Corriere 19.7.18
Italia disuguale e molto ingiusta
di Danilo Taino
Per nostra buona sorte, c’è la Lituania: diversamente, l’Italia sarebbe il peggiore di 31 Paesi europei in termini di «disuguaglianza ingiusta». Invece è solo la seconda più ingiusta. In questione non è però tanto una classifica. L’interessante è che tre economisti che fanno capo al gruppo di ricerca Cesifo di Monaco hanno sviluppato un modo nuovo per dare una dimensione e qualificare la disuguaglianza, tema diventato caldissimo in questo decennio, dalle manifestazioni Occupy Wall Street alle analisi di Thomas Piketty. Per superare la controversa e semplicistica comparazione tra i redditi dei più ricchi e quelli dei più poveri (1% contro 99%) e nella convinzione che non tutta la disuguaglianza sia negativa, Paul Hufe, Ravi Kanbur e Andreas Peichl hanno individuato la disuguaglianza ingiusta. Hanno cioè messo assieme la mancanza di pari opportunità alla nascita con l’obiettivo di avere società senza povertà: e ai due concetti hanno dato lo stesso peso. La somma che ne risulta è la disuguaglianza non fair: il resto è disuguaglianza dovuta a capacità personali, impegno, colpi di fortuna e vicende varie della vita. Sulla disuguaglianza ingiusta si possono impostare politiche per ridurla, il resto è questione privata. Per le opportunità di partenza, gli economisti hanno ripartito la popolazione sulla base di sesso, background migratorio, istruzione dei genitori e lavoro di questi ultimi. Per quel che riguarda la povertà, hanno utilizzato indici che la misurano in ogni Paese. Attraverso una serie di elaborazioni matematiche, hanno individuato la realtà di ogni singola Nazione e l’hanno confrontata con quella che dovrebbe essere, in via teorica, la disuguaglianza giusta, quella depurata da penalizzazioni alla nascita e stato di povertà. Il risultato è una media europea di disuguaglianza ingiusta pari a un indice 0,029 e pari al 17,6% della disuguaglianza totale (ingiusta e giusta). Per l’Italia, l’indice è 0,063 con una disuguaglianza ingiusta del 31,6%. La Lituania è a 0,066 ma con un peso della disuguaglianza cattiva inferiore, al 27,9%. Al polo opposto, Olanda e Finlandia, entrambe con una quota di ingiusto inferiore al 10% della disuguaglianza totale. È un modo nuovo di affrontare il problema: occorrerà capire come mai l’Italia appaia così ingiusta.
Repubblica 19.7.18
Terzapagina. Il personaggio
La storia ritrovata
Il “figlio” di Salvemini innamorato di Hitler
Un episodio poco noto del politico antifascista: il rapporto tormentato con Jean Lurchaire
Poi il giovane diventò collaborazionista
di Francesco Erbani
I traditori vanno puniti.
Certamente. Si capisce»: c’è molto dell’intransigenza di Gaetano Salvemini in queste battute riferite da Niccolò Tucci all’indomani della morte del grande storico, meridionalista e politico, avvenuta a Sorrento nel settembre del 1957. Il seguito della frase squarcia il velo di una vicenda tormentata e dolorosissima che sconvolse Salvemini al pari di un’altra, la morte sotto le macerie del terremoto di Messina del 1908 di sua moglie Maria, dei suoi cinque figli e della sorella Camilla. A differenza di quella, però, questa incrociava il suo privato e le sue radicate convinzioni etiche e politiche.
La frase riportata da Tucci proseguiva così: «Per me era come un figlio. Ma l’ha voluto lui ed è giusto che abbia pagato».
A chi si riferiva Salvemini? Su questo dramma, di cui c’era conoscenza, ma non approfondita, ha raccolto molto materiale, in buona parte inedito, la storica Filomena Fantarella, che ha appena pubblicato Un figlio per nemico. Gli affetti di Gaetano Salvemini alla prova dei fascismi (Donzelli). Nel libro è ricostruita una storia, quella dello studioso distrutto dalla tragica fine dell’intera sua famiglia — lui si salvò perché, affacciato alla finestra, restò aggrappato al muro portante dell’edificio mentre il resto della muratura inghiottiva figli, moglie e sorella — che cerca conforto in altri affetti, un’altra moglie che ha già due figli adolescenti. Una storia che avrà un nuovo, ma diverso esito tragico.
E viene ricomposto il tormento interiore di una delle figure simbolo dell’Italia che resiste al fascismo, che conosce il carcere, la morte violenta dei suoi amici e compagni di lotta, l’esilio, un tormento provocato dalla scoperta che una delle persone a lui più care sta dall’altra parte e non soltanto col pensiero, bensì con un’attività costante e svolta in primo piano.
Nel 1916 Gaetano Salvemini sposa Fernande Dauriac, che l’anno prima ha divorziato dal marito e che ha due figli, Jean e Marguerite. Salvemini conosce Fernande da tempo. Lei con suo marito si era precipitata a Messina dopo il sisma e lo aveva sostenuto nel dolore.
Con Fernande, amica di Sibilla Aleramo, femminista e socialista, collaboratrice de La Voce, condivide un mondo di valori e di ideali. La nuova famiglia fu per Salvemini un porto dove riparare le angosce di quella terribile notte del 1908. «La vita», aveva scritto in precedenza a Giustino Fortunato, «non può avere per me più altro scopo, se non quello di dimenticare me stesso in opere che mi leghino agli altri»: di qui un rinnovato impegno nelle battaglie politiche, nel riscatto delle popolazioni meridionali, contro la corruzione.
Fra Salvemini e il piccolo Jean nacque un’intesa affettuosa. Con il patrigno, Jean dialogava come non aveva mai fatto con il padre, Julien Luchaire, che pure era professore di italiano a Grenoble. Crescendo, Jean maturava interessi politici e culturali che Salvemini incoraggiava e la sintonia fra loro era stretta. Il giovane veniva chiamato Giovannino.
Nel 1925 la famiglia si trasferì da Firenze a Parigi. Finché gli era stato possibile, Salvemini aveva resistito alle intimidazioni fasciste. Poi, quando queste avevano alzato il tiro, per l’intellettuale, diventato un faro per la generazione dei Gobetti, degli Ernesto Rossi e dei fratelli Rosselli, si aprì la stagione del “fuoriuscito”, prima in Francia, poi negli Stati Uniti. Jean, nel frattempo, era diventato un giornalista a Parigi. Assai giovane si era sposato ed era diventato padre di quattro figli. E si era avvicinato agli ambienti politici, manifestando una spiccata tensione pacifista, il che voleva dire vicinanza alla Germania e ostilità verso l’Inghilterra.
Le nubi cominciavano a coprire i cieli europei. Il fascismo si era fatto crudele e l’antifascismo si organizzava. Salvemini iniziò a far la spola con gli Stati Uniti, dove si trasferì stabilmente nel 1934.
Fernande rimase a Parigi. Di fatto la famiglia si smembrò, mentre Jean proseguiva nella carriera retto da un’ambizione sfrenata, che lo portò a contrarre debiti. La sua simpatia per la Germania non fu scalfita dall’avvento al potere di Hitler. Salvemini venne avvisato del fatto che i finanziamenti alle attività di Jean provenivano da chi lui aveva avversato per una vita: «Non posso fare che una sola cosa», scrisse a Carlo Rosselli e Alberto Tarchiani nel marzo del 1934, «evitare d’incontrarmi personalmente con lui, da ora in poi, tanto da poter dire che ho rotto ogni rapporto personale il giorno in cui Mussolini pubblicherà che il figliastro di Salvemini ha preso denaro da lui». Il libro di Fantarella segue passo passo il precipitare di Jean, la sua infatuazione per Hitler, fino a toccare l’abisso del collaborazionismo, una volta che la Francia sarà occupata dai nazisti, nel giugno del 1940. Jean diventa uno spietato propagandista del governo Petain attraverso i giornali e la radio, arrivando a esortare allo sterminio dei resistenti francesi. Finita la guerra, Jean viene catturato dagli americani a Merano, dove aveva cercato rifugio, nel maggio del 1945. Processato, viene condannato a morte e giustiziato per alto tradimento il 22 febbraio del 1946.
Come vive Salvemini questa tragedia? Che cosa ne è del matrimonio con Fernande, la quale fino all’ultimo crede che il figlio possa essere graziato e che tenta in ogni modo di giustificarlo? Le lettere pubblicate da Fantarella mostrano la prostrazione di Salvemini, il quale però non intende transigere: Jean, il suo Jean, Giovannino, era colpevole e chi si era macchiato di quei crimini doveva pagare.
Fernande morirà nel 1954, sola, a Parigi, invocando l’affetto e la consolazione da parte di Gaetano.
Che non arriveranno. Il loro sodalizio si era rotto. Tre anni dopo morirà anche Salvemini.
Repubblica 19.7.18
Intervista a Marc Gasol
“Dopo il dramma del piccolo Aylan ho capito che devo aiutare chi fugge”
di Robert Álvarez
Il campione spagnolo della Nba volontario sull’imbarcazione che ha soccorso Josefa, la migrante abbandonata in mare: “Anch’io voglio fare la mia parte”
Ho conosciuto Óscar Camps, di Open Arms, e gli ho chiesto di salire sulla sua nave Aver salvato quella donna è stata una grande emozione L’immagine del bambino siriano morto mi ha provocato un senso di rabbia Noi che siamo fortunati e conosciuti dobbiamo dare l’esempio
Marc Gasol, uno dei migliori giocatori della Nba, è uno dei protagonisti del salvataggio di Josefa, la donna camerunense abbandonata al suo destino nelle acque del Mediterraneo. Il pivot dei Memphis Grizzlies, che risponde per telefono dalla nave Astral, ha vissuto in prima persona la tragedia quotidiana delle migliaia di migranti che rischiano e spesso perdono la vita nel tentativo di fuggire dalle guerre e dalla miseria dei loro paesi.
Che ci faceva a bordo dell’Astral, con i membri della ong Open Arms?
«Poco più di un anno fa ho conosciuto Óscar Camps, fondatore e direttore della ong Proactiva Open Arms. Avevo seguito le sue iniziative e mi interessava quello che diceva. Lo invitammo a fare un discorso nel campus della mia squadra di pallacanestro, la Basket Girona. Mi piacque molto quello che diceva. L’anno scorso non potei imbarcarmi perché dovevo giocare nell’Eurobasket. Questa volta ce l’ho fatta».
Che cosa è successo?
«Abbiamo ascoltato una conversazione tra una motovedetta libica e una nave mercantile nella quale chiedevano che quest’ultima impostasse la rotta verso un punto preciso dove si trovava una barca in pericolo. Abbiamo poi appreso che la motovedetta libica ha riportato i naufraghi indietro dopo aver distrutto la barca su cui erano rimasti per due notti. Tre persone almeno, però, le hanno abbandonate».
E voi, che cosa avete fatto?
«Abbiamo seguito un protocollo di ricerca. Di buon mattino, verso le sei e mezzo o le sette, abbiamo individuato un gommone semi-sommerso. Ci siamo diretti sul posto. Un soccorritore, Javier Filgueira, è stato il primo a tuffarsi.
L’acqua era piena di benzina e con il sale diventa molto corrosiva.
All’inizio sembrava che non ci fosse nessun sopravvissuto. Ma avvicinandoci di più, abbiamo visto che c’era una donna. Si aggrappava con un solo braccio a un pezzo di legno lungo circa mezzo metro, non di più. C’erano anche un’altra donna e un bambino morti».
Che avete fatto?
«Li abbiamo portati a bordo della nostra scialuppa e poi della nave. Lì la donna è stata affidata ai medici.
Era in stato di shock. Le abbiamo detto che l’avremmo aiutata.
Abbiamo appreso che si chiama Josefa e che è del Camerun».
Perché fa tutto questo?
«La situazione è tale che è al di sopra dei miei sentimenti personali. Stiamo parlando di atti disumani, criminali. Queste persone avrebbero dovuto essere salvate. La guardia costiera afferma di aver salvato 158 persone. E se non fossimo arrivati noi, la cosa sarebbe finita lì. Nessuno avrebbe saputo nulla. Ma ci siamo resi conto che lì c’erano dei corpi, che avevano lasciato diverse persone in una situazione impossibile».
Che cosa prova?
«Un senso di frustrazione. Provo rabbia, impotenza. È la sensazione di aver contribuito a salvare una vita. Se non fosse stato per la nostra squadra, nessuno avrebbe saputo che cosa era successo. Si sarebbe detto che avevano salvato 150 persone e la realtà è che hanno lasciato delle persone vive in mezzo al mare. So come stava quella gente. Se fossimo arrivati prima, forse avremmo potuto salvare più persone. E se fossimo arrivati quindici o venti minuti dopo, Josefa sarebbe morta».
Che cosa l’ha spinta a partecipare a queste iniziative?
«La fotografia di Aylan, il bambino siriano morto sulla costa turca nel 2015 ha provocato in me un senso di rabbia e allo stesso tempo mi ha fatto capire che ciascuno di noi deve fare la sua parte perché certe cose non accadano più. Fu allora che conobbi Óscar Camps. Rimasi colpito dalla sua convinzione, da come abbia messo a disposizione di questa causa tutte le sue risorse economiche, logistiche e personali per aiutare queste persone.
Ammiro chi fa qualcosa e non aspetta che lo facciano altri».
C’entrano qualcosa i suoi figli con questo aspetto della sua
vita?
«Ne ho due, Julia e Luca. Voglio essere un esempio per loro.
Immagino la situazione di un padre che deve affrontare viaggi in cui abbondano le estorsioni, gli omicidi, pericoli di ogni genere in cui rischiano tutto per raggiungere un paese dove poter vivere in pace e con dignità. Mi metto nei loro panni e penso che vorrei che qualcuno mi aiutasse con il suo tempo, con i suoi soldi, che mi desse una mano. Penso che dovremmo tutti contribuire mettendoci il nostro granello di sabbia. È molto diverso sentire o leggere che c’è un certo numero di morti qui o là. Ma quando vedi quella persona morta, sai che era il centro del mondo nella vita di qualcuno. E non c’è più. Si vuole sminuire e disprezzare il lavoro delle organizzazioni umanitarie che si dedicano a questo. Lo trovo incredibile, una mancanza di umanità inaudita».
Lei è un professionista della Nba, un giocatore molto importante per i Memphis Grizzlies. Rischia il doppio dedicandosi a questa impresa.
«Dobbiamo dare l’esempio, mostrare quanto sia grave ciò che sta accadendo. Voglio essere un testimone diretto e salvare delle persone. Il rischio che posso correre per il fatto di essere un giocatore della Nba passa in terzo piano. Non c’è miglior esempio dei volontari che sono qui, con i quali sto convivendo. Sono una squadra eccezionale e vedi che fanno tutto per il bene comune».
– traduzione Luis E. Moriones © El País / Lena, Leading European Newspaper Alliance
La Stampa 19.7.18
Populismo? Colpa nostra
Per contrastarlo occorre partire dall’autocritica. E dall’alleanza per il progresso globale
di Matt Browne
Fondatore del think thank Global Progress
Una sagoma di plastica raffigurante Trump come un bambino grasso esibita a Londra la scorsa settimana durante una protesta contro la visita del presidente americano
Nella lotta contro l’ondata populista e autoritaria non c’è alcuna pallottola d’argento risolutiva. Sarà un lungo percorso che ci richiederà di cambiare rotta riguardo alla disuguaglianza, rispondere sinceramente alle preoccupazioni degli elettori, ricostruire e rinnovare il contratto e il capitale sociale, aggiornare e salvaguardare le istituzioni essenziali.
Senza dubbio il modo migliore per iniziare questo viaggio è valutare i nostri errori e pensare a come dobbiamo cambiare. Non c’è nulla di intrinsecamente virtuoso nella pratica politica tradizionale degli ultimi decenni, né in quella di centro-sinistra né in quella di centro-destra. Molti di noi non sono riusciti a stare al passo con i tempi nel modo di comunicare, di organizzarsi e impegnarsi. Quale che sia l’approccio che adottiamo, bisognerà affrontare le legittime critiche all’establishment politico.
In primo luogo, quando si parla di politica, le nostre piattaforme non possono essere completamente slegate dai desideri degli elettori. Dobbiamo rispondere con serietà, onestà e in modo esauriente alle preoccupazioni dell’elettorato sull’immigrazione, l’irresponsabilità dei potenti interessi che agiscono nel mondo degli affari o del settore pubblico e sulla rivoluzione tecnologica in atto. Se prendiamo atto, ad esempio, che negli ultimi due decenni nell’economia globale sono avvenuti cambiamenti epocali, è forse giunto il momento di accettare l’idea che alcuni piccoli aggiustamenti alla politica economica e la riforma dello Stato sociale siano una risposta inadeguata. Spesso ignoriamo che uno dei temi centrali della campagna di Trump era il lavoro. Che si sia o meno a favore del reddito di cittadinanza - io non lo sono - è giunto il momento di pensare in modo radicale a una nuova agenda economica di inclusione e responsabilizzazione. Tutte le idee, compresa la garanzia del diritto al lavoro o all’occupazione, dovrebbero rappresentare una gradita aggiunta a questo dibattito.
Ridefinire il patriottismo
Allo stesso modo, le preoccupazioni sull’immigrazione, l’integrazione e la sicurezza hanno trasformato radicalmente la politica in tutto il mondo occidentale - sono state senza dubbio al centro del voto sulla Brexit in Gran Bretagna e dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Si può benissimo non essere d’accordo con la maggior parte degli elettori in materia di immigrazione e deplorare il modo in cui l’argomento è stato stravolto dagli estremisti e dalla stampa scandalistica - io sicuramente sono su questa posizione. Ma è impossibile ignorarlo, tanto meno pretendere che al riguardo l’opinione pubblica sia agnostica. Arriverei a dire che è questa oggi la principale linea di frattura nelle elezioni occidentali. Resto del parere che si possa proporre una politica progressista di migrazione gestita. Ma nel farlo dobbiamo partire dal reale orientamento delle persone, non da quello che vorremmo avessero, e dimostrare che abbiamo il controllo della situazione e abbiamo un piano. Attualmente gli elettori si sentono traditi dalla nostra posizione e dalla nostra retorica. Persino Emmanual Macron, forse il più eloquente sostenitore di una società aperta nell’attuale panorama politico europeo, ha dato un giro di vite alle leggi francesi sull’immigrazione e l’asilo.
In secondo luogo, dobbiamo riformare la nostra politica. Per iniziare, dobbiamo smettere di essere condiscendenti e paternalistici. Parte dell’attrattiva della politica culturale è la percezione che le élite centriste siano troppo sbrigative nel respingere o etichettare alcuni elettori. Negli Stati Uniti gli ormai famigerati commenti dell’ex presidente Barack Obama sulle persone che «si attaccano alle armi o alla religione» hanno contribuito alla convinzione che la società sia effettivamente divisa tra un’élite condiscendente e la gente comune, proprio come sostengono i populisti. Le argomentazioni secondo cui alcuni aspetti dell’integrazione e dell’assimilazione non stanno andando bene in alcune società occidentali - o che il cambiamento sociale e economico è troppo rapido - non dovrebbero essere automaticamente etichettate come razziste, bigotte o luddiste. Dobbiamo iniziare dal punto in cui si trovano gli elettori, prendere sul serio le loro preoccupazioni e trattarli con rispetto.
Abbiamo anche bisogno di sviluppare una nostra politica di identità inclusiva. Il senso di appartenenza a una comunità politica non è necessariamente una forma di bigottismo. Anche se i populisti autoritari sfruttano i sentimenti patriottici per ricreare un’idea nostalgica di un passato più semplice e più puro, i politici tradizionali non dovrebbero rifuggire il patriottismo. Dovrebbero, invece, cercare di usare la stessa emozione per mostrare una visione positiva, tollerante, diversificata e inclusiva dell’identità nazionale. Vale a dire, dobbiamo rivendicare e ridefinire il patriottismo. I politici in gamba possono riscattare il patriottismo dai sovranisti.
In terzo luogo dobbiamo rendere la società più democratica. Uno dei fattori che veicolano insicurezza e frustrazione nelle nostre società è la sensazione diffusa di aver perso il controllo della propria vita. A questo risponde la promessa populista di togliere il potere a una élite corrotta o compromessa per affidarlo a un leader forte che governi in nome del popolo. Questa non è democratizzazione, però, ma un’ulteriore centralizzazione del potere. La nostra risposta dovrebbe essere quella di democratizzare veramente il potere, di rimetterlo nelle mani delle persone. Per dare loro un senso di controllo sulla propria vita, sul lavoro e sulla comunità. Si tratta di una vecchia agenda progressista, ma per troppo tempo non siamo riusciti ad applicarla. È ora che i progressisti sostengano il ruolo dei lavoratori nei consigli di amministrazione, sperimentino forme di democrazia locale, diretta e deliberativa, e promuovano forme appropriate di sussidiarietà in materia di polizia, istruzione e politica sanitaria.
Ciò richiede una visione coerente per riprogettare le istituzioni. Avendone l’occasione, dobbiamo rafforzare le istituzioni, in particolare la magistratura indipendente. Ma dovremmo andare oltre. Abbiamo bisogno di rinnovare altre istituzioni governative per adeguarle all’era digitale. E occorre anche rendere il governo più trasparente e aperto e i servizi pubblici più sensibili ai bisogni di chi li utilizza.
L’alternativa all’autoritarismo
In quarto luogo, le nostre politiche devono diventare globali. Naturalmente, la lotta per le peculiarità delle singole società europee e occidentali dev’essere combattuta separatamente in ogni Paese. Né l’Unione Europea né il Consiglio d’Europa, tanto meno l’alleanza transatlantica, possono essere di grande aiuto nel contrastare l’autoritarismo nazionale e fornire un’alternativa. Eppure, contro il potere del capitale in ambito nazionale è difficile per un governo misurarsi faccia a faccia in modo efficace con le multinazionali. Allo stesso modo, il rafforzamento dei diritti dei lavoratori a livello nazionale non sempre garantisce che otterranno una quota più equa dei redditi.
Dal momento che molto a livello globale è in mano alle multinazionali, abbiamo bisogno di un’azione internazionale multilaterale. Se questi organismi non ispirano più fiducia, dobbiamo rinnovarli. Abbiamo bisogno di una Bretton Woods democratica per affrontare le multinazionali.
Molte delle soluzioni alle sfide economiche locali sono tanto globali quanto locali e lo stesso vale per la sicurezza, l’immigrazione e l’identità. La globalizzazione della nostra politica dev’essere anche un progetto individuale e comunitario. Non ci sarà scampo da Salvini, Brexit o Trump fino a quando non capiremo e ci occuperemo del perché le persone hanno votato per loro. Come movimento globale, abbiamo bisogno di passare più tempo a capire il fascino dei populisti di quanto ne passiamo invece a criticarli. Questo è un volo globale e nessuno di noi dovrebbe sentirsi solo. Salvini ha già annunciato la sua intenzione di creare una Lega delle leghe - un’alleanza globale di populisti autoritari. Ha già la sua alleanza con la Russia Unita di Putin. Noi dovremmo rafforzare la nostra alleanza per il progresso globale. Se vinceremo questa battaglia, potremo ancora una volta essere il fondamento di un’alleanza di democrazie in tutto il mondo.
Traduzione di Carla Reschia
il manifesto 19.7.18
Tappeto rosso per Orban in Israele
Israele/Ungheria. Giunto ieri sera a Tel Aviv, il premier ungherese, espressione della destra europea xenofoba e populista, sarà ricevuto oggi da Netanyahu come un amico e sincero alleato. Ma in Israele si moltiplicano polemiche e condanne
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Si può essere ebreo e premier di un paese, Israele, che da decenni sostiene di essere una risposta all’antisemitismo e allo stesso tempo essere amico e alleato di un leader della destra che ha elogiato Miklos Horthy a capo dell’Ungheria durante la seconda guerra mondiale quando 600mila degli 800mila ebrei del paese furono sterminati dai nazisti. Sembra di sì almeno se si tiene conto dell’atteggiamento di Benyamin Netanyahu. Oggi il primo ministro israeliano si prepara a ricevere con grandi onori il premier ungherese Viktor Orban. Un benvenuto che conferma come la destra israeliana al potere stia rafforzando i legami con la destra europea più xenofoba e islamofoba in nome della “ragion di stato”, in questo caso i rapporti eccellenti con Budapest. Appena qualche giorno fa Netanyahu era finito sotto accusa per la dichiarazione congiunta fatta con il premier polacco Moriawecki sulla legge approvata da Varsavia che di fatto assolve la Polonia da ogni responsabilità nei crimini perpetrati dai nazisti. La Polonia come l’Ungheria e altri paesi dell’est europeo, è importante per tenere a freno le condanne delle politiche israeliane da parte dell’Ue o degli organismi internazionali.
La visita di uno dei maggiori esponenti del populismo dilagante in Europa ha generato qualche mal di stomaco in Israele. Una manifestazione di protesta accoglierà Orban oggi quando si recherà in visita al museo dell’Olocausto e non è escluso che avvenga altrettanto al Muro del Pianto a Gerusalemme. Non ha usato mezzi termini la leader del partito di centrosinistra Meretz, Tamar Zandberg, sottolineando che «chi elogia i leader che hanno collaborato con i nazisti, chi perseguita le organizzazioni per i diritti civili e l’opposizione nel proprio Paese, non è il benvenuto». Il quotidiano liberal Haaretz con articoli e analisi ha espresso il disappunto di tanti per gli onori riservati a Orban. Ma Haaretz pur essendo un giornale autorevole non è il più diffuso e non rappresenta la maggioranza degli israeliani. Più rappresentativo è Israel HaYom, vicino a Netanyahu, che in un articolo di benvenuto ieri ha omaggiato Orban, affermando che la diplomazia ungherese sostiene le posizioni di Israele e persino che il governo magiaro ha a cuore i sopravvissuti alla Shoah.
D’altronde anche settori della società non legati alla destra, tra precisazioni e qualche presa di distanza, sottolineano che Orban è un sincero alleato di Israele e che questo conta molto, più delle accuse che gli vengono rivolte. Shimon Schiffer, opinionista del giornale centrista Yediot Ahronot, di origine ungherese e con parte della famiglia sterminata dai nazisti, rispondendo ieri alle nostre domande non ha tracciato un quadro negativo di Orban. «Conosco personalmente il premier ungherese, è un leader importante, un grande amico di Israele, che dice delle cose poco piacevoli ma senza dubbio realistiche sui migranti» ci spiegava «il suo elogio di Miklos Horthy non lo condivido e spero che Netanyahu pubblicamente prenda posizione contro di esso». Secondo Schiffer la comunità ebraica ungherese, tra dubbi e critiche, comunque non boccia del tutto Orban.
Che l’auspicio di Schiffer per le parole che pronuncerà oggi Netanyahu si realizzi è pura fantascienza. Il premier israeliano non ha alcuna intenzione di creare intoppi al leader dell’Ungheria, paese che si astiene piuttosto che votare contro Israele all’Onu. Come lo scorso dicembre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite che ha condannato condannato gli Usa per aver spostato la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Oppure due mesi fa quando la Commissione Onu per i diritti umani ha votato per istituire un comitato investigativo sulle stragi di palestinesi lungo il confine tra Gaza e Israele. E il governo Netanyahu ricambia con piacere, come ricordava ieri Barak Ravid, analista della tv Canale 10, facendo riferimento all’impegno di Israele per aprire all’Ungheria le porte della Casa Bianca. Infine, ma non per importanza, Orban e Netanyahu hanno un nemico in comune, George Soros, miliardiario ebreo che mostra troppe simpatie per i migranti diretti in Europa e per il rispetto dei diritti umani.
La Stampa 19.7.18
Orban vola a Gerusalemme
Netanyahu cerca alleati nella Ue
di Monica Perosino e Rolla Scolari
Era già successo un anno fa, quando la visita di Benjamin Netanyahu a Budapest - la prima di un premier israeliano dopo la caduta del comunismo - aveva suscitato aspre polemiche nella comunità ebraica per le posizioni del leader magiaro, accusato di antisemitismo. Ieri Orban è arrivato a Gerusalemme per una visita di tre giorni, un sigillo ai rapporti sempre più stretti con il premier israeliano. E come un anno fa, le critiche all’opportunità di una «amicizia» tra il leader dello Stato ebraico e il capofila dei politici della destra nazionalista d’Europa, non si sono fatte attendere. La paura della comunità ebraica ungherese - Mazsihisz, che con 100.000 membri è la più numerosa dell’Europa orientale - è che, nonostante i tentativi di Orban di smarcarsi dalle accuse di fomentare l’antisemitismo, la sua aspra posizione anti Soros, il filantropo ebreo «nemico numero uno dell’Ungheria», non faccia che gettare benzina sulle scintille di ultradestra che segnano il Paese magiaro.
Un anno fa Orban aveva accolto Nenanyahu con la promessa pubblica di «proteggere» la comunità ebraica ungherese. E riferendosi alla collaborazione del suo Paese con i nazisti aveva sottolineato: «Durante la Seconda guerra mondiale abbiamo deciso, invece di proteggere gli ebrei, di cooperare con i nazisti. Questo non accadrà più». Prima dell’arrivo di Netanyahu decine di operai avevano fatto sparire i manifesti della campagna elettorale di Fidesz, il partito di Orban, dove capeggiava il «nemico» Soros oltraggiato con graffiti raffiguranti svastiche e scritte come «l’ebreo che ride», «ebrei raus». Non solo: Orban si è espresso in sperticate e reiterate lodi a Miklos Horthy, alleato di Hitler, e promulgatore delle primi leggi conto gli ebrei nel 1921: «Statista eccezionale».
Relazioni internazionali
Ieri, in un raro comunicato di benvenuto, il ministero degli Esteri israeliano, retto ad interim da Netanyahu, spiega che la visita intende «promuovere le buone relazioni, espresse nel sostegno alle posizioni d’Israele nei forum europei e internazionali, e sottolinea l’importanza di continuare la lotta all’antisemitismo». Il riferimento è al fatto che i quattro Paesi Visegrad, di cui fa parte l’Ungheria, hanno bloccato un documento europeo di condanna del trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Le quattro nazioni sono per Netanyahu anche un alleato per indebolire le posizioni di altri membri europei nella difesa dell’accordo sul nucleare iraniano.
Orban da parte sua mira a riabilitare la propria immagine nei confronti degli ebrei ungheresi: «Sono orgoglioso del fatto che nel nostro Paese oggi ci sia una rinascita della vita ebraica, anche se ho sentito che ci sono difficoltà», ha detto recentemente. Un reportage dall’Ungheria pubblicato da Haaretz, quotidiano vicino alla sinistra israeliana, racconta di come nelle vie di Budapest si percepisca questa «rinascita», ma si chiede anche quanto sia artificiale: cartelloni pubblicizzano il festival della cultura ebraica, una scuola estiva sulla storia ebraica, il governo ha speso 14,5 milioni di dollari nella ristrutturazione di una storica sinagoga di Pest. Tuttavia, le preoccupazioni degli ebrei ungheresi restano alte, soprattutto dopo che una dichiarazione di sostegno dell’ambasciatore israeliano in seguito alle lamentele sulla campagna anti-Soros è stata smentita da Benjamin Netanyahu: la nota «non voleva delegittimare le critiche a Soros, che continuamente mina il governo democraticamente eletto di Israele finanziando organizzazioni che diffamano lo Stato ebraico».
Oggi a Gerusalemme, Orban vedrà Netanyahu, il presidente israeliano Reuven Rivlin e Meir Lau, uno dei rabbini capo d’Israele. Nel pomeriggio è prevista una visita al memoriale dell’Olocausto Yad Vashem. Venerdì Orban si recherà al Muro del pianto prima di ripartire per Budapest. Non è previsto alcun incontro con l’Autorità Palestinese.
il manifesto 19.7.18
L’«unica democrazia» mediorientale tra guerra e apartheid
di Zvi Schuldiner
Mentre la tensione cresce enormemente nel sud di Israele, dove la guerra sembra inevitabile, anche su altri fronti gli intenti molto poco chiari del governo israeliano sembrano accelerare il passo. Guerra con chi? Con la Siria o Con Hezbollah o Con l’Iran?
A Helsinki il governo israeliano ha segnato un punto: sia Donald Trump che Vladimir Putin, per ragioni diverse, sembrano aver approvato le intenzioni di Israele quanto alla situazione in Siria e alla presenza dell’Iran in quel paese. I russi sono diventati la superpotenza che domina la guerra, decidono rispetto al cessate il fuoco nel sud e appoggiano o frenano l’azione dell’esercito siriano. Il ruolo centrale della Russia è decisivo, ma al tempo stesso Assad e i russi sanno che parte delle vittorie sono state assicurate dalla presenza di combattenti libanesi di Hezbollah e di quelli iraniani.
PER L’IDEA che domina in Israele, la presenza dell’Iran è un cambiamento evidente nei rapporti di forza regionali ed è considerata una minaccia esistenziale. I continui attacchi aerei israeliani contro le truppe iraniane e contro l’invio di armi a Hezbollah da parte dell’Iran sono stati un chiaro intento di limitare entrambi gli attori. Gli attacchi sono stati sempre condotti previo coordinamento con le forze russe e in generale i russi non vi si sono chiaramente opposti.
Mosca vorrebbe che gli iraniani lasciassero il paese ma deve tener contro della sua alleanza con l’Iran; alcuni accordi che limitano le regioni nelle quali sono ammesse presenze non siriane. A Helsinki Israele ha segnato un altro punto importante quando entrambi i presidenti hanno chiesto, per il sud della Siria, il ritorno ai termini dell’accordo del 1974 che stipulò un limite alla presenza militare e il controllo internazionale, dopo la guerra del 1973.
FORSE QUESTA NOTTE è stata approvata la nuova «legge sulla nazionalità», criticata perfino da politici di destra come Beny Begin e dal presidente di Israele. Si tratterà di una grave macchia sull’assai problematica democrazia etnica israeliana. Anche se, viste le critiche, la destra radicale ha abbandonato i concetti più estremi, si tratta comunque di una legge sul «carattere ebraico» dello Stato di Israele, con una preferenza chiara per gli ebrei e un atteggiamento di discriminazione o almeno disinteresse nei confronti degli altri israeliani, il 20% della popolazione.
TUTTAVIA, mentre quasi tutti gli occhi sono rivolti alla legge in questione e alla situazione nel sud, il Parlamento approva leggi – anche nelle ultime ore – che consolidano la presenza dei coloni nei territori occupati, limitano le possibilità legali dei palestinesi e legalizzano l’inferno dell’occupazione.
Intanto migliaia di ettari intorno in prossimità della Striscia di Gaza sono bruciati. I missili e le bombe continuano a far paura e contemporaneamente alla mattanza di oltre 160 palestinesi durante le marce del ritorno, da oltre cento giorni vengono lanciati palloncini-condom pieni di elio che incendiano i campi. La situazione a Gaza non è migliore; la miseria, la mancanza di acqua ed elettricità, i rigori dell’assedio sono all’ordine del giorno.
Oggi cinici rappresentanti dell’Anp hanno protestato contro alcune delle misure israeliane di inasprimento dell’assedio in risposta agli ultimi attacchi palestinesi. Questo però non cancella la politica di Abu Mazen che per calcoli di potere interni ha deciso di peggiorare la situazione dei palestinesi di Gaza.
Tutti cercano di evitare lo scontro vero e proprio: il rappresentante dell’Onu nella regione, Nikolai Vladanov, i contatti con gli egiziani che fanno pressione su Hamas, gli europei e altri, però…Però i dissidi interni fra i palestinesi portano le diverse fazioni a una gara a chi è più radicale; il cessate il fuoco con Hamas può indurre la Jihad islamica a realizzare attacchi per dimostrare una «maggiore lealtà alla causa». Intanto l’Anp critica Israele e tutti dichiarano di non volere la guerra.
ANCHE ISRAELE lo dice, precisando che il pericolo è nel nord e che là occorre concentrare gli sforzi militari, però…Il comandante dell’esercito è stato attaccato duramente dalla destra per la sua riprovazione verso il soldato che a Hebron ha ucciso un palestinese inerme. Poi i successi nel nord e la mattanza di palestinesi, che ha fatto fallire la marcia del ritorno, hanno ridato popolarità al generale Eizenkot. Ma negli ultimi giorni, a causa della situazione nel sud e dei dissidi all’interno della destra, in rete gli si dà nuovamente del «traditore». In una riunione del gabinetto di sicurezza, il ministro dell’educazione Naftali Bennet, ultradestra, ha incitato l’esercito a sparare contro i bambini e i ragazzi che lanciano i palloncini esplosivi; il comandante gli ha risposto che questo sarebbe contrario alle regole e ai valori dell’esercito israeliano.
Chi è più di destra? Mentre oggi Netanyahu riceve Orbán. È questa la pericolosa domanda che aleggia nell’aria. E quando una bomba cade su una casa a Sderot provocando quattro feriti, arrivano tutti lì, Netanyahu, il ministro della difesa Liberman e quant’altri…
IN QUESTE ORE il pericolo di una nuova guerra si fa sempre più vicino e i giochi di potere fra le parti potrebbero far precipitare la situazione. Solo un freno a livello internazionale – la chiave passa per l’Egitto, ma non solo – può evitare stupide provocazioni che regalerebbero un’occasione d’oro agli estremisti israeliani. I dissensi all’interno della destra isaeliana che già pensa alle prossime elezioni agli inizi del 2019 potrebbero portare a una radicalizzazione dell’élite politica, e la relativa moderazione dell’esercito e degli organismi di sicurezza a quel punto non sarebbero un ostacolo sufficiente a evitare nuovi spargimenti di sangue.
Chi è più forte? Andiamo, andiamo tutti al circo del sangue, il sangue versato sarà quello degli altri; ci saranno alcuni morti anche fra gli israeliani, ma in maggioranza saranno palestinesi. E la già disastrosa situazione a Gaza peggiorerà enormemente.
il manifesto 19.7.18
Sugli Ebrei
I bambini ci parlano. La rubrica settimanale a cura di Giuseppe Caliceti
di Giuseppe Caliceti
Abbiamo studiato gli Ebrei. Mi dite con parole vostre tutto quello che ricordate su questo popolo e sulla sua storia?
«Gli Ebrei sono un popolo che ha avuto tre periodi: uno nomade, uno sedentario e poi la diaspora, cioè la dispersione, perché diaspora vuol dire dispersione, perché loro non sapevano più dove andare, non avevano più un posto dove stare». «Loro erano nella terra di Canaan, che poi è quella dove c’era anche Gesù e aveva fatto dei miracoli, mi sembra, perché anche Gesù, mi sembra, era ebreo». «Loro, all’inizio, erano un popolo di pastori che venivano dalla Mesopotamia, dove erano vissuti anche i Sumeri e i Babilonesi. Perché c’erano sempre quei due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, che erano molto importanti per irrigare le piante e far crescere i semi e i frutti e perciò c’era più vita, vicino ai fiumi, nell’antichità. C’era più cibo. Adesso invece vicino ai fiumi c’è solo odore di marcio perchè i fiumi non valgono più e gli uomini li inquinano». «Gli Ebrei erano un popolo diviso in tribù. Le tribù erano dei gruppi di famiglie. Le tribù erano…. Avevano come capi dei patriarchi. Un patriarca era poi un nonno, una persona anziana, la più vecchia». «Nel 1700 prima di Cristo, cioè prima della nascita di Gesù, gli Ebrei erano stati in Egitto ma dopo erano fuggiti da lì per tornare al loro Paese perché gli egiziani volevano farli schiavi e loro non volevano, allora sono scappati». «Sono scappati attraverso il Mar Rosso, dice la leggenda. Perché Dio gli fece una strada tra le onde del mare e così loro riuscirono a fuggire e chi li inseguiva, cioè gli egiziani, furono travolti dalle onde e non riuscirono a prenderli».
Le storie dell’Antico Testamento, la prima parte della Bibbia, parlano anche degli Ebrei. Ricordate qualcosa?
«Io mi ricordo che Mosè era quello delle tavole della legge, che poi le leggi, cioè le regole, agli Ebrei ma anche a tutti gli uomini, le aveva date Dio, a Mosè». «Le tavole della legge, è vero». «Io non ho capito bene se tutti quelli che credono in Dio sono ebrei o no». «Anche io non ho capito bene quale era la religione degli Ebrei. Se è come la nostra o no». «Un’altra cosa che ci siamo dimenticati è che loro, poi, quando lasciarono l’Egitto e tornarono a Canaan, loro, gli Ebrei, non erano più tutto un popolo diviso in tribù e in città separate. Ma formarono un regno. Il loro regno si chiamava Regno di Israele e c’era un re che lo regnava. Il re si chiamava Salomone». «Dopo ci fu Salomone, prima ci fu il re Saul». «Dopo però gli Ebrei morirono tutti. Il loro regno non durò molto perché loro non erano molto bravi come soldati. All’inizio erano pastori, tenevano dietro alle pecore. Poi un po’ impararono anche a viaggiare, a fare un po’ gli artigiani, i mercanti. Ma gli Ebrei non furono mai dei grandi soldati con le navi da guerra e un esercito grandissimo, allora alla fine si indebolirono e poi vennero conquistati dai popoli vicini che poi erano gli Assiri e i Babilonesi».
Perché la loro religione è così importante?
«Perché furono loro a inventare un Dio solo, un Dio unico. Il maggiore. Il più grande di tutti. Invece fino a quel momento i popoli dell’antichità erano politeisti, cioè credevano in tanti dèi. Gli Ebrei invece non erano politeisti ma monoteisti, che poi vuol dire che credevano in un unico Dio come adesso anche noi». «Loro avevano un candelabro speciale con 5 braccia che sembrava un albero e si chiamava Menorah. C’era anche una foto sul nostro sussidiario». «La Bibbia però era scritta sui rotoli, all’inizio. Sui papiri. Non in un libro vero e proprio. Dopo l’hanno ricopiata su un libro i preti e gli altri che pregavano Dio». «Poi loro usavano l’alfabeto fonetico come i Fenici. Anche loro, sì, anche gli Ebrei». «La loro terra era la terra promessa da Dio». «Adesso a Gerusalemme ci sono tre religioni: gli ebrei, i mussulmani di Allah e i cattolici. Però c’è sempre la guerra, a Gerusalemme. Perché loro non si mettono d’accordo sulla religione migliore, per me. Allora fanno la guerra». «Io ho visto anche delle bombe, alla tv». «Io ho visto anche un film su Mosè». «Il libro dove erano scritte le loro avventure e le regole della loro religione si chiama Torah». «Io non ho capito se anche noi che siamo Cattolici siamo Ebrei o no». «Sì, anche noi, perché crediamo tutti in Gesù. Credo».
La Stampa 19.7.18
L’ultimatum di Israele ad Hamas
“Fermate gli aquiloni incendiari”
di Giordano Stabile
Israele lancia l’ultimatum ad Hamas sugli aquiloni incendiari e quella che sembrava un’arma rudimentale diventa la possibile causa di un nuovo intervento di terra, a quattro anni dall’operazione Protective Edge che nell’estate del 2014 ha fatto oltre duemila morti. Gli aquiloni, e i palloni, che appiccano incendi sono diventati però l’incubo del governo guidato da Benjamin Netanyahu e del suo ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Non fanno vittime ma hanno distrutto in quattro mesi oltre 5mila ettari di vegetazione e campi coltivati, con danni per centinaia di milioni. La popolazione al confine con Gaza, soprattutto gli agricoltori, li temono ormai quanto i razzi, mentre l’esercito non ha trovato ancora contromisure efficaci.
Per questo le forze armate hanno comunicato al movimento islamista che controlla la Striscia dal 2007 di fermare i lanci «entro venerdì», cioè domani, o ci sarà un intervento di terra, con una brigata già pronta a dare la caccia alle «squadre», gruppi di otto-dieci ragazzi, spesso minorenni, che costruiscono gli aquiloni e li lanciano non appena il vento è abbastanza forte e favorevole. Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett ha chiesto in realtà, anche per guadagnare consensi a spese del Likud, di «bombardare i siti di lancio» ma il capo delle forze armate Gadi Eisenkot si è rifiutato perché «in mezzo ci sono bambini».
Esercito e aviazione le hanno provate tutte. Sono stati utilizzati droni armati per intercettare e abbattere gli aquiloni, con scarsi risultati: sono piccoli, difficili da individuare e colpire, e possono essere lanciati in numero soverchiante. I droni sono stati poi usati per individuare le basi di lancio, in coordinazione con l’artiglieria, per sparare colpi di avvertimento e dissuadere i lanciatori. Ma anche qui, basta uno spiazzo e pochi minuti per il lancio e controllare tutta la zona di confine con rapidità sufficiente è impossibile.
Gli aquiloni sono costruiti in casa, al costo di pochi shekel, con fogli di plastica, quattro bastoncini di legno, una cordicella per il lancio e una lunga «coda» fatta con uno spago. In fondo è legato il materiale incendiario, stracci imbevuti di benzina, ed è fatta. L’aquilone può volare per chilometri e la coda diffondere il fuoco per centinaia e centinaia di metri. Alcuni hanno i colori della bandiera palestinese e portano anche messaggi di propaganda e minacce.
L’Egitto in allarme
A questo punto, se Hamas non desiste, non resta che l’intervento di terra. Un paradosso, perché in quattro anni Israele ha gestito minacce come i tunnel d’attacco, mortai e razzi senza dover entrare con le truppe nella Striscia. Hamas ha ribadito di «non essere responsabile» dei lanci, una manifestazione di «lotta popolare» spontanea, come le «marce del ritorno» che ogni venerdì portano migliaia di persone verso la recinzione che segna la frontiera. Centotrenta persone sono morte dalla scorso 30 marzo, per lo più sotto i colpi dei cecchini israeliani, ma nonostante le proteste internazionali per «l’uso eccessivo della forza» lo Stato ebraico è riuscito a tenere la situazione sotto controllo. Gli aquiloni invece si sono rivelati ingestibili, l’arma segreta di Hamas.
È vero che probabilmente il movimento non organizza direttamente i lanci, ma «lascia fare» e approva questa forma di lotta, tanto che, secondo fonti egiziane, dopo l’ultimatum israeliano ha comunicato che «interverrà». Anche Il Cairo, su richiesta israeliana, ha aumentato la pressione sulla Striscia e chiuso il valico di Rafah, mentre Israele ha bloccato il valico commerciale di Kerem Shalom: impedirà fino a domenica l’ingresso nella Striscia di combustibili, ma non di medicinali e di prodotti alimentari. La tenaglia di embargo e minaccia di invasione è destinata a far cedere Hamas. Ma gli aquiloni restano un fattore imprevedibile nella «guerra asimmetrica».
Corriere 19.7.18
Palloncini incendiari, sfida dei ragazzi di Gaza che mette in crisi Israele
Il ministro estremista: eliminare questi terroristi
Ma il capo di Stato maggiore: non spariamo sui minori
di Davide Frattini
GERUSALEMMEGli aquiloni, i preservativi gonfiati con l’elio, un falco. L’autoproclamata «aviazione» palestinese si affida al vento e all’istinto di un volatile per colpire dall’altra parte della barriera, per bersagliare con bottiglie incendiarie e bombe artigianali i campi coltivati dagli agricoltori dei kibbutz nei dintorni di Gaza. Il filo che controlla l’aquilone fa da miccia, le molotov in caduta libera sul terreno appiccano le fiamme, è la stagione secca: gli incendi sono già 750, gli ettari di terreno bruciato 2.600, gli ordigni sono precipitati anche vicino alle case.
Così un’arma quasi primitiva sta complicando le scelte strategiche dei comandanti israeliani che non riescono ancora a trovare la soluzione per fermare questi rudimentali palloni aerostatici. Al punto che Gadi Eisenkot, il capo di Stato maggiore, ha dovuto respingere le pressioni di Naftali Bennett: il ministro dell’Educazione a capo del partito dei coloni gli ha chiesto di eliminare i «terroristi degli aquiloni». Il generale — in un confronto durante il consiglio di sicurezza riportato dai giornali locali — si è rifiutato «di sparare a bambini e ragazzi: è la risposta sbagliata da un punto di vista morale e operativo».
Resta per lui l’urgenza di riuscire a trovare questa risposta. Il premier Benjamin Netanyahu ha visitato per la prima volta in due mesi — e per due giorni di fila — le campagne annerite dal fuoco. È andato a Sud assieme ad Avigdor Lieberman, il ministro della Difesa, e sono loro due per ora a tentare di allontanare il rischio di una guerra. Gli ufficiali sanno, però, che l’ordine potrebbe arrivare e nei giorni scorsi hanno organizzato un’esercitazione al confine con Gaza per simulare la conquista della Striscia. È stato più che altro un avvertimento per i leader di Hamas: «Non esagerate costringendoci all’attacco».
Già sabato scorso lo scontro ha raggiunto un’intensità che ha riportato gli israeliani e i palestinesi ai 59 giorni di conflitto tra luglio e agosto di quattro anni fa. L’aviazione di Tsahal ha colpito oltre 40 obiettivi, i miliziani hanno sparato almeno cento tra razzi e proiettili di mortaio, le sirene sono risuonate per tutto il giorno nelle città e nei villaggi a pochi chilometri dalla Striscia.
Sono stati i mediatori egiziani a ottenere un cessate il fuoco, che però non ha fermato gli aquiloni incendiari. Così il governo Netanyahu ha deciso di chiudere fino a domenica il valico di Kerem Shalom alla maggior parte dei materiali, compreso il carburante per far funzionare l’unica centrale elettrica di Gaza, e il Cairo ha ridotto i passaggi attraverso quello di Rafah.
Tappare gli sbocchi della Striscia verso l’esterno dovrebbe spingere i capi fondamentalisti a fermare le operazioni con i palloncini. Hamas ripete di non cercare un conflitto totale con gli israeliani, non è chiaro quanto sia in grado — o davvero voglia — intervenire per fermare i responsabili dei lanci. Anche perché questi gruppi ormai si presentano come «truppe» organizzate e hanno dichiarato in un comunicato di non essere disposti a smettere: «fin quando gli israeliani non toglieranno il blocco, le nostri missioni saranno ancora più frequenti». Come è già successo nel 2014 — temono gli analisti — potrebbe scoppiare la guerra che tutti proclamano di non volere.
Corriere 19.7.18
L’assessore, la carne kosher e le liste di ebrei
di Paolo Valentino
Un assessore della Bassa Austria, uno dei nove Länder austriaci, vuole vietare il consumo di carne kosher, in nome della protezione degli animali. Bontà sua, è pronto ad ammettere eccezioni per chi, come gli ebrei, ha un precetto religioso da osservare. E come pensa di farlo? Semplice: rilasciando permessi individuali agli ebrei che lo richiedono. Va da sé che per ottenere la dispensa le persone di religione ebraica dovranno registrarsi come tali. Avete letto bene. Gottfried Waldhäusl, è questo il nome dell’assessore animalista, pensa a un registro degli ebrei che vogliono continuare a mangiare carne kosher. «È necessario dal punto di vista del benessere degli animali», spiega il nostro, manco a dirlo esponente della FPOe, il partito di estrema destra nazionalista al governo con il cancelliere Kurz, in odore di nostalgie nazionalsocialiste. La religione ebraica (come quella musulmana) ammette il consumo di carne se l’animale viene sgozzato vivo. Solo in quel caso infatti è kosher, o halal per gli islamici. Ma questa pratica viene considerata eccessivamente crudele, nonostante sia pensata proprio per causare la minore sofferenza possibile. L’idea di una lista ebrei nella Bassa Austria è allucinante. «Come una clausola ariana negativa», commenta Oskar Deutsch, presidente della Comunità israelitica di Vienna, riferendosi alle leggi razziali varate dai nazisti nel 1936 in Germania e applicate anche in Austria all’annessione. Deutsch accusa anche l’assessore di «voler rendere la libertà di religione solo un diritto individuale ad hoc». Il piano demenziale di Waldhäusl non è stato ancora approvato dal governo regionale. E forse non lo sarà. Ma il solo fatto che esista dice molto su come sia cambiato lo Zeitgeist sotto il governo nazional-populista austriaco.
il manifesto 19.7.18
All’improvviso la storia
«La gente pensa che la storia abbia un respiro lungo ma la storia, in realtà, ti si para davanti all’improvviso»
di Enzo Scandurra
La gente pensa che la storia abbia un respiro lungo ma la storia, in realtà, ti si para davanti all’improvviso. È la riflessione illuminante di Nathan Zuckerman in Pastorale Americana di Philip Roth, che si prende carico di scrivere la biografia dello «svedese».
Così, con queste parole, lo scrittore rappresenta la tragedia improvvisa (la figlia terrorista) che cambia l’intera vita del personaggio principale del libro.
Un uomo (lo «svedese») che d’improvviso si ritrova in mano le carte sbagliate per la partita da giocare. Assolutamente impreparato a ciò che sta per abbattersi su di lui; la tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti.
Ma è anche una metafora della «caduta», il crollo dell’utopia dei giusti, il trionfo della rabbia cieca e innata dell’America.
Oggi quella riflessione appare più che mai attuale per rappresentare un mondo, l’Occidente, e in particolare lo scenario italiano, di fronte al dramma degli immigrati. Una storia che sembra venir fuori dalle tenebre della civiltà europea, come lo fu l’irrompere del nazifascismo a metà del ’900 (ma quello, almeno, era in gran parte annunciato).
E una storia gloriosa, quella della sinistra, spazzata via letteralmente in poco tempo come se fosse stata una grande illusione o un inganno, un fuoco di paglia destinato a bruciare tutto nel giro di una stagione.
I più, tra i compagni, hanno rinunciato a capire; altri aspettano che i nuovi arrivati al governo diano forfait perché la sinistra possa tornare in gioco, altri ancora tentano nuove coalizioni politiche che dovrebbero riavviare la nascita di una nuova e diversa sinistra. Ma tutti sembrano soccombere a questo ribaltamento improvviso di valori: la salvezza in mare, la vita delle persone non erano acquisiti per sempre? O forse no?
La Fortezza Europa, con i suoi balletti e le sue divisioni interne, si avvita sempre di più in una interminabile discussione su come contenere il flusso di arrivi senza perdere definitivamente la sua tradizione di civiltà.
Altri paesi, e l’Italia in testa, decidono che quel mondo dei dannati della terra – un mondo dal quale tutti i paesi europei hanno per decenni sottratto risorse e ridotto alla schiavitù i loro popoli – debba essere abbandonato alla propria sorte, che significa alla sorte dei loro tiranni di turno. Come se questa «loro sorte» non fosse la stessa dei dominanti. Che se si realizzasse, quell’altro mondo (l’Occidente), vecchio e stanco, non fosse condannato anch’esso a una lenta agonia.
È quanto mai triste che la sinistra non abbia elaborato per tempo una visione all’altezza della situazione: la storia le si è parata davanti all’improvviso con il suo carico di umani disperati, di bambini, donne, giovani che fuggono da terre insanguinate da guerre o sconvolte dai cambiamenti climatici che continuiamo a ignorare.
La sinistra rischia di estinguersi alla stessa stregua di tante specie non adatte al cambiamento o come i dinosauri incapaci di fronteggiare la catastrofe.
È imbarazzante vedere alla televisione Martina balbettare sulle scelte fatte dal Pd, senza alcuna autocritica severa, attento agli equilibri e alle lotte interne al partito, come i suonatori dell’orchestra sul Titanic che affonda.
Eppure c’è un’opportunità unica, per l’Europa e per il nostro Paese in questo sbarco di migranti.
Guido Viale non si stanca di ricordarcelo dalle pagine di questo giornale.
C’è un futuro diverso e nuovo nell’accoglienza, un mondo di speranza fatto di convivialità, convivenza, solidarietà e di un’economia riconvertita, finalizzata a una stabilità degli ecosistemi di supporto alla vita, attualmente danneggiati in maniera quasi irreversibile.
Non è una dolce e ingenua utopia per anime belle: è ciò che solo ci resta; come non vedere questo futuro come il solo auspicabile per L’Europa? E i Salvini, i Di Maio e con loro la classe dirigente del continente europeo che si affanna a tenere fuori dai propri confini i «barbari» come se non fossero proprio i “barbari” a rappresentare la salvezza del continente malato. Quei volti giovani di uomini e donne pieni di energia e di speranza.
Gli stati europei difendono la propria effimera sovranità che non li salverà dalla catastrofe ecologica, politica, economica.
In molte città, in tanti paesi sperduti dell’Italia, si manifestano ormai durature forme di vita antagoniste che nemmeno guardano più alla politica, lontana dai loro bisogni. Che sono bisogni di stare insieme, di fare comunità, cultura e sperimentazione di nuove economie.
Ancora una volta la storia si presenterà davanti all’improvviso e chiederà conto dei misfatti che stiamo compiendo verso la specie umana e il suo ambiente.
il manifesto 19.7.18
«La politica estera in mano al Viminale, ecco i risultati»
L’emergenza migratoria negli ultimi due anni
di Carlo Lania
«Sa qual è il problema? Che in nome dell’emergenza migratoria negli ultimi due anni la politica estera italiana in Libia è stata fatta dai ministri degli Interni invece che da quelli degli Esteri. E i risultati li vediamo. Salvini non sta facendo altro che portare alle estreme conseguenze quanto già deciso precedentemente». Ex viceministro degli Esteri con il governo Gentiloni, Mario Giro è sempre stato molto critico con le politiche sull’immigrazione attuate dal Viminale quando a guidarlo c’era Marco Minniti. In questi giorni è impegnato in una serie di incontri con l’associazionismo laico e cattolico per presentare «Centro Solidale», la nuova formazione politica creata a sostegno di Nicola Zingaretti alle regionali del Lazio e che ora si vuole espandere. «Anche la critica alle ong non è cominciata oggi, ma un anno fa» ricorda Giro al telefono. «Salvini se l’è presa con le ultime quattro navi ong ancora presenti nel Mediterraneo, mentre all’epoca ce n’erano quattordici».
Porti italiani chiusi e porti libici considerati sicuri. Non le suona un po’ strano?
Non esiste. E’ una vecchia storia che abbiamo già provato in passato, quando al Viminale c’era Maroni e l’Italia è stata condannata per aver chiuso i porti e respinto migranti in Libia. Si ripete che molti dei paesi dai quali provengono i migranti non sono in guerra. Quest’affermazione fa sorridere: invito tutti ad aprire il sito «Viaggiare sicuri» della Farnesina e a leggere le raccomandazioni che vengono date ai nostri concittadini proprio su quei paesi, così ognuno potrà farsi un’idea su quanto siano realmente sicuri.
Da viceministro degli Esteri lei ha definito i centri di detenzione libici un inferno.
E mi presi i rimbrotti di tutti. Cercai di rimediare alle situazioni più difficili invitando le ong italiane a recarsi nei centri di detenzione – oggi sono sette quelli presenti in Libia. Ebbi dalla mia parte solo l’allora ministro dei Trasporti Delrio. Da allora l’unica cosa che è cambiata è che l’Unione europea ha fatto quello che gli era stato chiesto di fare al vertice di Abidjan, in Costa d’Avorio: ha rimpatriato circa 26 mila persone che si trovavano nei centri cosiddetti legali. Però non sappiamo quante persone vi sono ancora oggi richiuse. Tra l’altro mi ha lasciato perplesso anche l’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) quando un mese fa ha detto che in Libia ci sono 700 mila migranti e tre giorni fa si è corretta parlando di 200 mila. La verità è che nessuno lo sa e sarebbe meglio evitare certi allarmismi.
In Libia non esiste un governo affidabile, eppure l’Italia continua a considerare il paese nordafricano un partner credibile e l’Unione europea sostiene gli aiuti economici.
Io non dico che non bisogna aiutare la Libia, dico anzi che occorre fare un sforzo politico per chiedere ai libici di riprendere il negoziato e concluderlo. Dobbiamo capire una volta per tutte che con la Libia si potrà fare efficacemente qualcosa per i migranti solo quando ci sarà uno stato unitario. Ma come si fa oggi ad affidare i migranti a un’entità non statuale, che non risponderà mai davanti a nessuno? La mia domanda è: perché abbiamo smesso da più di un anno di insistere sul lato politico e abbiamo affidato la Libia ai ministri dell’Interno invece di lasciarla nelle mani dei ministri degli Esteri perché finalmente si arrivasse a un accordo politico e si disarmassero le milizie? Finché questo non avverrà il problema dei migranti sarà per i libici solo un mezzo per prenderci in ostaggio.
E che risposta si è dato?
Che si è presi dall’urgenza migratoria, anzi dalla psicosi, come dice Papa Francesco, e non si vede al di là del proprio naso. E’ l’inerzia internazionale. Le fazioni libiche vanno messe intorno a un tavolo e convinte a trovare un accordo. Dopo di che discutiamo. Mi pare che il ministro Moavero si voglia muovere in questa direzione, l’unica utile. Se restiamo intrappolati dall’ultima emergenza non ne usciamo. Eisenhower diceva che le cose urgenti raramente sono le più importanti. Se continuiamo ad affidare ai ministri dell’Interno un mestiere non loro, come negoziare con le tribù, non andiamo da nessuna parte. E poi ci vuole una legge sull’integrazione per togliere i migranti dalle strade.
Tutto questo però lo ha iniziato il ministro Minniti, che faceva parte del suo stesso governo.
E io dissi subito che non ero d’accordo. Usciamo dall’equivoco: la politica italiana sulla questione migratoria deve essere bipartisan. L’ho sempre sostenuto. Finché sarà usata a scopi interni, destra contro sinistra o sinistra contro destra, non ne usciamo.
il manifesto 19.7.18
«Il business dei clandestini si coniuga all’ecatombe in mare»
Rapporto semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. La criminalità prospera nel paese in cui è quasi impossibile entrare legalmente
di Giuliano Santoro
Lo avevano detto un paio di giorni fa dalla Dda di Roma, all’indomani dell’ultima operazione contro le mafie capitoline: la diffusione della criminalità organizzata procede di pari passo alla crisi della forme di aggregazione e partecipazione sociale. Da tempo gli studiosi del fenomeno spiegano che la mafia cresce quando non esiste altra forma di regolazione sociale. I mafiosi prosperano laddove si presentano fenomeni che richiedono di essere governati con le spicce.
UNA CONFERMA ULTERIORE arriva dall’ultimo rapporto semestrale della Direzione investigativa antimafia. Nella consueta mescolanza di analisi dello scenario e riepilogo delle principali azioni repressive, la Dia fotografa anche il business dell’immigrazione clandestina. Le mafie italiane e straniere lucrano nel paese del proibizionismo delle migrazioni, in cui è diventato quasi impossibile entrare legalmente e le leggi in materia producono clandestini. Sono coinvolti «maghrebini, soprattutto libici e marocchini, nel trasporto di migranti dalle coste nordafricane verso le coste siciliane».
Ci sono anche italiani: ex contrabbandieri della Sacra corona unita mettono a disposizione i loro natanti e clan nigeriani organizzano lo sfruttamento della prostituzione. «Per le organizzazioni criminali straniere in Italia –si legge nel documento -. il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con tutta la sua scia di reati “satellite”, per le proporzioni raggiunte, e grazie ad uno scacchiere geopolitico in continua evoluzione, è oggi uno dei principali e più remunerativi business criminali». Il testo ricorda anche come il sistema sia complementare all’ecatombe nel Mediterraneo: «Troppe volte il business si coniuga tragicamente con la morte in mare di migranti, anche di tenera età», dicono gli investigatori.
L’ITALIA RESTA PERÒ un paese di emigrazione e di esportazione delle mafie. La Dia conferma che la forma di criminalità organizzata con maggiore ramificazione globale resta la ‘ndrangheta, che costituisce «un modello d’azione che continua ad essere replicato, oltre che in Calabria, anche in altre aree nel nord Italia ed all’estero, con proiezioni operative in Germania, in Svizzera, Spagna, Francia, Olanda e nell’Est Europa, nonché nei continenti americano (con particolare riferimento al Canada) ed australiano».
D’altro canto, la globalizzazione del capitale mafioso si manifesta anche con l’azione delle organizzazioni straniere (cinesi, nigeriane e albanesi soprattutto), che «rappresentano da un lato, la diretta emanazione di più articolate e vaste organizzazioni transnazionali, dall’altro l’espressione autoctona di una presenza sul territorio nazionale». Nelle regioni meridionali i gruppi stranieri si muovono tendenzialmente con l’assenso delle organizzazioni mafiose autoctone: le mafie collaborano ad esempio per organizzare lo sfruttamento del lavoro nero mediante il caporalato.
DEL FENOMENO si è discusso anche alla Camera, in occasione dell’approvazione della legge che istituisce la commissione parlamentare antimafia. Su proposta di Forza Italia si è deciso di «valutare la penetrazione sul territorio nazionale e le modalità operative delle mafie straniere e autoctone». Coda polemica: dal Pd contestano alla relatrice, Nesci del M5S, di aver depotenziato l’organismo rispetto alle indicazioni fornite dalla commissione presieduta da Rosi Bindi alla fine della scorsa legislatura. I grillini negano, rivendicando di aver avocato alla commissione maggiori poteri nel controllo delle liste elettorali. La parola adesso passa al Senato.
Il Fatto 19.7.18
La “prova” non c’è. Ora il Viminale tace sui morti in mare
La tragedia - La giornalista che doveva scagionare i libici parla di due diversi salvataggi. Da Open Arms insistono: “Depistaggio”
di Antonio Massari
Forse prima di parlare di “prove” e fake news, dinanzi alla scena del cadavere di una donna e un bambino e agli occhi sbarrati dell’unica superstite, per il Viminale sarebbe stato meglio aspettare. La pistola fumante evocata dal ministro dell’Interno Matteo Salvini e dalle fonti del suo dicastero sembra infatti caricata a salve. Riassumiamo la vicenda. Due giorni fa, la Ong tedesca Proactiva con la sua nave Open Arms salva, a circa 80 miglia dalle coste libiche, la 40enne camerunense Josefa, aggrappata da 48 ore al relitto di un gommone. Accanto a lei il cadavere di un bambino e una donna. Secondo la Ong spagnola i tre sarebbero stati lasciati in acqua dalla Guardia costiera libica – che ha distrutto il natante – durante un soccorso effettuato circa due giorni prima: “I libici hanno lasciato morire quella donna e quel bambino. Sono assassini arruolati dall’Italia”.
Salvini replica con un tweet: “Bugie e insulti di qualche Ong straniera confermano che siamo nel giusto: ridurre partenze e sbarchi significa ridurre i morti e ridurre il guadagno di chi specula sull’immigrazione clandestina. Io tengo duro. Porti chiusi e cuori aperti”. Poche ore dopo, fonti del Viminale annunciano che le notizie diramate da Proactiva sono false e, soprattutto, che esiste una prova che lo dimostra. La prova viene pubblicata ieri da Il Messaggero. Il quotidiano romano intervista la cronista tedesca di Ntv, Nadja Kriewald, che era a bordo della motovedetta libica durante il soccorso di 158 persone: “Ne siamo sicuri, quando siamo andati via non c’era più nessuno in acqua”.
Il testimone “terzo” evocato dal Viminale esclude insomma di aver visto naufraghi in mare. Ma al Messaggero sembra non aver fornito la versione integrale della vicenda. Che invece riferisce ieri all’Ansa: “Il capitano libico della nostra imbarcazione mi ha riferito che un paio d’ore prima, nella stessa area, c’era stata un’altra missione da parte di un’altra imbarcazione della Guardia costiera libica”. Come dire: non c’è prova che il filmato della tv tedesca riguardi lo stesso salvataggio a cui si riferisce la Ong spagnola. In altre parole, la sopravvissuta e le due vittime potrebbero essere legate al secondo soccorso del quale, alla stessa cronista tedesca, ha parlato il capitano libico. Soccorso avvenuto soltanto un paio d’ore prima, esattamente nella stessa area.
Il deputato di Liberi e Uguali Erasmo Palazzotto, che da giorni è a bordo della Open Arms, su twitter parla di “maldestro depistaggio” e commenta: “Mentre una motovedetta girava la scena del salvataggio perfetto con una tv tedesca, un’altra lasciava in mezzo al mare due donne e un bambino. Sono due interventi diversi, uno a 80 miglia davanti a Khoms e l’altro davanti a Tripoli”. E anche nell’articolo pubblicato online spiega: “Ad alcune miglia nautiche dalla motovedetta ‘Ras Sdjeir‘, la situazione poteva sembrare molto diversa. C’era una nave in pericolo all’incirca nello stesso momento”. La cronista ha assistito soltanto a una delle due missioni di soccorso. Quindi esclude che in quella filmata per la sua emittente la Guardia costiera libica abbia lasciato qualcuno in mare ma non può dir nulla sulla seconda missione in mare. Peraltro, anche il suo racconto, registra l’ennesimo dramma. Quello di una mamma che vede morire la figlia di pochi mesi: “Nessuno che io abbia sentito si è rifiutato di essere salvato, erano tutti delusi di essere stati presi dalla marina libica ma felici di essere sopravvissuti. Inoltre nessuno mi ha detto che mancava all’appello qualcuno”.
Poi aggiunge di aver visto portare a bordo “una bambina della Costa d’Avorio già morta, ma lo si è scoperto solo a bordo della nave libica, perché la mamma l’ha tenuta per tutto il tempo tra le braccia in gommone senza dire che fosse morta. Probabilmente temeva che se lo avesse detto, avrebbero buttato il suo corpo in mare”. Abbiamo chiesto al ministro Salvini, attraverso lo staff che si occupa della sua comunicazione, se le notizie fornite dai giornalisti tedeschi rappresentino ancora, per lui, la prova che la Ong stia mentendo. O se invece non abbia cambiato idea. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Quella di Proactiva a Salvini è dura: vanno in Spagna perché “l’Italia non è un porto sicuro”, in particolare non è il Paese in cui ritengono opportuno far interrogare Josefa, quando starà bene, sui soccorsi libici.
Nel frattempo, al largo di Cipro, ieri è affondato un altro barcone che trasportava circa 160 persone. Il bilancio delle vittime: 19 morti. In 25 risultano dispersi. Infine ieri comandante generale delle Capitanerie di Porto, l’ammiraglio Giovanni Pettorino, nel 153esimo anniversario della fondazione del Corpo ha dichiarato che prestare aiuto “a chiunque rischi di perdere la vita in mare è segno e baluardo distintivo di civiltà”.
La Stampa 19.7.18
“Josephine è viva. Il suo terrore è diventato gioia”
di Marco Bresolin
La nave dell’Ong spagnola Proactiva Open Arms non arriverà in Italia. Sta navigando verso Palma di Maiorca, dove arriverà sabato. A bordo ci sono Josefa, incredibilmente sopravvissuta dopo due giorni in acqua, e il corpo di una donna e un bambino che invece non ce l’hanno fatta. Queste le uniche certezze dell’ennesima tragedia al largo delle coste libiche.
Sulla ricostruzione dell’episodio, invece, una verità provata ancora non c’è. L’Ong accusa la Guardia Costiera e la Marina libiche di aver lasciato alla deriva quelle tre persone. Ma da Tripoli si difendono: «Nessuno è stato abbandonato in mare». La Commissione Ue vuole vederci chiaro e spiega di essere in contatto con i libici per «esaminare l’incidente». Il commissario Dimitris Avramopoulos, intanto, manda un messaggio chiaro all’Italia: «Evitare incidenti come questi è un obbligo morale e umanitario di tutti gli Stati membri». Perché «ogni vita persa è una di troppo».
Le autorità di Tripoli rivendicano la loro attività: «Negli anni passati - dice un portavoce della Marina - abbiamo salvato più di 80 mila umane nonostante le condizioni difficili e le carenze di equipaggiamenti». Rispetto all’incidente, assicurano di aver salvato 165 migranti (definiti «illegali») e di essere intervenuti «nel rispetto dei protocolli».
«Fake news»
L’altro ieri, il Viminale aveva bollato come «fake news» le accuse della Ong, preannunciando una serie di «prove» che ancora non sono state diffuse. «Il governo ha tutti gli strumenti per accertare ciò che è successo - attacca Erasmo Palazzotto, deputato di LeU che si trova a bordo della nave di Proactiva -. Perché non lo fa?». Matteo Salvini replica dicendo che la verità emergerà domani dal servizio della tv tedesca che ha filmato l’operazione dalle imbarcazioni della Guardia Costiera libica. Ma Palazzotto insiste: «Mentre una motovedetta girava la scena del salvataggio perfetto con una tv tedesca, un’altra lasciava in mezzo al mare due donne e un bambino. Sono due interventi diversi, uno a 80 miglia davanti ad al Khoms, l’altro davanti a Tripoli».
Intanto l’Ong spagnola, con a bordo i due cadaveri a la superstite, ha deciso di non sbarcare in Italia: «Non è un porto sicuro». Per i dirigenti ci sono alcuni «fattori molto critici». Da un lato «l’incomprensibile» decisione del governo, disposto ad accogliere la superstite ma non i due cadaveri. Dall’altro l’annuncio di una contro-inchiesta per smentire la versione dell’Ong: a loro dire, questo esporrebbe a dei rischi la sopravvissuta, visto che è anche l’unica testimone.
Respinta la richiesta su Sophia
Intanto ieri il governo ha portato al tavolo europeo la richiesta di modificare il piano operativo della missione Sophia, che prevede lo sbarco automatico in Italia di tutti i migranti salvati. La proposta di cambiare sin da subito le modalità operative della missione, però, non ha trovato consenso. Gli altri governi si sono detti disponibili a discutere un eventuale modifica del regolamento, ma senza troppa fretta, visto che il mandato di Sophia scade a fine anno. E per modificare le regole di ingaggio serve l’unanimità, che al momento non c’è.
Corriere 19.7.18
La segreteria del Pd nella Roma di periferia
di Maria Teresa Meli
Il Pd ci riprova. Andando un po’ a tentoni. Di voti, nei quartieri popolari delle città non se ne prendono più, e allora il Partito democratico che fa? Riunisce la prima segreteria dell’era Martina a Tor Bella Monaca. Non vicino ai casermoni resi famosi dal film Lo chiamavano Jeeg Robot. E nemmeno vicino al più grande campo nomadi d’Europa, che è poco più in là. Insomma, non tra la gente, ma in una libreria, la prima e unica di Tor Bella Monaca, inserita in una sorta di centro commerciale posto nel nulla. Gli abitanti del quartiere? Non pervenuti. Del resto l’orario sembrava scelto apposta per evitare il contatto con la gente: le due del pomeriggio. L’unica indomita signora che si avvicina, pone una sola e secca domanda al segretario: «Perché arrivate solo ora?». Per il resto non si può nemmeno dire che la popolazione di «Torbella», come la chiamano a Roma, sia ostile o indifferente. Semplicemente non c’è. Anche se Martina vuole fare del Pd «un partito di strada che ascolta la gente». La spiegazione di questa assenza la dà il segretario del Pd della zona, Fabrizio Compagnone, prima che il solerte ufficio stampa del partito lo porti via per non farlo parlare troppo: «La verità è che questa non è la vera Tor Bella Monaca, comunque sono contento che siano venuti qui. Bisogna vedere se tra sei mesi torneranno». Forse sì, se non altro perché per arrivarci hanno impiegato un bel po’ di tempo. Alcuni sono venuti nelle auto semi-blu di chi non è più al governo ma comunque un incarico ce l’ha. E poi le hanno fatte parcheggiare altrove. Altri, come Cuperlo, sono venuti in moto. Pochi, come Orfini, che qui si era candidato, sapevano esattamente dove andare senza l’ausilio del navigatore. Dentro si è parlato di cose importanti. Di chiedere la riduzione di un punto all’anno del costo del lavoro di qui alla fine della legislatura, perché senza questa condizione il decreto dignità «produce solo disoccupazione e affanno», dice Martina. Ma il contenuto della riunione scivola via dietro le porte rigorosamente sbarrate della libreria, mentre Tor Bella Monaca è altrove.
La Stampa 19.7.18
La svolta della Cina
Gli investimenti in Europa superano quelli in America
di Luigi Grassia
C’è una rivoluzione (l’ennesima...) che riguarda la Cina: i flussi di investimento diretto non prendono più la strada dell’America, il Paese amato/odiato da sempre, ma quella dell’Europa, che sarà pure vecchia e scalcagnata ma continua a fare la sua figura. A svelare la novità è un rapporto Rhodium Baker McKenzie: nel primo semestre 2018 gli investimenti nell’economia reale in America del Nord (Usa più Canada) sono ammontati ad appena 2,5 miliardi di dollari (-92% rispetto al primo trimestre 2017) mentre quelli in Europa sono cresciuti a 22 miliardi. Il rapporto è di 9 a 1 a favore dell’Europa. Il contrario di quanto è sempre successo.
Attenzione: stiamo parlando di economia reale e non di flussi finanziari puri, come l’acquisto di buoni del Tesoro americani, che continuano a essere il parcheggio privilegiato del surplus commerciale cinese verso gli Usa. Ma il fatto che il Vecchio continente vinca il confronto della maggiore attrattiva proprio nel comparto produttivo appare ancora più significativo.
Ma perché succede questo? La risposta è doppia: il disamore cinese per l’America e la passione per l’Europa sono due questioni distinte che hanno cause differenti, non mettono in scena un gioco a somma zero.
Se l’America piace meno questo si deve soprattutto a Donald Trump. Il presidente sta cominciando a mettere dazi solo adesso, ma ne parla già da un paio d’anni e così ha creato un clima negativo. In teoria (ma solo in teoria) la sua idea di base con i cinesi sarebbe quella che fu di Ronald Reagan con i giapponesi quando disse loro: «Potete andare sui moli e sedervi sulle vostre Toyota a guardare il mare, perché in America non le esporterete più». A Tokyo capirono l’antifona, senza bisogno che scattassero dazi, e i giapponesi ridussero l’export negli Usa per aprire fabbriche e produrre direttamente lì. Negli Anni Ottanta funzionò, ma adesso la situazione è più complicata, perché a Trump (e agli interessi che rappresenta, non si è eletto da solo, le sue non sono fisime personali) oltre a non piacere l’invasione di prodotti cinesi non piace neanche l’invasione di capitali; gli Usa moltiplicano i divieti di acquisizioni tecnologiche da parte cinese, per il timore di farsi derubare settori strategici. Di conseguenza, ai cinesi non si pone (come fu per i giapponesi) l’alternativa fra esportare o produrre in America, devono ritirarsi su ogni fronte.
E invece l’Europa, perché piace? Solo perché i soldi cinesi, non potendo andare da una parte, cercano un’altro sbocco qualunque? Fabio Sdogati, docente di economia internazionale al Mip-Graduate School of Business del Politecnico di Milano, dice che l’interesse di Pechino è molto più solido: «I cinesi sono impegnati nel grande progetto che in Italia chiamiamo Nuova Via della Seta. Questo comporta investimenti importanti, crescenti e di lungo termine, che non si legano all’attualità politica». Così Franco Bruni, docente di politica monetaria internazionale alla Bocconi, oltre che vicepresidente e direttore scientifico dell’Ispi: «I cinesi sono sempre stati grandi investitori in Europa. Italia compresa. Basta guardare alla Pirelli». Ma c’è da fidarsi? «Bisogna conoscere gli interlocutori giusti. Allora va tutto liscio. Altrimenti finisce come con il Milan».
Il Sole 19.7.18
La lunga marcia della Cina sui porti europei
di Simone Tagliapietra
In seguito alle crescenti preoccupazioni riguardo all’acquisizione da parte di investitori stranieri di infrastrutture e imprese europee ritenute strategiche, la Commissione Ue ha recentemente avanzato la proposta di istituire un nuovo meccanismo europeo per vagliare gli Investimenti diretti esteri (Ide).
Tale proposta ha suscitato un’ampia discussione sul “se”, ed eventualmente sul “come”, la Commissione possa avere il potere di passare al setaccio gli Ide, in linea con quanto fatto sin dal 1975 dal governo federale americano attraverso il Committee on Foreign Investment in the United States (Cfius).
Alla luce di questi sviluppi, riteniamo sia utile accendere i riflettori sul crescente coinvolgimento della Cina in un ambito strategico come quello dei porti, da cui transita il 70% delle merci che attraversano le frontiere europee.
Negli ultimi anni, i porti europei hanno attirato la crescente attenzione della Cina. Tale interesse va contestualizzato nel più ampio quadro della Nuova via della Seta, la grande iniziativa cinese comprendente numerosi progetti infrastrutturali finalizzati a facilitare i commerci tra Cina, Asia, Africa ed Europa.
La Nuova via della Seta comprende una linea infrastrutturale di terra (ferrovie e strade) finalizzata a collegare Cina ed Europa attraverso l’Asia Centrale, il Medio Oriente e la Russia, e una linea marittima in grado di unire Cina ed Europa tramite Sud-est asiatico, India, Africa Orientale e Mediterraneo.
Come da tradizione cinese, alle idee sono presto seguiti i fatti. Solo nel 2016, la China Development Bank ha, infatti, fornito finanziamenti per 12,6 miliardi di dollari a progetti infrastrutturali afferenti alla Nuova via della Seta. La Cina ha altresì istituito il Fondo della Via della Seta, finalizzato unicamente a investire nell’iniziativa.
In questo contesto, nell’ultimo decennio la Cina ha acquisito – sia attraverso aziende pubbliche che attraverso aziende private – partecipazioni in otto porti europei, localizzati in Belgio, Spagna, Francia, Italia, Grecia e Paesi Bassi.
L’investimento più rilevante è stato quello effettuato nel 2008 per rilevare la gestione del porto greco del Pireo per 35 anni. Attraverso significativi investimenti nell’espansione della capacità del porto, i cinesi hanno triplicato in sei anni il suo volume di scambi, facendone uno dei porti più importanti d’Europa.
Per capire davvero questo investimento bisogna considerare la più generale strategia della Cina in Europa meridionale e orientale. Nei piani cinesi il Pireo andrà, infatti, collegato con il Nord Europa attraverso una linea ferroviaria lungo i Balcani, una linea denominata “Land-Sea Express”.
Questo progetto integrato porto-ferrovia ha il potenziale di rivoluzionare le rotte commerciali europee, spostando l’asse degli attuali commerci verso l’Europa sud-orientale. Rispetto alle rotte marittime esistenti che attraversano lo stretto di Gibilterra, il “Land-Sea Express” potrebbe effettivamente ridurre i tempi di percorrenza delle merci tra Cina ed Europa di ben 8-12 giorni.
In questo contesto, grandi aziende multinazionali hanno già deciso di spostare la propria logistica dal porto di Rotterdam al Pireo, dimostrando come il “Land-Sea Express” possa rappresentare un’opzione più economica ed efficiente rispetto ai porti del Nord Europa.
I Paesi dell’Europa centro-orientale possono trarre importanti benefici economici da queste nuove rotte commerciali e, non a caso, negli ultimi anni hanno stretto importanti legami politici con la Cina – anche attraverso la creazione del gruppo dei “16+1”, che unisce Pechino a 11 Paesi Ue e 5 dei Balcani.
Tali legami sono percepiti con sospetto da altri Stati europei, quali Francia e Germania, che vi intravvedono invece un tentativo cinese non solo di frammentare l’Europa su un tema cruciale come quello del commercio, ma anche di esercitare una chiara influenza politica. Questi sospetti si sono rafforzati nel 2017, dopo che la Grecia – dichiaratasi, attraverso il proprio primo ministro Alexis Tsipras, lieta di «servire da porta della Cina verso l’Europa» – decise di bloccare una dichiarazione dell’Unione europea all’Onu nella quale si criticava la Cina per il suo scarso rispetto dei diritti umani.
In sostanza, questo dei porti rappresenta un buon esempio delle complesse sfaccettature economiche e politiche relative agli Ide – in questo caso cinesi – in Europa. Considerando la diversità di interessi economici e politici dei vari Paesi europei in questo campo, possiamo aspettarci che, se mai riuscirà a vedere la luce, il nuovo meccanismo europeo per vagliare gli Ide lascerà quanto meno ampi margini di discrezionalità ai Paesi membri. Per ora, il modello americano del Cfius resta un’utopia per l’Europa, che in questo settore – come in tanti altri – sembra purtroppo destinata a continuare ad andare in ordine sparso.
Ricercatore senior presso la Fondazione Eni Enrico Mattei e Fellow presso il think-tank europeo Bruegel
La Stampa 19.7.18
Pisa, l’assessore leghista
che vuole cancellare Haring
di Francesco Bonami
La Lega ha fatto assessore alla Cultura a Pisa un attore che si chiama Buscemi. Chi Steve Buscemi quello di «Reservoir Dog» di Quentin Tarantino? No Andrea. Bravo pure lui, ma chiaramente non abbastanza assennato da poter fare l’assessore alla Cultura di una città. Infatti una delle sue prime uscite è stata quella di minacciare, vogliamo tutti sperare che sia solo una minaccia, di far sparire l’affresco di Keith Haring, esponente di spicco di quello che fu il movimento dei Graffiti che si sviluppò a New York alla fine degli Anni 70 e che durò un decennio. Nel 1989 un anno prima di morire di Aids Haring creò a Pisa Tuttomondo sulla parete esterna della canonica della chiesa di Sant’Antonio. Pur certo del suo destino Haring con il suo incontenibile entusiasmo riuscì a portare a termine questo murales che è un inno alla vita.
Non tanto distante dal murales di Haring nel Camposanto di Pisa c’è lo straordinario affresco del 1336 di Buonamico Buffalmacco «Il Trionfo della Morte». Capisco che fare un paragone fra i due potrà far rizzare i capelli a molti storici dell’arte e sicuramente all’assessore Buscemi, pace. Infatti l’idea che queste due opera di epoche così distanti siano in dialogo è affascinante. Entrambe le opere parlano del dramma della vita ognuna a modo suo, con i mezzi e i simboli del proprio tempo che ad alcuni possono piacere e ad altri no, ma questa è la storia che piaccia o non piaccia. I Due affreschi non inneggiano a razzismi, guerre o dittature, ma interpretano a loro modo il senso della vita e il timore della morte. Immaginare di distruggerne uno equivale ad immaginare paradossalmente di volere distruggere anche l’altro. Perché uno potrebbe fantasticare che il sindaco che governava Pisa nel 1989 avesse nominato assessore alla Cultura lo stesso Keith Haring che a digiuno di storia dell’arte antica saltò fuori con l’idea che anziché restaurare gli affreschi del Camposanto, assai datati dal punto di vista dei contenuti, si sarebbero chiamati alcuni dei suoi colleghi graffitari a ricoprirli con soggetti più al passo con i tempi. Grazie a Dio questa è solo una surreale ed assurda fantasia. La storia dell’arte non è fatta di cancellazioni, ma di accumuli, contrasti, dialoghi, contraddizioni che tutti assieme rendono una cultura sempre più ricca e non sempre più povera. Una povertà culturale che invece Buscemi sembra voler invece perseguire.
Ognuno ha sacrosanto diritto alle proprie opinioni, ma non ha diritto, particolarmente se si ritrova in mano il patrimonio artistico della città a mettere in atto le proprie personali e non istituzionali azioni. Se Andrea Buscemi vuole fare un favore alla propria città e alla retina dei suoi cittadini indaghi su come sia stato possibile lasciar piazzare nel pulpito e nell’altare maggiore del Duomo di Pisa le sculture di Giuliano Vangi allegoria né della morte né della vita, ma dell’orrore.
Corriere 19.7.18
«Caro Banksy, ti scrivo dalla cella Ma grazie a te adesso sono forte»
Lui l’aveva ritratta: l’artista curda gli risponde
«Una prigioniera si è impiccata, sento ogni ora i jet che sganciano bombe sui miei fratelli»
di Zehra Dogan
Con un post «scomodo», due anni fa, è iniziato il calvario di Zehra Dogan; con uno scatto su Instagram, oggi, l’artista e giornalista turco-curda si prende la sua piccola rivincita contro le autorità di Ankara. Arrestata nel luglio 2016 a Nusaybin, la piccola città al confine con la Siria dove viveva e lavorava, nel marzo 2017 Dogan fu condannata a due anni e dieci mesi di carcere. La sua colpa: aver postato sui social media una foto del dipinto con cui raccontava la distruzione della cittadina a maggioranza curda da parte delle forze di sicurezza turche. Un’opera d’arte evocativa: ma per la giustizia di Ankara una prova sufficiente della sua collusione col Pkk e uno strumento di diffusione della sua «propaganda terroristica».
Un anno dopo, a marzo 2018, l’artista britannico Banksy svela un enorme murale a lei dedicato, nel Lower Est Side a New York. Sotto al graffito, che mostra Dogan intrappolata dietro una fila infinita di sbarre, ma con una matita ben stretta in pugno, campeggia la scritta «Free Zehra Dogan».
Una dimostrazione di solidarietà giunta fino al carcere di Diyarbakir dove la giornalista sconta la sua pena. Da qui Dogan è riuscita ad aggirare i filtri di sicurezza e scrivere a Banksy per ringraziarlo del suo impegno. Una lettera, pubblicata su Instagram dallo stesso artista anonimo, che è anche una testimonianza dell’inferno quotidiano vissuto da Dogan.
Caro Banksy,
ti sto scrivendo questa lettera «illegale» da un carcere, luogo di sanguinose torture, in una città con tante proibizioni, in un paese ricusato.
La lettera è illecita perché devo rispettare un «divieto di comunicazione» che mi impedisce di mandare lettere o di fare telefonate, così sto scrivendo e spedendo questa lettera in maniera clandestina.
Prima di tutto vorrei parlarti dell’atmosfera che c’è qui, siamo stati portati alla follia a causa dal suono orribile di dozzine di jet da combattimento che partono per bombardare le nostre bellissime terre, montagne e città. Sentiamo questo suono circa una volta all’ora. Sappiamo che ogni jet da combattimento sta uccidendo in poco tempo le nostre sorelle, i nostri fratelli, parenti e animali.
E’ molto difficile descrivere il sentimento che si prova leggendo quasi tutti i giorni sul giornale che qualcuno che conosci è stato ucciso. Era un giorno come questo quello in cui abbiamo sentito che la figlia di un amico che si trova nella nostra stessa prigione era stata uccisa a Afrin. Lo stesso giorno abbiamo scoperto che un’altra prigioniera si é suicidata, impiccandosi con il laccio delle scarpe. Un giorno di morte. In giorni come questi è difficile sopravvivere. Durante i nostri dibattiti quotidiani abbiamo affermato: «Nessuno vede che abbiamo ragione e che veniamo schiacciati e distrutti dai massacri. E anche se lo vedono, nessuno fa niente e tutti rimangono in silenzio. Stiamo vivendo una bugia in una vita immaginaria».
Qualche momento dopo, un amico ha ricevuto i giornali che erano stati spediti e abbiamo visto la tua opera d’arte su Nusaybin e su di me, come protesta contro l’intera carcerazione. In un momento di pessimismo, il tuo supporto ha reso me e i miei amici qui enormemente felici. Lontano da me e dalla mia gente, è stata la migliore risposta al regime corrotto che non tollera nemmeno un’illustrazione.
Ciò che caratterizza questo paese, che massacra chi si ribella all’oppressione, ciò di cui ha più paura è mostrare la realtà proprio come uno specchio.
Grazie al tuo aiuto la mia illustrazione ha compiuto la sua missione, quella di mostrare le atrocità. Sono rimasta sorpresa quando mi hanno accusata di «portare le persone alla ribellione, alla rabbia e all’odio». Adesso posso però affermare che «quest’opera ha dato valore al tempo trascorso in prigione perché sono riuscita a mostrare la verità di Nusaybin».
La gente mi ascolta più che mai e, mentre i capi in questo paese che parlano la mia stessa lingua (visto che mi hanno costretto a imparare il turco) non mi capiscono, le persone che vivono in altri paesi che parlano lingue diverse riescono a capirmi. L’arte è un mezzo di comunicazione che va oltre la lingua e la parola.
Non finirò mai di ringraziare te e Barf. Non avrei mai potuto immaginare che la mia illustrazione sarebbe arrivata in una città come New York. Passo dodici ore al giorno a immaginare, ma questo va addirittura oltre la mia immaginazione. Adesso mi sento più forte e sto dipingendo Afrin.
Perché ne vale la pena.
(Traduzione di Studio Effe)
La Stampa 19.7.18
Roma e Madrid restano lontane
In Europa manca un fronte mediterraneo
di Enric Juliana
Vice direttore de La Vanguardia
Non hanno frontiere comuni e non c’è alcuna questione storica in sospeso, eppure la forza del destino ha voluto che Italia e Spagna abbiano vissuto, negli ultimi vent’anni, una strana tensione reciproca. Roma e Madrid avrebbero potuto guidare un fronte comune dell’Europa del Sud sin dalla firma del Trattato di Maastricht, ma i rispettivi governi non sono mai riusciti a trovare una strategia condivisa di lungo respiro.
Romano Prodi ha sempre cercato un fronte comune con gli spagnoli per bilanciare l’egemonia tedesca e il potente asse Parigi-Berlino. Nel settembre 1996, quasi 22 anni fa, Prodi, allora premier, propose al capo del governo spagnolo, José María Aznar, un accordo per ritardare l’ingresso nell’euro della lira e della peseta, con lo scopo di guadagnare tempo e rendere più sopportabili i sacrifici economici che le tre condizioni di Maastricht richiedevano per l’adesione: inflazione, deficit e debito.
Due settimane dopo l’incontro con Aznar a Valencia, Prodi rimase deluso dal fatto che la sua proposta fosse stata filtrata al «Financial Times». A quel punto Prodi fu costretto a smentire l’idea dell’ingresso ritardato nell’euro e ribadì che l’Italia avrebbe mantenuto gli impegni. Questo significò portare avanti una dura politica di controllo dei conti, che nel giro di due anni generò una crisi politica. Nell’ottobre del 1998 Prodi perse con un voto di fiducia in Parlamento legato alla politica economica, dopo la rottura di Rifondazione comunista con la coalizione dell’Ulivo, anch’essa molto divisa.
Aznar si comportava a quel tempo come un pavone. L’economia spagnola era in grande ascesa come conseguenza di una forte crescita del consumo interno e di quella grande accelerata del settore immobiliare che anni dopo causò una catastrofe sociale.
Come sarebbero andate le cose se Italia e Spagna avessero aspettato qualche anno prima di entrare nell’euro? Cosa sarebbe cambiato se Spagna e Italia avessero ottenuto di rivedere al ribasso le esigenze di deficit e debito per far parte dell’eurozona? È difficile dirlo. L’unica cosa che si può constatare è che questo asse Roma-Madrid non c’è mai stato.
Non esiste, e non esisterà mai, un gruppo di Visegrad dei Paesi del Sud, che possa mettere pressione a Bruxelles e Berlino, così come fanno gli Stati dell’Est. In questa sua fase critica, l’Unione Europea è formata da costellazioni di Stati. Il già citato club di Visegrad, che rappresenta gli interessi dei Paesi economicamente più pesanti dell’Europa orientale, lasciando da parte Bulgaria e Romania; è comparsa la «lega anseatica» (Olanda, Finlandia, Estonia, Lituania e Lettonia), rigoristi che spingono la Germania a frenare su una maggiore integrazione europea, affinché non sia il Nord a dover pagare i debiti del Mediterraneo. C’è poi, ovviamente, l’asse franco-tedesco, tutt’ora imprescindibile, ma che non può resistere da solo. La novità in questo momento è la nuova posizione italiana, che si avvicina alle strategie difensive della Baviera, dell’Austria e dell’Ungheria (un asse Milano, Vienna, Budapest e Monaco ci parla di un’Europa centrale con la forma di una fortezza). Quello che manca è una costellazione di Paesi del Sud. Non esiste una costellazione politica dell’Europa mediterranea. Questo è il dato sostanziale.
L’allontanamento dell’Italia dall’asse paneuropeo sta esaltando l’ambizione del nuovo governo spagnolo di assumere un ruolo da protagonista nell’Ue. Germania, Francia, Spagna... questo è lo scenario che sogna il socialista Pedro Sánchez. Il nuovo quadro sta avvicinando, inoltre, Madrid a Lisbona. I socialisti spagnoli e portoghesi marceranno fianco a fianco su molti temi. Sta nascendo una nuova costellazione: l’Unione Iberica.
Invocare l’impegno dei Paesi del Nord sui drammi del Mediterraneo, senza un’alleanza strategica tra Italia e Spagna, sembra essere un grave errore.
Repubblica 19.7.18
Alta tensione in Irlanda del Nord
La Brexit riaccende l’Ulster torna lo spettro degli scontri
Boris Johnson: “Il nodo del confine non domini il dibattito, o resteremo nel limbo”
di Enrico Franceschini
Londra La bomba è esplosa poco dopo le nove di un venerdì sera. Grazie alle telecamere a circuito chiuso che sorvegliano la casa di Gerry Adams a Belfast, si vede chi l’ha tirata: un uomo dal finestrino di un’auto. Lo storico leader dello Sinn Féin, braccio politico dell’esercito clandestino indipendentista dell’Ira, ne è uscito incolume. Ma pochi minuti prima c’erano bambini che passavano nel cortile. Non è l’unica violenza avvenuta recentemente in Irlanda del Nord. Un’altra bomba è esplosa davanti all’abitazione di Bobby Storey, ex membro dell’Ira coinvolto in una clamorosa fuga con 37 compagni dal Maze, il Labirinto, com’era chiamata la prigione britannica di massima sicurezza in cui si lasciò morire di digiuno l’attivista Bobby Sands. Nella vicina Londonderry, una settimana di attacchi notturni ha causato sei arresti e continui disordini, con 75 molotov tirate contro la polizia.
I manifestanti dimostravano contro le marce degli Orangisti, che in luglio celebrano l’anniversario della battaglia del 1690 in cui il protestante Guglielmo d’Orange sconfisse il re cattolico Giacomo II. Le marce si ripetono ogni anno. Eppure questa estate dietro le rituali tensioni in Ulster, come gli unionisti preferiscono chiamarla, si avverte un motivo in più: la Brexit. Il Regno Unito si prepara a uscire dall’Unione europea a marzo, come conseguenza del referendum del giugno 2016 che sancì il “divorzio” dal resto del continente. Ma l’Irlanda del Nord votò 56 a 44 per cento per restare nella Ue. E il negoziato non è riuscito finora a risolvere una delle questioni più complicate: come evitare il risorgere di un confine fra le “due Irlande”, la provincia rimasta britannica dopo la guerra d’indipendenza di un secolo fa e i tre quarti dell’isola diventati una repubblica sovrana. Quella frontiera, a lungo teatro di scontri armati, torri di guardia, filo spinato, è scomparsa con gli accordi di pace di venti anni fa che hanno di fatto riunificato l’Irlanda. Grazie al patto, di cui la Ue è garante, ci si accorge di passare dalla Gran Bretagna all’Irlanda solo perché cambiano i segnali stradali, indicando i limiti di velocità in miglia o in chilometri. Ora la storica ferita rischia di riaprirsi, resuscitando lo spettro dei Troubles, i trent’anni di guerra civile fra indipendentisti cattolici e protestanti fedeli a Londra che fecero più di 3mila morti. Non tutte le violenze dei giorni scorsi sono imputabili alla Brexit. L’attacco contro la casa di Adams viene attribuito a repubblicani dissidenti che ritengono lo Sinn Féin non abbastanza radicale. Ma i vari incidenti sottolineano che l’Irlanda del Nord è ancora piena di armi, nonostante lo smantellamento degli arsenali sancito dal Good Friday Agreement del 1998. «Nessuno vuole ricostruire un confine in Irlanda, ma non si deve permettere alla questione di dominare il dibattito sulla Brexit», ha detto ieri Boris Johnson alla camera dei Comuni, nel discorso con cui ha spiegato la decisione di dimettersi da ministro degli Esteri, affermando che il piano di Theresa May (che domani in Irlanda del Nord terrà un comizio al confine) per una soft Brexit condanna il Regno Unito a «un miserabile limbo». Con un discorso analogo in parlamento un altro ministro dimissionario, Geoffrey Howe, aprì la strada alle dimissioni di Margaret Thatcher. L’effetto potrebbe essere lo stesso per May. Stavolta però c’è in gioco di più. Minimizzare il problema irlandese, come fa Johnson, rischia di mettere una miccia su una polveriera.
Repubblica 19.7.18
Intervista a Mary Lou McDonald
“Non accetteremo che l’Irlanda diventi un danno collaterale”
di E.F.
LONDRA «La Brexit è un grave problema per l’Irlanda ma anche una grande opportunità: il referendum per la riunificazione della nostra isola si avvicina». Mary Lou McDonald, 49 anni, prima donna alla guida dello Sinn Fein, di cui è diventata leader nel febbraio scorso succedendo a Gerry Adams, guarda con preoccupazione al riaccendersi delle violenze nella regione. Ma resta ottimista su chi vincerà la battaglia politica nella sua terra. Forse anche prima di quanto sperava.
Come giudica i piani di Theresa May per la Brexit?
«Come una non-soluzione, in particolare per quanto riguarda l’Irlanda del Nord, che è quello che a noi preme. Diviso tra falchi e colombe, il governo britannico negozia con se stesso invece che con la Ue, perdendo tempo. È un gioco pericoloso. L’Irlanda non accetterà di diventare un danno collaterale della Brexit».
Cosa rimprovera a Downing Street?
«Innanzi tutto di avere formato una coalizione di maggioranza profondamente tossica.
L’accordo fra i conservatori e il Dup (partito unionista nord-irlandese, senza i cui voti il governo May cadrebbe, ndr) non rappresenta la maggior parte della popolazione irlandese che ha votato per rimanere nella Ue».
E sulle proposte per tenere aperto il confine fra Irlanda del Nord e repubblica irlandese?
«Londra mette la testa nella sabbia per non vedere la realtà.
Cerca soluzioni tecnologiche, ibride, per permettere la libera circolazione di merci e persone sull’isola, ma l’unica soluzione è politica: restare perlomeno nell’unione doganale e nel mercato comune o non restarci.
Gli inglesi fingono di ignorare che l’Irlanda è in larga misura legalmente governata dalle istituzione della Ue».
Come reagirete se gli accordi non vi soddisferanno?
«Gli accordi di pace del ’98 prevedono un meccanismo democratico per la riunificazione dell’isola: basta che la maggioranza della popolazione, nel nord e nel sud dell’Irlanda, lo voglia. E la demografia è a nostro favore: i cattolici indipendentisti sono sulla via di diventare maggioranza anche in Irlanda del Nord».
Cosa pensa dell’idea di un secondo referendum sulla Brexit?
«Non ci riguarda. La Gran Bretagna ha deciso di uscire dalla Ue. Se deciderà di ripensarci, sono affari suoi. Noi puntiamo a organizzare un referendum irlandese per riunificare la nostra isola. E a quel punto non dovremo chiedere di entrare nella Ue. Ne faremo già parte».
La Stampa 19.7.18
Strasburgo 1518, il ballo degli indemoniati
Uno dei più misteriosi e inspiegabili deliri collettivi della storia umana
di Vittorio Sabadin
Esattamente 500 anni fa, in un luglio afoso come questo, una donna di Strasburgo chiamata Frau Troffea uscì di casa e cominciò a ballare. Ballò notte e giorno cadendo spesso a terra stremata, per poi rialzarsi e ricominciare. Nel giro di una settimana, altri 30 abitanti della cittadina, che allora faceva parte del Sacro Romano Impero, cominciarono a ballare senza volerlo, senza controllare i loro movimenti e senza fermarsi mai.
La grande «piaga del ballo» di Strasburgo del 1518 è studiata e analizzata ancora oggi in libri e ricerche che cercano di venire a capo di uno dei più misteriosi e inspiegabili deliri collettivi della storia umana. Circa 400 persone si unirono alle danze, che nessuno riuscì a fermare fino ai primi giorni di settembre. La gente ballava per ore e cadeva priva di forze. Mangiava e beveva qualcosa, poi riprendeva a danzare fino a morirne.
I medici locali, utilizzando le scarse e spesso dannose conoscenze che avevano all’epoca, attribuirono il fenomeno al caldo e al conseguente ribollire del sangue nel cervello. Incredibilmente, decisero che la cura migliore per fermare il ballo era ballare di più: se l’organismo reagiva in questo modo nel tentativo di raffreddare il sangue, bisognava incoraggiarlo e aiutarlo. Le autorità fecero così costruire una piattaforma di legno vicino alla fiera dei cavalli e alcune grandi stanze degli edifici pubblici furono adibite a sala da ballo. Si assunsero musicisti per suonare e decine di robusti giovani vennero incaricati di sollevare da terra i danzatori che cadevano. Nessuno guarì con questa terapia, anzi: nel periodo più intenso della sua applicazione morirono danzando circa 15 persone al giorno.
John Waller, uno storico della medicina americano che ha studiato a lungo la piaga del ballo di Strasburgo, sostiene che oggi un maratoneta allenato non potrebbe sopravvivere alla fatica di una danza isterica prolungata per giorni. Visto che ballare di più peggiorava solo la situazione, alla fine di agosto si decise di portare gli esausti danzatori nel poco lontano villaggio di Saverne, dove c’era una grotta considerata un santuario di san Vito, il patrono dei ballerini e degli epilettici, un martire così venerato che 150 cittadine europee vantavano all’epoca di possedere sue reliquie o frammenti. Agli indemoniati danzatori vennero fatte indossare, non si sa perché, scarpe rosse e bastò un giro intorno alla statua di legno del santo per guarirli uno ad uno.
Dalla finestra della sua casa di Strasburgo, Sebastian Brant aveva osservato quel delirio senza stupore. Qualche anno prima aveva scritto un libro diventato subito famoso La nave dei folli, illustrato nella prima edizione dalle xilografie di Albrecht Dürer e fonte d’ispirazione di Hyeronymus Bosch per un pannello che ora si trova a Parigi. Brant sapeva che la follia è spesso un male collettivo, che nasce dalle nostre ansie e dalle nostre paure e che può diffondersi come un contagio.
C’è chi ha cercato di spiegare la piaga del ballo del 1518 con un’intossicazione da ergot, un fungo parassita delle graminacee che produce alcaloidi derivati dell’acido lisergico, precursori naturali dell’LSD. Nel Medioevo, l’ergot è stato responsabile di migliaia di morti attribuiti a “Fuoco di Sant’Antonio”, “Male degli Ardenti” o “Fuoco Sacro”, e forse anche della caccia alle streghe di Salem, nel Massachusetts. Ma i sintomi dei danzatori di Strasburgo, descritti dall’alchimista Paracelso nel 1530, non corrispondono agli effetti di questo allucinogeno. John Waller, che è anche autore del libro A Time to Dance, A Time to Die pensa all’origine di tutto ci sia una malattia psicogenica di massa, un’isteria collettiva che si manifesta quando una comunità si trova in uno stato di stress prolungato: «La vita a Strasburgo all’inizio del 1500 – ha scritto sul Guardian di Londra – soddisfava molte condizioni necessarie all’esplodere di un disturbo psicogenico: conflitti sociali e religiosi, terribili nuove malattie, scarsi raccolti e rincaro del grano, miseria diffusa. C’erano le condizioni ideali per pensare che Dio fosse arrabbiato con loro e che San Vito si aggirasse per le vie della città».
Strasburgo ricorda in questi giorni la piaga del ballo con una mostra al Musée de l’Ouvre Notre Dame e con un Techno party nel quale altri indemoniati balleranno per giorni agli ordini di un gruppo di Dj, battezzato 1518. Ma quel grottesco evento di 500 anni fa può anche essere l’occasione di riflettere su cosa accade alla nostra mente quando siamo presi da una paura collettiva, e improvvisamente smettiamo di ragionare.
Corriere 19.7.18
Vite bruciate
Il pilota Gadda e il volo fatale
È il 1918: Enrico, fratello minore di Carlo Emilio, muore a nemmeno 22 anni precipitando con il suo aereo da guerra «Era la parte migliore e più cara di me», dice l’ingegnere scrittore E quella perdita avrà un ruolo in gran parte della sua opera letteraria
di Paolo Di Stefano
Tra le vite bruciate troppo giovani, letteralmente bruciate, ce n’è una che vive ancora di luce riflessa. Le vite brevi, che spariscono come un lampo, tracciano spesso cicatrici incancellabili che neanche quelle lunghissime riescono a lasciare: com’è accaduto con Enrico Gadda, fratello minore di Carlo Emilio, l’Ingegnere autore della Cognizione del dolore e del Pasticciaccio che avrebbe vissuto quel lutto come una ferita e quasi una colpa senza rimedio. Si direbbe che buona parte di ciò che Carlo scrisse ha fatto i conti con l’assenza di Enrico, il tenente morto cent’anni fa, la mattina del 23 aprile 1918, precipitando con il suo biplano monoposto Nieuport 27 sul campo di San Pietro in Gu, tra Vicenza e Cittadella.
Era studente iscritto al Politecnico (sull’esempio di Carlo) e non aveva ancora 22 anni, mentre il fratello maggiore si avviava verso i 25 e la sorella, Clara, viaggiava a metà strada tra loro. «Beniamino» della madre a detta non solo del «difettivo» Carlo ma anche di Clara, Enrico era uno spirito allegro quanto l’altro era malinconico. Figli dell’industriale della seta Francesco Ippolito Gadda (morto precocemente nel 1909) e dell’insegnante di inglese Adele Lehr, da convinti interventisti partiranno volontari tra gli alpini. Il grande verrà dislocato nelle zone arretrate del fronte sull’Adamello e sulle alture vicentine prima di essere fatto prigioniero e deportato in Germania. Il minore, in forza al 5° Reggimento Alpini dall’estate del ’15, aspira a diventare pilota e sarà accontentato nel giugno successivo, iniziando i voli su Savoja-Pomilio SP.3 della 35ª Squadriglia.
Sull’onda della crescente voga aeronautica volare era stata la sua ossessione giovanile, testimoniata dalle lettere inviate al prudente «fratellone» e agli amici, dove ricorre lo slancio per l’aeromodellismo e per la riparazione delle eliche. Tutte cose che l’iperprotettivo Carlo etichettava sotto la voce «pasticci»: «Tu, già se non puoi pasticciare, non sei contento». E in effetti doveva essere alquanto invasato per il volo, l’Enricotto, se un suo caro amico e compagno di scuola, Emilio Truffi, sin dal 1910 sfotte l’«Egregio Aviatore» per le «tremende avventure d’aeroplano» (ovviamente allora fittizie).
Erano gli anni in cui Carlo Emilio, sempre per lettera, comunica al fratello l’entusiasmo per l’«interessantissima biblioteca» dei vicini, nonché il fascino di un incunabolo petrarchesco.
Non che fosse incolto, Enrico: tra i suoi hobby giovanili la scrittura di inventive composizioni comico-parodistiche, senza dimenticare che partendo per il fronte porterà in valigia diversi tascabili di classici. Ma da ragazzo, specie trovandosi in vacanza estiva nella famosa villa di Longone al Segrino, non cessava di divertirsi in «meravigliosi tentativi aviatorî» con sfortunati modellini: «Sappi che dopo un disastro orribile in cui le ali si infransero contro il ciliegio, l’aeroplano con superbo volo passò sul “letturino” [l’aiuola rettangolare ricoperta di vetro] fece una dolce curva e si ruppe l’elica contro la terrazza. E tu, rendi omaggio a tanti voli!». Chissà quante volte avrà chiesto a Carlotto di rendere omaggio pure alla sua attrazione per il gioco, per i casini e per le peripatetiche: e di certo non di rado il buon Carlotto dovette risanare i suoi debiti.
A leggere le sue lettere agli amici e alla famiglia, Enrico sarebbe potuto diventare uno scrittore, giocoliere della parola come il fratello: un Carlo Emilio privato del lato tragico. E senza aver vissuto quella tragedia forse l’Ingegnere non sarebbe stato lo stesso scrittore. L’«ardito-impacciato» e «petulante-timido» Carlo Emilio considerava il fratello «la parte migliore e più cara» di sé ma della sua energia, così come del suo successo militare (lui già promosso tenente), aveva una malcelata gelosia. Oltre a un senso paterno di protezione e a un costante presentimento: «Vorrei pregar la guerra di sceglier me, ma non lui! (…) che la guerra prenda me, ma non mio fratello!». In effetti il desiderio di vita si traduceva in Enrico nell’ostinato spregio del pericolo, se già nell’ottobre 1912 lo troviamo alle prese con la «santissima noia» di un ginocchio ferito e bendato.
Nel febbraio 1917 all’amico Giancarlo Dosi (come informa Dario Borso che ha avuto accesso alle lettere) racconterà di una caduta da 700 metri «che rese in briciole l’apparecchio e scorticò la prominenza che rende così simpatico il mio naso». Bilancio: sette giorni di riposo a Milano e tassativa richiesta di tenere all’oscuro del fattaccio sia la mamma sia il fratello.
Sempre a Giancarlo avrebbe scritto il 15 aprile 1918: «Volo parecchio — mi acciuffo di rado coi polli austriaci — ho concorso ad abbatterne uno — sto bene — ho pochissimi soldi sebbene vinca ancora a poker». Pochi giorni dopo si sarebbe inabissato per un malore, per un guasto o più probabilmente per un’acrobazia inconsulta, un «pasticcio» eccessivo.
L’epitaffio che Carlo detterà per la tomba di Longone dice, tra l’altro: «ci lasciò fanciullo / e sorridendo volle il suo fato». Sorridendo volle.