo a metà IX secolo dal palazzo reale all’amico Gotescalco, prova verso la loro scuola d’infanzia nell’abbazia di Reichenau, quando erano «poveri entrambi ma entrambi giovani» alla luce delicata di un’amicizia fatta di emozioni impalpabili e private, potremo recuperarla solo negli asclepiadei che nessuna analisi sociale prenderà mai in considerazione.

Il Sole Domenica 15.7.18
Scritto con occhi di donna
La moglie del ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels
Nasce una collana per dar voce alle scrittrici europee: encomiabile proposito, importante anche per la democrazia, ma attenzione a non dare letture semplificate
Magda Meike Ziervogel trad. di Graziella Gloria e Marilena Vendramini, Collana Fiore di Cactus
di Elisabetta Rasy


Non si può che essere d’accordo con le parole iniziali con cui viene presentata la nuova collana «Fiore di cactus» della Sovera Edizioni curata da Chiara Macconi: «C’è ancora bisogno di considerare con cura la metà della popolazione del mondo che è anche la parte maggiore del popolo dei lettori». E di conseguenza d’accordo con il proposito culturale che da questa premessa deriva: «Vogliamo dar voce alle donne scrittrici della grande Europa, privilegiando le autrici di lingue da noi meno note, cercando di contribuire così alla diffusione di una cultura europea, declinata nei racconti e osservata dagli occhi delle donne». Perché non solo sono sotto gli occhi di tutti le permanenti disparità di opportunità, le violenze, la mancanza di diritti sostanziali di una parte consistente della popolazione femminile anche europea, ma si sta ricreando, per restare all’ambito dell’espressione culturale, una nuova letteratura per le donne che promuove best-seller che una volta si sarebbero definiti rosa – storie sentimentali ora spesso porno-soft – o saghe familiari consolatorie, con eroine che non hanno nulla da invidiare a quelle dei feuilleton ottocenteschi, oppure drammi in diretta, sciagure autobiografiche di tutti i generi offerti in pasto al lettore per distrarlo dai propri guai. Libri un po’ più complessi, visioni del mondo femminile un po’ meno ovvie e scritture che cercano la propria originalità non sempre sono facili da trovare, e spesso bisogna andare a cercarli, specie se si tratta di autori stranieri, presso piccoli o piccolissimi editori che si assumono l’onere della ricerca, affidandosi poi a traduttori appassionati che non guadagnano certo milioni (ovviamente questo discorso vale anche per autori di sesso maschile che non stanno nel main stream del mercato…).
Altrettanto d’accordo mi trova, dunque, un’altra dichiarazione della presentazione della collana: «In tempi di globalizzazione, quando i confini sono trascurati o invece ricostruiti per non lasciare aperture, è importante avviare una conversazione interculturale che permetta la comprensione e la consapevolezza delle diversità culturali». In altri termini, per una Europa democratica, è importante una editoria che guardi alla produzione letteraria in termini di ricerca culturale e non solo di mercato. Un’impresa tutt’altro che facile, specie da noi, perché malgrado festival letterari e manifestazioni varie l’Italia è un paese che legge poco e certamente eterodiretto dall’offerta di best-seller e libri di genere, thriller in testa. Inoltre la ricerca stessa è ardua e questo rende le scelte problematiche.
Tra i primi titoli proposti dalla collana uno è dedicato alla moglie del ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels, Magda, che era nata nel 1901 e che morì suicida con lui, nel maggio 1945, nel bunker di Hitler dopo aver avvelenato con una capsula di cianuro a testa i sei figli, cinque bambine e un maschio. Un ultimo atto, l’omicidio dei figli, che ne fa una figura abissalmente tragica e una sorta di emblema della perversione e criminalità intrinseca del nazismo, annientatore di ogni più elementare sentimento umano. A questo si aggiunge il fatto che Magda era figliastra (qualcuno dice figlia naturale) di un patrigno ebreo con il quale aveva vissuto, ma che si rifiutò di salvare dallo sterminio. E che si era avvicinata al nazismo soprattutto in cerca di un’escalation sociale dopo un matrimonio fallito, entrando subito nelle grazie di Hitler e prendendo la posizione ufficiale di First Lady del Reich. Alla sua estrema e terribile figura sono stati dedicati molti film, documentari e ricerche storiche perché certamente fu molto attivamente vicina al cuore nero del regime hitleriano e non semplicemente la malcapitata moglie passiva di un criminale. Il libro ora pubblicato da «Fiore di cactus» si intitola semplicemente Magda e l’ha scritto una autrice tedesca che vive in Germania, Meike Ziervogel, che in una nota finale spiega di aver voluto costruire «il ritratto di un distruttivo rapporto madre-figlia attraverso tre generazioni», piuttosto che un resoconto storico, mescolando dunque realtà e invenzione secondo le sue necessità narrative.
Il rapporto tra tre generazioni di madri e figlie è quello tra la madre di Magda, una cameriera in cerca di una sistemazione, anaffettiva e banalmente avida e crudele, la figlia Magda, sballottata tra i due matrimoni della genitrice, tra due padri, tra solitudine, umiliazioni, un convento di monache dove la maltrattano, un matrimonio finito male e infine l’adesione entusiastica al nazismo, e poi la figlia più grande di quest’ultima, Helga, che forse avrebbe voluto salvarsi perché proprio nel bunker, innamorata di un soldato di guardia, comincia a prendere le distanza dai voleri della genitrice. È, insomma, una storia di tirannia materna, una trama di quella complessa genealogia femminile che, attraverso le generazioni, può tramandare una vischiosa e autolesionistica e certamente torbida subalternità delle donne. In un brano di un’intervista riportato alla fine del libro, Meike Ziervogel spiega che il punto di partenza del suo racconto è stato molto personale, dal momento che per molti anni la relazione con sua madre è stata difficile e che lei è stessa, quando le è nata la sua prima figlia, ha avuto difficoltà a stabilire un buon legame con lei. Ziervogel fornisce anche il retroterra storico della sua attenzione all’epoca nazista: i suoi nonni furono costretti a fuggire per salvarsi dai russi in arrivo nel 1945 e dopo la guerra non parlarono mai dei traumi subiti, che però continuarono a echeggiare nelle generazioni successive fino all’autrice stessa che ha preferito vivere in Inghilterra piuttosto che in Germania.
Una storia, quella dell’autrice, interessante, forse più interessante di quella del personaggio che costruisce nel suo libro. È certamente lecita e anche letterariamente affascinante la ricostruzione della vita di una anti-eroina, estrema e perversamente crudele e ideologicamente folle come la moglie di Goebbels, ma ha un senso farne una questione di cattivo rapporto con la mamma? Siamo in ambito più nero del nero, e la psicologia, - soprattutto quando è ciò che resta del freudismo cento anni dopo, cioè una sua versione più che semplificata e annacquata - deve entrare con cautela nei territori del male. Del resto, questo libro è sintomatico di una sorta di relativismo etico che riguarda molte (pessime) figure femminili: la sofferente condizione delle donne viene usata per spiegare e giustificare misfatti di ogni genere. Ziervogel dice che ha voluto indagare la storia di una donna intelligente. Mi permetto di dissentire: nel caso di Magda Goebbels non si può neanche parlare della banalità del male, come ha fatto Hannah Arendt per Eichmann, ma della stupidità e dell’opportunismo del male. La ricostruzione di vite femminili ignorate o oscurate o fraintese è uno dei filoni più interessanti della scrittura femminile degli ultimi decenni, ed è auspicabile che l’ammirevole neonata collana dell’editore Sovera ce ne offra nuovi esempi. Ma la verità storica, con tutta la sua crudezza e talvolta il suo orrore, non può né deve mai essere occultata.

Il Sole Domenica 15.7.18
L’arte che spaventava Hitler
Artisti in fuga da Hitler.
L’esilio americano delle avanguardie europee
Artisti migranti . La fuga negli Stati Uniti dei più innovativi esponenti delle avanguardie europee per sfuggire al nazismo e alle sue farneticazioni sulla creatività «degenerata»
di Ada Masoero


Erano passati poco più di due mesi dalla sua nomina a Cancelliere del Reich - il 30 gennaio 1933 - quando Hitler ordinò alle Squadre d’assalto di chiudere il Bauhaus, la scuola superiore d’arte e architettura allora diretta da Mies van der Rohe che, cacciata l’anno prima da Dessau - già in mano ai nazionalsocialisti - era stata riaperta in sordina, a Berlino, come scuola privata. Precauzione che non bastò a placare la sete di vendetta dei nazisti contro questa scuola che si presentava come una «cattedrale del socialismo» e minava i fondamenti stessi della grande arte, mischiandola con l’artigianato. Al Bauhaus avevano insegnato Kandinskij e Klee, Albers e Feininger, Schlemmer e Moholy-Nagy ma, agli occhi dei nazisti, quella scuola altro non era che una «cellula di sovversione bolscevica».
Sempre nel 1933 caddero le teste di 27 direttori di musei sgraditi al potere e furono rimosse dalle sale 16 mila opere avanguardiste che, opponendosi all’antico ordine classico, erano segno ai loro occhi di «degenerazione» culturale oltreché di «degrado» cerebrale dei loro autori. Moltissime sarebbero state messe al rogo sei anni dopo; altre invece furono conservate («speriamo di fare un po’ di soldi con questa spazzatura», dirà Goebbels): le più belle e importanti, come sapevano anche loro, tanto che alcune furono requisite da Göring per la sua residenza di caccia.
Motore di tutto era Joseph Goebbels, potente ministro della Propaganda, che aveva istituito la Reichskulturkammer, affidando ben presto la direzione del dipartimento delle arti visive ad Adolf Ziegler, pittore modestissimo ma amato da Hitler (il suo zuccheroso Trittico dei quattro Elementi occupava il posto d’onore nel salotto privato del Führer). E fu proprio Ziegler, il 19 luglio 1937, a inaugurare a Monaco la mostra itinerante «Arte degenerata» (Entartete Kunst), che riuniva, mischiati alla rinfusa, 600 capolavori dei maestri delle avanguardie europee d’inizio ’900, strappati ai musei tedeschi: una mostra, sibilò nel presentarla, che «ispira in tutti noi orrore e disgusto». Gratuita (ma vietata ai minori!), la rassegna richiamò oltre due milioni di visitatori.
È questo lo sfondo, assai ben disegnato, dello studio condotto da Maria Passaro nel suo libro Artisti in fuga da Hitler. L'esilio americano delle avanguardie europee, il cui nucleo, come enunciato dal titolo, è l’indagine dell’esilio forzato di tanti grandi artisti europei e delle sue conseguenze da un lato sulla cultura visiva degli Stati Uniti, dall’altro (aspetto, questo, meno esplorato) sul loro stesso linguaggio espressivo, vivificato dal “trapianto” nella nuova cultura.
Che gli artisti europei in esilio negli Stati Uniti (Breton, Léger, Miró, Masson, Chagall, Ernst, Tanguy, Feininger, Mondrian e molti altri) siano stati gli “impollinatori” della grande arte americana del dopoguerra è ben noto: i surrealisti lo furono per l’espressionismo astratto di Pollock (che derivò persino la sua mitica tecnica del dripping dall’“oscillazione” di Max Ernst, a lui ben nota) e di Kline, De Kooning, Motherwell, Rothko... E gli astrattisti Mondrian e Albers lo furono per il minimalismo. Alcuni poi - Hans Hofmann, Josef Albers, Lázló Moholy-Nagy - furono chiamati a insegnare nelle università americane, dove formarono generazioni di artisti e designer: come sosteneva Hofmann, «in America c’è lo spazio per far crescere le radici di una nuova arte». Il che era esattamente ciò che in quel momento serviva agli Stati Uniti, desiderosi di acquisire (anche) l’egemonia mondiale della cultura, strappandola all’Europa.
L’America accolse - o addirittura invitò - artisti visivi, musicisti di fama (Stravinsky, Béla Bartók, Schönberg), storici dell’arte come Erwin Panofsky e Lionello Venturi -lui in fuga dal fascismo - e Premi Nobel come Thomas Mann e Albert Einstein. Come scrive l’autrice, «la cultura aveva un valore di mercato molto alto nella politica d’accoglienza americana».
Anche il sistema dell’arte si trasformò, grazie a figure di conoscitrici, anch’esse espatriate, come Katherine S. Dreyer, amica stretta di Duchamp e di Kandinskij, e Hilla von Ribay, consulente di Solomon Guggenheim, che indirizzarono il gusto dei collezionisti americani verso la grande avanguardia europea (non è citata, però, Peggy Guggenheim, forse perché americana: ma chi più di lei, che in Europa aveva vissuto, seppe promuovere l’arte delle avanguardie europee negli States?). Non furono da meno galleristi come Kurt Valentin e Pierre Matisse, figlio di Henri, che, forte del suo nome, fece della sua galleria, nel «Flatiron Building» a Manhattan, il punto d’incontro e di promozione degli artisti europei rifugiati: magistrale, nel 1942, l’idea di presentare la mostra, sinora poco nota e rimessa in luce qui, «Artisti in esilio», dove riunì felicemente 14 maestri (da Ernst, Chagall, Léger a Breton, Mondrian, Masson e altri che, scrisse, «talora in patria nemmeno si parlavano») facendone un manifesto dell’arte aborrita dai totalitarismi europei, proprio mentre gli Stati Uniti combattevano contro il nazismo.
Appassionante come una spy story, poi, è la vicenda del giornalista Varian Fry che, quando la Francia nel 1940 fu occupata dai nazisti, fu inviato a Marsiglia dal Comitato di soccorso per mettere in salvo gli artisti e gli uomini di cultura che vivevano o si erano rifugiati lì: ne salvò oltre duemila prima di essere cacciato dal Paese. Ma non meno romanzesca è la storia dell’acquisto per il MoMA, voluto dal direttore Alfred Barr jr., di alcune delle opere di «arte degenerata» messe all’asta dai nazisti a Lucerna nel giugno del 1939: come acquistare qualcosa che apparteneva al bottino dei nazisti senza attirarsi l’anatema del mondo? Fu Curt Valentin a cavarlo d’impiccio. E, due mesi dopo, il MoMA poteva presentare nella mostra «Art in Our Time» cinque opere strappate dai nazisti ai musei tedeschi.

Corriere La Lettura 15.7.18
Un secolo fa nasceva un uomo che non avrebbe trasformato solo il suo Paese ma un intero continente
“Io sono perché noi siamo”
Gli altri Mandela
di Carlo Baroni


«Io sono, perché noi siamo». Camminando per le strade di Città del Capo — e di altre città sudafricane — non si può non imbattersi in parole, segni, immagini che richiamino Madiba. Come questa frase, un messaggio che contiene una delle più grandi eredità di Nelson Rolihlahla Mandela, nato cent’anni fa, il 18 luglio 1918, nel piccolo villaggio di Mvezo, in terra xhosa, e diventato una delle figure più luminose. «Io sono perché noi siamo» significa definire la propria identità nella relazione con l’altro e assumere responsabilità e sfide — anche quelle più grandi della libertà e della dignità, della riconciliazione e della democrazia — in un’ottica collettiva. Per il bene di tutti e di ciascuno. Attingeva alla visione africana bantu (ubuntu) ma era aperto ai tanti stimoli e influenze che gli sono arrivati dall’esterno. Lui che ha vissuto 27 anni in condizioni di detenzione è diventato simbolo di apertura, tolleranza, dialogo. La sua lotta contro l’oppressione e la discriminazione e per la giustizia e l’uguaglianza continua a essere di grande ispirazione per molti africani (e non solo). Ma sono pochi i «figli» africani di Mandela che — soprattutto nella politica — hanno saputo incarnarne concretamente lo spirito.
Thomas Sankara (1949-1987)
A livello iconico, Thomas Sankara — che cambiò il nome del suo Paese da Alto Volta a Burkina Faso (letteralmente il «Paese degli uomini integri») — e ne fu presidente dall’83 all’87, resta ancora oggi una delle figure più carismatiche. Un riferimento per tutti coloro che continuano a sognare un’Africa libera da ingerenze esterne, neocolonialismo e imperialismo. Anche culturale.
Wangari Maathai (1940-2011)
C’è un po’ di Sankara, oltre che di Mandela, anche nella figura di Wangari Maathai, prima donna africana Premio Nobel per la Pace nel 2004, scomparsa nel 2011. Keniana, ha cominciato a piantare alberi (30 milioni!), come aveva fatto lo stesso Sankara. Per fermare il deserto, ma anche per diffondere una mentalità di rispetto della natura, introducendo con forza il tema ambientalista — attraverso il suo Green Belt Movement, fondato già nel 1977 — in un continente che sta facendo drammaticamente i conti con i cambiamenti climatici. «Ma quando cominci a lavorare seriamente per la causa ambientalista — diceva Maathai — ti si propongono molte altre questioni: diritti umani, diritti delle donne, diritti dei bambini». Di origine kikuyu, tenace e determinata — come la ricordano le missionarie italiane della Consolata presso le quali ha frequentato le scuole primarie — Maathai ha rotto molti schemi. Si è candidata anche alle presidenziali, sfidando il potere granitico di Daniel Arap Moi, prima donna del suo Paese. Ha mostrato così la possibilità di una nuova leadership femminile anche in politica, liberando l’immaginario da una rappresentazione di donna africana relegata nello spazio domestico. Dopo di lei lo hanno fatto molte altre e tra di loro Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia, e la sua concittadina, l’avvocatessa Leymah Gbowee, entrambe Nobel per la Pace nel 2011.
Wole Soyinka (1934)
Un altro Nobel, ma della Letteratura (1986), il nigeriano Wole Soyinka, ha dedicato il suo discorso di Stoccolma proprio a Mandela, denunciando la segregazione razziale in Sudafrica e tributandogli successivamente una raccolta di poesie, Mandela’s Earth and Other Poems. Del resto, Soyinka è sempre stato una grande figura di intellettuale impegnato, una vita spesa tra letteratura, drammaturgia, poesia ma anche attivismo sociale e politico, per il quale ha pagato col carcere e l’esilio durante la dittatura di Sani Abacha. Fieramente yoruba e al tempo stesso cosmopolita, è un po’ la coscienza critica del suo Paese, la Nigeria, ma anche un grande visionario. Il suo libro Clima di paura (pubblicato in Italia da Codice nel 2005) anticipava le dinamiche perverse di manipolazione del sentimento di insicurezza «per promuovere azioni anche illegali, per persuadere la gente e limitarne le libertà». «La paura come potere», avvertiva Soyinka, è un morbo che contagia non solo l’Africa, ma il mondo intero. «Occorre senso del dovere, gli uni verso gli altri, a livello locale e internazionale — ci diceva durante uno dei suoi frequenti passaggi in Italia — e occorre senso di responsabilità, di tutti e di ciascuno. Da qui si costruisce il futuro, si migliora la qualità dell’esistenza delle persone». Soyinka sa bene che è difficile riproporre quello che definisce il «miracolo» sudafricano ma, nello spirito di Madiba, ci ricordava che «la ricerca della libertà è una battaglia costante. Bisogna essere all’erta. Si vive su una linea molto sottile. La democrazia che abbiamo faticosamente conquistato può sempre pericolosamente scivolare. Lo vediamo in Africa e in molte parti del mondo. Questa battaglia collettiva deve continuare. Per la libertà».
Laurent Monsengwo Pasinya (1939)
È quello che sta facendo anche un grande prelato africano, il cardinale Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo e membro del C9, il Consiglio dei cardinali di papa Francesco. Nella sua vita ha sempre affiancato all’impegno ecclesiale una militanza in prima linea su vari e drammatici fronti di conflitto: ingiustizia, violazioni dei diritti umani e democrazia. Già tra il 1991 e il 1992, ha avuto un ruolo di primissimo piano, come presiedente della Conferenza nazionale sovrana e poi, sino al 1996, del Parlamento di transizione nella difficile fase che ha portato alla caduta di Mobutu Sese Seko. Attualmente ha contribuito a facilitare gli Accordi di San Silvestro del dicembre 2016, che dovrebbero portare alle elezioni alla fine di quest’anno. Per la sua statura morale e per il suo parlare franco è un po’ il Desmond Tutu dei giorni nostri. Qualcuno lo vorrebbe morto. E anche nell’attuale crisi politica non gli sono mancati violenti attacchi e minacce. «Le violazioni dei diritti della persona — ci diceva durante un incontro a Kinshasa — sono a un livello inammissibile. Fin tanto che il Paese non diventerà uno Stato di diritto fondato su una Costituzione, alla quale tutti devono obbedire e che regola i diritti e i doveri di ogni cittadino permettendo di punire ogni comportamento contrario alla legge, è inutile parlare di diritti dell’uomo».
Denis Mukwege (1955)
Lo sa bene il suo concittadino Denis Mukwege, che vive all’altro capo del Paese, a Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, una delle regioni maggiormente devastate da una guerra ventennale, che ha provocato oltre sei milioni di morti nell’Est del Congo, nell’indifferenza del mondo. Mukwege è un medico ma anche una voce coraggiosa di denuncia e di condanna. Nell’ospedale Panzi ha curato migliaia di donne devastate dagli stupri; ma sono almeno 60 mila quelle che hanno subito orribili violenze sessuali, una guerra nella guerra. Quando lo incontriamo nel suo studio è al telefono con alcuni collaboratori di un presidio sanitario assalito da uno dei tanti gruppi ribelli che spadroneggiano in questo territorio, condannato dalle sue stesse ricchezze. «Ci sono troppi interessi in questa regione. E l’interesse per l’uomo — ci dice — viene dopo gli interessi materiali. La violenza, specialmente quella contro le donne, ha assunto dimensioni e gravità inaudite». Ha ricevuto molti riconoscimenti ed è stato candidato al Nobel per la Pace. Un libro di Colette Braeckman, L’homme qui répare les femmes («L’uomo che ripara le donne», Renaissance du Livre, 2016), e l’omonimo film, lo hanno reso noto anche a livello internazionale, così come la sua autobiografia Plaidoyer pour la vie («In difesa della vita», L’Archipel, 2016), in cui denuncia mali e derive dell’élite al potere. Per questo molti lo vorrebbero far tacere, cancellando una delle poche voci che riescono a perforare il muro di silenzio che avvolge il dramma del Congo.
Alganesh Fessaha (1948)
Non molto diversamente, per il coraggio di stare sempre sul campo ma anche di far arrivare le voci di chi grida nel deserto, Alganesh Fessaha è una donna che dà fastidio. Italo-eritrea, presidente dell’ong Gandhi, si batte per le vittime del traffico di esseri umani. Per anni ha operato lungo le rotte del Sinai e ora che sono state bloccate, viaggia instancabilmente tra Etiopia, Sudan, Egitto e Libia, dove continua a liberare migliaia di persone. È stata riconosciuta tra i «giusti» nel Giardino di Milano e in quello di Neve Shalom Wahat al-Salam in Israele. Ha raccolto migliaia di testimonianze sconcertanti, anche fotografiche, che in parte ha pubblicato nel suo libro Occhi nel deserto (Edizioni Sui, 2014). Ci racconta di «donne anziane abusate, di bambini piccolissimi stuprati, di giovani torturati, di donne ridotte in schiave. E di tanti, tantissimi morti. Sulle rotte dei migranti si continuano a commettere i peggiori crimini contro l’umanità». I nuovi «figli» di Mandela sono anche lì, sulle linee di frattura su cui si giocano i destini non solo dell’Africa ma del mondo intero. Mentre si fatica a individuarli tra le leadership politiche.
Abiy Ahmed Ali (1976)
Con un esercizio di fiducia preventiva potremmo guardare a Abiy Ahmed Ali, primo ministro dell’Etiopia da aprile. Nel discorso di insediamento ha teso la mano all’Eritrea per mettere fine alla ventennale crisi che oppone i due Paesi. E lo scorso 8 luglio si è recato ad Asmara per incontrare il presidente eritreo Isaias Afewerki. «War is over», ha dichiarato: «La guerra è finita». Parole che non si udivano da molto tempo in Africa.
Madiba avrebbe apprezzato.

Corriere La Lettura 15.7.18
Il Quinto Stato
Il proletariato del ‘900 condivideva la fabbrica, il partito,  il sindacato, il precariato oggi è eterogeneo, socialmente disperso, culturalmente frammentato, connesso online ma non compatto
di Maurizio Ferrera


Nel noto quadro di Pellizza da Volpedo (di cui il 28 luglio ricorre il 150º della nascita) il Quarto Stato è rappresentato da un gruppo di contadini della pianura alessandrina, uno degli epicentri delle lotte agrarie dei primi del Novecento. Ma, come la storia del dipinto rivela, quella «fiumana» (titolo di un quadro precedente) era composta da «ambasciatori della fame» (titolo di un primo bozzetto), che parlavano per quella larga parte di società che «soffriva assai». La figura femminile in primo piano, con un bimbo in braccio, allarga l’universo sociale del quadro all’intera schiera degli oppressi, a una «umanità assetata di giustizia» che Pellizza descrisse in una poesia coeva. Insomma, il «Quarto Stato» era una classe «per sé», portatrice di interessi universali di emancipazione.
Quella classe è stata la protagonista principale del secolo scorso. Nel suo nome si sono fatte rivoluzioni in varie parti del mondo. In Europa occidentale, i suoi rappresentanti hanno riempito i parlamenti e spesso tenuto le redini dei governi, addomesticando il capitalismo e creando il welfare state. Una volta conseguito il potere, il proletariato novecentesco si è tuttavia fermato. Da (potenzialmente) universali, i suoi interessi si sono ripiegati verso il particolare, dando priorità a obiettivi prosaici come l’indicizzazione dei salari, l’età di pensionamento, l’ammontare della liquidazione... La conquista (oggi soprattutto la difesa) di garanzie per i propri membri ha indebolito la capacità della classe lavoratrice «a tempo indeterminato» di mantenere un orizzonte largo, di svolgere il tradizionale e nobile ruolo di ambasciatrice dei più vulnerabili.
Anche se oggi sono meno visibili di un secolo fa e sicuramente molto meno organizzate, le fiumane di svantaggiati esistono ancora. Gli oppressi del mondo entrano tutte le sere nelle nostre case attraverso la tv. Ma da loro ci separa un fossato che spiega e riproduce la loro emarginazione. Sono tagliati fuori da qualsiasi circuito economicamente e politicamente rilevante perché non hanno nulla da scambiare. Il «Quarto Stato» aveva braccia che servivano, poteva fare scioperi che spaventavano. Grazie al suffragio universale, i suoi uomini e (dopo, non ancora pienamente) le sue donne sono riusciti a entrare nel sistema e a sfruttarlo a proprio vantaggio. I diseredati del mondo d’oggi invece sono esclusi, la globalizzazione passa sopra le loro teste senza considerarli.
Ma come stanno le cose al di qua del fossato, nel Primo Mondo? Cosa c’è oggi sotto il «Quarto Stato»? Già negli anni Ottanta gli studiosi cominciarono ad osservare che la distribuzione del reddito e più in generale delle opportunità stava assumendo una nuova forma: dalla tradizionale piramide — tanti poveri alla base, pochi ricchi al vertice — a una specie di diamante — una grande «massa media» in mezzo, i ricchi nell’angolo superiore e i poveri nell’angolo inferiore. Ralf Dahrendorf coniò la metafora della «società dei due terzi». Un 65% di persone economicamente e socialmente sicure, il resto composto da un caleidoscopio di figure senza agganci fissi al mercato del lavoro e dunque strutturalmente vulnerabili, quando non addirittura intrappolate nella disoccupazione e nella povertà.
A questo variegato caleidoscopio il dibattito più recente ha assegnato un nome: il precariato. La struttura di classe delle società avanzate si è riarticolata in cinque segmenti. Un ceto ristretto di plutocrati al vertice, ormai integrato a livello internazionale grazie alla globalizzazione del capitale finanziario. A seguire, un ceto borghese, benestante ma tuttora ancorato a patrimoni e attività prevalentemente nazionali. Poi un ceto abbastanza ampio di «salariati»: categorie sociali che possono contare su flussi di reddito fisso da lavoro dipendente, autonomo o da pensione. Il tradizionale «Quarto Stato» si è in parte disciolto all’interno del salariato; le sue fasce più basse sono rimaste classe operaia (proletariato), la quale è però bene inserita dentro la cittadella delle garanzie. Al fondo, sta invece il precariato.
Che cosa contraddistingue questo gruppo sociale, che potremmo chiamare il contemporaneo «Quinto Stato»? Essenzialmente tre elementi. Il primo e più evidente è l’instabilità lavorativa, l’assenza di un posto e di un reddito ragionevolmente sicuri. Chi fa parte del precariato esegue lavori a termine, occasionali, a tempo parziale, a domanda, in somministrazione, nelle piattaforme della gig economy. Ciò impedisce il formarsi di identità occupazionali, di una qualche «narrazione» per ordinare la vita. I precari sono anche costretti a sobbarcarsi molto lavoro non retribuito per restare occupabili: guardarsi in giro, passare ore su internet, compilare domande, aggiornare il curriculum, fare corsi di aggiornamento e così via. Il secondo elemento è l’assenza — o il bassissimo grado — di protezione sociale. Niente ferie o giorni di malattie pagate, pochi sussidi per il periodo di non occupazione, buchi contributivi e così via. In molti Paesi esistono redditi minimi garantiti. Ma non sempre la condizionalità a essi collegata ha ricadute positive, per alcuni non conviene proprio. Infine il terzo elemento — che riguarda soprattutto gli immigrati, sempre più anche quelli provenienti da Paesi dell’Ue — è il tenue legame con la cittadinanza, il diritto ad avere diritti, soprattutto politici e sociali. Questi tre elementi tendono a produrre frustrazione e stress psicologico, ansia nei confronti di eventi imprevisti, impossibilità di programmare, sensazione di isolamento ed esclusione.
Certo, non per tutti i precari è così. Il precariato è per lo più giovane (anche se sta invecchiando: c’è chi a quarant’anni non ne è mai uscito). Dunque le effettive condizioni di vita dipendono molto dal background familiare. I genitori in genere fanno parte del salariato, spesso anche della borghesia benestante. In questi casi, la precarietà può anche essere vissuta come flessibilità, come fonte di inedite opportunità per bilanciare i tempi di vita e di lavoro, per sperimentare diverse ambizioni. Per la maggioranza, tuttavia, il tratto prevalente rimane la vulnerabilità.
Nel volume del 2011 Precari (il Mulino), il sociologo Guy Standing sostenne (da neomarxista) che il precariato era la nuova «classe pericolosa», in procinto di trasformarsi in una classe per sé, un «Quinto Stato» pronto a mobilitarsi contro apertura, globalizzazione, neoliberismo, concorrenza e mercato. Qualche fermento in effetti c’era già stato (movimento no global, mobilitazioni anti Bolkestein in Europa) e s’intravedevano i sintomi di un possibile risveglio del precariato in fenomeni come Occupy, gli Indignados, Syriza. Negli anni successivi tale risveglio non ha tuttavia prodotto solo mobilitazioni «emancipative» (per dirla con Standing), ma anche «regressive», di stampo xenofobo o neofascista.
Rispetto al Quarto Stato novecentesco, il profilo politico del «Quinto Stato» di oggi presenta incisive e decisive differenze. Il proletariato condivideva il lavoro di fabbrica, viveva negli stessi quartieri, frequentava gli stessi ritrovi, le sezioni dei partiti e dei sindacati. Era socialmente e culturalmente più omogeneo, più facile da organizzare e mobilitare. Il precariato è eterogeneo, disperso, molto connesso, ma attraverso i canali «freddi» di internet. Al suo interno si creano increspature, a volte onde effimere di mobilitazione, ma non si formano mai «cavalloni» in grado di fare rumore, di creare disordine. Difficile immaginare per il precariato un’icona che abbia lo stesso valore simbolico del quadro di Pellizza, la stessa capacità evocativa unificante. La classe operaia novecentesca aveva inoltre un programma politico: il socialismo (prima senza aggettivi, poi democratico). Il precariato del XXI secolo è invece privo di un’agenda propria e coerente. Alcune interessanti idee a riguardo circolano tuttavia nel dibattito intellettuale. Da un lato, vi è la riflessione su come fornire sicurezze e protezioni calibrate sulle nuove modalità di lavoro. È la strategia della flexicurity — quella seria — magari sorretta da un reddito di base universale e incondizionato, come propone Philippe Van Parijs. Dall’altro lato, si riflette su come fare di necessità virtù, ossia approfittare della globalizzazione, della flessibilizzazione e delle nuove tecnologie per progettare un nuovo modello di società.
La sfida sociale del Novecento è stata quella di assicurare lavoro e reddito. Quella del nostro secolo sarà la redistribuzione equa del surplus generato dall’integrazione economica e dalle nuove tecnologie, se questi processi saranno ben gestiti. Nel nuovo contesto, l’obiettivo sarà garantire a tutti non solo una base di sicurezza economica, ma anche una quantità «decorosa» della risorsa che sta diventando sempre più scarsa: il tempo. Più precisamente (come propone Robert Goodin) tempo discrezionale «di qualità», da usare senza costrizioni se non quelle da noi liberamente scelte.

Repubblica 15.7.18
L’editoriale
nuova sinistra: democrazia, Europa, libertà, e uguaglianza
di Eugenio Scalfari


Salvini sconfitto da Mattarella attraverso il “portavoce” Giuseppe Conte, per quanto riguarda i profughi che sono sbarcati a Trapani. Di Maio a sua volta prende la politica al volo per infliggere all’amico-rivale Salvini un’altra botta: abolendo i vitalizi degli ex membri della Camera. Di Maio opera secondo la sua filosofia, Salvini invece non ce la fa. È così?
Solo in parte, in piccola parte è così. Il capo della Lega è abbastanza forte in Europa oltre che in Italia. Di Maio invece in Europa conta poco o nulla e in Italia sta perdendo voti e probabilmente ancora ne perderà: è passato dal 32,2 al 28 per cento secondo gli ultimi sondaggi subito dopo il voto locale di qualche settimana fa.
Riuscirà a risollevarsi con l’abolizione dei vitalizi degli ex deputati?
Personalmente sono tra i titolari del vitalizio: fui deputato nella legislatura 1968-1972 e percepisco ogni mese un vitalizio di 2200 euro mensili.
Qualche anno fa proposi alla direzione della Camera l’abolizione del mio personale vitalizio, ma la mia richiesta fu respinta.
Oggi è utile quell’abolizione che però Di Maio non ha ancora attuato: la proposta dovrà essere votata, dopo che già lo ha fatto la Camera, anche dal Senato e non è affatto certo che sia approvata. Nell’ipotesi per esempio che l’ex parlamentare sia ridotto in una condizione sociale per la quale il vitalizio lo aiuta a campare, cosa si deciderà? Si vedrà nelle prossime settimane.
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Ma, intanto, parlano solo in Italia, mentre in Europa sono di fatto inesistenti. Questa è la settimana appena trascorsa: un Salvini razzista in crescita e un Di Maio populista in diminuzione.
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Il vero problema del nostro Paese è la sinistra. Non c’è più. Ma c’è mai stata per lungo tempo, oppure quasi mai nella storia dell’Italia moderna? Quasi mai. Ho già scritto altre volte che la sinistra italiana ha avuto notevole importanza nella nostra storia risorgimentale ai tempi di Mazzini e di Garibaldi. Erano due personaggi molto diversi ma entrambi sicuramente dedicati al bene del popolo italiano, il quale peraltro ancora non esisteva.
I popoli esistono quando qualcuno li risveglia, gli dà una finalità, li guida senza sconvolgerli. In Francia la sinistra comincia nientemeno dall’Illuminismo di Diderot e di Voltaire e prosegue per oltre mezzo secolo fino alla Convenzione che culmina nel 1793. Un secolo pieno che trasmise i suoi valori, e ricevette altrettanti contributi dall’Italia, dai Paesi Bassi, dall’Inghilterra, dalla Prussia, dai Paesi scandinavi.
Questo fu il grande periodo della sinistra moderna. Oggi non c’è più, distrutta dalla società globale e dalla tecnologia.
In Italia tuttavia l’ipotesi d’una rinascita è accettabile. Perché? Perché l’Italia ha una storia che risale a secoli e addirittura millenni, durante la quale sinistra e destra si sono intensamente affrontate. Una lotta di potere dove un gruppo ristretto comanda un popolo schiavo oppure un gruppo altrettanto ristretto opera per risvegliare il popolo e renderlo corresponsabile a costruire una società politicamente libera ed eguale. “ Liberté, Égalité, Fraternité”: questo era lo slogan che è ancora attuale in Italia e in Europa; assai meno in altri continenti: non certo in Russia o in Cina o in gran parte dell’Africa o in Medio Oriente.
In Italia stiamo vivendo un momento che vede il potere in mano alla destra. La sinistra tuttavia è in grado di rinascere. Come? Con chi? Questi sono gli interrogativi ai quali rispondere.
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La sinistra italiana rinasce nel dopoguerra mondiale con Palmiro Togliatti e la sua squadra. Non era solo, il segretario del Pci. C’erano con lui Ingrao, Amendola, Napolitano, Reichlin, Longo, Berlinguer e ancora politici di alta qualità. Ma c’erano anche Antonio Giolitti, Luciana Castellina e molti altri che poi uscirono dal Pci dopo le invasioni sovietiche in Ungheria e Cecoslovacchia. La nostra sinistra democratica nasce più tardi con Saragat, Nenni, De Martino, Sandro Pertini, Riccardo Lombardi e soprattutto Enrico Berlinguer.
Questa sinistra è unita, lo è stata in alcune circostanze ma in altre si è divisa. Si unì saldamente ai tempi delle Brigate Rosse che culminarono con l’uccisione di Aldo Moro. Ci furono anche alleanze con settori della Democrazia cristiana ( Ciriaco De Mita). Ma comunque fu Berlinguer il vero fondatore della sinistra italiana che durò un ventennio e approdò poi nell’attuale Partito democratico.
Anch’esso ha avuto varie vicende, fino ad una vera e propria crisi che l’ha ridotto alle elezioni del 4 marzo scorso al 19 per cento, per di più con molte divisioni all’interno.
C’è un’altra sinistra che forse potrebbe risvegliare coscienze e impegno indispensabili in un Paese democratico?
Si dirà che altri partiti un tempo estremamente importanti sono del tutto scomparsi: la Dc non esiste più, la socialdemocrazia altrettanto. Oggi il panorama politico del Paese si concentra in due iniziative: quella razzista della Lega di Salvini che dopo le recenti elezioni locali e le indagini statistiche che ne sono seguite è arrivata al 30 per cento dei consensi e supera il 40 con alcune alleanze tuttavia incerte ( Berlusconi, Meloni). Quell’altro partito è di origine grillina, quindi sostanzialmente populista. Aveva ottenuto un vero successo il 4 marzo con il 32,2 per cento ma nelle ultime settimane ha perso 4 punti ed è sceso al 28. Dove sono andati quei voti perduti? Qualcuno alla Lega ma soprattutto ad una massa enorme di astensioni che hanno ormai superato il 40 per cento. Questa è la situazione del Paese il quale manca quasi totalmente d’una sinistra forte e capace di orientare al proprio bene il popolo italiano.
Abbiamo bisogno di una sinistra nuova, moderna, adatta a gestire quello che sta accadendo non solo nel nostro Paese ma soprattutto nel continente del quale facciamo parte. L’impegno della nuova sinistra si basa soprattutto sulla necessità di allargarne lo spazio politico. I quadri ci sono e sono già perfettamente in grado di questa operazione ricostruttiva: Prodi, Veltroni, Gentiloni, Fassino, Minniti, Zingaretti, Delrio, Calenda. Ma bisogna allargare ideologicamente e civilmente il quadro dirigente. Ne dovrebbero far parte Bonino, Casini, Zagrebelsky e molti altri ancora che incidano non sul partito ma sul rapporto col popolo e facciano sentire la loro voce nelle circostanze in cui c’è estremo bisogno: la lotta alla corruzione, l’integrità della magistratura, gli organi costituzionali.
Volete un motto che definisca questo partito? Eccolo: “ Democrazia, Europa, Eguaglianza e Libertà”. Ci sono dietro questo slogan i fratelli Rosselli, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Alcide De Gasperi, Giulio Einaudi, Carlo Azeglio Ciampi, Ugo La Malfa. E, se volete, anche questo giornale che di quel motto ha fatto da 42 anni la sua bandiera.

Corriere Salute 15.7.18
Disturbo post-traumatico da stress
Psicoterapia e farmaci in prima linea
di D.d.D.

Negli ultimi anni sono state proposte diverse forme di terapia del Disturbo post-traumatico da stress, immediatamente dopo l’evento, con finalità preventive.
Per un certo periodo di tempo ha goduto di credibilità il cosiddetto debriefing psicologico, una forma di trattamento psicoterapico da svolgere in un’unica sessione, durante la quale il soggetto ripercorre e discute la sua esperienza traumatica con un terapeuta.
In teoria questa procedura dovrebbe annullare o ridurre il potenziale traumatismo psicologico, ma quando la tecnica è stata sottoposta a verifica sperimentale non ha dato prove di efficacia.
«Studi, revisioni e metanalisi mostrano che il debriefing non previene il disturbo post-traumatico da stress e può invece avere conseguenze dannose, quindi questa tecnica non è da raccomandare— indica Arieh Shalev nella sua revisione sul New England Journal of Medicine sul disturbo—. Invece ci sono prove che dimostrano l’utilità del prendersi cura in maniera supportiva del soggetto, focalizzandosi sui suoi problemi e identificando coloro che devono essere indirizzati a una terapia cognitivo-comportamentale. Al momento questa forma di trattamento rappresenta il pilastro degli interventi psicologici preventivi».
Anche perché i farmaci per il momento non si sono mostrati molto utili per la prevenzione, sebbene ne siano stati sperimentati diversi: propranololo, gabapentin, temazepam e vari inibitori della ricaptazione della serotonina, come l’escitalopram.
Sono allo studio anche trattamenti sperimentali quali idrocortisone o ossitocina intranasale, che hanno dimostrato per ora un’efficacia preliminare.
Per quanto riguarda invece la cura vera e propria del disturbo già conclamato, gli psichiatri possono contare su interventi sia psicologici sia farmacologici.
Spiega Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze e salute mentale AAST Fatebenefratelli-Sacco di Milano: «Fra le psicoterapie, la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma ha le maggiori evidenze di efficacia. Le tecniche comportamentali si basano sulla riesposizione a elementi legati al trauma in un setting sicuro e controllato, fino a raggiungere la desensibilizzazione dall’evento traumatico. Quelle cognitive correggono le convinzioni disfunzionali, come sentirsi impotenti o colpevoli. Anche l’Emdr, Eye Movement Desensitization and Reprocessing, la rievocazione dell’evento traumatico associata all’induzione di movimenti oculari, ha dimostrato buona efficacia, così come la psicoterapia interpersonale o la mindfulness».
Ma circa il 75 per cento delle persone che soffrono di questo disturbo assume anche una terapia farmacologica, soprattutto antidepressiva. «Paroxetina e sertralina sono approvati dall’FDA americana per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress, ma anche venlafaxina e trazodone sono utili — dice ancora Mencacci —. Fra i trattamenti innovativi, cicloserina e stimolazione magnetica transcranica hanno fornito alcune prove di efficacia, mentre gli eventuali effetti terapeutici di cannabinoidi o ketamina devono ancora essere approfonditi».
Dato che spesso chi soffre di questo disturbo riceve trattamenti diversi che non sempre riescono a vincere tutti i sintomi, secondo Arieh Shalev e i suoi collaboratori l’obiettivo di qualunque terapia dovrebbe puntare almeno a contenere il comportamento autodistruttivo e il senso di solitudine associati a molti di questi casi.