venerdì 20 luglio 2018

Repubblica 20.7.18
Le idee
Nevrosi di Palazzo
La politica sul lettino dello psicoanalista
Lo aveva già scritto Freud in un celebre saggio del 1921: essere leader non è solo frutto di ambizione ma anche un disturbo della personalità. Provocato da un incontrollabile sentimento di hybris
di Massimo Ammaniti


È quasi impossibile rispondere alla domanda su come e soprattutto chi può diventare un grande capo o un leader politico carismatico. Il carattere del leader è fondamentale, come anche la sua capacità e la sua determinazione nel prendere decisioni necessarie per la vita del Paese. E poi deve essere in grado di mediare quando è necessario. Tutto questo non è sufficiente, sono importanti anche i suoi gesti, il suo modo di parlare e di rivolgersi ai cittadini, le sue pause, le sue espressioni facciali, la sua postura, in altri termini la fenomenologia corporea che viene ad incarnare il senso del potere e l’intima convinzione di essere un predestinato.
Ma quello che sancisce definitivamente la leadership è l’investitura popolare. Come nella dinamica che lega il predatore alla preda anche il leader è tale in quanto viene riconosciuto nel suo ruolo dai cittadini e dall’opinione pubblica. La natura di questo rapporto è stata indagata da Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, nel suo scritto del 1921 Psicologia delle masse e analisi dell’Io. È un’attrazione fatale quella fra la massa e il capo, difficile da spiegare in termini razionali e che può offuscare le capacità critiche dei cittadini. La possiamo visualizzare come un’onda sismica che si sprigiona dalla psicologia collettiva dei cittadini ed investe la figura del leader, attribuendogli qualità ideali, addirittura sovrannaturali. E questa identificazione inconscia a volte dura dalla sera alla mattina, perché il capo in breve tempo perde il suo carisma non sapendo gestire il potere, mentre altre volte il capo è in grado di incarnare anche per un lungo periodo gli investimenti ideali dei suoi ammiratori.
La seduzione del potere altera spesso la percezione personale del capo, è quasi inevitabile che provi un orgoglio smisurato e un senso di sé grandioso che mette alla prova il suo giudizio di realtà. Giulio Andreotti aveva coniato la famosa frase «il potere logora chi non ce l’ha», rifacendosi al grande politico francese Charles Maurice de Talleyrand, ma si era dimenticato di aggiungere l’affermazione simmetrica «il potere fa impazzire chi ce l’ha».
Ci si può chiedere se il potere non possa addirittura provocare un disturbo di personalità. Non è un interrogativo banale se una Rivista Scientifica di grande prestigio come Brain della Oxford University Press ha pubblicato un articolo su questo tema a nome di due autori apparentemente molto lontani, David Owen della Camera dei Lord britannica e Jonathan Davidson, professore di Psichiatria della Duke University negli Stati Uniti. I due autori si interrogano se la sindrome della hybris che può colpire i capi e i leader politici non sia un disturbo di personalità che si sviluppa nella gestione del potere. Pur riconoscendo che spesso la leadership si associa al carisma, alla capacità di ispirare e di persuadere, all’ampiezza della visione, alle aspirazioni grandiose e alla fiducia in se stessi può succedere che possa prendere il sopravvento la faccia più oscura del potere. Si cede agli impulsi col rischio di lanciarsi in comportamenti e decisioni spericolate e non si è più in grado di ascoltare i pareri degli altri, perdendo di vista la complessità e i dettagli delle situazioni. Quello che lega tutto questo è la hybris, ossia una tracotanza eccessiva e un’arroganza con una fiducia spropositata di sé e un disprezzo nei confronti degli altri.
Questa sindrome della hybris è generata dal potere che corrompe la mente ma anche il cervello del capo. Una ricerca ha documentato che quando si ricorda un episodio della propria vita, in cui si è esercitato un particolare potere nei confronti degli altri, si perde la capacità cerebrale di entrare in risonanza con gli altri e di provare empatia verso di loro. In altri termini i neuroni specchio si disattivano perché probabilmente si è troppo concentrati su se stessi e sulla propria potenza per prestare attenzione agli altri.
La storia ha ampiamente confermato queste osservazioni. Questa sindrome del potere può insorgere sia che il leader ottenga grandi successi, sia che vada incontro a sconfitte e fallimenti. Probabilmente quando non ci si guarda più allo specchio e si perde il contatto con se stessi è più facile che ci si faccia sedurre dall’ammirazione dei propri seguaci. Ma anche l’allontanamento dei consiglieri può rendere ancora più solo il leader, come successe anche al primo ministro britannico Margaret Thatcher quando fu lasciata dal suo consigliere Willie Whitelaw. Fece approvare in seguito leggi impopolari e alla fine fu costretta dal suo stesso partito a dimettersi.
Ma non è un esito inevitabile, vale la pena di ricordare quello che scrisse il grande economista John Maynard Keynes dopo aver cenato con Winston Churchill nel 1941, all’apice della sua popolarità: «L’ho trovato assolutamente in perfette condizioni, molto bene, sereno, ricco di sentimenti umani e non gonfiato. Forse in questo momento è al massimo del suo potere e della sua gloria e non ho mai visto nessuno meno contagiato da arie dittatoriali e dalla hybris».

Repubblica 20.7.18
L’eterno viaggio verso il bambino che è in noi
La serie. Inizia la nostra esplorazione del continente editoriale sommerso dei libri introvabili e usciti fuori catalogo. Si parte con " Il culto della fanciullezza" di George Boas, saggio sull’infanzia come condizione umana di genialità
di Marco Belpoliti


Prima i bambini. Giusto.
Non è sempre stato così.
Nelle epoche passate i bambini non erano l’ideale di vita, né gli adulti così propensi a pensare di restare giovani e di comportarsi comunque come bambini.
Quando è accaduto che il fanciullo è diventato l’ideale di un’intera società? Uno storico delle idee, George Boas, negli anni Trenta del XX secolo, mentre cercava di capire come fosse nato il mito del primitivismo nella cultura occidentale, si mise all’opera per scrivere un saggio dedicato a un altro aspetto: Il culto della fanciullezza (trad. di P. Lecci, La Nuova Italia). Completato nel 1966, il libro è stato tradotto da noi, ma purtroppo scomparso dai cataloghi degli editori italiani. Un vero peccato. Boas cercava di spiegare a se stesso, prima di tutto, perché gli americani s’appassionassero tanto alla costruzione di società segrete, perché coltivassero l’amore per i fumetti e per gli scherzi fanciulleschi, perché manifestassero una propensione per il bambino come uomo ideale. Lo storico delle idee s’era immerso nell’arte, nella letteratura e nella filosofia tra l’età antica e quella moderna. Come un palombaro, riemerse con un reperto: era stato il cristianesimo a proporre il culto del Bambino. Per quanto già nell’Antico Testamento vi fossero manifestazioni di questa propensione, è nel Vangelo di Marco e in quello di Matteo che s’afferma: bisogna diventare come bambini, il Regno dei Cieli appartiene a loro. Nonostante San Paolo nella prima lettera ai Corinzi avesse dato poco spazio alla vocazione fanciullesca della religione nata nella Palestina sotto il dominio di Roma, restava questa l’ipoteca del fanciullo. Anche l’arte non sembrava a Boas così propensa a celebrare il culto del Bambino Divino: l’adorazione di Gesù bambino da parte della Madonna, scrive, compare solo nel secolo XIV. E allora? Il cristianesimo ha dato il giro di manovella, ma tutto si è messo davvero in moto a partire dalla pubblicazione di una fondamentale opera pedagogica e filosofica, l’Emilio di Jean-Jacques Rousseau. Era il 1762. Fu dunque il filosofo a introdurre nel pensiero europeo "una più radicale tendenza ad apprezzare la fanciullezza". Se il secolo XVII speculava intorno alla fanciullezza di Cristo, questa però non conteneva alcuna promessa di felicità terrena. Il più l’ha dunque fatto Rousseau, il più estremista pensatore della modernità. Nel suo Contratto sociale il filosofo cominciava con l’affermazione che tutto il bene esce dalle mani del Creatore ed è con l’uomo che però degenera. Emilio deve essere educato, ma per non frustrare le sue capacità innate bisogna farlo con i metodi usati dalla Natura. Vicino all’animale, e animale lui stesso, il bambino di Rousseau fa dell’infanzia un’epoca differente dall’età adulta, con i suoi specifici diritti e privilegi. Naturalmente non c’è solo questa tendenza. Nel gorgo di quegli anni, e pure nei decenni a seguire, le cose si complicarono, tuttavia il punto di svolta c’era stato. Sarà il Romanticismo a completare il quadro aggiungendo un dettaglio non da poco: il genio artistico del fanciullo. Sua l’invenzione dell’ingenuità e della genialità. Il culto riceve poi un incoraggiamento fondamentale dalla visione delle quattro età della vita, che risale già a Sant’Agostino, ma che si sviluppa ulteriormente: la prima età, quella degli dèi, età della poesia e dell’infanzia del mondo, è la migliore. Siamo nel campo della filosofia, all’epoca non una semplice disciplina di studio, piuttosto il modo attraverso cui si pensava. Vico con la Scienza nuova apre la strada all’identificazione del bambino con i primitivi, che è il tema studiato da Boas in un suo altro fondamentale studio scritto con A. O. Lovejoy. Inoltre all’alba del XIX secolo l’arte stava per diventare uno dei campi più importanti, quello in cui si producono visioni del mondo valide anche per la vita quotidiana. L’estetizzazione del mondo era al suo inizio. Freud, dal canto suo, sposta verso l’infanzia l’attenzione nell’analisi degli adulti. Il secolo XIX è stato dominato dalla nascita degli studi psicologici dell’infanzia e della antropologia moderna. Il bambino e il selvaggio sono al centro dell’esplorazione culturale e scientifica. La psicoanalisi ha promosso l’attenzione verso i motivi inconsci delle espressioni infantili, a partire dal disegno sempre più praticato nelle scuole. Le avanguardie storiche, dadaismo e surrealismo, portano in primo piano la genialità del bambino, come quella del selvaggio. Le idee di Rousseau hanno gemmato in molteplici pedagogisti del XIX e del XX secolo, ma soprattutto tra gli artisti: Picasso, Klee, Miró, Kandinskij, Dubuffet. Il mito dell’"occhio innocente" si è congiunto a quello del bambino come genio naturale, che poi la società corrompe e guasta. Lo studio di George Boas si arresta alla vigilia del Sessantotto, quando i valori infantili hanno modo di diffondersi nel tessuto sociale, a partire dalla rivolta giovanile, cominciata non a caso nelle università americane. Uno dei profeti di questa ripresa del mito del fanciullo è Norman O.
Brown, autore di La vita contro la morte, ampiamente citato da Boas: "Ogni fanciullo è in una certa misura un genio, e ogni genio è in una certa misura un fanciullo. L’affinità tra i due si manifesta anzitutto nell’ingenuità e sublime semplicità che è caratteristica del vero genio". Come spiegare tutto questo? Boas annota che nel corso del Medioevo si sviluppò una corrente anti-intellettualistica che di tanto in tanto si espresse in modo intollerante contro il sapere; parallelamente c’era una corrente primitivistica, e fu solo nel corso del XIX secolo, grazie a Rousseau, che le due si fusero ed emersero allo scoperto. Per Boas molti dei paradigmi giovanilistici della cultura americana degli anni Sessanta provengono da lì.
Il suo saggio è pionieristico, ha aperto uno spazio di riflessione.
Oggi bisognerebbe sondare romanzi, opere teatrali e cinematografiche, analizzare gli studi di pedagogia e la letteratura dell’infanzia, guardare al costume e all’uso degli oggetti. Parecchio è stato fatto, eppure molto resta ancora da fare, per capire l’età in cui siamo immersi, quella che Witold Gombrowicz ha contribuito a definire come l’età dell’immaturità, la nostra.
- 1. Continua

Il Sole 20.7.18
Democrazia e partiti
La notte delle élite e l’alba populista
di Carlo Carboni


Fuori dai giochi, dai loro tackle quotidiani, che dire delle élite politiche italiane vecchie e nuove? La formazione del governo populista scandisce il tramonto della democrazia dei partiti, collettori di credenze e di larghi interessi sociali e civili. Apre la possibilità di forgiare un cambio di regime (democratico), se la legislatura si protrarrà, a dispetto dei non pochi dubbi sulla solidità della coalizione di governo (“i piedi in due staffe” di Salvini).
Sul declino dell’egemonia dei partiti sappiamo: la sua decadenza accompagnata dall’eclissi delle grandi credenze e motivazioni d’appartenenza ideologica; la sua metamorfosi post-ideologica, mediatica, personalizzata, finanziarizzata, a cui non ha resistito. Ha smarrito il senso profondo del gioco destra-sinistra, è quasi evaporata nella politica senza profondità che si forgia su semplificazioni e slogan che si irradiano in superficie. La democrazia dei partiti ha sfornato un’élite politica che è apparsa ai cittadini incapace di garantire crescita e protezione dalle turbolenze di mercato, sempre più autoreferenziale, senza visione per migliorare, senza coraggio di cambiare, mentre negli ultimi trent’anni tutto intorno è cambiato. È apparsa distante, svuotata di contenuti progressivi, inadatta a brillare di luce propria se non attraverso il capo, smontata dall’astensionismo, sbaragliata dai populismi.
Perché l’alternanza destra-sinistra si era ormai persa nell’urto collusivo della grande coalizione. Non era più in grado di mediare l’aporia della nostra democrazia, tra una maggioranza di rappresentati e una minoranza di rappresentanti, già evidenziata da studiosi del calibro di Robert Dahl e Norberto Bobbio. In assenza di contenuti di destra e di sinistra sui quali contendere e con una politica sfiduciata dai cittadini, è salito in superficie il vuoto pneumatico tra “popolo” e un’élite democratica senza autorevolezza, un ossimoro in implosione. La cometa Renzi ne ha ritardato il collasso, perché finalmente era emerso un giovane a capo di un Paese invecchiato e di una classe dirigente quasi inamovibile. Finalmente un rottamatore delle inconcludenze del passato. Il primo Renzi era perciò in profonda sintonia con il mood sociale. Non l’ha saputa mantenere: le sue scelte per promuovere nuove élite traenti, il cerchio magico, si è risolto in un déjà-vu in molti “passati” del Paese. Ha cercato di comandare la linea “tutti dietro il capo”, ma dietro c’era ormai un’élite politica inconsistente, in preda alla sua litigiosità interna. Nel vuoto dell’illuminazione del leader, è riapparsa la querula implosione di un’élite ripiegata su interessi di bottega, testimonianza dell’incapacità dei partiti – ridotti a etichette – di selezionare una classe dirigente in grado di tessere il suo destino personale sul telaio dello sviluppo del Paese.
Della democrazia populista sappiamo poco. Conosciamo i contenuti destabilizzanti della protesta populista. Ora però la musica cambia. Si fa governo di un grande Paese europeo, già considerato dai “nord-continentali” the sick man of Europe, l’ultima ruota del carro, per il suo debito pubblico e, oggi, per il suo governo populista. Sappiamo che il populismo colma il collasso dell’onda, la risacca, delle élite democratiche in crisi, proponendo leader, come Salvini e Di Maio, capaci di mirare direttamente la pancia del popolo. Gaetano Mosca sosterrebbe che è un abbaglio considerare la vittoria populista come fosse del popolo sulle élite: è una pia illusione pensare che i populisti potranno realizzare gran parte delle promesse, perché, al governo, essi stessi, per colmare l’inesperienza, copiano prassi inveterate e le vecchie élite, che avevano finora criticato. Ripropongono quell’aporia che è nella democrazia rappresentativa, per cui è sempre la minoranza a governare la maggioranza. Nel prossimo futuro, assisteremo non più al pericoloso teatrino del conflitto tra élite e popolo, ma a un probabile braccio di ferro tra i leader populisti e poi, forse, con le nuove élite democratiche, se sapranno rigenerarsi a sinistra e a destra.
Per ora, dal 4 marzo è uscita una nuova classe politica che, a dispetto della sua inesperienza, si è assunta una responsabilità di governo. Deve ancora dimostrare tutto. L’avvio non felice (l’ossessione dei migranti e un decreto dignità imbarazzante) è lo scotto dell’inesperienza dei nuovi eletti al governo centrale. Per la Lega, il discorso è diverso, avvezza com’è almeno all’amministrazione delle autonomie locali. Tuttavia, anche la nuova Lega conferma che il populismo non si cura delle proprie élite, ma del proprio leader. La Lega che ha messo nel mirino Bruxelles, anziché Roma, è del “decisore” Salvini. Anche il M5S è tutto schierato dietro al “negoziatore” Di Maio.
La novità populista non è nella qualità delle nuove élite di governo, che, come le precedenti, non sono selezionate sulla base del merito, ma della fedeltà al capo. La novità di regime è che il populismo si fa portatore del senso comune popolare per cui «lo scopo della democrazia è registrare i desideri del popolo quali sono e non quello di contribuire a ciò che potrebbero essere o potrebbero desiderare di essere». Questa frase illuminante di Crawford B. Macpherson tratta da La vita e i tempi della democrazia liberale (Il Saggiatore, 1980) contiene tutte le ragioni della crisi della democrazia dei partiti e i rebus di un mercato politico a maggioranza populista, che funziona senza vere élite traenti, senza cinghie di trasmissione, senza corpi intermedi, ma con leader che sanno intercettare istanze e percezioni popolari quali sono. Purtroppo, non abbiamo classi dirigenti “all’altezza” sia perché la politica non si preoccupa di formarle e selezionarle sia perché sono carenti nel Paese le condizioni culturali e morali per generarle. Se dunque è calata la notte sulle élite politiche dei partiti, il regime populista esce dalla notte insonne della protesta con un’alba ancora carica di luce buia.

La Stampa 20.7.18
La verità libica
“Abbiamo lasciato in mare solo due morti”
I libici raccontano l’ultimo naufragio
di Francesca Paci


Lunedì 16 luglio all’ora di pranzo abbiamo ricevuto una chiamata dal mercantile spagnolo Triades che ci segnalava un’imbarcazione di migranti in difficoltà tra Khoms e Tripoli e ci siamo mossi per intervenire, ne abbiamo tirati a bordo 165, maschi e femmine, tutti. Abbiamo lasciato in mare solo i due corpi senza vita di una donna e un bambino dopo aver provato invano a rianimarli: erano morti e portarli a terra non aveva alcun senso, ma oltre loro non c’era nessun altro in acqua». A raccontare la versione libica dell’ultimo scontro tra Roma, Tripoli e l’Ong Open Arms, quello che da due giorni si consuma intorno alle tragiche immagini del salvataggio della superstite Josefa, è Tofag Scare, colonnello della Guardia Costiera di Misurata che lavora in coordinamento con i colleghi della capitale.
Mentre parla con «La Stampa» il suo comando operativo riceve un Sos dalla zona SaR al largo di Khoms, l’ennesimo, ci dice: «Nonostante il nostro equipaggiamento obsoleto, dal 2011 a oggi abbiamo salvato oltre 80 mila persone alla deriva nel Mediterraneo».
Le ricostruzioni di quanto avvenuto nella notte tra lunedì e martedì coincidono fino a un certo punto, poi divergono lasciando aperte molte domande. Secondo la Open Arms le motovedette di Tripoli avrebbero distrutto il barcone dei migranti e abbandonato in mare quelli riluttanti a salire a bordo, di loro sarebbe sopravvissuta solo Josefa che, ancora sotto choc, dice alla giornalista di «Internazionale» di non ricordare il momento del naufragio ma di essere stata picchiata dai libici al pari dei suoi compagni di cui non sa più nulla. Tripoli, al contrario, afferma di non aver fatto altro che recuperare 165 disperati: la novità è che parla anche di due corpi in mare, cadaveri che, si apprende, «secondo la legge libica vanno identificati prima di essere sepolti o rimandati a casa e dunque in questi casi vengono lasciati al mare».
Il colonnello Scare telefona a più riprese ai colleghi in servizio il 16 luglio e raccoglie i tasselli del suo puzzle: «La motovedetta Ras al Jade è andata a soccorrere 165 persone in condizioni penose, affamate, bruciate dal sole, c’era un cattivo odore spaventoso. Dopo averci chiamato, il mercantile Triades è rimasto lì ad attenderci, ma nel frattempo non ha neppure dato da mangiare e da bere a quella gente, ha detto che non era il suo lavoro e che non poteva fare nulla».
Scare fornisce il verbale della conversazione tra la Guardia Costiera e la Triades con la posizione dell’intervento fatto (37.74147°/ 13.84367°) che, grossomodo, coincide con quella indicata dalla Open Arms. Anche la motovedetta Ras al Jade pare essere la stessa (quella che già in passato aveva incrociato le spade con la Open Arms): possibile che quella notte ci sia stato più di un salvataggio? Che i cadaveri di cui si parla siano diversi? Le fotografie diffuse dalla Open Arms - che domani arriverà a Maiorca - mostrano chiaramente che i due corpi senza vita si trovano sullo stesso relitto su cui è rimasta a galla Josefa. E dai centri dove i migranti soccorsi vengono condotti non escono numeri sugli arrivi di martedì.
La risposta dal banco degli imputati è decisa e va oltre la testimonianza della giornalista tedesca Nadja Kriewwald, che quella notte era a bordo con i libici e ha raccontato di non aver visto altro che i superstiti accolti sul ponte: «Non avremmo avuto alcuna ragione di abbandonare in acqua delle persone vive: anche se si fossero rifiutate di salire a bordo le avremmo tirare su a forza, lo abbiamo fatto con gli uomini e lo avremmo fatto facilmente con le donne. È una bugia, è propaganda contro di noi. Non c’era nessuno oltre i due morti che, per altro, al nostro arrivo erano già morti. Quello di cui ci accusano è privo di senso».
Il fastidio che si respira a Misurata e a Tripoli è forte, ma non tanto per l’attacco della Open Arms quanto per la stanchezza di «gestire una grana altrui» e prendere colpi. Lo esprime un membro della Guardia Costiera che però chiede di non pubblicare il suo nome: «L’Italia ci fa fare il lavoro sporco perché non vuole gli africani, ma anche noi non siamo contenti di prenderli qui, le nostre città sono piene fino a scoppiare, i centri per loro non bastano più e sono diventati bombe a orologeria. Certe volte con le motovedette ci spingiamo fin dentro le acque internazionali, dove sarebbe illegale, e io dico che sbagliamo. Lo facciamo perché abbiamo un accordo e l’Italia ci ha promesso delle cose, ma se non arriva nulla ci stiamo solo caricando di problemi e di cattiva reputazione. Quando bruciamo i barconi degli scafisti lo facciamo per metterli fuori uso, non per sadismo. E comunque siete voi a chiederci di bloccare gli africani che vogliono venire in Europa, loro di certo non sognano la Libia».
La notte di lunedì resta un capitolo aperto che ne ha aperti altri. Un terzo marinaio di Misurata racconta che il numero dei migranti è cresciuto talmente tanto negli ultimi mesi, in concomitanza con il rinnovato impegno di pattugliamento della Guardia Costiera, da aver modificato la situazione sul terreno: «Non c’è neppure più lavoro per loro. Noi li prendiamo in mare ma dopo nessuno li vuole. I siriani adesso hanno cominciato ad andare in aereo in Sudan, dove non hanno bisogno del visto, e poi con 1500 dollari si fanno portare a Tripoli e da qui ad Algeri per avere maggiori chance».
(ha collaborato Fahmi Hussan)

La Stampa 20.7.18
Missione Sophia a rischio, l’Ue minaccia lo stop
Italia isolata a Bruxelles: non consente l’attracco delle navi degli altri Stati. Dura la Cei: “Basta imbarbarimento”
di Marco Bresolin


Se l’Italia dovesse disapplicare in modo unilaterale le regole della missione Sophia, come annunciato, sarebbe la fine dell’operazione navale Ue nel Mediterraneo. La linea degli altri 27 governi è chiara e oggi verrà ribadita nella seconda riunione del Comitato politico per la sicurezza dedicata al tema. Un vertice che si preannuncia molto teso. Ed è anche in questo contesto che vanno lette le ultime dichiarazioni di Jean-Claude Juncker. Da Madrid, il presidente della Commissione si è lasciato andare a un elogio della Spagna. Parole che sono sembrate un attacco indiretto al recente atteggiamento dell’Italia. Il Paese iberico - ha fatto notare il lussemburghese - sui migranti «sta dando prova di un’empatia e di una solidarietà attiva che mi impressiona, mentre altri voltano le spalle agli altri». Ma nel frattempo una pesante critica al governo arriva anche dal fronte interno, dove una nota della Cei chiede di passare «dalla paura all’accoglienza». Parole a cui ha replicato Matteo Salvini, il quale ha ribadito di voler continuare con la linea dura.
I timori della Difesa
Il piano operativo della missione Sophia prevede che tutti i migranti salvati dalle navi Ue siano sbarcati in Italia. Roma lo aveva accettato in cambio del comando dell’operazione. Ma ora il governo ha chiesto una modifica delle regole (che vanno approvate all’unanimità) e nell’attesa si è detto pronto a non applicare più le disposizioni sullo sbarco. Dunque è pronto a impedire l’attracco nei propri porti alle navi della missione. Una minaccia che nella riunione di mercoledì è stata maldigerita da tutti gli altri governi, nettamente contrari a questa ipotesi, al punto da prospettare la fine della missione guidata dall’ammiraglio italiano Enrico Credendino. Un’operazione, va ricordato, che serve innanzitutto a contrastare gli scafisti. Lo stop a Sophia sarebbe quindi un duro colpo per l’Italia e infatti a Roma, soprattutto al ministero della Difesa, vogliono scongiurare questo scenario.
I centri controllati
Il ministro degli Esteri - Enzo Moavero Milanesi - è tornato a invocare «un meccanismo europeo strutturale» per smistare gli sbarchi. Ma la nascita della «cellula di crisi» chiesta dal premier Giuseppe Conte ai vertici Ue non sembra affatto imminente. La Commissione sta infatti lavorando da giorni a una proposta che però è legata ai «centri controllati» evocati nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo. I migranti salvati nel Mediterraneo verrebbero portati in questi centri per esaminare le domande d’asilo: gli aventi diritto potrebbero essere distribuiti in altri Stati (ma solo su base volontaria) e gli altri rimpatriati con i soldi Ue (ma solo se provenienti da Paesi con accordi di riammissione). Il nodo, però, è sempre lo stesso: chi è disposto ad ospitare questi centri? Anche qui, per l’Italia, c’è il rischio di trovarsi da sola.
La lite con i vescovi
La situazione attuale, però, rischia di diventare insostenibile a causa del rimpallo di responsabilità. Un mercantile con a bordo 40 migranti è bloccato da giorni al largo della Tunisia e non ha un porto in cui attraccare. «Le vite in mare vanno salvate sempre e comunque», dice il presidente della Camera, Roberto Fico. Dalla Cei arriva un forte appello contro «l’imbarbarimento» e la risposta di Salvini non si è fatta attendere, anche se i toni sono decisamente più morbidi del solito: «Noi vogliamo salvare vite». Ma i porti per le navi delle ong «restano chiusi».
Una lezione per Orban
La linea dura sull’immigrazione, però, alla lunga non paga. E Viktor Orban ne sa qualcosa. Ieri il governo ungherese è stato infatti deferito alla Corte di Giustizia Ue perché le recenti leggi sull’asilo e sui rimpatri sono contrarie alla normativa Ue. La Commissione ha anche aperto formalmente una procedura di infrazione per la cosiddetta legge anti-Soros che punisce le associazioni e le ong che aiutano i migranti.

La Stampa 20.7.18
L’Anm e la legittima difesa
“Così si autorizza l’omicidio”
I magistrati: è una distorsione. La Cassazione: non vale per chi accetta il pericolo
di Grazia Longo


S’infiamma la polemica, sia nel mondo politico sia in quello della magistratura, a proposito della nuova legge sulla legittima difesa. Pomo della discordia è l’ipotesi di stravolgere la proporzionalità della difesa
E se per la Lega resta una «priorità» del governo, per il M5S si tratta di una materia che «va comunque approfondita» e studiata a fondo. Tranchant il presidente dell’Anm Francesco Minisci che definisce la normativa sulla legittima difesa «già ben definita».
Ma il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini non retrocede di un passo: «Per la legittima difesa noi non vogliamo il Far West: c’è oggi, il Far West. Vogliamo disarmare i delinquenti, ma vogliamo restituire agli italiani il diritto in casa loro, nel loro negozio, nella loro azienda di difendersi prima di essere aggrediti». Non la pensa così Minisci che rincara la dose: «Se interveniamo sulla legittima difesa nei termini di cui stiamo leggendo in questi giorni rischiamo di legittimare i reati più gravi persino l’omicidio».
E ancora: «Si vuole eliminare il principio di proporzionalità. Questo però è un principio cardine dal quale non possiamo prescindere. Tra le proposte in esame c’è quella che prevede che un soggetto che torna a casa la sera può sparare a una persona che vede arrampicarsi sul proprio balcone. In questo caso sarebbe prevista la legittima difesa, ma questa è una distorsione inammissibile». Secondo il presidente dell’Associazione nazionale magistrati la legge «regolamenta già in maniera adeguata tutte le ipotesi di legittima difesa. Nel 2006 sono stati già attuati alcuni interventi di modifica prevedendo ipotesi particolari nel caso di legittima difesa all’interno del domicilio. Non vediamo quali possano essere gli ulteriori interventi».
La Lega in pressing
Orientata in questa direzione sembra anche la Cassazione che mette in guardia dallo sfidare l’aggressore. «Non è invocabile la scriminante della legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida oppure reagisca a una situazione di pericolo volontariamente determinata» o alla quale «abbia concorso», nonostante la «possibilità di allontanarsi dal luogo senza pregiudizio e senza disonore». Con queste precisazioni la Suprema Corte ha confermato la condanna a Umberto Stregapede, che nel 2015 a Roma ha ucciso il cognato, Stefano Petroni, con 31 coltellate per mediare tra lui e la propria famiglia. Gli Ermellini hanno confermato la condanna a 6 anni e 2 mesi con l’attenuante della provocazione. L’uomo in realtà invocava la scriminante della legittima difesa. Ma non gli è stata riconosciuta perché l’imputato «ha liberamente scelto» di affrontare, di sfidare il cognato.
Sul piano politico, intanto, la Lega continua a premere sull’acceleratore ma il premier Giuseppe Conte precisa: «Il governo è consapevole che sul piano applicativo giurisprudenziale della legittima difesa si siano create delle incertezze che vanno risolte». In altre parole, lascia presagire che i tempi per un’approvazione della riforma non saranno poi così rapidi.

il manifesto 20.7.18
«Netanyahu spinge Israele verso un sistema autoritario»‎
Intervista. Parla lo storico Zeev Sternhell: la legge approvata dalla Knesset su Israele Stato-nazione del popolo ebraico sancisce la discriminazione dei cittadini arabo israeliani e nega indipendenza ai palestinesi dei Territori
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Era stato netto il giudizio di Gideon Levy, una settimana fa, sul quotidiano ‎Haaretz. La legge su Israele come Stato-nazione del popolo ebraico in discussione ‎in quei giorni alla Knesset, voluta con forza dal premier Netanyahu e dalla ‎maggioranza nazionalista-religiosa al governo e approvata mercoledì notte in via ‎definitiva, ‎«presenterà il Sionismo così com’è‎», aveva scritto l’editorialista ‎israeliano.‎ «Metterà anche fine – aveva aggiunto – alla farsa che Israele sia ebraico ‎e democratico, una combinazione che non è mai esistita e che non potrebbe mai ‎esistere a causa della contraddizione intrinseca tra i due valori che non possono ‎essere messi insieme se non con l’inganno‎». Già lo sapevano i palestinesi d’Israele, ‎la minoranza araba (20% della popolazione del paese). Ma ora sanno anche sono ‎esposti ai riflessi concreti di una legge fondamentale dello Stato, approvata dal ‎parlamento, che senza affermarlo esplicitamente disconosce l’uguaglianza di tutti i ‎cittadini – inclusa nella dichiarazione d’indipendenza di Israele – poiché assegna ‎nero su bianco uno status privilegiato ai cittadini ebrei rispetto a quelli arabi. Una ‎legge che afferma che la biblica Terra d’Israele è la patria storica degli ebrei e che ‎al suo interno è stato fondato lo Stato d’Israele, sottointendendo che i non-ebrei ‎non hanno e non avranno diritto di reclamare la propria appartenenza quella stessa ‎terra, la Palestina storica. Tra i punti più importanti c’è quello che afferma che lo ‎Stato di Israele ‎«vede lo sviluppo dell’insediamento ebraico come un valore ‎nazionale e agirà per promuovere il suo consolidamento‎». In questo modo, ha ‎denunciato il ‎deputato ‎comunista Dov Chenin, ‎«si implica che l’insediamento di ‎‎arabi è di ‎Serie B. Nemmeno in Sudafrica il regime di apartheid ‎aveva osato ‎‎arrivare a tanto‎». E non è meno significativo che l’arabo non sia più una lingua ‎ufficiale di Israele. Da ieri ha solo uno “status speciale”. La legge è stata salutata ‎con favore da Netanyahu perché, a suo dire, pone i valori ebraici e quelli ‎democratici sullo stesso piano senza negare i diritti di tutti i cittadini. Ben diverso ‎il giudizio di Ayman Odeh, leader della Lista araba unita. Sventolando una ‎bandiera nera ‎durante il suo discorso alla Knesset, Odeh ha affermato che ‎«questa ‎è una legge malvagia e ‎‎al di sopra c’è una bandiera nera…Israele ci dice che non ci ‎vuole qui». Per‎ Hassan Jabareen, direttore della ong araba Adalah, ‎quanto votato ‎dalla Knesset «presenta elementi chiave dell’apartheid, è immorale e contro il ‎diritto internazionale‎». Del significato della legge e dei suoi effetti abbiamo ‎parlato con lo storico e Premio d’Israele, Zeev Sternhell, uno dei massimi esperti ‎di Fascismo e della storia del Sionismo, autore di testi tradotti in molte lingue. ‎Sternhell il 25 settembre del 2008, rimase ferito in un attentato dinamitardo nella ‎sua abitazione compiuto da un ebreo estremista di destra.
Alla fine Netanyahu ha ottenuto quanto chiedeva da anni
Purtroppo sì. Questa legge sancisce ufficialmente la differenza tra ebrei e arabi ‎in Israele. Certo, sino ad oggi, nella vita quotidiana i cittadini arabi non avevano ‎mai avuto diritti pieni però, come diceva Machiavelli, una cosa è fare qualcosa di ‎sbagliato ed un’altra e un’altra è attuarla con una legge. È stata introdotta una ‎norma in cui la natura ebraica di Israele è superiore rispetto ai valori democratici ‎dello Stato. Pertanto se prima Israele si definiva ebraico e democratico ora è lo ‎Stato della nazione ebraica. Appartiene ad ogni ebreo nel mondo ma non anche ai ‎suoi cittadini arabi.‎
Cosa accadrà adesso?‎
Assisteremo a sviluppi pericolosi. Perché la legge può manifestarsi ‎concretamente in molti modi. Occorre domandarsi come sarà tradotta in politica. ‎Aprirà le porte a una discriminazione non più occulta degli arabi in Israele? Temo ‎che questo si realizzerà in molte forme, in vari aspetti della vita del paese. Senza ‎dimenticare che la legge, assegnando tutta la biblica “Eretz Israel” agli ebrei darà il ‎via a una ulteriore e più massiccia campagna di colonizzazione ebraica dei ‎Territori palestinesi occupati (da Israele nel 1967, ndr). Affermare che la terra ‎appartiene solo agli ebrei e non anche agli arabi è un aspetto centrale e dovremmo ‎capire cosa significherà dal punto di vista giuridico, legale, nei tribunali, durante ‎le cause processuali.‎
Nei suoi libri e articoli lei ha ripetutamente messo in guardia dalla svolta ‎autoritaria in Israele e ha subito attacchi e critiche violente.
Non c’è alcun dubbio che si proceda a destra a tutta velocità e che gli ebrei ‎nazionalisti e messianici stiano attuando un’agenda ben precisa che sta facendo di ‎Israele un paese sempre meno democratico ed egalitario. Il sistema autoritario che ‎la destra ha in mente avvicina Israele all’Ungheria e all’Europa orientale e lo ‎allontana dall’Europa occidentale. ‎
Proprio in queste ore (ieri) il tanto discusso premier ungherese Orban viene ‎ricevuto come un amico e stretto alleato dal primo ministro Netanyahu.‎
Netanyahu già prepara le prossime elezioni politiche e temo che le vincerà. Il ‎benvenuto ad Orban, suo principale alleato in Europa, va letto anche in quella ‎chiave, così come la legge sullo Stato-nazione ebraica approvata dalla Knesset. ‎Viviamo tempi difficili, cupi. Dopo 50 anni di occupazione militare dei Territori e ‎di politiche nazionaliste agguerrite ora si è passati alla discriminazione ‎riconosciuta, ufficiale, della minoranza araba in Israele e alla negazione esplicita di ‎qualsiasi possibilità che i palestinesi in Cisgiordania e Gaza possano godere di una ‎piena autodeterminazione. Affermando con una legge che “Eretz Israel”, ossia il ‎territorio che va dal Mediterraneo al fiume Giordano, appartiene solo agli ebrei, ‎Netanyahu, la destra, gli ultranazionalisti religiosi, hanno voluto mettere fine ‎all’idea che un giorno possa nascere uno Stato palestinese indipendente all’interno ‎di questo territorio. ‎

il manifesto 20.7.18
Orban contestato allo Yad Vashem ma Netanyahu lo accoglie a braccia aperte
Israele/Ungheria. Il discusso premier ungherese in visita in Israele accolto a braccia aperte dal primo ministro Netanyahu
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Sei un vero amico di Israele‎». Con queste parole il premier israeliano ‎Netanyahu ha accolto ieri a Gerusalemme Victor Orban incurante delle ‎proteste per i passati toni antisemiti del leader ungherese che, tra le altre ‎cose, un anno fa esaltò la figura di Miklos Horthy, al potere a Budapest e ‎collaboratore dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale in cui furono ‎sterminati 600 mila degli 800 mila ebrei magiari. Invece Orban, secondo ‎Netanyahu, avrebbe dato un importante contributo alla lotta ‎all’antisemitismo. Inoltre lo ha ringraziato per la posizione filo israeliana ‎dell’Ungheria nell’Ue e alle Nazioni unite. Frasi pronunciate mentre la ‎Commissione europea deferiva l’Ungheria alla Corte di Giustizia Ue perché ‎le sue leggi, volute e difese da Orban, su asilo e rimpatri dei migranti, non ‎rispettano le norme europee. Meno amichevoli i toni usati dal presidente ‎israeliano Reuven Rivlin durante l’incontro con Orban al quale ha detto ‎che il neo fascismo e i gruppi neofascisti sono un pericolo reale all’esistenza ‎di un mondo libero. Orban ieri all’ingresso del Memoriale dell’Olocausto di ‎Gerusalemme è stato contestato da una ventina di persone che – prima di ‎essere allontanate dalla polizia – hanno scandito slogan definendolo un ‎‎”antisemita” che viola i diritti umani. (mi.gio)‎

La Stampa 20.7.18
Israele “Stato-nazione del popolo ebraico”
Il voto della Knesset che divide il Paese
L’opposizione: discrimina gli arabi. Il presidente Rivlin fa cancellare l’articolo che consentiva quartieri solo per ebrei
La legge è stata fortemente sostenuta dai partiti che fanno riferimento agli ultra ortodossi
di Giordano Stabile


Israele diventa più «ebraica», un «passo storico», per il premier di Benjamin Netanyahu, che la renderà più sicura e «inattaccabile». Ma secondo l’opposizione la legge fondamentale voluta dal centro-destra è un marcia verso uno «Stato per soli ebrei» che discrimina la minoranza araba e i palestinesi. La legge «Israele Stato-nazione del popolo ebraico», approvata poco prima dell’alba di ieri dalla Knesset, dopo una dura battaglia parlamentare che ha visto scendere in campo anche l’Alta Corte e lo stesso presidente Reuven Rivlin, è destinata a segnare un cambiamento epocale, ma ha spaccato il Paese.
A favore del provvedimento hanno votato 62 deputati su 120. La legge stabilisce che Israele è la «patria storica del popolo ebraico» e soltanto gli ebrei «hanno il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale». Per il governo è un passo indispensabile a conservare la maggioranza ebraica. I partiti di centrosinistra e la minoranza araba temono però una deriva «etnica», la trasformazione dei non ebrei in cittadini di serie B. Per il quotidiano liberal «Haaretz» la legge è la «negazione dei principi di eguaglianza» iscritti nella Dichiarazione di indipendenza del 1948, che spinge Israele verso «l’apartheid».
È vero che la legge è stata emendata dopo l’intervento del presidente Rivlin.
Per esempio è stato cancellato l’articolo sulla possibilità di creare città o quartieri «soltanto per ebrei». Ma è rimasto quello che prevede che l’arabo non sia più la seconda lingua ufficiale, anche se avrà «uno status speciale», e quello che stabilisce come «l’intera Gerusalemme unita» sia la capitale, un passo che allontana la possibilità di un compromesso con i palestinesi. Come pure l’articolo che promuove «lo sviluppo degli insediamenti ebraici come un valore nazionale». Il calendario ebraico diventa quello ufficiale, anche se sarà usato accanto a quello gregoriano.
La protesta delle minoranze
Netanyahu ha cercato di smorzare i toni, parlato di «rispetto di tutti i cittadini». La legge è stata voluta soprattutto dai partiti dalla destra religiosa, mentre i conservatori laici, come Rivlin appunto, ne hanno sottolineato i rischi. Il premier si è mantenuto in mezzo, e incassa la possibilità di restare in sella un altro anno. «A 122 anni di distanza dalla visione di Herzl - ha puntualizzato - abbiamo sancito i principi basilari della nostra esistenza: è un momento decisivo nella storia d’Israele e del sionismo». La minoranza araba è però sul piede di guerra. Adalah, la Ong che difende i diritti degli arabi, parla di un provvedimento che promuove «la superiorità etnica». Per Ayman Odeh, leader dei partiti arabi, la norma dimostra che Israele «non ci vuole qui».
Gli arabi sono il 20 per cento degli 8,7 milioni di abitanti di Israele e hanno sempre goduto di pari diritti civili, anche se non possono fare il servizio militare. Ora temono discriminazioni più pesanti. Ma la legge ha anche un impatto internazionale. Per il premier palestinese Rami Hamdallah «è l’ultimo chiodo sulla bara della soluzione dei due Stati, un tentativo di cancellare l’identità arabo-palestinese». Anche la Turchia ha protestato contro la violazione delle «norme del diritto universale».
Arabi israeliani e palestinesi costituiscono circa la metà degli abitanti fra il Mediterraneo e la riva del Giordano (Israele, Cisgiordania, Gaza) e uno dei timori degli israeliani è di ritrovarsi un giorno in minoranza, il che spiega la volontà di ribadire il carattere ebraico dello Stato. La nuova legge fondamentale promuove anche l’immigrazione ebraica da tutto il mondo, l’aliyah. E arriva alla vigilia del Tisha B’Av, il giorno di lutto che ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme. E’ la sindrome dell’assedio. Israele è una piccola nazione, in mezzo a 350 milioni di arabi. Resta da vedere se questa legge la renderà più sicura.

Repubblica 20.7.18
Lo “Stato-nazione ebraico”
La tentazione sovranista di Netanyahu
di Wlodek Goldkorn


Il terreno prediletto del sovranismo, mutazione postmoderna del vecchio nazionalismo radicale, è quello dei simboli, delle gesta verbali, della pedagogia della diffidenza nei confronti degli “altri”. Succede negli Stati Uniti così come in Europa. Ieri, il sovranismo ha festeggiato il suo ennesimo trionfo; questa volta in versione israeliano-ebraica. Alla Knesset è stata approvata, con una maggioranza di 62 voti favorevoli su 120, la legge sullo Stato-nazione. Il provvedimento è stato fortemente voluto dai partiti della destra radicale al governo e assecondato dal premier Benjamin Netanyahu, un po’ per convinzione un po’ perché la massima aspirazione del primo ministro è continuare a rimanere al potere.
In apparenza, la nuova legge che definisce Israele “Stato-nazione del popolo ebraico” cambia poco la vita quotidiana dei cittadini. I due articoli più controversi della versione originale, quello che voleva la prevalenza delle fonti ebraiche nella giurisprudenza e quello che permetteva l’esclusione di determinati gruppi (ossia i non ebrei) da città o villaggi, sono stati eliminati per le pressioni del capo dello Stato Reuven Rivlin. Ma restano i dispositivi simbolici per cui gli arabi palestinesi cittadini d’Israele, d’ora in poi, si sentiranno un po’ meno a casa nel Paese dove sono nati loro e i loro antenati.
Spieghiamoci. Quando il legislatore dice che Israele è appunto “Stato-nazione del popolo ebraico”, ribadisce un fatto compiuto e una prassi corrente: ogni ebreo ha il diritto di venire in Israele e diventarne cittadino. Per carità, gli arabi israeliani, il 20 per cento della popolazione, continueranno a fare i magistrati (un giudice palestinese mandò in galera un ex capo dello Stato condannato per stupro), gli avvocati, i medici, gli infermieri, ma con lo stigma di far parte di una minoranza, tollerata. E del resto l’arabo non sarà più un secondo idioma ufficiale, accanto all’ebraico, ma una lingua “a statuto speciale”.
Questa deriva, a pensarci bene, rasenta la follia, dato che negli ultimi anni era evidente la crescente integrazione dei palestinesi d’Israele in seno alla società e addirittura un forte senso di appartenenza e di lealtà nei confronti delle istituzioni. E brutalmente: moltissimi arabi israeliani preferiscono essere cittadini dello Stato ebraico e non di un ipotetico Stato palestinese; e per questo con insistenza chiedono la parità dei diritti. Come risposta, hanno avuto uno schiaffo da parte di un esecutivo di destra in mano ai fondamentalisti.
È solo simbolico ribadire per l’ennesima volta che Gerusalemme è capitale d’Israele; così come sancisce lo status quo l’articolo che esalta il ruolo degli insediamenti, senza specificare se si tratti di villaggi da costruire in Israele o anche della Cisgiordania; e non si capisce come in pratica il calendario religioso ebraico, lunare e complessissimo, possa prevalere su quello gregoriano. Quelli appena elencati sono altri punti di un testo, a detta degli esperti, incoerente e scritto in un ebraico da analfabeti funzionali.
I primi capi del governo e dello Stato d’Israele erano poeti, intellettuali, sognatori, fanatici dell’eleganza della lingua e della parola. Il sovranismo, anche quello degli ebrei israeliani, invece usa un idioma povero, perché la retorica di tutti i sovranismi consiste nell’alzare sempre più in alto l’asticella dell’odio verso gli “altri”; e più misere sono le parole più efficiente è il richiamo alla pancia.
La buona notizia invece è questa: le opposizioni, tutte, hanno votato compatte contro la legge obbrobrio. Non hanno ceduto al ricatto di essere accusate di scarso patriottismo o peggio di tradimento.

Repubblica 20.7.18
La vittoria di Netanyahu
Israele è uno Stato solo ebraico "Ma la legge è da apartheid"
Dalla lingua alla capitale "completa e unita", la Knesset vota la norma voluta dal premier Il testo è però più soft della prima versione. Montano le proteste, dentro e fuori la nazione
di Marco Ansaldo


ISTANBUL Israele è uno Stato solo ebraico. Per lingua, capitale " completa e unita" (Gerusalemme, compresa la parte Est rivendicata dai palestinesi), e dove " lo sviluppo degli insediamenti ebraici" va promosso e consolidato. Con simbolo la bandiera bianca e blu, accompagnata dalla stella di David. E come inno l’Hatikvah (scritto da un proto-sionista, e non accettato né cantato dalle minoranze non ebraiche che non se ne sentono rappresentate).
Il premier Benjamin Netanyahu esulta: «Questo è il nostro Stato, lo Stato ebraico. Negli ultimi anni qualcuno ha tentato di metterlo in dubbio. Oggi lo abbiamo reso legge: questa è la nostra nazione, lingua, bandiera. È un momento decisivo ». Si rivoltano i palestinesi, che vedono l’arabo declassato a lingua ‘ con status speciale’, e cancellato legalmente il sogno di riconoscere Gerusalemme Est come futura capitale del loro Stato.
Non sono i soli a farlo. Perché a protestare contro la controversa legge approvata per pochi voti ieri dalla Knesset, il Parlamento israeliano, sono l’Autorità nazionale palestinese, gli arabi israeliani, i politici di opposizione, i gruppi che si battono per il rispetto dei diritti civili. E parlano di apartheid e di razzismo. Immediato scatta dall’estero il sostegno di Paesi musulmani, subito la Turchia di Erdogan. E poi dall’Unione Europea, il cui rappresentante a Gerusalemme nei giorni scorsi ha più volte avuto manifestato la forte perplessità comune a Netnayahu.
La nuova norma è passata con 62 voti a favore contro 55. Il disegno di legge, che ha valore costituzionale, definisce ufficialmente Israele patria nazionale del popolo ebraico, chiama capitale Gerusalemme " unita", e lingua del Paese quella ebraica. Definisce quindi di interesse nazionale la promozione delle comunità ebraiche: un punto, quest’ultimo, frutto di un compromesso dopo che la versione originale era stata attaccata anche dal capo dello Stato, Reuven Rivlin - qui in disaccordo con Netanyahu -, perché consentiva la realizzazione di comunità esclusivamente abitate da ebrei, escludendo di fatto gli arabo-israeliani.
«A 122 anni di distanza dalla pubblicazione della visione di Herzl, abbiamo sancito come legge i principi basilari della nostra esistenza », ha aggiunto il premier. «Abbiamo incastonato in una legge il principio base della nostra esistenza. Israele è lo stato nazione del popolo ebraico, che rispetta i diritti individuali di tutti i suoi cittadini».
Ma dopo le sue parole, e l’approvazione, la bufera si scatenava. « Il provvedimento apre la strada a pratiche che porteranno verso discriminazioni razziali in tutte le sfere di attività nei confronti delle minoranze», denunciava l’Associazione per i diritti civili in Israele. E il legislatore arabo- israeliano Ahmad Tibi bollava la misura come « la morte della democrazia » . In Israele i parlamentari arabo- israeliani rappresentano una minoranza non indifferente, e pari al 17,5% degli 8 milioni di abitanti. «Questa è una legge che incoraggia non solo la discriminazione ma anche il razzismo » , affermava il deputato Yousef Jabareen. Mentre l’alto dirigente dell’Autorità nazionale palestinese, Saeb Erekat, la definiva «pericolosa» perché «legalizza ufficialmente l’apartheid e definisce Israele come un sistema di apartheid » . E il ministro degli Esteri dell’Anp, Riad al-Malki, commentava: « L’approvazione di simili leggi razziste è una palese e premeditata violazione di tutte le risoluzioni del diritto internazionale e umanitario ».
Da Ankara il governo di Recep Tayyip Erdogan, già molto critico con Israele per i tanti dissapori degli ultimi anni, lanciava una nota dal ministero degli Esteri criticando una legge «che ignora i principi del diritto universale e i diritti dei cittadini israeliani di origine palestinese, e che proclama Gerusalemme, occupata da Israele, come capitale, è nulla e vuota agli occhi della comunità internazionale».
Forti le critiche da Bruxelles, arrivate dalla portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini: « Siamo preoccupati e abbiamo espresso la nostra preoccupazione e continueremo ad essere impegnati con Israele su questo tema. Deve essere evitata ogni soluzione che non punti alla soluzione a due Stati». Due Stati, invoca l’Europa. Ma Israele ieri è stato chiaro.
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Questa è una legge che incoraggia non soltanto la discriminazione ma anche il razzismo

Il Sole 20.7.18
La nuova legge
Israele Stato-nazione solo del popolo ebraico
Esclusa la minoranza araba che rappresenta il 20% della popolazione
di Ugo Tramballi


Chiunque sia stato in Israele, atterrando a Ben Gurion non ha mai pensato di arrivare in un luogo diverso dal paese degli ebrei. La Menorah e la stella di Davide come simbolo dello Stato; le strisce azzurre nella bandiera che ricordano il tallit, il mantello di preghiera ebraico. La lingua. E l’HaTikvah, la speranza, l’inno bellissimo e carico di tristezza, scritto da Samuel Cohen.
Da oggi, passata in parlamento la legge “Israele Stato-Nazione degli Ebrei”, il Paese è lo stesso di ieri. Ma in un’epoca di nazionalismi, sovranismi e tribù, la domanda è se Israele sia anche la stessa democrazia di ieri. Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba, la definisce «una legge coloniale». Verificata la sua applicazione potrebbe essere anche peggio. Per ora è quanto meno una legge onomatopeica: non se ne sentiva la ragione se non per affermare l’aspetto etnico e nazionalistico di un paese e una storia uniche al mondo.
Alla Knesset non è stato un passaggio facile: 62 favorevoli, 55 contrari, due astenuti. Fra questi e i contrari molti vecchi rappresentanti della destra, come Benny Begin, figlio di Menahem, l’ex premier del Likud: nazionalista si, ma convinto che anche la democrazia sia un valore fondamentale per la sopravvivenza dello Stato degli ebrei. Il provvedimento aveva rischiato di non passare, dopo un dibattito durato anni. Il risultato della legge che ha valore quasi-costituzionale (nel Paese non esiste una Costituzione) è questo: “Israele, patria del popolo ebraico»; “La realizzazione del diritto di autodeterminazione nazionale in Israele, è unica per il popolo ebraico”; “Gerusalemme unita come capitale”; l’ebraico come lingua ufficiale (status speciale per l’arabo, promette il premier Bibi Netanyahu”); «Lo stato guarda allo sviluppo dell’insediamento ebraico come un valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere la sua realizzazione e consolidamento».
Quale sarà il posto della minoranza araba, cioè di quei palestinesi che nel 1947/48 non fuggirono o non furono cacciati quando nacque lo stato d’Israele? Una minoranza cospicua: più di un milione e 600 mila musulmani e cristiani, il 20,7% della popolazione d’Israele. Alla Knesset ci sono più deputati arabi di quanti ne abbia il parlamento della Giordania, dove i palestinesi sono più del 60%. Ma rispetto agli ebrei, gli arabo-israeliani restano cittadini di seconda categoria sotto tutti gli aspetti politici, sociali ed economici. Inoltre la legge non indica quali siano i confini dello Stato degli ebrei: fino a che non nasce anche uno Stato dei palestinesi, Israele non avrà frontiere orientali certe. Il punto che riguarda l’«incoraggiare l’insediamento degli ebrei» solleva molte preoccupazioni riguardo al moltiplicarsi delle colonie ebraiche in Cisgiordania, i territori palestinesi occupati da 50 anni.
Se la legge sullo stato-nazione sembra non essere solo onomatopeica ma qualcosa di peggio, le cose potevano essere anche peggiori. Nel corso del dibattito era stato proposto di limitare i poteri della Corte suprema, costringendola a far prevalere la natura ebraica sopra quella democratica dello Stato (l’idea era della ministra della Giustizia). Inoltre si voleva legalizzare la segregazione nazionale o religiosa delle minoranze. Il pericolo non è scampato: chi proponeva clausole così liberticide è sempre al governo.

Repubblica 20.7.18
Intervista a Sayed  Kashua
"Umiliati gli arabi ora sono più discriminati"
di Anna Lombardi


NEW YORK «La legge su Israele Stato-Nazione significa che per questo governo il multiculturalismo non è più nemmeno un’opzione. E su questo Benjamin Netanyahu e i suoi compari sono molto più razzisti del resto della popolazione israeliana». Sayed Kashua, 43 anni, è lo scrittore arabo-israeliano autore, fra gli altri di romanzi come "Arabi danzanti" e "Ultimi dispacci di vita palestinese in Israele". Da tempo vive a St. Louis, negli Stati Uniti.
Ma a Repubblica risponde al telefono dalla casa dei suoi genitori a Tira, città araba nel cuore di Israele, dov’è in vacanza.
La legge stabilisce che Israele è "patria storica del popolo
ebraico" e solo gli ebrei "hanno il diritto dell’autodeterminazione"
«Netanyahu lo ha definito un passaggio storico. Io lo trovo solo un momento molto triste. Per gli arabi palestinesi la realtà è sempre più frustrante. Non che le cose ora cambino molto: la discriminazione c’era anche prima. Ma farne una legge è un segno, un simbolo funesto. Significa negare che esista un altro popolo, un’altra cultura che ha sua lingua, le sue tradizioni. Per i palestinesi la vita è già pessima.
Bisogna solo capire quanto può essere peggio di così».
Che cosa teme?
«Alla radio poco fa alcuni membri di ultra destra della Knesset dicevano che ora gli arabi non potranno più vivere in Israele, che non sono cittadini. Non credo che sia questo che effettivamente dice la legge: ma di sicuro è questo tipo di sentimenti che innesca. La democrazia qui come altrove interessa sempre meno. E il governo, che sa di avere le spalle coperte, si spinge ad azioni sempre più sfacciate».
È l’America di Donald Trump a far sentire Netanyahu così sicuro?
«Donald Trump, certo. Ma anche i Kushner, l’intera famiglia. Però non è solo l’America a permetterglielo: ci sono anche molti Paesi del mondo arabo, Arabia Saudita ed Egitto in testa. Anche loro sono responsabili dei comportamenti vergognosi del governo israeliano e della politica razzista verso i palestinesi. Non parlo dell’occupazione dei territori. Ma del fatto di volere scrivere nero su bianco che anche i palestinesi che sono cittadini israeliani non vanno trattati come pari. È già così ma per la prima volta pensano che sia importante mostrarlo a tutti. I palestinesi non esistono».
Finora c’era più tolleranza nei confronti degli arabi israeliani?
«Rientro ora da una passeggiata a Gerusalemme: e quel che ho visto camminando per le strade è che è vero che la gente convive. Non in pace. Non da eguali: ma convive. Il governo spinge perché anche questo finisca. Preme per una svolta sempre più discriminatoria. E questa è la cosa peggiore».
E ora che cosa accadrà?
«Nessuno sa quali saranno realmente gli effetti di questa legge. Ma semmai ce ne fosse bisogno, spezza ulteriormente le illusioni di chi ancora sogna di poter vivere in pace qui. Io me ne sono andato con la mia famiglia proprio per questo.
Non c’è nessun futuro in un Paese che ti umilia, non ti fa sentire il benvenuto, non ti fa mai sentire uguale».

Il Sole 20.7.18
La Commissione Ue
Migranti, Bruxelles contro l’Ungheria alla Corte di Giustizia
Budapest sotto accusa sulle richieste d’asilo e sulle norme «Stop-Soros»
di Beda Romano


Bruxelles. Fino a che punto potranno peggiorare i rapporti tra Bruxelles e Budapest? La Commissione europea ha annunciato ieri il deferimento dell’Ungheria dinanzi alla Corte europea di Giustizia per via del modo in cui il Paese sta trattando i richiedenti asilo sul proprio territorio. Nel contempo, Bruxelles ha inviato sempre al governo ungherese una lettera di messa in mora sulla scia dell’adozione di una recente legge che prevede sanzioni penali contro organizzazioni umanitarie che aiutano migranti.
Il deferimento dinanzi alla magistratura comunitaria giunge dopo l’apertura nel dicembre 2015 di una procedura di infrazione. Tra le altre cose, la Commissione europea rimprovera al governo Orbán di trattenere i richiedenti asilo in un centro di transito per un periodo superiore alle quattro settimane previste dalle norme europee. Per di più, Budapest è accusata di non offrire ai migranti che lo richiedono procedure di richiesta d’asilo, nei fatti repingendoli al confine. Una eventuale condanna dell’Ungheria si tradurrebbe in sanzioni finanziarie.
Secondo Bruxelles, l’Ungheria violerebbe le regole anche per quanto riguarda i ritorni in patria dei migranti. Questi non verrebbero effettuati in modo individuale, ma in gruppo, lasciando immaginare che non siano ritorni ma respingimenti alla frontiera. Proprio questa settimana Budapest si è ritirata da un Patto mondiale sulle Migrazioni, voluto dalle Nazioni Unite e tutto dedicato alla cooperazione internazionale, definendolo «pericoloso per il mondo e per l’Ungheria».
Sempre ieri, la Commissione europea ha inviato a Budapest una lettera di messa in mora per via di una nuova legge che vieta alle organizzazioni umanitarie di aiutare migranti giunti in Ungheria. La legislazione è chiamata comunemente Legge Stop Soros, perché colpisce in particolare enti finanziati da George Soros, il finanziere americano di origine ungherese. Secondo Bruxelles, la legge viola le regole sul diritto d’asilo, restringendo le ragioni per accordare tale diritto. Budapest ha due mesi per rispondere alla missiva.
Le scelte dell’esecutivo comunitario giungono in un contesto sempre difficile per i rapporti tra Bruxelles e alcune capitali dell’Est Europa. Molti Paesi della regione si sono rifiutati a partecipare al processo di ricollocamento dei richiedenti asilo arrivati in Italia e in Grecia. C’è di più. Ungheria e Polonia sono ormai ritenute democrazie illiberali, guidate da governi nazionalisti. Victor Orbán è stato confermato primo ministro ungherese dopo aver vinto le elezioni legislative di aprile.
Ieri in visita in Israele, il premier ha detto che nel suo Paese vi è «tolleranza zero» per quanto riguarda l’antisemitismo. Vi è stato di recente un riavvicinamento tra alcuni Paesi dell’Est Europa e Israele sulla scia di un nazionalismo comune, tanto che in dicembre Budapest si è astenuta su una dichiarazione delle Nazioni Unite di critica degli Stati Uniti per il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale israeliana. Ciò detto, sempre ieri il presidente israeliano Reuven Rivlin ha messo in guardia Victor Orbán contro «il neo-fascismo».

Corriere 20.7.18
Storia e inganni
La nazione ha ancora un senso
di Ernesto Galli della Loggia


L’Unione Europea è visibilmente in crisi, non riesce a fare alcun passo avanti in quanto soggetto politico (anzi negli ultimi tempi ne ha fatto parecchi indietro), ma l’ideologia europeista almeno un successo importante può continuare comunque a vantarlo. Essere riuscita a delegittimare alla radice la dimensione della nazione in generale. Essere riuscita a farla passare come responsabile di tutte le sciagure novecentesche e come il ricettacolo delle più inquietanti ambiguità ideologiche, tipo quelle messe in circolazione da Matteo Salvini con il suo sciovinismo xenofobo a base di «prima gli italiani» e «padroni in casa nostra». Il risultato è che in pochi Paesi come l’Italia ogni riferimento alla nazione appare, ormai, come il potenziale preludio di una deriva sovranista, di una dichiarazione di guerra antieuropea, come sinonimo di sopraffazione nazionalistica. Non abbiamo forse sentito ripetere fino alla nausea, ad esempio, e dalle cattedre più alte, che gli Stati nazionali significano inevitabilmente la guerra? Come se gli esseri umani avessero dovuto aspettare la Marsigliese, il Kaiser o Mussolini per trovare il motivo di scannarsi. Come se prima dell’esistenza dei suddetti Stati nazionali di guerre non ce ne fossero mai state, e come se i Romani, l’impero turco, gli Aztechi, gli Arabi dell’epoca di Maometto o mille altri non avessero tutti coperto di stragi e di morti ammazzati il proprio cammino nella storia.
Naturalmente l’ostracismo comminato alla nazione ha avuto effetto non tanto sulla gente qualunque, sulla maggioranza dell’opinione pubblica quanto nei confronti delle élites, della classe dirigente. Anche perché l’Italia, si sa, non è la Francia. Da noi la cultura della nazione era già stata messa abbastanza nell’angolo dalla storia: non per nulla la Repubblica, nata e vissuta con l’obbligo di differenziarsi dal fascismo specialmente su questo punto, ha intrattenuto a lungo un rapporto per così dire minimalista con la nazione. Come del resto le sue maggiori culture politiche fondatrici (quella cattolica e quella comunista), il cui sfondo ideologico non aveva certo molto a che fare con la nazione.
Cresciuto per decenni in questa atmosfera, l’establishment italiano — in prima fila l’establishment culturale — si è dunque trovato prontissimo, dopo la fine della Dc e del Pci, a gettarsi nell’infatuazione europeistica più acritica. Trovandovi nuovo alimento non solo alla propria antica indifferenza, al suo disinteresse nei confronti di una dimensione nazionale giudicata ormai una sorta di inutile ectoplasma, ma per spingersi addirittura fino alla rinuncia della sovranità in ambiti delicatissimi come la formazione delle leggi. Mi domando ad esempio quante altre Costituzioni europee siano state modificate come lo è stata quella italiana nel 2001 con la nuova versione dell’articolo 117, che sottomette la potestà legislativa al rispetto, oltre che come ovvio della Costituzione stessa, anche «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario». (Sulla stessa linea, pur nella sua evidente vacuità prescrittiva, anche il primo comma aggiunto nel 2012 all’art. 97, secondo il quale «le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»).
È accaduto così, attraverso queste vie e mille altre, che il tema della nazione sia stato pian piano regalato a chi, manipolandolo ed estremizzandolo, combinandolo con i cascami del populismo, se ne è sempre più servito per i propri scopi agitatori. Espulsa dalla cultura ufficiale del Paese, tenuta in non cale dal circuito della formazione scolastica, non più elemento vivo costitutivo del modo d’essere e di pensare della classe dirigente, la nazione (o meglio la sua caricatura) è fatalmente divenuta patrimonio e strumento di una parte. La quale non ci ha messo molto ad accorgersi della sua capacità di aggregare, di commuovere, e anche di illudere, d’ingannare, se del caso di trascinare alla più vile prepotenza.
Cioè di trasformarsi in nazionalismo, appunto. Ma di chi la colpa principale mi chiedo, se non di coloro che, pur potendo e sapendo, per cecità ideologica hanno omesso di ricordare che cosa ha veramente rappresentato l’idea di nazione? Di illustrare e di far valere nella discussione pubblica la reale portata storica, le innumerevoli conseguenze positive di quell’idea?
Senza la quale, tanto per dirne qualcuna, non ci sarebbero stati il liberalismo e la democrazia moderna, la libertà religiosa, le folle di esclusi e di miserabili trasformate in cittadini, le elezioni a suffragio universale. Senza la quale non ci sarebbe stata la scuola obbligatoria e l’alfabetizzazione di massa, il Welfare e la sanità pubblica, e poi la rottura di mille gerarchie pietrificate, di tante esclusioni corporative. Senza la quale infine — scusate se è poco — non ci sarebbe stata neppure l’Italia. Cioè questo Stato scalcagnato e pieno di magagne grazie al quale, bene o male, però, nel giro di tre o quattro generazioni (una goccia nel mare della storia) un popolo di decine di milioni di persone ha visto la propria vita migliorare, cambiare come dalla notte al giorno, in una misura che non avrebbe mai osato sperare prima.
All’inganno nazionalistico che incalza e che cresce non vale opporre la speranza sbiadita e senza voce, il disegno dai contorni tuttora imprecisi e imprecisabili, del progetto europeistico. Va opposta prima di ogni altra cosa, in tutta la sua forza storica, la cultura della nazione democratica. Che più volte — ricordiamo anche questo — ha dimostrato anche di sapere aprirsi al mondo superando i confini della propria patria con la sua carica emancipatrice volta all’umanità.

Corriere 20.7.18
«Parlo come padre» Così il leader della Lega allontana da sé lo spettro dell’insensibilità
Se il papà (narcisista) cerca nei figli la celebrità
di Pierluigi Battista


Così assenti, fragili, evanescenti, ora i padri sgomitano per avere un posto, per sentirsi protagonisti, per giocare un ruolo fondamentale. «Mi usi come un palcoscenico», dice al padre la parlamentare leghista e sottosegretaria alla Cultura del governo giallo-verde Lucia Borgonzoni. Il padre, che bisogno aveva di sgomitare per mettersi in vista sulle spalle della figlia, dichiarare al mondo che lui è di sinistra e che con la figlia della Lega la distanza è totale. Anziché indossare i panni dell’uomo saggio, il padre insicuro e smanioso di notorietà usa la figlia come bersaglio nel palcoscenico della politica. Tutto il contrario dello schema della tragedia classica: lì sono i figli che ripudiano il padre, il parricidio simbolico diventa il momento della crescita al fuoco di un conflitto doloroso. Nel disconoscimento del padre Jean-Marie, Marine Le Pen ha almeno segnato la tappa di un’emancipazione. Con l’espulsione dal Front National del suo fondatore e padre-padrone, la figlia ha marcato la sua autonomia, difficile non riconoscerglielo, anche nel dissenso più radicale dalle sue posizioni. Ma il padre che recrimina con la figlia, che costruisce una sua immagine a scapito di quella della figlia, questa scena non si sa bene cosa sia, certamente non è una tragedia. Certamente una cosa più dozzinale.
Questi padri assenti e insicuri, che rivendicano un ruolo ingombrante degli affari della politica. Per Matteo Salvini il riferimento al suo cuore di padre è diventato un refrain ogni volta che un barcone, una scialuppa, una nave carica di migranti disperati, rischia di inabissarsi nei gorghi della crudeltà. «Parlo come padre», dice lui allontanando lo spettro dell’anaffettività, dell’insensibilità ai drammi della vita e della morte. Parla come padre, dice lui, per regalare vigore emozionale a una battaglia politica che può sembrare spietata. Ma sarebbe il caso che i figli li lasciasse tranquilli da parte, Matteo Salvini, senza farne arma di propaganda, ricatto del cuore, emotività insincera. Sarebbe il caso che i padri, tutti i padri, così distanti, così narcisisticamente aggrappati alla loro figura pubblica, non estraessero a piacimento dal taschino che custodisce le emozioni private l’immagine solitamente sacrificata dei loro figli, perché così, almeno, i papà e le mamme che vedono e ascoltano, alla fine si commuovono pure. «Giuro sulla testa dei miei figli», ripeteva spesso Silvio Berlusconi di fronte a qualche offensiva giudiziaria che lo stava colpendo: ma no, la testa dei figli giocata come pegno della propria sincerità, meglio di no, se proprio bisogna giurare su un a testa, non è meglio, e più leale, giurare sulla propria, casomai? E anche Matteo Renzi che in piena campagna elettorale, quando tutti i sondaggi lo davano in caduta libera, disse: «Ai ragazzi come i miei figli voglio spiegare perché facciamo politica: stiamo combattendo per voi». Ma davvero? È davvero per questo che l’ex leader aveva scelto di fare politica, per i figli?
Forse sarebbe il caso, inoltre, che i padri tornassero nella loro nicchia marginale in cui la società e la cultura li hanno relegati. Come il padre fascistissimo di Alessandro Di Battista che non risparmia energie nella sua nuova veste di esternatore compulsivo sulle spalle del figlio più noto, tutto un vortice di insulti, ammonimenti, invettive, dichiarazioni minacciose per poi vedere i titoli dei giornali che recitano sempre: «Il padre di Di Battista». Non il nome di un cittadino qualunque con una sua autonomia, ma un attore che nel cast della politica incarna il ruolo del padre intemperante. Così poco padre, così lontano dal padre dolente e spossessato come è stato Re Lear. Un padre bizzoso che merita attenzione mediatica per il solo fatto di aver dato i natali a un politico decisamente più noto di lui. E mentre si ci lamenta senza sosta dell’eclissi del padre, del padre autorevole, del padre che instrada i figli sulla strada dei valori e dei modelli di comportamento giusti, si fa spazio la figura del padre ingombrante e affamato di celebrità (un quarto d’ora, come suggeriva Andy Warhol, o anche meno, se proprio ci si deve accontentare). Del padre che vuole schiacciare i figli che se ne vanno e prendono una strada diversa dalla propria. Dalla sindrome del nido vuoto, quando i figli se ne vanno da casa, a quella del vuoto esistenziale, da riempire con l’imitazione del padre. Quello vero, non quello da palcoscenico.

Repubblica 20.7.18
Salvini querela Saviano. Da ministro
Quattro pagine su carta intestata del Viminale: “Non mi può dare del mafioso”. L’autore di Gomorra lo aveva accusato: “Minaccia di togliermi la scorta per ritorsione”. La reazione di Pd e Leu: “Attacco incredibile”
di Dario Del Porto


Napoli A ventisei anni esatti dalla strage di mafia in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino, il ministro dell’Interno vuole portare in tribunale lo scrittore anticamorra costretto a vivere sotto scorta per le minacce dei boss. È proprio questo, l’ultimo atto dello scontro a distanza fra il leader leghista Matteo Salvini, oggi al Viminale, e Roberto Saviano, l’autore del best seller “ Gomorra”, conosciuto in tutto il mondo per il suo impegno civile contro la criminalità organizzata.
«Ho querelato Saviano, come promesso. Accetto ogni critica, ma non permetto a nessuno di dire che io aiuto la mafia, una merda che combatto con tutte le mie forze, o di dire che sono felice se muore un bambino. Quando è troppo, è troppo», scrive Salvini su twitter, chiudendo il messaggio con l’emoji che lancia un cuore con un bacio. Saviano gli risponde su Facebook: « Tocca agli uomini di buona volontà prendersi per mano e resistere all’avanzata dell’autoritarismo, anche di quello che, per fare più paura, usa la carta intestata di un ministero, impegnando l’intero governo contro uno scrittore. E sono sicuro che in questo “ governo del non cambiamento” nessuno fiaterà, aggrappati come sono tutti al potere. Io non ho paura » . Nella querela per diffamazione a mezzo stampa, quattro pagine su carta intestata del Viminale, Salvini contesta allo scrittore «affermazioni lesive dell’onore e della reputazione del sottoscritto e del ministero dell’Interno » contenute in un post apparso su Facebook il 21 giugno nel quale, secondo il leader leghista, « viene adombrata l’ipotesi - da parte del Saviano - che gli venga tolta la scorta quale motivo di ritorsione politica e che ciò costituisca una minaccia da parte di chi viene definito “... ministro della malavita...”, che userebbe “...parole da mafioso..”. Saviano accosta la mia attività paragonandola a quella della mafia » , accusa il ministro.
Salvini fa riferimento poi a un post del successivo 25 giugno e ad un’intervista rilasciata al Suddeutsche Zeitung, in cui lo scrittore «adombra uno “...scandaloso patto di non aggressione tra ’ndrangheta e ministero dell’Interno italiano...». Per il ministro, « si è al di fuori di qualsivoglia esercizio lecito del diritto di critica » . I magistrati valuteranno. Il caso politico però è già esploso. Dario Parrini, senatore del Pd, definisce « intimidatoria e grave» la querela di Salvini, mentre il coordinatore nazionale di Mdp, Roberto Speranza, considera «incredibile che il ministro degli Interni quereli un intellettuale simbolo della lotta alla camorra come Roberto Saviano » . E dai social, lo scontro sta per trasferirsi in tribunale.

Repubblica 20.7.18
L’agenzia del rancore
Il Viminale è il cuore del Paese e il custode della sicurezza di ogni cittadino Salvini l’ha fatto diventare il suo braccio armato. L’avamposto della sua guerra ideologica. Adesso, con la querela a Saviano, anche contro un intellettuale
di Massimo Giannini


Mancava solo questo al campionario degli orrori del leader sovranista, che ha trasformato il Viminale in un’Agenzia del Rancore. La querela su carta intestata del ministro dell’Interno. Un atto ostile non contro un cittadino qualsiasi, che sarebbe comunque un’anomalia gravissima. Ma contro Roberto Saviano, cioè uno scrittore che, qualunque giudizio si dia di lui e dei suoi libri, è il simbolo della lotta alle mafie e alla criminalità organizzata. Matteo Salvini è riuscito a forzare e a storpiare le regole fino a questo punto. Confermando una volta di più quello che è ormai chiaro dal primo giugno, cioè dal giorno del giuramento di questo sedicente “governo del cambiamento”.
È lui, il ministro della Paura, l’uomo del quale bisogna avere paura. Ed è lui che, entrato al dicastero con la faccia feroce del capo- bastone, ne ha irrimediabilmente mutato natura e funzione. Il Viminale è il cuore dello Stato. “Custode” della sicurezza del Paese. Istituzione nella quale ogni cittadino deve potersi riconoscere al di là di ogni colore politico e dalla quale deve sentirsi comunque garantito, tutelato, protetto. Salvini l’ha fatto diventare il suo braccio armato. L’avamposto delle sua guerra ideologica. Contro i migranti e contro le Ong, contro Merkel e contro Macron, contro i tecnocrati e contro i banchieri. E adesso, con la querela a Saviano, anche contro un intellettuale che ha l’unico torto di gridare la sua verità a questa Italia intorpidita e ammaliata dal pifferaio magico in cravatta verde.
Un ministro dell’Interno avrebbe un solo, irrinunciabile dovere: difendere con ogni mezzo il cittadino che ha scoperchiato Gomorra ed è diventato per questo una “vittima” potenziale dei clan. E invece Salvini fa l’opposto. Non solo non difende quel cittadino che vive da 12 anni blindato. Non solo lo minaccia di togliergli la scorta e lo espone a colpi di tweet all’esecrazione pubblica su quella “ tavola calda per antropofagi” che è ormai diventata la Rete. Ma diventa il suo carnefice, chiamandolo, in nome dell’intero governo della Repubblica, a rispondere davanti a un tribunale dei suoi giudizi politici. Così il ministro dell’Interno, depositario dello Stato di diritto, diventa il tenutario dello Stato di eccezione. Un passo inquietante verso la Russia di Putin o la Turchia di Erdogan.
È vero, Saviano ha formulato giudizi durissimi nei confronti di Salvini. L’ha chiamato “ministro della malavita”. E non si può pretendere che il capataz leghista, cresciuto e allevato nelle scuole padane, apprezzi Gaetano Salvemini e il significato con il quale il grande storico italiano usò quella definizione nei confronti di Giolitti. Ma il merito della controversia, a questo punto, non c’entra. Quello che c’entra è invece la qualità della nostra democrazia, sempre più esposta e fragile di fronte al dilagare della cultura dell’intolleranza, all’insofferenza verso il dissenso. Ovunque si annidi. Non solo in un libro, in un articolo di giornale, in un post su Facebook. Ma persino nei documenti ufficiali degli apparati e degli organismi pubblici e para-pubblici. Nelle stesse ore in cui Huffington Post rendeva nota la querela contro Saviano su carta intestata del Viminale, davanti alla Commissione parlamentare Tito Boeri denunciava un corto circuito politico- istituzionale altrettanto grave. Anche il presidente dell’Inps ( per le sue critiche sulla xenofobia che danneggia la demografia, sull’abolizione della legge Fornero e infine sugli effetti del decreto dignità) è finito da tempo nel mirino di Salvini. E per questo ha ricevuto lettere di insulti e messaggi di morte. « Non posso accettare minacce da parte di chi dovrebbe presiedere alla mia sicurezza personale», ha risposto. Vale per Boeri, vale per Saviano, vale per tutti gli italiani.
Un governo che chiama uno scrittore sul banco degli imputati. Quello che sgomenta davvero, di fronte alle tante e sempre più intollerabili nefandezze pronunciate e compiute da Salvini, è il silenzio del premier Conte e del vicepremier Di Maio. Un silenzio assordante. Un silenzio complice. Un’acquiescenza da anni Trenta. Un’ignavia da “spirito di Monaco”. L’anticamera di una “democratura” non più occidentale.

Repubblica 20.7.18
Intervista
Lo scrittore
“Perseguiteranno chi dissente. Reagiamo insieme”
di Goffredo De Marchis


ROMA Salvini dice che la querela da ministro perché le sue affermazioni sui legami tra la Lega e ’ndrangheta danneggiano l’istituzione. È un motivo accettabile?
«Dei rapporti Lega-‘ndrangheta non parlo io ma la magistratura che ha dimostrato la presenza di ‘ndranghetisti ai comizi di Salvini; che Vincenzo Giuffrè, l’uomo come ha raccontato l’Espresso che ha determinato l’exploit di Salvini a Rosarno, è stato in società con nomi dei clan Pesce e Bellocco. Ma di cosa stiamo parlando? Il tentativo di Salvini è uno solo: affermare con forza “il governo sono io”».
Il livello dello scontro si è alzato dopo la battuttacia del ministro sulla sua scorta. Lei l’ha definito ministro della malavita.
Siete andati troppo sul personale?
«Ho sempre criticato e criticherò sempre le idee politiche di Salvini Chi ha interesse a metterla sul piano personale è lui. Sennò che senso avrebbe mettere baci, faccine, carezze, riferimenti all’essere padre come se stesse in una chat di whatsapp. Fa gesti autoritari poi cerca di condirli con il sorriso. Un modo di fare mellifluo che diventa ancora più violento e tenta di linciare sulla pubblica piazza dei social chi non la pensa come lui».
L’uso della carta intestata del ministero è una mossa autoritaria?
«Serve a dire che il governo del cambiamento non tollera il dissenso e il dissenso sarà oggetto di persecuzione».
I toni si sono alzati un po’ troppo da tutte e due le parti?
«Il linguaggio di Salvini è di per sé una discesa agli inferi. Quando dice parlo da padre, ad esempio, lo fa con spietatezza e crudeltà cercando di lavare la coscienza a tutti i suoi elettori e anche agli elettori 5S».
Continuerà a definirlo ministro dela malavita?
«Assolutamente sì».
Crede ci sia bisogno di una reazione collettiva contro il governo, contro la Lega?
«Una reazione collettiva non serve per difendere me. Saviano è la persona da colpire per educare tutti gli altri. Questo è un messaggio a tutti gli intellettuali che non stanno tra l’altro prendendo posizione con poche eccezioni. Se artisti, scrittori, intellettuali tacciono è perché hanno paura dei picchetti social, delle allusioni sui loro beni, sulle loro proprietà. Ma oggi è sotto attacco lo stato di diritto. Prima i migranti, poi i rom, poi verrà il turno della libertà di espressione.
Le libertà sono cose che interessano solo le élite: questo è il messaggio che si vuol far passare. Al popolo che gliene importa? È quello che sta accadendo in Turchia con Erdogan. Può capitare anche da noi».
Vede un’opposizione che reagisce o come dicono i sondaggi si avverte solo la sua assenza?
«Se è vero che il Pd ha invitato Luigi Di Maio, l’inventore della formula “taxi del mare”, penso che di sinistra riformista in questo paese possiamo parlare tranquillamente al passato. Bisogna ricostruire tempo e orgoglio, non battere in ritirata, boicottare le loro menzogne senza paura di essere accusati o di vedere la propria vita messa nelle mani degli haters. È un lavoro da fare lentamente senza scorciatoie. Il passato si è polverizzato ma non i valori per cui battersi. Ci vuole l’orgoglio non di vincere ma di convincere, recuperando tutte le forze che sono state messe ai margini dalla sinistra italiana. Chi non ne può più delle menzogne perenni deve smentirle dappertutto: a tavola, sui social, in ufficio, in autobus, in palestra. Si può ancora ricostruire qualcosa oltre il livore, contro il governo del risentimento che ha solo bisogno di bersagli».
Come si spiega la sottomissione dei 5stelle alle politiche della Lega? C’è un tratto razzista anche in loro?
«I 5 stelle si sono piazzati al potere, lo hanno fatto le loro classi dirigenti, e non hanno alcuna intenzione di mollarlo. Anni per mostrarsi diversi dagli altri, giorni per diventare identici. Alleati di un’organizzazione politica che ha rubato, come dimostra l’inchiesta sui 49 milioni. Eppoi quando ascolto Toninelli tutta questa differenza con la Lega non la colgo».

La Stampa 20.7.18
Zuckerberg choc
“Non cancellerò post che negano l’Olocausto”
di Paolo Mastrolilli


Mark Zuckeberg di nuovo nella bufera, stavolta per l’Olocausto. Il fondatore di Facebook ha detto che non intende cancellare dal suo social network i negatori della strage degli ebrei, perché anche se non comprendono bene cosa sia successo, non lo fanno intenzionalmente. Con questo, oltre a provocare critiche per il tema scelto allo scopo di spiegare la sua posizione, ha dimostrato anche la leggerezza con cui Facebook considera il problema delle fake news e delle informazioni false, diffuse allo scopo di dividere e provocare reazioni sbagliate.
L’incidente è nato da un’intervista col sito Recode, durante la quale Kara Swisher gli ha chiesto perché il suo social network non bandisce utenti come InfoWars, che ha sempre negato la strage dei bambini avvenuta nella scuola di Sandy Hook, perché la considerava un trucco usato per spingere la gente a chiedere di limitare la vendita di armi. «Io - è stata la risposta di Zuckerberg - sono ebreo, e ci sono persone che negano che l’Olocausto sia avvenuto. Trovo queste posizioni profondamente offensive. Ma alla fine dei conti, non credo che la nostra piattaforma dovrebbe cancellarle, perché ritengo ci siano cose che persone differenti posso prendere in maniera sbagliata. Io non penso che sbaglino in maniera intenzionale. Tutti sbagliano qualcosa, e se eliminassimo gli account quando qualcuno capisce male alcune cose, diventerebbe un mondo difficile dove dare una voce alla gente e sostenere che ci tieni». La polemica è scoppiata immediatamente, ed è diventata così intensa che il giorno dopo Zuckerberg è stato costretto a pubblicare una rettifica: «Io personalmente trovo le negazioni dell’Olocausto profondamente offensive, e assolutamente non intendevo difendere le intenzioni delle persone che lo negano».
Il punto però non è questo. È ovvio che Mark ha sbagliato, perché in genere chi nega l’Olocausto non lo fa commettendo un errore in buona fede, ma con la precisa volontà di cancellare quella tragedia per ragioni politiche o razziali. Il problema più generale è che Zuckerberg non riesce ad accettare la responsabilità di Facebook per le opinioni a cui offre una piattaforma, come dovrebbe fare ad esempio un giornale. Non riconosce di essere un editore, ma si considera solo uno strumento. E fino a quando non cambierà questa opinione, con le relative iniziative da prendere per garantire l’appropriatezza dei contenuti pubblicati, i suoi guai continueranno.

il manifesto 20.7.18
Lo stato di emergenza è finito ma in Turchia la normalità non torna
Turchia. Era una promessa di Erdogan, uscito ancora più rafforzato dai nuovi emendamenti alla legge «antiterrorismo»
di Dimitri Bettoni


Istanbul 21 luglio 2016 in cui venne dichiarato in seguito al tentato golpe del 15 luglio. Ma gli abusi commessi dalle autorità non troveranno rimedio, anche perché il governo introduce nuovi decreti che replicano le disposizioni speciali sino ad oggi in vigore.
L’EMERGENZA FINISCE, ma la normalità non ritorna. Era stata una delle promesse elettorali di Erdogan: se verremo eletti, con questo nuovo sistema presidenziale da noi creato, fine dello stato di emergenza.
Conviene chiedersi cosa sia cambiato dall’ultimo rinnovo, lo scorso 19 aprile, per poter dichiarare finita l’emergenza. I supposti nemici di questo governo sono ancora a piede libero, a cominciare da Fetullah Gulen tutt’ora negli Usa. Bisogna dedurre che l’emergenza finisce perché concluso è il processo di trasformazione dello stato in repubblica presidenziale. Ora che il potere è assicurato, che l’intera macchina statale viene rivoltata come un calzino per ricondurre ogni ministero, dipartimento, organismo di vigilanza all’ufficio della presidenza, cioè ad Erdogan stesso, l’emergenza è finita. Ma a ben pensarci, non del tutto. I nuovi emendamenti alla legge antiterrorismo potenziano le autorità turche, in particolare i ministri e i governatori locali che, va ricordato, sono di nomina presidenziale.
LO FANNO PER ALTRI TRE ANNI, visto che le proroghe di tre mesi in tre mesi dello stato di emergenza erano diventate una scomoda routine. Le nuove modifiche prevedono che un sospettato di reati di terrorismo, crimine organizzato o attentato allo stato possa essere detenuto fino a 12 giorni.
I GOVERNATORI POTRANNO proibire il transito in determinati territori per ragioni di pubblica sicurezza. Potranno inoltre proibire il trasporto di armi e munizioni anche se in presenza di licenza. Il personale militare, di polizia e i dipendenti pubblici che siano ritenuti legati ad organizzazioni considerate una minaccia dal Consiglio nazionale di sicurezza verranno licenziati. Costoro non potranno essere riassunti in incarichi pubblici, anche se un tribunale dovesse ordinare diversamente e, compresi i coniugi, perderanno licenza d’armi e passaporto.
IL GOVERNO SI RISERVA la possibilità di commissariare istituzioni pubbliche e aziende private qualora siano collegabili a reati di terrorismo. Tutti provvedimenti già contenuti nello stato di emergenza e che ora diventano legge. Il ministero degli interni ha dichiarato che in due anni di misure speciali sono state arrestate 20.000 persone per legami con la setta di Gulen: oltre 700 giudici e procuratori, 7.000 soldati, 5.000 poliziotti e 6.500 insegnanti.
TUTTI COLPEVOLI di affiliazione, mentre 4.500 sono accusati di avere avuto un ruolo diretto nel golpe. Ma se allarghiamo il raggio d’accusa e includiamo tutte le accuse di terrorismo, il numero di arresti totale sale a 80.000.
Se includiamo anche le detenzioni temporanee, 228.000 persone sono state fermate tra luglio 2016 e marzo 2018 per la Piattaforma congiunta per i diritti umani (Ihop). La beffa finale arriva se guardiamo alla Costituzione, che prevede che con la fine dello stato di emergenza decadano anche i decreti adottati. Ma il governo ha passato un emendamento per garantirne la futura validità di legge. Non ci sarà possibilità di appellarsi ad un tribunale.
NÉ SI TROVERÀ GIUSTIZIA nella Corte europea dei diritti umani, che ancora attende che i rimedi legali nazionali siano esauriti prima di prendere in esame gli appelli. Merito, o forse colpa, di quella Commissione investigativa per le procedure di emergenza che il governo turco ha varato ad hoc e che, ad oggi, su 108.000 richieste ne ha valutate soltanto 21.500, delle quali soltanto 640 sono state accolte. Le opposizioni protestano, accusano l’Akp di instaurare un regime di emergenza indefinito. «Sono misure ancora più restrittive della legge marziale» ha denunciato Ayhan Bilgen, deputato dell’HDP.
Protesta anche l’Europa, eppure questa è la nuova normalità in Turchia. Una normalità d’emergenza.

Corriere 20.7.18
Se Marx resuscita nella Silicon Valley
di Massimo Gaggi


Sepolto in Europa, Karl Marx resuscita nella Silicon Valley? Ipotesi bizzarra, ma qualche indizio c’è e del resto, in America come in Europa, di cose bizzarre in politica ne stiamo vedendo parecchie, tra colpi di spugna sul concetto di Occidente e il riemergere di movimenti fascisti. Distratti dal ribellismo anti-establishment esploso nella destra americana, abbiamo prestato poca attenzione alle rivolte spuntate lungo la West Coast tra le imprese dell’alta tecnologia. Abbiamo registrato l’incredulità dei dipendenti dopo l’elezione di Trump e il malessere per la scoperta del ruolo involontariamente svolto dai social media. E abbiamo raccontato le tensioni sociali legate alla crescita delle diseguaglianze economiche che hanno scavato fossati profondi a San Francisco e in Silicon Valley tra vincitori e vinti della rivoluzione tecnologica. Fino a una curiosa rinascita dei sindacati, tornati come organizzatori dei lavoratori più deboli: quelli che si occupano di manutenzione, trasporti, alimentazione e sicurezza del personale delle sedi dei giganti di big tech. Poi sono cominciate le crisi di coscienza e i pentimenti di ingegneri e altri dipendenti di queste imprese che hanno preso a interrogarsi sulle implicazioni etiche di quello che stavano facendo soprattutto riguardo al rispetto della privacy dei cittadini-utenti e le interferenze nei loro meccanismi decisionali. Davanti alla scarsa reattività delle imprese, dipendenti fin lì politicamente non impegnati, sono diventati attivisti pronti ad accusare le loro aziende di maschilismo o di connivenza coi militari e le polizie anti-immigrati ai quali cedono il loro software. Questi movimenti, che hanno continuato a moltiplicarsi ovunque, da Google ad Amazon (ora le rivolte a Salesforce e a Microsoft contro la cessione di servizi all’Amministrazione delle frontiere e all’Ice, i cacciatori di clandestini), hanno ancora dimensioni limitate, ma si stanno consolidando sotto l’ombrello ideologico di due organizzazioni: la Tech Workers Coalition e la Dsa (Democratic Socialists of America), come racconta anche la rivista Fast Company. Dentro c’è di tutto, anche la sinistra radicale che vuole eliminare le corporation private sostituendole con società statali o cooperative di dipendenti. Favorita dalla scarsa sensibilità sociale dei capi delle imprese di big tech, la polarizzazione politica che scuote l’America rischia di raggiungere anche le sue aziende più preziose.

Il Sole 20.7.18
Il viaggio Di Xi
Pechino intensifica la campagna d’Africa
di Stefano Carrer


La Via della Seta aiuterà a rafforzare l’influenza economica nella regione
Un lungo viaggio di Xi Jinping in Medio Oriente e Africa - il primo dopo la sua rielezione a presidente nel marzo scorso - segnala l’attivismo della diplomazia economica cinese in aree di crescente importanza strategica per Pechino: le visite del presidente negli Emirati Arabi, e poi in Senegal, Ruanda, Sudafrica e Mauritius (fino al 28 luglio) rientrano negli impegni della Cina verso un rafforzamento della sua influenza regionale, anche con un allargamento dell’offerta di inserimento nell’iniziativa Belt and Road (BRI) per un forte miglioramento delle infrastrutture.
Il viaggio iniziato ieri - parte di una intensificata “campagna d’Africa” che culminerà a inizio settembre a Pechino con il triennale Forum on China-Africa Cooperation - è stato preceduto dall’offerta di oltre 23 miliardi di dollari in prestiti e assistenza ai Paesi arabi e dal summit bilaterale con l’Unione Europea (in cui sono stati firmati una serie di nuovi accordi e ribadita una linea comune anti-protezionistica), oltre che da una inedita polemica con l’Amministrazione Trump.
I ministeri degli esteri e del commercio di Pechino hanno stigmatizzato con parole dure le dichiarazioni del consigliere economico della Casa Bianca, Larry Kudlow, secondo cui sarebbe proprio Xi a sabotare i negoziati in corso per una eventuale intesa che fermi la guerra dei dazi e controdazi in corso, mentre il consigliere economico Liu He sarebbe pronto ai necessari compromessi. Un’accusa a prima vista piuttosto fantasiosa, mentre in concreto spicca il fatto che il segretario al Tesoro Steve Mnuchin non abbia in programma alcun incontro bilaterale con esponenti cinesi al summit dei banchieri centrali e ministri finanziari del G20 a Buenos Aires nel weekend. Nel frattempo, le autorità cinesi lasciano che lo yuan scivoli ai minimi da un anno sul dollaro, con una perdita di oltre il 4% nell’ultimo mese. Certo Xi non sarà l’unico a criticare le recenti politiche commerciali della Casa Bianca al decimo vertice dei Brics (le cinque maggiori economie emergenti: Cina, Brasile, Russia, India e Sudafrica) che si terrà a Johannesburg dal 25 al 27 luglio.
Molti analisti sottolineano che, mentre l’attenzione degli Usa verso l’Africa si concentra su questioni di sicurezza, la Cina continua a rafforzare il suo peso economico, anche a scapito dell’Europa. Il primo viaggio in assoluto di un capo di Stato cinese in Ruanda si profila tra l’altro come come preliminare a un prolungamento della ferrovia Mombasa-Nairobi, già costruita dai cinesi, come perno africano della “Belt and Road”. Il Ruanda intende infatti integrarsi con l’Africa orientale e appare sensibile alle sirene cinesi per diversificare i suoi legami rispetto a quelli con Europa e Usa. L’arrivo di Xi in Senegal, poi, enfatizza il crescente ruolo cinese nell’Africa francofona: c’è chi intravede - e teme - la possibilità che il governo di Pechino voglia promuovere la costruzione di porti sull’Atlantico sotto la sua egida. Significativa anche l’ultima tappa alle Mauritius: l’Oceano Indiano è diventato prioritario per la proiezione internazionale di una Cina che intende stabilire una sua solida presenza sempre più a Ovest, fin verso l’Atlantico.