l’anniversario
Nelson Mandela, cento anni fa la nascita: una vita all’insegna della libertà
Il 18 marzo 1918 nasceva il padre del Sudafrica moderno, icona di libertà in tutto il mondo
«Un sognatore che non si è mai arreso
«Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso». Già della materia dei sogni, uno in particolare, quello della libertà, è impastata l’intera esistenza di Nelson Mandela, di cui oggi si celebra il centenario della nascita. Dalla scomparsa, sono passati quasi cinque anni, eppure il lascito del padre del Sudafrica è vivo più che mai. Nelle bandiere di chi è ancora oppresso. Di chi combatte le diseguaglianze, di razza e di ceto, che stentano a scomparire, anzi qua e là s’allargano. Di chi insomma spera, quindi sogna, in un futuro migliore
di Matteo Cruccu
qui
Il Fatto 18.7.18
Non c’è pace su Heidegger: bloccata la traduzione
di Pietrangelo Buttafuoco
Non c’è pace tra i sentieri della Foresta Nera. L’editore Bompiani annuncia per il prossimo autunno l’uscita – in edizione italiana – del volume 97 dei Quaderni neri di Martin Heidegger, l’ultimo tra i filosofi sommi, ma dalla Germania arriva lo stop: “Facili strumentalizzazioni e contenuti falsati”. Il libro doveva già uscire in maggio, i giornali ne hanno dato notizia e s’attendeva – come è già accaduto con i precedenti volumi, oggetto di reiterati esorcismi – la rinnovata mostrificazione di Heidegger, la reductio ad hitlerum di un grande pensatore.
L’autore di Essere e Tempo è pretestuosamente additato presso i circoli liberali – cui nessuno osa sollevare obiezioni, tanto la pubblicistica accoglie acriticamente la mistificazione – come il teorico del nazionalsocialismo se non, senza mezzi termini, come una sorta di stregone ai margini dello sterminio.
Una voga tutta italiana ha alimentato questo sabba intorno ad Heidegger ma i sentieri della pazienza si sono definitivamente interrotti e i toni, adesso, sono tanto aspri quanto ultimativi: “L’uscita di questo volume è legato al placet per la pubblicazione dell’avv. Arnulf Heidegger, amministratore del lascito di Martin Heidegger; questo placet non è all’orizzonte e non potrà essere accordato se la traduttrice italiana, la dottoressa Alessandra Iadicicco, non si atterrà a eseguire una traduzione che sia libera da insinuazioni ideologiche e capace quindi di entrare nel lessico heideggeriano in modo competente. Il mio stretto amico, il maestro Franco Volpi – con la sua scuola – dovrebbe essere un punto di riferimento per la traduzione in Italia delle opere del filosofo; impeccabile è, infatti, il lavoro di Adelphi nella pubblicazione delle Opere Complete…”.
È Friedrich-Wilhelm von Herrmann, il responsabile scientifico dell’archivio Heidegger, che parla: “Questa è la mia norma, in coerenza con il compito affidatomi da Martin Heidegger personalmente”.
Con il professore – docente presso la prestigiosa Albert-Ludwigs, l’Università di Friburgo in Brisgovia, la stessa di Martin Heidegger – c’è anche il suo assistente privato, Francesco Alfieri.
Combattivo frate francescano, sacerdote, Alfieri, ha avuto incarico da Von Herrmann – in accordo con l’amministratore del lascito – di leggere traduzione del volume 97: “Il professore Alfieri ha esaminato il volume e solo quando tutte le interpretazioni pretestuose saranno espunte l’editore potrà avere l’atteso placet; non si può mettere a tacere il dato di fatto che la traduzione italiana dei Quaderni è in pieno stallo”.
C’è ben più che una polemica. “La misura è colma”, ripetono a Friburgo ma Iadicicco – nostra obiezione – è persona intellettualmente onesta e difficilmente potrebbe tradire, traducendo: “Diciamo allora che ci sono delle difficoltà – replica padre Francesco – le difficoltà sono molte e a diversi livelli; anzitutto la scelta della Iadicicco di tradurre molti termini del lessico heideggeriano con una tonalità piuttosto ebraicizzante che porta a distorcere il reale contenuto”.
La questione è delicatissima, un accento, un tono o una sfumatura fuori canone e subito si apre il baratro dell’abiezione facendo di Heidegger il pastore del Male Assoluto e non quello che veramente è, il custode del disvelamento dell’Essere.
Ecco, è la questione delle questioni. “Ma a queste difficoltà – afferma Von Herrmann – si aggiungono le personali interpretazioni dei Quaderni neri contenute nelle ‘Avvertenze della traduttrice’ che non possono e non devono affatto comparire perché disorientano il lettore. Questa lunga lista di difficoltà nel lavoro eseguito dalla Iadicicco è stato da me, Von Herrmann, in qualità di responsabile scientifico dell’edizione complete di Heidegger, e da Francesco Alfieri, mio assistente privato, consegnato all’avvocato Arnulf Heidegger perché l’edizione italiana delle opere di Heidegger siano sottratte a chi invece vuole utilizzarle per fini ideologici che poco hanno a che fare con la cultura e con la ricerca rigorosa”.
Togliere di mezzo Heidegger, dunque, questa è la vera meta benpensante. Basti considerare quello che la pubblicistica – anche autorevole – offre sul tema. Con l’uscita di qualsiasi volume che abbia a che fare con Heidegger, ecco che monta il pretesto per ritornare “su vecchie polemiche – dice Alfieri – che ormai si rivelano vuote sulla base delle nuove acquisizioni scientifiche sui Quaderni neri”.
L’abbiamo ricordato che si chiamano “neri”, i quaderni, per via della copertina e non, nel contenuto, di eventuali fascinazioni nazi?
I due professori sono severissimi: “La traduzione del volume 97 a oggi è bloccata e tale rimarrà finché l’editore non si convincerà di attenersi al lessico heideggeriano e non ceda alle facili strumentalizzazione che poi portano a falsare il contenuto, ma…”. Ma? I due professori, adesso, sorridono: “Crediamo che il gioco mediatico avuto in Italia con i Quaderni neri volga al termine”.
il manifesto 18.7.18
Alla ricerca di una bussola critica in compagnia di Marx, Labriola e Gramsci
Materiali. Riproposto da Editori Riuniti «Senza comunismo. Labriola Gramsci Marx» di Antonio Santucci
di Marco Gatto
Antonio Santucci è stata e continua a essere uno degli studiosi più interessanti del pensiero di Gramsci, del marxismo italiano. Rigoroso, aperto a diversi campi del sapere, con una tensione umanistica e partecipativa sempre viva, Santucci non solo ha curato un’imprescindibile edizione delle Lettere dal carcere (riproposta nel 2013 da Sellerio), ma ha scritto contributi importanti sulle relazioni tra filosofia, politica e cultura. A confermarlo è la seconda edizione di Senza comunismo. Labriola Gramsci Marx, riproposto da Editori Riuniti (pp. 168, euro 15), con una bella prefazione di Lelio La Porta e Donatello Santarone. I quali appunto si soffermano su un tratto peculiare di Santucci: la capacità, fedelmente gramsciana, di allestire una «filologia vivente» degli oggetti indagati, in una dimensione comunque critica, sempre tesa a una forma rinfrescante di caparbia elaborazione concettuale.
STUPISCE, in questi saggi dedicati al pensiero socialista, lo sguardo sempre ampio, la capacità di allestire collegamenti tra la grande letteratura mondiale e la critica della economia politica. Si può dire di Santucci, del resto, quel che lui stesso scrive di Eugenio Garin, in un testo che il lettore trova in appendice: «estraneo a ogni sorta di dogmatismo teorico, nonché a conseguenti cedimenti all’ortodossia politica».
IN SANTUCCI C’È comunque un continuo cammino attraverso Gramsci che gli permette un attraversamento costante di tutte le presupposizioni critiche e storiografiche: perché, interpretando una battaglia contro lo specialismo e contro il bizantinismo dei concetti, il metodo gramsciano coglie il legame stringente tra l’elaborazione teorica e la verifica pratica, in un dinamismo dialettico che non lascia spazio all’improvvisazione, ma che al contrario si pone come critica del senso comune. Si legga in tal senso il saggio sull’esperienza dell’Ordine nuovo, in cui Santucci rilegge l’opposizione tra cultura astratta e cultura concreta, tra utopismo e realtà vissuta, come la chiave di accesso a quell’idea di storicismo assoluto delle cose e dei concetti che sarà alla base del pensiero «processuale» di Gramsci. O si leggano le pagine dedicate a Labriola, nel tentativo di rimettere in primo piano una figura centrale per lo sviluppo teorico del comunismo critico. E, ovviamente, le pagine dedicate a Marx.
«SENZA COMUNISMO»: Marx, Labriola e Gramsci, commentano La Porta e Santarone, vissero «le loro esperienze immediate di ricerca, di studio, di proposta, di militanza politica nella mancanza pressoché totale di una qualsiasi speranza di veder realizzata una rivoluzione comunista o qualcosa che in qualche modo si avvicinasse al comunismo». Ciò autorizza a pensare le loro pagine e la loro attività politica come una continua implicazione, scrive Santucci, tra «l’aspetto teorico del comunismo come “risultato” del processo storico» e «quello politico tendente a organizzare praticamente il movimento che dovrà realizzarlo». Si tratta di una metodologia culturale e politica che Santucci ha il merito di aver ripercorso ed enfatizzato nei suoi scritti.
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il manifesto 18.7.18
Ong denuncia: «Migranti abbandonati in mare dai libici»
Sicuri da morire. Morti una donna e un bambino, un’altra donna tratta in salvo da Open Arms. Salvini: «Tutte bugie, io tengo duro»
di Adriana Pollice
Una barca con 158 migranti è stata intercettata dalla Guardia costiera libica al largo di Khoms: una nota della Marina di Tripoli ieri mattina informava brevemente sull’operazione aggiungendo che il gruppo aveva ricevuto aiuti umanitari e assistenza medica prima di essere portato in un campo profughi. Secondo Proactiva open arms al racconto manca un pezzo: «La Guardia costiera libica non ha detto che hanno lasciato due donne e un bambino a bordo e hanno affondato la nave perché non volevano salire sulle motovedette» ha scritto ieri sui social il fondatore della Ong catalana, Oscar Camps. Nel video postato si vedono i corpi di una donna e di un bambino, privi di vita, sulle assi di legno del fondo di un gommone distrutto. «Quando siamo arrivati – prosegue Camps – abbiamo trovato solo una delle donne ancora viva. Quanto tempo avremo a che fare con gli assassini arruolati dal governo italiano?». I corpi sono stati recuperati e portati a bordo dell’Open arms: a una prima analisi del medico di bordo, Giovanna Scaccabarozzi, il bambino di circa cinque anni ha resistito più a lungo ma non abbastanza per poter essere salvato.
È riuscita invece a sopravvivere Josephine: viene dal Camerun ed è rimasta due giorni in mare, aggrappata a un asse della carena. Uno dei volontari si è gettato in acqua per recuperarla e, con il resto dell’equipaggio, l’ha issata a bordo assiderata e sotto choc, come racconta Annalisa Camilli, giornalista dell’Internazionale che ha seguito il salvataggio.
Secondo l’Ong, lunedì erano stati avvistati due gommoni, come da comunicazioni tra il mercantile Triades e la Marina libica. La Guardia costiera di Tripoli avrebbe però deciso di effettuare le operazioni di salvataggio da sola. Quello che è avvenuto, accusa Camps, «è la conseguenza diretta del fatto che l’Europa ritiene la Libia un paese con un governo e una Guardia costiera capace di intervenire. Denunciamo l’omissione di soccorso in acque internazionali della presunta Guardia costiera libica, legittimata dall’Italia». Open arms nel pomeriggio ha messo la prua verso nord, in direzione Lampedusa. Non per entrare in porto ma almeno consegnare i due corpi e la sopravvissuta alla Marina italiana. Non è escluso però che possa dirigersi verso al Spagna.
Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è stato costretto a correre ai ripari. Lunedì aveva ripetuto: «Dobbiamo cambiare la normativa per includere i porti libici in quelli sicuri. C’è questa ipocrisia in Europa per cui si danno soldi ai libici, si forniscono le motovedette ma poi si ritiene la Libia un porto non sicuro». Nel pomeriggio è arrivata una nota: secondo il Viminale quella di Proactiva Open Arms sarebbe «una fake news», la fonte una giornalista tedesca presente al salvataggio. Il portavoce della Marina di Tripoli, Ayoub Qasem, si è poi difeso: «Nessuno è rimasto in mare. Probabilmente alcuni migranti sono annegati prima dell’arrivo delle motovedette» per poi accusare le Ong che «ostacolano le nostre attività».
Intanto però ci sono i numeri. In base ai dati diffusi dall’Oim, i morti nel Mediterraneo nel 2018 sono stati 1.443, in proporzione molti di più rispetto al 2017 visto che gli sbarchi sono calati dell’81%. Il deputato di Leu Erasmo Palazzotto, che è a bordo dell’Astral (la seconda imbarcazione della Proactiva open arms), ha attaccato: «Caro Salvini e caro Minniti, di questi assassini siete responsabili voi con i vostri accordi. L’Italia presti soccorso alla donna sopravvissuta che ha urgente bisogno di cure». Il leader leghista non fa una piega: «Il mio obiettivo è salvare tutti, ma evitare che arrivino in Italia. Bugie e insulti di Ong straniere confermano che siamo nel giusto. Le Ong i porti italiani li vedranno in cartolina».
Le conseguenze degli attracchi bloccati sono altri morti. Gli ultimi, in acque italiane, risalgono a venerdì. I 450 a bordo del peschereccio partito da Zuara erano arrivati a Linosa. Il tragitto monitorato dal Centro di coordinamento di Malta e poi di Roma ma nessuno è andato a salvarli perché la politica dei due governi questo impone. Erano senza acqua né cibo, al largo dell’isola siciliana hanno visto due motovedette della Capitaneria di porto e una della Guardia di finanza ferme e nessuna operazione per prenderli a bordo. In 34 allora si sono buttati in mare per raggiungere i soccorritori a nuoto. Solo allora, difronte al pericolo immediato, è stato possibile mettere da parte il veto del Viminale e mettere i battelli in acqua per salvarli. Quattro somali però sono annegati.
il manifesto 18.7.18
Violenza ai migranti e minacce alle ong, il libro nero della Guardia costiera libica
di Leo Lancari
ROMA «Bugie». «Fake news». «Io tengo duro». Con i soliti proclami che contraddistinguono ogni suo intervento il ministro Matteo Salvini si mostra sicuro del corretto comportamento della Guardia costiera libica, accusata da Open Arms di aver abbandonato in mare un bambino e due donne, una sola dell quali sopravvissuta. E promette di rendere nota la testimonianza di non meglio specificati «osservatori terzi» che smentirebbero le pesanti accuse della ong spagnola. Sperando che spieghino anche perché i militari libici si sarebbero allontanati portando via 158 migranti ma lasciandone in acqua tre che, se soccorsi, avrebbero potuto essere salvati.
La difesa della Guardia costiera di Tripoli è solo un altro passaggio della battaglia che il titolare del Viminale sta conducendo per il riconoscimento della Libia come Paese sicuro nel quale poter rispedire i migranti. In realtà da quando l’Italia ha fornito alla Libia alcune motovedette, inizialmente quattro, più di recente altre 12 mentre 14 sono state promesse, la Guardia costiera libica si è più volte contraddistinta per i metodi violenti con cui effettua i «soccorsi», arrivando spesso a minacciare con le armi le navi delle ong che intervengono nel Mediterraneo. Charles Heller e Lorenzo Pezzani, due ricercatori della londinese Forensic Oceanography, hanno ricostruito le fasi drammatiche di un intervento effettuato il 6 novembre 2017 durante il quale i militari libici hanno conteso i migranti ai volontari della ong Sea Watch.
Le immagini assemblate dei video girati in quell’occasione se da una parte dimostrano la scarsa preparazione dei militari, dall’altra tolgono ogni dubbio sul trattamento violento riservato ai migranti, costretti a salire a bordo della motovedetta e in seguito frustati con una corda per costringerli a rimanere seduti mentre in mare altri migranti affogavano senza che nessuno potesse intervenire. Fino al momento in cui la motovedetta ha acceso i motori e fatto rotta verso la Libia incurante di un uomo appeso a una fune che veniva trascinato via nonostante un elicottero italiano invitasse più volte l’equipaggio libico a fermarsi. Innumerevoli, poi, le denunce delle ong che hanno raccontato di essere state minacciate con le armi dai militari libici infastiditi dalla loro presenza. A rendere ancora più difficile considerare la Libia un paese sicuro per migranti c’è poi il fatto che Tripoli non ha mai firmato la convenzione di Ginevra e considera l’immigrazione un reato punibile con la detenzione. Si calcola che il governo controlli almeno 34 centri nei quali sarebbero richiusi in condizioni disumane tra i 6.000 e gli 8.000 migranti, donne e bambini compresi. Un paese nel quale i diritti umani sono vietati anche agli stessi libici, come denunciato ad aprile aprile da un rapporto dell’Onu in cui si parlava di di «orrori e torture» messe in atto nelle carceri. Dove, denunciava l’Alto commissariato per le Nazioni unite per i diritti umani, le persone sono detenute «in maniera arbitraria» sulla base «della loro appartenenza tribale o di legami familiari o di apparenti affiliazioni politiche».
Può bastare questo per immaginare come può essere la vita di un migrante prigioniero in un centro di detenzione libico. Riferendosi all’accordo siglato dall’ex ministro degli Interni marco Minniti con la Libia per fermare le partenze dei migranti, sempre l’Onu ha definito «disumana» la scelta dell’Italia di usare la Guardia costiera libica per chiudere la rotta del Mediterraneo centrale, e la decisione di riportare in Libia i migranti come «un oltraggio alla coscienza dell’umanità». «Quella che era una situazione già disperata, ora è diventata catastrofica», ha detto l’Alto commissario Onu per i diritti umani.
Repubblica 18.7.18
Tripoli
Gli accordi con l’Italia
Libia sotto accusa “Sono inaffidabili? Lì non c’è Stato...”
di Vincenzo Nigro
ROMA Parla un diplomatico italiano: «La Guardia costiera libica ha salvato migranti, non ne ha ucciso due o tre abbandonandoli in mare: noi italiani lavoriamo con loro, ormai li conosciamo, possono avere mille problemi ma sono buoni marinai e soprattutto quelli di Tripoli sono gente onesta».
Non c’è soltanto il ministero dell’Interno di Matteo Salvini a difendere i libici. Ci sono la Farnesina e il ministero della Difesa (che coordina l’addestramento della Guardia costiera libica): non credono alla versione di Open Arms. «I libici stanno raccogliendo tutti gli elementi e hanno iniziato a renderli pubblici, il fatto che sia stato rifiutato il soccorso a due donne e due bambini è assolutamente contro tutto quello che vediamo fare a una Guardia costiera che noi italiani sosteniamo», dice un’alta fonte degli Esteri. E lo stesso comandante Patrizio Rapalino, l’addetto navale italiano a Tripoli, ieri ha passato messaggi ai suoi capi al ministero della Difesa e allo Stato Maggiore Marina per confermare che secondo la sua ricostruzione «può esserci stato un incidente, possono essere stati lasciati in mare, di notte, alcuni naufraghi, ma è sbagliato parlare di volontà di abbandonarli».
Ieri sera, dopo che per ore la versione di Open Arms aveva iniziato a girare sui media, il portavoce della guardia costiera di Tripoli Ayub Qassim ha parlato e ha fatto postare un comunicato sulla pagina Fb della forza armata.
«Abbiamo salvato 165 migranti: 119 uomini, 34 donne 12 bambini: il salvataggio è avvenuto a 76 miglia a Nord di Garabulli. Il gommone era in difficoltà da sabato, i migranti erano in pessime condizioni per mancanza di cibo, di acqua, per il sole, per disidratazione. Il motore si era rotto e non potevano manovrare. La vedetta “Ras Jedir” era incaricata dell’operazione: li hanno tirati a bordo di notte, hanno perlustrato poi lo spazio di mare con i fari, nessuno ha lasciato a mare nessuno, perché due donne sarebbero state imbarcate senza nessuna esitazione».
Qassim da mesi conduce una battaglia quotidiana sui media di tutto il Mediterraneo: «Anche noi imbarchiamo giornalisti, l’altra notte a bordo c’era una reporter di una tv tedesca, la verità verrà fuori. Certo che abbiamo difficoltà nei salvataggi e per questo ringraziamo il governo italiano che ci ha promesso altri mezzi».
Qassim difende comprensibilmente la sua squadra, un gruppo di marinai non collegati a nessuna delle milizie che invece infestano buona parte della Libia e in alcuni porti hanno infiltrato o controllano altri comandi della Guardia costiera. E lo stesso fanno i funzionari italiani che da quasi un anno lavorano in Libia anche con una nave officina per le riparazioni delle vedette e hanno addestrato in Italia buona parte del personale.
Dunque, ci si può fidare della Guardia costiera libica? La domanda fatta a un comandante italiano ha una risposta complessa: «Ci fidiamo di uno Stato libico? No, perché uno Stato non esiste. C’è chi è riconosciuto dall’Onu, come il governo di Serraj. Ma sono singoli uomini politici con legami più o meno forti con l’estero e rapporti più o meno assoggettati alle milizie. In questo gioco noi stiamo provando a stabilizzare la parte migliore di alcuni apparati, come la Guardia costiera e la Marina».
Come dire: in Libia l’Italia non ha molte alternative, appoggiare i meno peggio, e tra questi c’è la Guardia costiera.
Repubblica 18.7.18
Cosa ci dicono gli occhi di quella donna
di Marco Belpoliti
Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, come hanno scritto i filosofi antichi, cosa c’è nell’anima di questa donna? Molto più che paura o sconcerto. C’è l’orrore, quello di chi è stato lasciato in balia delle acque su un gommone a malapena galleggiante, e ha visto morire la propria amica e il figlio su quella zattera sconquassata dai marosi. Quegli occhi esterrefatti, increduli, occhi che dicono tutta la tragedia e insieme la negano.
Occhi imploranti, come abbiamo imparato purtroppo a conoscere da quando la fotografia documenta le guerre e i massacri: il terrore indicibile dei sopravvissuti. E ancora più indietro nei secoli, da quando la grande pittura racconta il dolore dei dolenti, del Cristo in croce e delle donne all’intorno. Sono gli occhi di Maria presso il corpo del Figlio.
La mano che accarezza e insieme sostiene quel viso rende manifesta una pietà che altri non sembrano provare. La pupilla scura e il bianco attorno, la bocca appena aperta, il biancore accennato dei denti tra le labbra socchiuse: non possono lasciare che interdetti. Com’è possibile che non si soccorrano in mare queste donne? Ogni volta che sento il ministro dell’Interno usare l’espressione «come padre», mi domando dove stia la paternità di cui parla, e non posso fare a meno di pensare che sia solo un modo di dire, che Matteo Salvini non sappia davvero cos’è la paternità, se non come un fatto meramente biologico, non certo come stato d’animo, come pathos o pietà, quella che si prova dinanzi a ogni forma di vita.
Questi occhi gridano tutto il dolore del mondo, quello cui non sappiamo rispondere se non la durezza del cuore e con la crudeltà delle leggi. Non ci sono altre leggi per gli esseri umani che quelle dell’anima, leggi che suggeriscono la misericordia e la compassione per l’altrui miseria. Nell’etica cristiana, la misericordia non è solo un sentimento, ma una virtù spirituale, una delle fondamentali virtù della nostra civiltà.
«Beati i misericordiosi perché avranno misericordia», così parla Gesù alle folle.
Questi occhi dovrebbero togliere il sonno a chiunque abbia emanato l’ordine d’abbandono delle due donne e del bambino, a chi non ha avuto pietà per tre giovani vite umane in balia delle onde.
Non dovrebbe più aver pace per il seguito dei suoi giorni. Il cuore non conosce altra legge che la compassione. Il cuore non conosce altro ordinamento giuridico, o trattato internazionale, se non quello che nasce e vive nel cuore di chi ha un’anima.
Ma c’è chi quest’anima l’ha persa, non l’ha più, e grida ai quattro venti: «Io tengo duro». Duro cosa? Il cuore o la cervice?
Entrambi, viene fatto di dire. A un certo punto del suo romanzo dei deboli e dei poveri Manzoni fa dire a un suo personaggio: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!». Non sono un credente, ma guardando questa immagine della donna salvata dalle acque prego che, se c’è un Dio, apra il cuore di uomini che non sembrano più averlo.
Apra il cuore a coloro che parlano il linguaggio dell’insensatezza, che non è neppure un linguaggio della politica ma della propaganda, il linguaggio della menzogna e dell’inganno. Mi rifiuto di credere che la pietà sia morta su quel fuscello di gomma sgonfia alla deriva nel Mediterraneo per quarantotto ore. Chi l’ha tratta in salvo, gli uomini e le donne dell’Ong, ha seguito un imperativo morale che non può più essere obliato, per cui non esiste tribunale umano che lo possa giudicare o legge che lo possa respingere.
L’imperativo morale è ciò che ci rende umani, oggi come ieri.
Repubblica 18.7.18
Il buio dopo l’occidente
di Ezio Mauro
Che cosa succede quando il re non crede più nel suo regno? Siamo di fronte all’abiura: pubblicamente, appena varcato l’oceano, l’imperatore attacca il suo storico alleato, eleggendolo a nuovo avversario, e subito dopo stringe un patto d’amicizia con il nemico storico, ma soprattutto rovescia la storia e cambia la geografia del mondo. Nel farlo, scioglie ogni vincolo per i principi, i sudditi, i popoli e i vassalli. Da oggi ognuno bada a se stesso e cura i suoi interessi, l’Alleanza atlantica finisce alle corde, l’Occidente torna a essere una pura espressione geografica: non più un’interpretazione morale della storia, dunque una sua declinazione politica.
Naturalmente il re non rinuncia al trono e alla corona. Semplicemente sposta il fondamento della sua potestà, lo scettro del comando.
Non più su un’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico, tra l’Europa e l’America unite dalla comune esperienza della guerra al nazismo, che ha dato vita a un patto fondato sui valori della libertà difesa insieme dalla pretesa totalitaria che si allungava sul continente e sul mondo. Un patto di salvaguardia democratica proseguito poi con gli stessi attori — Stati Uniti ed Europa Occidentale — uniti negli anni della Guerra fredda contro il tallone di ferro del bolscevismo che occupava l’Europa dell’Est, fino alla caduta del muro di Berlino: che ha innescato la fine dell’Urss e del comunismo fatto Stato a Mosca, per settant’anni il “ nemico ereditario” di questa metà del mondo.
Chi interpretava l’Occidente come la pura risultante di un patto militare, poteva ritenere a quel punto conclusa la sua avventura. Ma la faticosa vittoria novecentesca contro i due totalitarismi, a distanza di quasi mezzo secolo, dimostra che l’Occidente non era una creatura artificiale costruita negli alambicchi difensivi del Novecento, bensì una testimonianza imperfetta, infedele ma testarda di un principio che infine ha prevalso: la democrazia dei diritti, la democrazia delle istituzioni. Unica religione politica superstite, dopo la fine del secolo, la democrazia ci aveva anzi illusi — sbagliando — di poter diventare egemone, al punto che gli Usa pensarono di poterla “esportare”. Un anno dopo lo shock terribile delle Torri gemelle, nel documento sulla strategia nazionale di sicurezza George W. Bush si disse convinto che «l’umanità ha nelle sue mani l’occasione di assicurare il trionfo della libertà sui suoi nemici » , anche se con decisione autonoma e unilaterale assegnava agli Usa il ruolo di guida: «Gli Stati Uniti sono fieri della responsabilità che incombe su di loro di condurre questa importante missione».
Quelle che Trump non riconosce sono queste tre parole del suo predecessore repubblicano: libertà, responsabilità, missione. Il suo esercizio del potere è infatti fuori da ogni vincolo di mandato, esterno o auto-imposto. Il concetto di libertà e di democrazia imporrebbe di non chiudere automaticamente il dossier sulle ingerenze russe nella campagna elettorale soltanto perché Putin assicura che il Cremlino non è sospettabile, e di tenere aperto a ogni incontro il problema della Crimea, perché quell’invasione rappresenta una violazione del diritto internazionale e dell’integrità di uno Stato sovrano. La responsabilità riguarda il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, il legame storico cementato dal rifiuto delle dittature con Europa, Israele e Giappone, la costruzione di quella creatura politico-geografico-culturale di riferimento che era l’area democratica del nostro pianeta. La missione significa la capacità di unire la salvaguardia degli interessi nazionali e materiali degli Stati Uniti con i valori di libertà e democrazia, a cui i presidenti e il Congresso si sono sempre richiamati, pur col rischio dell’infedeltà nella pratica politica corrente.
È questa combinazione che ha conferito la leadership del mondo alla Casa Bianca, non semplicemente la rappresentanza della superpotenza economico- finanziaria e militare. Ed è questo meccanismo che oggi entra in crisi, per la scelta consapevole di Trump di scambiare amici e nemici, liberandosi del peso dell’alleanza con i partner europei, con i soci della Nato, affidando ai rapporti di forza bilaterali la misura della nuova guida del mondo che troverà il suo diverso equilibrio nel rapporto tra Washington, Mosca e Pechino, senza che la nuova America vada troppo per il sottile con il problema dei diritti umani, delle libertà politiche, della libertà di espressione, dei diritti delle minoranze e delle opposizioni.
È un’America sconosciuta, quella che Trump disegna per conquistare il suo secondo mandato: egoista, gelosa, isolazionista, muscolare, smemorata. Dimentica della storia del Dopoguerra, delle obbligazioni reciproche, che non sono tutte traducibili in moneta, ma in vincoli storici, morali, politici. Per riuscirci, ha bisogno che mentre cambia l’America, simmetricamente cambi anche l’Europa, che in buona parte ci sta già pensando da sola. Per questo ha spinto Theresa May a una Brexit più dura e a fare causa alla Ue, e metterà in campo tutte le sue armi per sfasciare la costruzione europea. L’Europa di Trump è politicamente un non- continente con una serie di piccoli Stati impotenti chiusi ognuno negli interessi del proprio sovranismo, pronti a diventare vassalli dei due imperatori di Mosca e di Washington, senza più l’equivoco burocratico di Bruxelles, senza più l’inciampo europeista di Angela Merkel, senza il motore franco-tedesco: con ogni passione europea spenta.
Il guaio è che questa pretesa neo- egemonica incontra per paradosso il peggior spirito dei tempi, anche da noi. L’Europa viene vissuta dai cittadini come un sistema di vincoli di cui non si rintraccia più la legittimità. Diritti e democrazia sono ormai considerati belle parole coniate in un’epoca pre-crisi, quando c’erano risorse da spartire, mentre oggi il risentimento e il disancoramento spingono il cittadino a pensare a se stesso, a rifiutare condivisione, responsabilità, solidarietà. Anche il concetto di libertà cambia nell’era di Trump, non è la piena espansione delle facoltà del cittadino e la piena espressione dei suoi diritti, ma è la libertà da ogni vincolo, da qualsiasi obbligazione, da qualunque legame: una sorta di inedita ego-libertà.
In tutto questo, com’è evidente, la barca italiana trova l’acqua benedetta per galleggiare. Senza rotta, sulla spinta di proclami propagandistici, che però nella loro eco minuscola riecheggiano esattamente questa voce del mondo nuovo. D’altra parte Salvini ha già offerto l’Italia come sede del prossimo vertice tra Putin e Trump, modelli ideali del governo italiano che naviga a vista. Ecco, il rischio è questo, che Trump e Putin diano una cornice, una bussola e una rotta a Conte, Salvini e Di Maio, che ne sono sprovvisti, annettendoli definitivamente al fronte sovranista. Roma, capitale della repubblica sovrana di Visegrad: nel buio dopo l’Occidente.
il manifesto 18.7.18
Il ministro Salvini, l’anti-italiano
di Filippo Miraglia
* Arci nazionale
Salvini è sicuramente il Ministro dell’Interno più anti italiano che potesse capitare al Bel Paese. Il Ministro della Propaganda interviene ossessivamente sull’immigrazione con parole e discorsi d’odio.
Convinto, a ragione, che questo gli farà guadagnare sempre più consensi, producendo uno spostamento stabile della cultura degli italiani. Quel che è accaduto in questi anni è purtroppo un vero e proprio imbarbarimento culturale, una mutazione antropologica che Salvini ha contribuito a determinare, per raccoglierne i frutti.
Il suo obiettivo non è certamente fare l’interesse dell’Italia, quanto quello del suo partito.
Aumentare i consensi vuol dire consolidare il proprio potere, la propria carriera personale e la presenza del proprio partito nelle istituzioni. E quindi maggiori entrate, più soldi e potere. Un vero business fatto sulla pelle delle persone in cerca di protezione e più in generale degli stranieri presenti in Italia che stanno già pagando un caro prezzo, in termini di diritti negati e di razzismo, a causa del diffondersi di sentimenti di rancore e intolleranza nei loro confronti. Il business dell’immigrazione c’è, ma a incassare sono Salvini e la Lega.
Ed è facile dimostrare che le sue scelte non sono fatte per perseguire gli interessi dell’Italia, contro cui anzi provocano danni.
Pensiamo per esempio alla questione oggi al centro dell’attenzione dei media, dell’opinione pubblica e degli interventi ossessivi di Salvini: la distribuzione dei richiedenti asilo nei diversi Paesi europei.
Questa avviene in prevalenza, se non esclusivamente, sulla base del regolamento Dublino. Il Parlamento Europeo ha votato, il 16 novembre 2017, una riforma che introduce per la prima volta il principio che qualsiasi richiedente asilo arrivi in Grecia, Italia o Belgio è un richiedente asilo europeo. L’Unione europea deve farsi carico dell’accoglienza in conformità a un piano di ripartizione e di regole condivise. In questo modo il principio del Paese di primo approdo, tanto contestato anche da Salvini, sarebbe cancellato. Ebbene, Salvini e la Lega non hanno votato questa riforma che sicuramente conviene all’Italia, ma non evidentemente alla Lega, alleata con i peggiori governi e partiti di destra in Europa che di condivisione e accoglienza non vogliono proprio sentir parlare.
C’è un altro argomento che spiega bene quanto sia anti italiano l’approccio della Lega e di quanti ricorrono ad argomentazioni razziste per i loro interessi politici o personali.
La sottrazione di diritti, compresa l’aumentata difficoltà a raggiungere legalmente il nostro Paese, l’impossibilità di rivolgersi allo Stato per attraversare le frontiere (riduzione di diritti introdotta con la Bossi-Fini e che si è aggravata con le politiche di esternalizzazione delle frontiere portate avanti in tutta Europa, e non solo l’Italia, e non solo da questo governo ma anche dai precedenti, trasformando i governi Ue, di fatto, nei principali alleati dei trafficanti) rende le persone di origine straniera più ricattabili e più deboli.
Questo, nel mondo del lavoro, determina sfruttamento, fenomeni come il caporalato, nuove forme di schiavitù. Questa fragilità di una parte consistente dei lavoratori e delle lavoratrici produce inevitabilmente una generale riduzione di diritti, che riguarda tutti, e consente una consistente evasione fiscale e contributiva. In pratica, la riduzione dei diritti dei migranti, il primo dei comandamenti della destra leghista, va contro gli interessi di tutti noi (altro che «Prima gli italiani»).
La nostra storia, dal dopoguerra a oggi, è stata caratterizzata, non senza contraddizioni e battute d’arresto, da una serie di principi giuridici ed etici che davamo per assodati: i diritti umani, la tutela delle minoranze, il diritto alla difesa, la presunzione di innocenza, il principio di non discriminazione, l’uguaglianza sancita nell’articolo 3 della Costituzione. Principi forse mai completamente realizzati, ma il cui orizzonte era condiviso quasi da tutti. Oggi questi principi vengono demoliti progressivamente per interessi di parte.
Recuperare una cultura dei diritti non sarà facile.
Denunciare gli interessi personali di chi è protagonista di questo arretramento è il primo passo per farlo.
La Stampa 18.7.18
“CasaPound sostiene il governo
Salvini riunisca tutti i sovranisti”
di Jacopo Iacoboni
«Noi di CasaPound siamo sempre stati molto vicini alle idee e ai libri del professor Antonio Maria Rinaldi. L’Italia deve riprendersi la sua sovranità. Quindi è del tutto naturale che alle iniziative di Scenarieconomici.it ci siamo». Luca Marsella, uno dei più importanti tra gli eletti di CasaPound (consigliere a Ostia, dove il movimento di estrema destra ha preso quasi il dieci per cento dei voti) accetta di parlare a La Stampa. Dice: «Sosteniamo sia pure da fuori questo governo», e racconta cosa si sta muovendo nel mondo sovranista, l’interessante incrocio - che sta anche, culturalmente, dietro l’esecutivo - tra universi leghisti, Movimento Cinque Stelle e destra radicale. Roma da questo punto di vista è il terreno ideale di questa incubazione.
Cosa condividete, con queste forze politiche che nascono diverse da voi?
«Innanzitutto l’idea che bisogna uscire dall’euro. Noi siamo più radicali, vogliamo uscire secchi, subito, senza esitazione. In questo siamo più duri. Ma sui temi di fondo è inutile negare che una convergenza c’è. Di sicuro siamo noi i più vicini a Rinaldi».
Siete stati anche alla Camera tutti insieme. Fate network?
«Non so, sicuramente alcune persone condividono degli obiettivi di fondo. Lo stesso professor Rinaldi collabora al Primato Nazionale, la nostra rivista, che portiamo un po’ ovunque, ed è a sua volta un aggregatore di mondi».
Con la Lega vi siete avvicinati molto? In che modo?
«Con Salvini eravamo davvero molto vicini. Parlavamo, c’era scambio. Lui poi ha deciso di ricandidarsi col centrodestra, è andato a Bologna, sul palco con Berlusconi, e questo ha significato un allontanamento, spero momentaneo. Nei fatti e nelle idee siamo rimasti molto simili. Sull’immigrazione e sull’euro abbiamo politiche davvero contigue, al di là degli accenti. Tra l’altro molti dei punti di questo governo sono ripresi pari pari dal programma di CasaPound, quindi noi non possiamo che sostenerlo».
Esempi di punti del contratto ripresi testualmente dal vostro programma?
«Beh, prenda l’idea di intervenire direttamente in Libia per affrontare la questione migratoria: quella è stata presa dal nostro programma. Simone Di Stefano, il nostro candidato premier, ha fatto sostanzialmente la campagna elettorale su questo, venendo anche preso in giro dall’intellighenzia di sinistra».
Intellighenzia di sinistra saranno, immagino, anche queste domande?
«Direi di sì. Ma noi come vede ci confrontiamo con tutti. Sono gli altri, spesso, che non si confrontano con noi».
E con il Movimento Cinque Stelle i rapporti come sono?
«A Roma non possiamo certo dire che la Raggi stia governando bene, anche se non l’avevamo osteggiata. Sul piano nazionale invece vedremo, siamo possibilisti».
Ci sono persone, come Carla Ruocco, o professori sovranisti, non solo Savona, che costruiscono eventi economici in cui poi si ritrovano anche persone di CasaPound.
«Vero. Ma ce ne sono anche altre come Fico. Per fortuna l’opzione Fico è molto minoritaria, nel Movimento Cinque Stelle. Molto bene, per noi».
Esiste un qualche collegamento tra le propagande social dei sovranisti?
«No. Diciamo che molti ci hanno seguito e imitato, e noi questo vogliamo essere: uno sprone esterno per l’area di governo. La bandiera europea sbarrata è un’invenzione di Di Stefano, quando andò in Europa a fare questa iniziativa simbolica. Speriamo che il governo sia sempre più su queste posizioni. Di sicuro è una stagione positiva per CasaPound, abbiamo eletto consiglieri in tante realtà, non solo a Ostia. Le differenze tra sovranisti sfumano, mi creda, e siamo tutti la stessa casa».
Con Salvini avete ripreso materialmente a parlare, da quando è ministro?
«No, ma la Lega ci sta piacendo. La nostra speranza è che Salvini si metta a capo di un polo sovranista. Dove, sia chiaro, noi vogliamo parlare con tutti, e a maggior ragione con tutti i sovranisti. È lo spirito di CasaPound: noi abbiamo ospitato anche l’ex brigatista Valerio Morucci».
O recentemente Alexander Dugin, filosofo amato da Putin. I russi vi aiutano?
«È tutto alla luce del sole, niente soldi, con noi e con la Lega non c’è nulla di nascosto. Il Movimento Cinque Stelle tiene il rapporto politico un po’ più coperto, noi no».
Corriere 18.7.18
Cinquanta centesimi l’ora, i nuovi schiavi nei campi sono bimbi e arrivano dalla Bulgaria
Rapporto della Flai-Cgil sullo sfruttamento in Terra di Lavoro
di Angelo Agrippa
qui
Repubblica 18.7.18
Prima del voto
Un report con i consigli elettorali
La lobby delle armi alle urne 99 nomi suggeriti, Lega in testa
Dodici candidati indicati come massimo di affidabilità, altri 87 segnalati per l’approccio “ razionale”. Su Repubblica. it il video in cui il capo di EnalCaccia parla di “ scambio” con Salvini
di Marco Mensurati e Fabio Tonacci
Gli alfieri erano dodici, i cavalli ottantasette. La scacchiera era quella della partita più importante: le ultime elezioni politiche. Quelle che hanno consegnato il Paese al suo primo governo gialloverde, il governo del cambiamento. E a un parlamento che, di lì a poco, avrebbe dovuto affrontare una fase cruciale per la vita di chi fabbrica pistole, e di chi le usa.
Uno dopo l’altro, sarebbero arrivati al pettine tre nodi. Il primo, quello di maggiore impatto sull’industria: il recepimento della direttiva europea che limita la circolazione e il possesso, da parte dei cittadini, di armi da guerra e dei loro caricatori. Il secondo, quello più sentito da chi ama sparare: la regolamentazione delle centinaia di poligoni privati, sorti come funghi in tutto il Paese, e ancora oggi lasciati allo stato “brado”, senza controlli e con standard di sicurezza minimi. Il terzo, il più rilevante e divisivo: la riforma della legittima difesa. Quella che, stamattina, inizia il suo iter di discussione al Senato.
Gli alfieri
Torniamo a quei giorni di campagna elettorale, tra l’inizio dell’anno e i primi di marzo. Per la prima volta la lobby è scesa, senza indugio, in campo. La posta in gioco lo richiede.
L’ambasciatore individuato per sussurrare alla politica si chiama Comitato D-477. È un’associazione che difende i cittadini possessori di armi, vanta contatti, sia pure embrionali, con la potentissima National Rifle Association statunitense, rappresenta l’europea Firearms United, collabora con le tre principali associazioni industriali della categoria dei fabbricanti (Assoarmieri, Conarmi e Anpam) e ha ottimi rapporti con le testate giornalistiche specializzate. È nata nel 2015 per dare una voce univoca a un settore che si sentiva minacciato dalla stretta europea susseguente agli attacchi terroristici. «Fino ad allora era improprio parlare di lobby», spiega Andrea Gallinari, uno dei fondatori. «L’intervento dell’Unione ha saldato la frammentata costellazione di sportivi, collezionisti, cacciatori, industriali, tutti portatori di interessi di natura diversa, in un fronte organizzato e compatto con le forze politiche europee che rappresentavano una volontà diversa».
Dopo i primi tre anni passati a cercare refenti affidabili, è arrivato il momento di tirare le somme. Il lavoro è analitico ed è contenuto in un report datato 1° marzo e rivolto a tutti gli “armigeri elettori d’Italia”. Elenca, uno per uno, i “contatti a livello politico/istituzionale” che si sono dimostrati più sensibili alle loro istanze. Quindi, da votare.
«Matteo Salvini (Lega), Nicola Molteni (Lega), Gianelli Tonelli (Lega), Riccardo Molinari (Lega), Ignazio Messina (Civica popolare), Guido Guidesi (Lega), Filiberto Franchi (Forza Italia), Claudio Broglio (Lega), Maria Cristina Caretta (Fratelli d’Italia), Massimo Candura (Lega), Sergio Antonio Berlato (Fratelli d’Italia), Anna Cinzia Bonfrisco (Lega)». Tutti, tranne cinque, verranno eletti in Parlamento.
I cavalli buoni
Al Comitato, però, i dodici alfieri non bastano. Nel comunicato agli associati aggiungono un elenco di 87 candidati «che hanno in qualche modo dimostrato in passato un approccio onesto e razionale alle questioni che ci riguardano». Nomi, cognomi, collegi di presentazione. Sono i cavalli buoni. Ventuno sono della Lega di Salvini, 17 del Partito Democratico, 14 di Forza Italia.
Tra le altre forze politiche, ci sono anche 4 di Leu e un Radicale.
Per ribadire il concetto, e rendere ancor più intuitiva l’indicazione del voto, il comunicato è corredato da un grafico colorato, stile semaforo. Verde, giallo, rosso. Luce verde solo per la Lega. «Sappiano gli armigeri italiani che alla prova dei fatti abbiamo dovuto riscontrare disponibilità e serietà da parte di un solo partito: la Lega. È stata la Lega infatti che ci ha accolti con attenzione quando ancora eravamo un’associazione sconosciuta, che si è resa disponibile in concreto alla difesa dei nostri diritti, che ha dato seguito con una serie di incontri proficui alla nostra proposta sulla legittima difesa, e infine il cui segretario ha sottoscritto pubblicamente (unico tra tutti) l’impegno a favore dei possessori di armi».
È il documento – rivelato lunedì da Repubblica – in cui Salvini si è impegnato a coinvolgere il Comitato, e le altre associazioni di comparto, in ogni futuro provvedimento riguardante, in senso stretto e in senso lato, le armi. «Ma la riforma della legittima difesa non c’entra niente con ciò che ho firmato pubblicamente», ha spiegato ieri, su queste pagine, il vicepremier e ministro dell’Interno. «Il documento si riferiva ai legittimi detentori di armi ed è una serie di impegni sul recepimento della demenziale delibera voluta dall’Europa».
A Forza Italia e Fratelli d’Italia, il semaforo del Comitato concede il beneficio di una luce gialla.
Mentre Pd, Leu e Movimento cinque stelle vengono bocciati.
Per loro solo luce rossa, non vanno votati. I grillini, in quel momento, sono il male assoluto.
«Totale indisponibilità al dialogo sommata a posizioni fortemente anti-armi ed anti-caccia espresse in più occasioni dai principali esponenti del Movimento e che dimostrano un approccio superficiale alle questioni che ci riguardano».
Già, ma questa era la campagna elettorale. Oggi Lega e Movimento 5 Stelle sono alleati, entusiasti contraenti di un Contratto di governo che, tra i suoi punti, ha proprio la riforma della legittima difesa. E che niente dice, invece, su un altro tema anch’esso sensibile per la lobby delle armi e da sempre osteggiato da Beppe Grillo e i suoi seguaci. La caccia.
Lo scambio
L’11 febbraio scorso, all’Hit Show di Vicenza, Matteo Salvini non si limita a firmare, «sul suo onore», l’assunzione pubblica di impegno con il Comitato D-477. In una saletta con divanetti bianchi, si incontra con i rappresentanti delle associazioni venatorie, storico bacino di voti della Lega fin dai tempi di Umberto Bossi.
Tra questi c’è Lamberto Cardia, l’ex presidente Consob e ora presidente di EnalCaccia. E, non notata dai protagonisti, una telecamera del videoreporter di Repubblica Fabio Butera. «La sostanza, in pochissime parole, è questa...», esordisce Cardia, rivolgendosi a Salvini. «Dobbiamo strutturarci in uno scambio, dobbiamo trovare chi far votare e da chi ricevere però una garanzia, che dopo non si dimentica della caccia...». A quel punto, però, Salvini si accorge della telecamera. Si irrigidisce e allontana il giornalista. Della lobby delle armi, meno si parla, meglio è.
Repubblica 18.7.18
Da sovranismo a fascismo il passo è breve
di Massimo Riva
Sbarrare le frontiere, bloccare i porti, razionare gli scambi, ostacolare i trasporti e le comunicazioni. Forse nemmeno Spengler, il più convinto fra i profeti di un irreversibile tramonto dell’Occidente, poteva immaginare una così veloce marcia a ritroso nel tempo da parte della civilizzazione europea e atlantica. Eppure proprio ciò che sembrava impossibile in quell’unica regione del mondo, nella quale più consolidati sembravano i principi delle libertà politiche ed economiche, sancite dallo Stato di diritto, è quanto sta accadendo giorno dopo giorno sotto i nostri occhi. Su tutto e tutti incombe una sorta di sindrome compulsiva che spinge a cercare la soluzione dei problemi nel sostanziale rifiuto dei medesimi. Sintomo allarmante di una crescente incapacità o insipienza delle classi dirigenti democraticamente elette ad affrontare i mutamenti della realtà circostante in termini alternativi a una regressione nelle funeste e sempre autolesionistiche chiusure del passato.
Fanno presto i governi e le forze politiche che insistono a dichiararsi per una maggiore integrazione europea a scaricare ogni responsabilità del caos attuale sui Paesi e sui movimenti del cosiddetto fronte nazional-sovranista.
Che costoro stiano mettendo in serio pericolo la sopravvivenza dell’Unione europea è un fatto, ma lo è altrettanto che questa minaccia sia cresciuta a causa di una lunga catena di errori politici gravi, commessi proprio dai sedicenti europeisti. Primo dei quali, nel caso di Paesi come Polonia e Ungheria, è stato l’aver tollerato troppo a lungo senza colpo ferire le deviazioni clamorose compiute da Varsavia e Budapest sul terreno dello Stato di diritto. Un segnale di sostanziale indifferenza che ha incoraggiato anche in altri Paesi la tentazione a sfidare le regole dell’Unione da parte di movimenti in qualche caso dichiaratamente antidemocratici, come i neonazisti tedeschi.
Altro errore, quello tuttora in corso d’opera con il quale si cerca di svelenire i contrasti sul nodo dei migranti accreditando come risolutivo lo slogan “aiutiamoli, ma a casa loro”. Un po’ di cifre e di piedi per terra.
La sola Nigeria ha un numero di abitanti che, milione più o meno, equivale a quelli di Francia, Germania e Italia messi assieme. Quanti soldi e soprattutto quanti anni ci vorrebbero per offrire posti di lavoro in loco a una popolazione di 190 milioni di persone?
L’aiutarli a casa loro non è la soluzione, ma il problema. Sperare di cavarsela con una trovata verbale e pochi spiccioli è indice di rovinosa miopia politica.
C’è poi un altro punto, forse il più importante, sul quale i sedicenti europeisti dovrebbero riflettere. Che la loro visione unitaria sia la chiave indispensabile per consentire ai Paesi europei di raggiungere la massa critica necessaria per reggere nella competizione mondiale è una verità incontestabile. Ma è un fatto che le sfide della globalizzazione hanno prodotto all’interno dei singoli Stati una dolorosa selezione fra i non pochi che hanno superato l’ostacolo e i molti che non ce l’hanno fatta. Abbandonare questi ultimi a se stessi equivale a regalare facili consensi ai movimenti sovranisti spingendo l’Europa all’auto-disintegrazione. È ora e tempo che ai vertici dell’Unione si faccia un’attenta analisi dei danni politici indotti dall’austera dottrina Schaeuble praticata in questi anni. Da sovranismo a fascismo il passo può essere breve.
Il Fatto 18.7.18
Come Cechi e Ungheresi
L’Austria dice “no”: non accoglierà migranti da Pozzallo
L’AUSTRIA non accoglierà nessuno dei 450 migranti sbarcati lunedì scorso a Pozzallo. Lo ha detto il cancelliere Sebastian Kurz rispondendo alla richiesta di Giuseppe Conte di partecipare al ricollocamento dei migranti a livello europeo. L’Austria si unisce così a Ungheria e Repubblica Ceca, che nei giorni scorsi avevano rifiutato la richiesta italiana, proprio mentre Spagna, Francia, Germania, Portogallo e Malta avevano dato disponibilità a ricevere 50 migranti ciascuno. “L’Austria ha accolto dal 2015 oltre 150.000 richieste d’asilo – accusa il premier Kurz – e, in rapporto al totale della sua popolazione, ha sostenuto uno dei più impegnativi contributi alla politica migratoria dell’Ue. Molti altri Stati membri ne hanno accolti ben pochi”. Il rifiuto austriaco arriva nel giorno in cui le principali organizzazioni umanitarie del Paese hanno diffuso un appello congiunto rivolto al governo, contro “il respingimento di chi chiede protezione” ai confini d’Europa: “È necessaria una revisione del regolamento di Dublino – si legge nel comunicato – e l’abbandono delle politiche unilaterali di respingimento, in favore di un’accoglienza solidale nella Ue”.
il manifesto 18.7.18
Gaza vicina al baratro di una nuova guerra
Israele/Striscia di Gaza. La tensione tra Israele e Hamas è giunta al limite. Mai come in queste ore è alle porte un nuovo conflitto, a quattro anni dagli oltre duemila morti palestinesi causati da "Margine Protettivo"
Gaza. Una manifestazione della Marcia del Ritorno
Michele Giorgio
GERUSALEMME Una fragile parete separa la Striscia di Gaza da una nuova offensiva militare israeliana, a quattro anni da quella passata alla storia con il nome di “Margine protettivo” e che fece, considerando i feriti deceduti nei mesi successivi, circa 2.400 morti oltre a migliaia di feriti e che provocò la distruzione totale o parziale di decine di migliaia di abitazioni, edifici e infrastrutture civili. Da allora Gaza è stata abbandonata dagli occidentali come dagli arabi. Della prigione-Gaza in questi quattro anni i media internazionali hanno parlato solo in occasione di massacri, addossando il più delle volte la responsabilità dell’accaduto ai prigionieri e quasi mai ai carcerieri. Quattro anni dopo “Margine Protettivo” Gaza è giunta ancora al capolinea. Il governo Netanyahu e Hamas sono ad un passo dallo scontro armato, si scambiano ultimatum.
La deterrenza reciproca è riuscita sino a questo momento a frenare le due parti, soprattutto quella israeliana. Il movimento islamico sa che Gaza, sfinita da 12 anni di blocco israeliano, non può sostenere un’altra devastante campagna di bombardamenti. Israele invece teme i lanci da parte di Hamas di razzi e missili, poco dannosi ma capaci di tenere sotto pressione tutta la sua popolazione. Ora però la guerra è a un passo. Al lancio da Gaza dei cosiddetti “palloni incendiari” – preservativi gonfi di elio capaci di volare per alcuni km -, il governo Netanyahu ha reagito, sabato scorso, con i raid aerei più duri dal 2014 (uccisi due adolescenti palestinesi). Poi ha chiuso il valico commerciale di Kerem Shalom. Infine il ministro della difesa Lieberman ha annunciato che impedirà almeno fino a domenica l’ingresso nella Striscia di combustibili e che medicinali e cibo passeranno solo con permessi individuali. I pescatori palestinesi inoltre non potranno superare il limite di pesca di tre miglia nautiche. Immancabile è poi giunto il “contributo” egiziano, con la chiusura improvvisa del valico di Rafah tra Gaza e il Sinai.
Misure, anzi una punizione collettiva come spiega anche l’ong israeliana Gisha, alle quali Fawzi Barhum, un portavoce di Hamas, ha reagito intimando la «riapertura dei transiti entro 48 ore» altrimenti, ha minacciato, «ci saranno gravi conseguenze». Israele ha lanciato a sua volta un ultimatum: entro 72 ore dovranno cessare i lanci di palloni che provocano incendi nei campi coltivati israeliani. In caso contrario scatterà l’attacco. Netanyahu ieri ha tenuto consultazioni in una base militare vicina a Gaza con Lieberman e il capo di stato maggiore Gady Eisenkot. Al termine ha proclamato che «Le forze armate sono pronte ad ogni sviluppo». La macchina militare è in moto e vanno avanti le manovre nel sud di Israele. Esercitazioni in cui, sottolineano i giornali, viene simulata l’occupazione di Gaza city.
A Gaza cresce la tensione. Gli abitanti tendono ad escludere una nuova guerra, o almeno se lo augurano, però si mettono in coda ai distributori di benzina per fare il pieno in vista di tempi cupi. Chi a un po’ di soldi, e a Gaza sono davvero in pochi, fa provvista di generi di prima necessità. Cresce anche il malumore per come, di fatto, si sta mestamente concludendo la “Marcia del Ritorno” a ridosso delle linee con Israele, in cui sotto il fuoco dei cecchini israeliani sono caduti dal 30 marzo almeno 139 palestinesi e altre migliaia sono stati feriti. Era partita con grandi manifestazioni popolari che chiedevano di mettere fine all’insopportabile blocco di Gaza. Quindi è stata affiancata e poi di fatto sostituita, per decisione di Hamas, dal lancio dei “palloncini incendiari”. Una mossa che ha spostato il giudizio, già gravemente di parte, dei mezzi d’informazione internazionali ancora di più a favore della narrazione israeliana degli eventi, a svantaggio dei riflettori che la Marcia aveva acceso sulla prigione-Gaza.
Sullo sfondo di questa guerra ormai alle porte c’è il “silenzio” del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Il leader dell’Anp non ha esitato a varare sanzioni contro Gaza allo scopo di penalizzare Hamas. Ha colpito però solo la popolazione senza togliere il controllo di Gaza agli islamisti. Una lotta assurda per un’inutile autorità su Gaza e piccole porzioni di Cisgiodania, le prigioni in cui Abu Mazen e Hamas sono stati rinchiusi dall’occupazione.
La Stampa 18.7.18
Pussy Riot in carcere
Ma Strasburgo condanna Mosca
di Giuseppe Agliastro
Vittoria per le Pussy Riot. A sei anni dalla «preghiera» punk anti-Putin nella cattedrale di Mosca costata il carcere a tre ragazze della band, la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato la Russia e le ha ordinato di pagare 48.760 euro come risarcimento dei danni e delle spese legali. Secondo i giudici di Strasburgo, le oppositrici dai passamontagna colorati sono state sottoposte a trattamenti umilianti e le sentenze sono state troppo severe. Maria Alyokhina e Nadezhda Tolokonnikova hanno infatti trascorso ben 22 mesi dietro le sbarre per la perfomance musicale anti-Cremlino. La loro condanna «per aver semplicemente indossato vestiti sgargianti, agitato le braccia e le gambe e aver utilizzato un linguaggio colorito, è stata di una severità eccezionale», ha spiegato Strasburgo, che ha inoltre ritenuto una «violazione della libertà d’espressione» il divieto d’accesso su internet al video registrato dalla band in chiesa.
Nel mirino delle autorità
In Russia però le Pussy Riot continuano a essere nel mirino delle autorità. Lunedì un tribunale di Mosca ha condannato a 15 giorni di reclusione i quattro attivisti del gruppo - tre donne e un uomo - che domenica hanno lasciato tutti a bocca aperta invadendo pacificamente il campo travestiti da poliziotti nel bel mezzo della finale dei Mondiali. L’azione del collettivo aveva un fine ben preciso: protestare contro le persecuzioni politiche in Russia. Vladimir Putin sicuramente non ha gradito questa incursione: unico neo in un torneo iridato organizzato come perfetta vetrina per mostrare la Russia come Paese ospitale e all’avanguardia. Il Cremlino ha nascosto sotto il tappeto i tanti problemi della Russia, a partire proprio dalle violazioni dei diritti umani. Ma adesso che il Mondiale è finito, la carrozza tornerà a essere zucca. Questo almeno è quello che temono le Pussy Riot, che ieri hanno diffuso su internet la clip musicale della loro ultima canzone: si intitola «Track about a good cop» e parla di una Russia immaginaria in cui i poliziotti non trascinano più in galera chi protesta ma «si uniscono agli attivisti». «Ragazze e ragazzi, strade di zucchero e sotto le nuvole i poliziotti si baciano», recita il testo. Una realtà che appare piuttosto lontana. A confermarlo è anche quello che pare un breve video dell’interrogatorio a due Pussy Riot fermati per l’invasione di campo in mondovisione: «A volte - dice loro un agente - rimpiango che non siamo nel 1937». Cioè all’epoca delle repressioni staliniane.
La Stampa TuttoScienze 18.7.18
“Vi svelo l’estasi della matematica”
Frenkel: oggi si insegna quella di mille anni fa “E così i suoi capolavori restano nascosti”
di Marco Pivato
La matematica è «cool» ed è immensa quanto una sinfonia di Mozart o «Guerra e Pace». Basta con gli stereotipi (colpa del cinema e delle serie tivù) del professore sfigato e fuori dal mondo. Facile buttarla così, quando a dirlo è Edward Frenkel. Che oltre a un accademico titolare di una cattedra alla Berkeley University (e membro dell’American Mathematical Society e dell’American Academy of Arts and Science) vanta anche il record di essere il primo matematico apparso (quasi) completamente nudo in un film, che mischia videoarte al teatro giapponese, intitolato «Rites of Love and Math».
Appassionato di windsurf e musica elettronica, fa pure il dj e, appena può, vola a Ibiza in discoteca. Insomma, piuttosto distante dal professore che probabilmente ci è toccato al liceo. La sua vita, molto segnata dalle origini (madre russa e padre ebreo), l’ha raccontata in parte nel libro «Amore e Matematica. Il cuore della realtà nascosta», best-seller pubblicato in Italia da Codice Edizione e tradotto in altre 18 lingue. Gli parliamo in occasione del suo intervento a Milano, dove è tra i relatori di Campus party, l’evento dedicato ai ragazzi fissati con la tecnologia che da oggi fino a domenica vivranno h24 (in fotogenicissime tende) a Rho Fiera Milano per incontrarsi, confrontarsi e ascoltare più di 350 studiosi internazionali convocati lì apposta per loro.
Frenkel, 50 anni, è uno degli speaker più estroversi e attesi. La sua missione, appunto, cambiare la percezione della matematica e spingere più persone possibili verso questa disciplina inevitabile e affascinante in grado di spiegare (quasi) tutto. «Il problema è proprio nel modo in cui la materia viene insegnata in tutto il mondo - ci racconta -. Troppa l’enfasi sui test e sulla valutazione. Gli studenti vengono messi di fronte a problemi che non sanno risolvere e così si sentono stupidi: ansia e paura li assalgono. Invece, dovremmo mettere molta più attenzione sulla gioia dell’apprendimento e ricordare che il processo conta di più dei risultati. E poi la matematica che viene insegnata oggi nelle scuole non è aggiornata, ha più di mille anni. Se fosse accaduto anche con la fisica o la biologia, tanto per dire, non sapremmo nulla del sistema solare, dell’atomo e del Dna».
Frenkel, massimo esponente del programma di Langlands, una sorta di teoria del tutto della matematica, non ha dubbi. «Anche l’arte sarebbe noiosa se insegnassero solo come dipingere un muro e mai a contemplare Raffaello e Michelangelo. La matematica ha i suoi capolavori meravigliosi: dimensioni superiori, gruppi di simmetria e geometria non euclidea sono grandiose quanto una poesia o un dipinto. Per questo è importante spiegarlo in diverse sedi, attrarre personalità eterogenee. C’è bisogno di diversità e anche per questo dobbiamo fare il possibile per avvicinare più ragazze, più donne a questi studi e ridurre il “gender gap”. Riportare la Dea alle origini».
Il rischio che la matematica diventi un club per pochi non è, secondo Frenkel, da sottovalutare. Gli algoritmi sono alla base di moltissimi nostri gesti quotidiani, dagli acquisti online alla consultazione del navigatore. «Solo una piccola élite ha la possibilità di imparare e dominare davvero questa disciplina che è alla base della maggior parte delle moderne tecnologie che permettono di avere il controllo sugli altri. Con conseguenze gigantesche. Basta guardare quello che sta succedendo oggi: sorveglianza di massa, comportamenti alterati dai social network, manipolazione dei mercati finanziari». La matematica è libera («nessuno può brevettare una formula matematica»), è potente, ci salva dai pregiudizi. Ma non può trovare un senso per qualsiasi cosa.
«Vogliamo sempre spiegare tutto, ma questo è solo perché abbiamo bisogno di illuderci di avere il controllo. L’incertezza ci terrorizza. Nel film “Rites of Love and Math” (un omaggio allo scrittore giapponese Yukio Mishima, ndr) il mio personaggio sogna di trovare la formula dell’amore. Ma finisce male, perché, naturalmente, non esiste. Ci sono cose come l’amore che non possono essere mai catturate completamente dal ragionamento logico. L’amore è molto al di là di tutto ciò. E la nostra capacità di amare è il più grande dono che abbiamo».
Amore e Matematica, appunto.
e. g.
La Stampa Tuttoscinze 18.7.18
Le radici classiche della scienza
di Lucio Russo
Tra gli elementi della nostra civiltà tratti dalla cultura classica ve n’è uno particolarmente importante, ma per lo più ignorato: la scienza. Molti concetti della scienza moderna e soprattutto le basi del metodo scientifico risalgono infatti all’antichità classica.
Se lo si dimentica, si menoma gravemente la nostra comprensione della scienza: per capire i concetti scientifici è infatti essenziale comprendere perché sono stati elaborati. Qualche esempio può chiarire questo punto. Sappiamo da Plutarco che Aristarco di Samo aveva introdotto l’eliocentrismo per «salvare i fenomeni», ossia per rendere conto dei complessi moti dei pianeti osservabili dalla Terra.
Oggi tutti ripetono che la Terra gira intorno al Sole, ma vi è una diffusa ignoranza delle basi fenomenologiche dell’eliocentrismo. Si insegna semplicemente che non bisogna fidarsi dei propri occhi, che mostrano il Sole girare intorno alla Terra, bensì degli esperti che affermano il contrario. L’ignoranza dei fenomeni che hanno condotto all’eliocentrismo è connessa all’abitudine di attribuirlo a Copernico, che, come spiega egli stesso nell’introduzione al suo trattato, aveva scoperto l’idea in biblioteca, consultando antichi libri. Insegnare che la Terra gira intorno al Sole come Verità avulsa dai fenomeni osservabili ribadisce l’origine libresca dell’idea.
Secondo esempio: a scuola si insegna il cosiddetto «principio di Archimede»: ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, … ». Ai più è stato insegnato che si tratta di un risultato sperimentale, ma, poiché quasi mai si fanno esperimenti al riguardo, l’enunciato viene memorizzato passivamente. Se non ci si contenta di recitare una filastrocca, ma si vuole capire come calcolare la spinta idrostatica, c’è un modo semplice per farlo: leggere Archimede. Si scopre allora che nel suo trattato quel famoso enunciato era dimostrato, deducendolo da un principio molto più semplice e intuitivo.
Terzo esempio: quanti sanno perché d’estate fa più caldo? E sanno definire un tropico o un circolo polare? La geografia matematica, che risale a quello stesso III secolo a.C. in cui lavorarono Aristarco di Samo e Archimede e da allora ha costituito una delle più semplici applicazioni della matematica alla vita quotidiana, oggi è divenuta largamente estranea alla cultura condivisa. Il livello diffuso delle conoscenze scientifiche migliorerebbe molto se la divulgazione e soprattutto la didattica, invece di inseguire mirabolanti novità del tutto incomprensibili e spesso insicure, si ponesse l’obiettivo di illustrare il legame tra teorie e fenomeni, come in genere si può fare solo risalendo all’origine delle teorie. Non bisogna dimenticare che gli scienziati che nel primo Novecento hanno creato la scienza attuale erano stati iniziati al metodo scientifico studiando gli «Elementi» di Euclide: un’opera che Einstein considerava di fisica teorica.
È interessante analizzare come le antiche conoscenze si sono trasmesse fino a noi. Il più delle volte nei tanti secoli intermedi non erano state né comprese né dimenticate del tutto: si erano tramandate affermazioni avulse dal contesto fenomenologico che le aveva motivate e le rendeva applicabili. Consideriamo, ad esempio, la nozione della sfericità della Terra. Era nota nel Medioevo europeo? Nonostante il periodico riaffiorare della bufala che afferma il contrario, chiunque abbia studiato Dante sa bene che nel Medioevo le persone colte erano a conoscenza della sfericità della Terra. Era però una conoscenza basata solo sull’autorità delle fonti che l’affermavano, senza che nessuno fosse in grado di utilizzare questa nozione: non si usavano, infatti, le coordinate sferiche (latitudine e longitudine), i marinai non sapevano tracciare rotte che tenessero conto della curvatura terrestre e i cartografi rappresentavano la Terra come se fosse piatta. In breve, si può dire che la nozione della sfericità, come molte altre, era trasmessa allo stato fossile. Negli ultimi decenni buona parte della didattica e della divulgazione scientifica ha assunto di nuovo questa caratteristica medievale. Non è questo il luogo per parlare dell’analoga involuzione che ha riguardato la ricerca.
Lucio Russo
fisico e storico della scienza, è professore di Calcolo delle Probabilità all’Università di Roma Tor Vergata. Il suo saggio «Perché la cultura classica» (Mondadori) è stato insignito, a Roma, con il «premio speciale» alla 16a edizione del Premio Letterario Merck.
La Stampa TuttoScienze 18.7.18
Un pallone e il Big Bang
Ultimi preparativi per il pallone «Olimpo» e il suo telescopio
Al via il test dell’Asi che studia come nacquero le prime galassie
di Antonio Lo Campo
Un pallone stratosferico con un piccolo satellite in grado di studiare le galassie primordiali: insieme hanno iniziato la loro missione.
Non sempre, per effettuare studi sul cosmo, è necessario lanciare razzi vettori. Lo si può fare anche spingendosi nella parte alta dell’atmosfera. È quanto prevede l’esperimento «Olimpo»: pesante 1900 chili e gonfiato con elio, tanto da raggiungere 800 mila metri cubi di volume, il pallone si è alzato dalle Isole Svalbard in Norvegia. Obiettivo è strappare informazioni sugli ammassi di galassie delle origini, oltre che sul contenuto di materia oscura.
Si tratta di un telescopio con lo specchio primario di oltre due metri e mezzo di diametro, equipaggiato con rilevatori per microonde raffreddati a 0,3 gradi Kelvin (quindi 273 gradi sotto lo zero). Permettono di misurare le minime distorsioni che la radiazione cosmica di fondo proveniente dal Big Bang subisce quando attraversa proprio un ammasso di galassie.
La missione è iniziata con il lancio di sabato scorso e durerà 12 giorni: per sfruttare al meglio le potenzialità dello strumento le osservazioni vengono effettuate a una quota di 40 chilometri (dove il disturbo dell’atmosfera residua è minimo). Il lancio, invece, è avvenuto dalle Svalbard perché in questo periodo è presente una circolazione ad alta quota che consente al pallone di circumnavigare il Polo Nord, tornare al punto di partenza e, forse, proseguire di nuovo verso la Groenlandia, dove si spera di farlo atterrare. Se lo strumento verrà recuperato senza grossi danni verrà inviato in quota per un nuovo volo, stavolta attorno al Polo Sud.
«Olimpo» è un programma dell’Asi, l’Agenzia Spaziale Italiana, mentre il lancio è stato affidato alla Swedish Space Corporation e lo strumento è stato realizzato dal gruppo di cosmologia sperimentale del dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza di Roma sotto la guida di Silvia Masi. «È lo sforzo e la dedizione continua di un team di scienziati e studenti ad aver consentito la realizzazione del più grande telescopio da pallone stratosferico mai lanciato - dice la professoressa -. Grazie alla sua notevole apertura e all’estrema sensibilità dei rivelatori ci aspettiamo importanti risultati sulle prime strutture che si sono formate nell’Universo».
Tra il telescopio e i rivelatori è stato installato un interferometro che permette di scomporre la radiazione e analizzarla nel dettaglio. «Con “Olimpo” - dice il presidente dell’Asi, Roberto Battiston - riprende una tradizione di eccellenza della nostra agenzia spaziale nel settore dei palloni stratosferici che si era interrotta con la chiusura della base di Milo, non più adeguata».
Repubblica 18.7.18
Paolo Giommi
“Così ho aperto a tutti l’universo”
intervista di Elena Dusi
Paolo Giommi guida Open Universe: le scoperte sul cosmo spiegate al pubblico “Ma è un servizio utile anche ai ricercatori. Lo dimostra il neutrino appena catturato” P rima stella a destra, poi avanti per 4,5 miliardi di anni luce, fino a incontrare il buco nero Txs 0506+056. A guidare gli astrofisici verso il punto d’origine del neutrino catturato in Antartide la settimana scorsa è stata una mappa dell’universo assai peculiare. “Open Universe” è una banca dati che parla di astronomia, ma anche di pace, di scienza, di libero accesso ai frutti della ricerca e di conoscenza estesa a tutti i cittadini. Non a caso, questo portale ( ancora in via di completamento) ospitato dal sito dell’Agenzia spaziale italiana è nato con il timbro dell’Onu. In particolare del Comitato per l’uso pacifico dello spazio, che a giugno ha festeggiato i 50 anni dalla prima conferenza. Capo del progetto Open Universe è Paolo Giommi, astrofisico dell’Asi che ha guidato lo Science data center e la sezione Relazioni internazionali e collabora con il network di astrofisica IcraNet. Giommi, 66 anni, è uno degli scienziati italiani più citati nella letteratura.
Perché questa iniziativa?
L’universo non è abbastanza aperto già di per sè?
« Ogni anno spendiamo 15 miliardi per osservare l’universo. Sono soldi pagati dai cittadini, ma a goderne è solo una comunità di esperti di poche migliaia di persone: l’equivalente di una piccola cittadina. Questo è sbagliato dal punto di vista etico e da quello scientifico. La scoperta del neutrino proveniente dal blazar Txs 0506+ 056 lo dimostra. Grazie a Open Universe abbiamo messo insieme i dati di tanti strumenti diversi per orientarci nella zona di cielo da dove sembrava provenire la particella».
Da dove nasce il problema?
« Fino a pochi anni fa solo il 10% dei dati prodotti in astronomia veniva pubblicato. Oggi va meglio, ma c’è ancora molto da fare. L’obiettivo è rendere tutti i dati aperti e trasparenti. La scienza deve uscire dalla sua cittadella e allargarsi al resto del mondo».
Molti enti di ricerca hanno banche dati aperte al pubblico, ma sono incomprensibili. Ci si ritrova in una giungla di cifre e sigle astruse.
«Per questo Open Universe ha anche una sezione educativa. Pubblicare i dati non basta. Occorre anche percorrere l’ultimo miglio e rendere le informazioni fruibili a chiunque abbia una connessione Internet e voglia di navigare all’interno del portale. Questo aprirebbe la scienza anche a quei paesi cosiddetti in via di sviluppo che sono molto ricchi di intelligenze e dove ognuno ha un telefonino in tasca. Ipotizziamo che una persona su 10mila si appassioni a Open Universe e contribuisca al progetto scientifico con un’idea brillante. La cittadella di poche migliaia di persone si allargherebbe a centinaia di migliaia. Sarebbe una democratizzazione della scienza di cui si sente un gran bisogno. Open Universe è un luogo che non c’era (e in gran parte non c’è ancora). Se vogliamo ha una componente utopica, ma noi ci proviamo».
Con quali mezzi?
«Open Universe deve ancora migliorare molto, ma contiene per esempio una sezione che si chiama “ In poche parole” in cui dei semplici video introducono i non esperti all’interno di un argomento tecnico».
Che aspetto hanno i dati di un telescopio spaziale?
« Sono pacchetti di numeri. Il telescopio li raccoglie nello spazio, poi li comprime molto e ce li invia usando le sue antenne. A Terra poi le informazioni vengono estratte e raccolte in formati standard, leggibili da tutti. L’obiettivo di Open Universe è mettere insieme tutti questi dati, in una banca unica che raccolga le osservazioni di molti strumenti. Nella sezione di ricerca si può inserire il nome della stella o della galassia cui si è interessati. Ad apparire l’una accanto all’altra saranno le immagini raccolte nel corso degli anni dai telescopi più svariati e nelle bande più diverse: l’ultravioletto come l’infrarosso o il radio. Ma ci sono anche le immagini più fruibili di Google Planet, con le spettacolari mappe dei crateri lunari».
Alcuni dati di Open Universe non sono facili da leggere per un profano.
« Chi ha passione deve avere i mezzi per arrivare alla loro comprensione. Quella che sogno è una società in cui al posto delle slot machine ci siano delle installazioni che insegnano ai cittadini la bellezza dell’universo. In cui i parchi cittadini abbiano delle sezioni, anche ludiche, dedicate alla scienza. Un progetto simile sta per partire alla periferia sud di Pechino, con un grande spazio dedicato all’astronomia».
La Cina però non è l’esempio più brillante di apertura alla condivisione dei dati
« No, almeno per oggi. Ma è un paese in cui le cose riescono a cambiare in fretta. Hanno in cantiere un grande programma di esplorazione della Luna. Incluso il suo lato nascosto».
il manifesto 18.7.18
La cannabis riduce ansia, depressione e stress
Fuoriluogo. La rubrica settimanale a cura di Fuoriluogo
di Francesco Crestani
La Cannabis è una pianta medica con sicuri effetti psicoattivi, che in genere si evidenziano a dosaggi comunque alti, e non con le dosi normalmente usate in terapia. Ora uno studio suggerisce che basse dosi possano avere effetto contro ansia, depressione e stress.
Gli scienziati dell’Università di Washington (Cuttler e coll., Journal of Affective Disorders 2018) hanno impiegato una metodica particolare per giungere a queste conclusioni: una app (Stainprint) utilizzata per tenere traccia degli usi medici e dell’entità dei sintomi in 280 malattie diverse.
La app registrava il sesso, la quantità di cannabis usata (in «puff», singole boccate) e le percentuali dei principi attivi principali, cioè THC (tetraidrocannabinolo) e CBD (cannabidiolo).
Il THC è notoriamente responsabile degli effetti psicoattivi della canapa, mentre il secondo non ha azione psicoattiva e anzi contrasta gli effetti del THC.
Sono state studiate le 12.000 risposte di circa 1.400 pazienti che usavano la cannabis per i tre disturbi sopra citati. Dopo 20 minuti dall’uso di cannabis i pazienti dovevano quantificare l’entità dei loro sintomi su una scala da 0 a 10. L’app ha permesso agli studiosi di “osservare” le risposte non nel chiuso di laboratori, ambulatori od ospedali, ma nella loro vita reale, e infatti nel titolo dello studio si parla di «esame naturalistico».
I ricercatori si sono posti sei domande:
I sintomi auto-riferiti di ansia, depressione e stress si riducevano dopo l’uso di cannabis?I risultati sono abbastanza straordinari, nel senso che dopo l’uso di cannabis i pazienti percepivano una riduzione del 50% della depressione e del 58% di ansia e stress. La cannabis ad alto contenuto di CBD (più del 9%) e basso di THC (meno del 5,5%) era maggiormente efficace nella depressione, tanto che bastava un «puff» per dare riduzione dei sintomi.
C’erano differenze di sesso nella risposta?
C’erano interazioni fra THC e CBD?
I sintomi variavano secondo la dose?
L’efficacia della cannabis, così come percepita, variava nel tempo?
I sintomi cambiavano fra prima e dopo l’uso?
Questo dato corrobora, secondo gli autori, la nozione del «micro-dosaggio» di cannabis per alleviare i sintomi.
Nello stress invece aveva più effetto una cannabis alta sia in CBD (sopra l’11%) sia in THC (più del 26%). Due «puff» riducevano l’ansia, mentre ce ne volevano una decina per lo stress. Le donne rispondevano meglio in caso di ansia, un dato che era già stato riportato in precedenti studi (Cuttler 2016).
L’efficacia si manteneva nel tempo, ma un fatto è da rimarcare: i sintomi della depressione tendevano ad esacerbarsi con l’uso cronico. Questo probabilmente dipende, secondo i ricercatori, dalle alterazioni dei recettori cannabinoidi nelle cellule del cervello.
«Fortunatamente – come riportano gli scienziati – le alterazioni della disponibilità dei recettori CB1 negli utilizzatori cronici di cannabis sono reversibili dopo solo un breve periodo di astinenza (circa 2 giorni), senza differenze significative dopo 28 giorni di astinenza (Da Souza et al., 2016).
Infine, vale la pena notare che vi è evidenza che i farmaci antidepressivi sono efficaci a breve termine, ma che una maggiore durata d’uso può effettivamente aumentare la vulnerabilità alla ricaduta dopo l’interruzione… Pertanto, analogamente ai trattamenti farmacologici più convenzionali, la cannabis può temporaneamente mascherare i sintomi degli affetti negativi ma potrebbe non ridurre efficacemente questi sintomi a lungo termine».
In definitiva, la cannabis si dimostra sempre più per quello che è: una pianta medicinale, estremamente utile, ma da maneggiare con cura.
* L’autore è presidente Associazione Cannabis Terapeutica
Leggi la rubrica mensile «La cannabis che cura» lunedì 23 luglio su Fuoriluogo.it