mercoledì 25 luglio 2018

L’Espresso 23.7.18
Matteo Salvini vuole i crocifissi nei porti
Dopo il Vangelo e il rosario è la volta della croce: è già stata depositata alla Camera la proposta di legge, prima firma la leghista Barbara Saltamartini, per renderne obbligatoria l'esposizione nei luoghi pubblici
di Susanna Turco

qui

Repubblica 24.7.18
Psicoanalisi
Intervista a John Bargh, docente di psicologia a Yale
"Il vero inconscio? Dimenticate Freud"
intervista didi Giuliano Aluffi


Guida le azioni, ci condiziona dal passato e dal futuro E, a differenza di quanto diceva il padre della psicoanalisi, non è solo dannoso. Parola di uno dei più autorevoli psicologi americani
L’autore di "Totem e tabù" ne parlò come di un demone. Ma il problema è che lui costruiva le sue tesi partendo solo da malati psichici per poi generalizzare

L’Io è una navicella che durante la navigazione della vita incontra venti e correnti che ne cambiano la rotta spirando da ogni dove: dal passato, dal presente e perfino dal futuro.
Ma l’essere marinai senza bussola non è un destino segnato, anzi: l’inconscio è molto diverso da quel calderone magmatico descritto da Freud e la scienza può insegnarci a usarlo a nostro vantaggio. O almeno così pensa John Bargh, docente di psicologia a Yale considerato tra i massimi esperti dell’inconscio, nel saggio A tua insaputa. La mente inconscia che guida le nostre azioni (Bollati Boringhieri).
Come può l’inconscio influenzarci dal futuro?
«La nostra mente, così come l’universo per Einstein, esiste simultaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. In ogni momento coesistono in noi i ricordi del passato, la capacità di reagire al presente e la tensione ad anticipare gli eventi per non essere colti alla sprovvista. Queste tre realtà di cui abbiamo coscienza hanno ognuna una controparte carsica, che influenza di nascosto le nostre decisioni e viene alla luce solo negli esperimenti di psicologia. Gli obiettivi per il futuro e le questioni irrisolte continuano a lavorare dentro di noi anche quando pensiamo a tutt’altro. Questo ci aiuta a tenere il timone nella direzione giusta, ma al contempo ci rende più vulnerabili a influenze esterne che tocchino il tasto giusto».
A proposito: le pubblicità subliminali fanno parte del mito o della scienza?
«Nel saggio I persuasori occulti, Vance Packard nel 1957 raccontò che in un cinema del New Jersey la proiezione subliminale della scritta "Drink Coke" durante un film avrebbe indotto gli spettatori ad assediare il chiosco delle bibite. Ma è una leggenda metropolitana, e pare che anche il cinema descritto da Packard non fosse mai esistito.
Gli studi più recenti dicono che i messaggi subliminali possono influenzare i nostri comportamenti, ma solo se già abbiamo un obiettivo (futuro) in mente. Se già siamo assetati, una pubblicità subliminale può condizionare la scelta di una certa bevanda. Ma non può farci venire sete».
E il passato come ci condiziona?
«L’evoluzione ha radicato in noi potenti bisogni — come evitare i pericoli, acquisire risorse, stare al caldo e al riparo — che sono presenti sottotraccia in tutto ciò che facciamo. È interessante lo studio di Inagaki e Eisenberger, che nel 2013 mostrarono come tenere in mano qualcosa di caldo sollecita la stessa parte dell’insula — area cerebrale associata all’emotività e alle sensazioni — che si attiva quando leggiamo messaggi dei nostri cari.
Ho sperimentato che vale anche l’opposto: toccare il ghiaccio sollecita un’altra piccola area dell’insula, la stessa che si attiva anche quando veniamo traditi durante un gioco economico dove un partner può dividere con noi una somma in modo equo o iniquo. Il calore fisico e quello "sociale" si sovrappongono nell’inconscio.
Quando abbiamo chiesto a dei soggetti di valutare la personalità di uno sconosciuto, quelli a cui prima del test, con una scusa, avevamo offerto un bicchiere di caffè caldo hanno poi giudicato la persona come "calorosa e affabile". Forse è un retaggio dell’infanzia: John Bowlby, pioniere degli studi sull’attaccamento, notò come la sensazione fisica del calore sia collegata, nei primi mesi di vita, al sentirsi sicuri. Quando siamo così piccoli non abbiamo tanti modi per valutare gli altri: chi più ci trasmette calore, portandoci in braccio, è un amico. Gli altri di meno».
L’inconscio ci condiziona anche nel presente?
«Quando qualcuno ci imita, se lo fa in modo naturale e non teatralmente, ci fa diventare più ben disposti verso quella persona. È l’effetto camaleonte: favorisce un legame. I camerieri che ripetono a voce l’ordine del cliente mentre lo stanno scrivendo sul blocchetto ricevono più mancia. E, come ha mostrato la psicologa francese Cèline Jacob, i commessi che rispondono ai clienti ripetendo la domanda — ad esempio, "Può aiutarmi a trovare un cellulare?"
"Certo che posso aiutarla a trovare un cellulare" — fanno aumentare le vendite».
Quanto è diversa la sua idea di inconscio da quella di Freud?
«Prima di Freud i comportamenti anormali erano ritenuti colpa degli spiriti maligni che si impossessano di noi. Freud li spiegò con l’inconscio, ma lo caratterizzò come una forza autonoma e per lo più dannosa, reintroducendo una sorta di "demone" all’interno della nostra testa. Il problema è che Freud costruiva le sue tesi sull’inconscio partendo da malati psichici, per poi generalizzarle a tutti. Ancora oggi la cultura popolare ne risente: nel film Inside Out della Pixar l’inconscio è una stanza buia usata per rinchiudere le emozioni negative.
Gli studi recenti su soggetti sani, invece, ci indicano che l’inconscio non è né segregato — infatti usa le stesse aree cerebrali usate dalla mente conscia — né distruttivo: se ha superato la selezione naturale, qualche vantaggio deve darcelo.
Possiamo aumentare il nostro autocontrollo quanto più scarichiamo su meccanismi inconsci il carico di lavoro mentale.
È più facile rispettare diete e vincere la pigrizia se ci affidiamo al "pilota automatico" dell’inconscio.
Basta costruirsi un quadro preciso di ciò che si vuole fare: "Correrò lunedì, alle 13, nel parco sotto casa, con questa tuta blu ": più dettagliato è l’impegno, più sarà automatico, grazie anche all’inconscio, compiere l’azione una volta che ci troviamo in quel contesto».

Repubblica 24.7.18
Salvini e Di Maio. Il resto è un deserto
di Stefano Folli


Il sondaggio Ipsos di Pagnoncelli pubblicato ieri dal Corriere dimostra che i due soci della maggioranza giallo-verde, Salvini e Di Maio, non hanno perso contatto con l’opinione pubblica. Anzi. Nonostante le tragedie del mare e le aspre polemiche sulla spinta a destra della coalizione (sui temi cari alla Lega), il consenso complessivo al duopolio supera il 62 per cento, con lieve prevalenza dei Cinque Stelle (31,5 contro 31). È un dato imponente che colpisce in quanto certifica la trasformazione in atto dell’assetto politico: un movimento nato cinque anni fa, il M5S, e un partito ricostruito dalle fondamenta da Salvini su base nazionalista, esercitano una sorta di egemonia senza contrasti in un paese che ha o aveva fino a ieri tutt’altre tradizioni politiche e culturali.
Questa forza elettorale per ora risulta ancora in fase espansiva, ossia non conosce la crisi imposta di solito dalle responsabilità di governo. In fondo sono quasi due mesi che l’esecutivo Conte ha giurato e non si può certo dire che l’agenda governativa abbia prodotto granché. Eppure, a quanto pare, la luna di miele prosegue, nel senso che una maggioranza non ristretta di italiani si accontenta, soddisfatta che l’impatto con la realtà sia stato posticipato a dopo l’estate, quando verranno al pettine i nodi della legge di bilancio. Fino ad allora prevarrà l’idea, o meglio la vaga impressione, che sia in corso una sorta di "rivoluzione": il cambiamento — non meglio identificato — che punisce il vecchio regime con la simbologia dei vitalizi soppressi. E se qualcuno ha dubbi, ecco Casaleggio che ripropone la prospettiva della "democrazia diretta" — qualunque cosa voglia dire — nella quale dissolvere presto o tardi il Parlamento e con esso l’obsoleta "democrazia rappresentativa".
È fin troppo evidente che l’intervento di Casaleggio (intervista a La Verità), insieme all’eco mediatica del "decreto dignità", serve a rilanciare l’immagine dei Cinque Stelle offuscata per settimane dal dinamismo di Salvini. È un’immagine "di sinistra" o che tale pretende di raffigurarsi. La guerra ai vitalizi come premessa per delegittimare una volta di più il Parlamento (peraltro oggi monopolizzato da un’ampia maggioranza giallo-verde che si preoccupa poco o nulla di farlo funzionare). Il decreto dignità che riassume tutte le contraddizioni di una politica sociale già sperimentata in passato e non certo con successo.
Sforzandosi di tornare alle loro origini, i Cinque Stelle sperano di aver trovato la strada per scrollarsi di dosso l’impronta destrorsa di Salvini.
L’operazione, almeno a breve termine, sembra funzionare, se è vero che il sondaggio Ipsos vede il movimento in recupero rispetto ad altre rilevazioni.
Ciò che conta, tuttavia, è dove Casaleggio e Di Maio prendono i loro voti: nell’area del centrosinistra, dove il Pd scenderebbe al 17 per cento, un inquietante minimo storico. Il che conferma la realtà sotto gli occhi di tutti: quel che resta del Pd non ha alcuna capacità di incidere sulla dinamica politica. Messo ai margini, esso si preoccupa di inseguire i rituali di ieri: un congresso tradizionale da fare con calma, le primarie. Un anziano osservatore come Emanuele Macaluso, che conosce bene la sinistra, è quasi sconvolto da questo processo di autodissoluzione. Ma è un mondo che scompare. Sull’altro versante anche la candela di Forza Italia ormai si sta spegnendo. Fagocitati da Salvini, gli amici di Berlusconi sono ridotti al 7 per cento. L’Italia giallo-verde è di fatto priva di un’opposizione.

Corriere 24.7.18
Pd e Forza Italia nel «deserto» Un Paese senza opposizione?
Per i sondaggi oltre il 60% sostiene i partiti al governo. Una situazione mai vista
di Antonio Polito


«Con questi dirigenti non vinceremo mai». Dov’è finito Nanni Moretti? Avrebbe ancor più ragione oggi, a lanciare l’urlo che scosse il centrosinistra nel 2002. Ma anche lui si è ritirato a vita privata. Ormai del Pd non importa quasi più a nessuno: è un corpo esangue, il renzismo l’ha prosciugato di tutte le sue forze, si è trasfuso tutta la sua linfa vitale. Come negli amori di Ovidio, i democratici non possono più vivere con Renzi, ma neanche senza. Forza Italia sta messa, se possibile, anche peggio. Con quel partito neanche Berlusconi vincerà mai più.
L’ha talmente identificato con se stesso che l’inevitabile declino del suo fascino elettorale sta portando a fondo l’ultimo presidio moderato ed europeista del centrodestra italiano, ridotto alla metà dei consensi in sei mesi.
Ma il deserto delle opposizioni non è solo colpa di chi le guida. È proprio l’acqua che manca. Le due forze che sono al governo, l’una da sinistra e l’altra da destra, stanno infatti captando le sorgenti che nutrivano i partiti tradizionali, lasciandoli senza radici, svuotandoli dei loro elettorati. Basta guardare all’imbarazzo con cui il Pd cerca di contestare il «decreto Dignità» mentre la sua base e metà del gruppo dirigente vorrebbero che lo votasse, per smentire le scelte del governo Renzi, cui viene attribuita la disfatta. Oppure basta ascoltare l’assordante silenzio-assenso con cui Forza Italia, alleata della Merkel nel Partito popolare europeo, assiste alle politiche contro l’immigrazione di Salvini con l’aria di dire a se stessa: ah, se l’avessimo fatto noi.
Così oggi, sommando i ceti medi spaventati dai mercati globali e dalle migrazioni, e i figli dei ceti medi angosciati dalla disoccupazione di massa e dal precariato, Lega e Cinquestelle fanno asso pigliatutto, superando il 60% dei consensi. È un caso senza precedenti nella Seconda repubblica, quando una possibile maggioranza alternativa, in Parlamento e nel Paese, è sempre esistita, anche in momenti drammatici come la crisi del debito nel 2011; oggi invece le due opposizioni sommate arrivano appena a un quarto dei consensi, il che le priva della legittimazione popolare per proporsi come un’alternativa. Una situazione di democrazia bloccata che alla lunga presenta pericoli anche per l’ordine liberale: non a caso Davide Casaleggio s’arrischia ad annunciare che, in un prevedibile futuro, del Parlamento non ci sarà più bisogno.
Anche se i partiti di governo hanno gli italiani dalla loro, non vuol dire però che faranno il bene dell’Italia. La storia ci insegna che la somma degli interessi particolari non dà per forza il totale dell’interesse generale. Non si può escludere perciò che prima o poi (per esempio a novembre, con la legge di Bilancio) la gloriosa macchina da guerra giallo-verde incontri il suo vero e unico nemico: il vincolo esterno, quel limite che non si può superare senza recare un danno grave all’Italia nel suo complesso, e per molti anni a venire. Ogni aumento sostanziale del prezzo che paghiamo sul nostro debito si mangerebbe infatti con gli interessi qualsiasi beneficio fiscale o assistenziale che il governo possa finanziare in deficit: il ministro Tria lo sa bene, ma sa anche che non basterà dirlo per fermare la fame di consenso di Di Maio e Salvini.
Il paradosso della situazione italiana è che le opposizioni non possono nemmeno auspicarsi che questa contraddizione esploda. Per la semplice ragione che, a causa della loro debolezza, non sfocerebbe in una normale crisi di governo, ma piuttosto in una vera e propria crisi di sistema: i due partiti populisti, ancora forti del sostegno dell’opinione pubblica, la scaglierebbero contro le regole europee, contro i mercati, contro i poteri forti e i «mandarini» di Stato che non li lasciano lavorare. Uno scenario che nessuno con la testa sulle spalle si può davvero augurare, perché metterebbe gli italiani contro la storia stessa dell’Italia repubblicana, democratica ed europea, fondata sull’economia sociale di mercato.
Chi abbia a cuore la ricostituzione di una sana dialettica politica, e di una opposizione in grado di incalzare e condizionare il governo, deve dunque sperare che nasca presto qualcosa di nuovo. Qualcosa che possa contrastare i vincitori delle elezioni senza il livore dei perdenti. Qualcuno che non sia così ingenuo da attaccare i nuovi potenti gridando, ad ogni scandaletto o inchiesta giudiziaria: ecco, vedete, sono come gli altri, senza accorgersi che «gli altri» sono loro. Un nuovo movimento politico che sappia mettere l’Italia al primo posto senza dimenticare gli italiani, due terzi dei quali non hanno alcuna voglia di ricominciare da dove i vecchi partiti si sono interrotti.

il manifesto 25.7.18
Come ripartire, «oltre le macerie della sinistra»
Scaffali. «La memoria e la speranza. Oltre le macerie della sinistra» di Andrea Ranieri per Castelvecchi
di Piero Bevilacqua


È assai difficile, di questi tempi, leggere un qualche saggio sulle condizioni della sinistra italiana, senza provare un invincibile senso di noia. E non è una noia leopardiana, foriera di creatività. Non accade con questo breve di testo di Andrea Ranieri, La memoria e la speranza. Oltre le macerie della sinistra, post-fazione di Tomaso Montanari (Castelvecchi, pp. 72, euro 10).
L’INTERESSE A LEGGERE questo scritto nasce da un insieme di ragioni. Intanto, si tratta di una riflessione sulla disfatta di quest’area politica elaborata prima della sconfitta elettorale del 4 marzo, dunque già lucidamente prevista. È davvero curioso osservare come, in questo campo politico, coesistono liberi osservatori forniti di strumenti non usurati di analisi e perciò capaci di anticipare gli eventi, e una élite di praticanti della politica che, nella loro ostinata determinazione a replicare gli errori del passato, perseguono le proprie sconfitte con stupefacente imprevidenza.
MA È POI LA FORMA dello scritto che cattura l’attenzione del lettore, ed è un modulo non solo letterariamente felice, ma oggi forse l’unico politicamente accettabile: una specie di diario di vita. Inizia come racconto di un ragazzo di Sarzana, figlio di un partigiano, che conosce precocemente la passione della politica e che percorre i vari stadi della storia repubblicana del secondo XX secolo, sino ad oggi, sempre immerso nella militanza , dentro il Pci e nelle file del sindacato. È una forma di racconto eticamente accettabile perché, mescolando analisi e vita privata- rappresentativa, tuttavia, di tutta una generazione – Ranieri non si tira fuori dalla mischia come un osservatore esterno.
Al contrario si mette in gioco, si rappresenta parte del mondo in cui si consumano errori, lacerazioni, drammi. È una prospettiva che rende dunque più credibili le sue parole. Ma non sarebbe sufficiente senza la sostanza, la materia costitutiva di tutto lo scritto: la politica qui è raccontata come rapporto con le persone in carne ed ossa, storia della loro vita, lotte, speranze. Una dimensione scomparsa oggi perfino dalla retorica elettorale della sinistra.
INEVITABILMENTE, l’intonazione del testo volge all’amaro della disillusione, ma sempre nella forma della critica sorretta da una visione altra. «Per me il popolo era quello che non andava più a votare, che sentiva le vecchie formule della politica politicante estranea ai problemi della sua vita di ogni giorno, quelli che provavano a cambiarla e quelli che la subivano provando a sopravvivere in condizioni di esistenza disperate. Le persone che sempre più spesso incontravo per strada o in autobus con lo sguardo perso nel vuoto, i migranti che ti chiedevano qualche centesimo per mangiare, e le ragazze povere che si sforzavano di fingere eleganza combinando qualche straccio smesso. E i ragazzi delle infinite precarietà, e gli operai di cui tutti si erano dimenticati quando si era smesso di pensarli come classe».
È UNA POSIZIONE che tenta di rimettere al centro della lotta politica il lavoro, ancora cuore pulsante della società capitalistica, ma fuori dalle prospettive sviluppiste, in grado perciò di guardare all’economia non come un pianeta a parte, ma come macchina che coinvolge e sconvolge gli equilibri del mondo vivente.
Naturalmente il libretto ha un suo interesse per così dire storico, perché attraverso le sue traversie personali Ranieri ricostruisce dall’interno le vicende degli ultimi anni e mesi, dalla grande mobilitazione referendaria all’esito del 4 marzo. E lo fa lumeggiando alcuni passaggi, assai utili per comprendere anche le ragioni della sconfitta elettorale, che passa attraverso il fallimento dell’operazione Brancaccio, tentata da Tomaso Montanari e Anna Falcone. Una ricostruzione che tuttavia assume valore, sia culturale che politico, in quanto il punto di vista che l’ispira è di critica radicale della storia recente della sinistra. Un punto di vista interamente riassumibile nella riflessione che Bruno Trentin, con cui Ranieri collaborò, diede della cultura dei Ds nel 2003: «Una cultura che assume la capacità di adattamento mimetico della politica ai cambiamenti e alle opportunità non solo come una necessità ma come un valore; un indice appunto della sua modernità».
MEMORIA DUNQUE AMARA e disillusa, ma non rassegnata. Perché la sinistra è smembrata e dispersa ma non vinta. Come scrive Montanari, che cita i versi di Franco Marcoaldi: «Una tribù battuta, dispersa, dissanguata dai suoi stessi mille tradimenti: eppure ancora viva per la più elementare delle ragioni. E cioè che, in un mondo sempre più terribilmente ingiusto e diseguale, a qualcuno – a molti – viene ’spontaneo, naturale opporsi ad ogni forma’ di ingiustizia».

Repubblica 25.7.18
L’analisi
La sinistra lanci un grido
di Guido Crainz


È difficile trovare molti precedenti alla sconfitta attuale della sinistra e al senso di impotenza che la attraversa. Al balbettante silenzio del Pd, ostinato solo nel suo interno confliggere e sempre più travolto dai vincitori del 4 marzo. Incapace sin di comprendere il consenso che attorno ad essi sembra consolidarsi.
Segnala processi di lungo periodo, quel consenso. È più facile comprendere l’impavido avanzare di Salvini, saldamente ancorato alla destra profonda del Paese: alle sue vocazioni antiche e alle pulsioni più recenti, alimentate dallo scenario internazionale e da venti che soffiano da molte direzioni. "La maggioranza silenziosa ha ruggito", scriveva un giornale americano all’indomani della vittoria di Trump: nel devastante avanzare del nuovo corso leghista vi è indubbiamente l’eco di quel ruggire ma la "destra smoderata" irrompeva da noi un quarto di secolo fa con la vittoria di Berlusconi e di Bossi, sulle ceneri del vecchio moderatismo democristiano. Contrastata e frenata quando le forze riformatrici seppero opporle un’idea di futuro, come ai tempi migliori dell’Ulivo, e libera invece di avanzare quando quel progetto declinava.
Per trovare un qualche precedente al disorientamento attuale occorre forse risalire ai mesi che seguirono la rivincita berlusconiana del 2001, favorita (anche allora) dagli errori e dalle guerriglie interne di una sinistra impegnata soprattutto a seppellire se stessa. E incapace di rispondere a quella esigenza di " buona politica" che il crollo della " Prima Repubblica" aveva portato allo scoperto, assieme ad altro.
Fu possibile invertire la marcia, allora, e il primo stimolo non venne dalle forze organizzate. Venne dall’urlo di Nanni Moretti a piazza Navona nel freddo febbraio del 2002 («con questi dirigenti non vinceremo mai») e dall’adesione che esso trovò in un "popolo della sinistra" pronto ancora a mobilitarsi e a sperare, capace di riconoscersi in valori comuni. E, dopo i primi fuochi di sbarramento, larga parte della forze politiche riformatrici sembrò accogliere quella spinta, sembrò comprendere quell’urgenza: nulla di tutto questo appare oggi all’orizzonte ed è al tempo stesso in crisi quel progetto d’Europa che fu allora un elemento di riferimento decisivo.
Più ancora, la crisi economica internazionale iniziata nel 2007-8 ha squassato alle radici i fondamenti tradizionali del welfare, asse portante delle democrazie occidentali, alimentando incertezze e paure cui la sinistra non sa rispondere e che la destra è abilissima nel cavalcare, oggi come ieri. È difficile stupirsi dunque dell’avanzata leghista ma è meno comprensibile il consolidarsi ( nei sondaggi, non nelle elezioni successive al 4 marzo) di un Movimento 5 Stelle che contraddice ogni giorno se stesso. Che ha oscillato sin qui fra una impressionante ignoranza delle norme costituzionali, una spartizione delle poltrone che evoca il degradare della "Prima Repubblica" ed un orgoglioso trionfo dell’incompetenza.
A processi profondi rinvia dunque la sua quasi inspiegabile "tenuta", come osservava domenica Emanuele Felice, e quei processi è urgente comprendere e contrastare. Difficile farlo senza una rifondazione della sinistra che sappia coinvolgere culture ed energie ancora ampie ma sempre più scoraggiate. Che sappia avanzare una proposta credibile di buona politica, in esplicita rottura con quel che è stato fatto sin qui, e che ponga al tempo stesso al centro alcuni nodi fondamentali, dalla crisi europea al Mezzogiorno.
Il congresso del Pd doveva essere il primo banco di prova di questa partita, aprendosi radicalmente all’esterno: da quel che si è visto sinora sembra piuttosto annunciare un drammatico punto di non ritorno.

Corriere 25.7.18
La Storia in retromarcia
di Milena Gabanelli e Andrea Nicastro


Marie-Claude e George Villenaud sono gli autori di una straordinaria guida turistica: un record di vendite ai suoi tempi. Nel prologo si legge: «L’Afghanistan è a soli otto giorni di macchina da Parigi, grazie alle nuove strade trans-continentali turche e persiane».
Era una guida Fodor, antenata della Lonely Planet, per «turisti che si interessano alla vita reale della gente». Edizione 1969. Esattamente 49 anni dopo le informazioni più utili a un aspirante turista in Afghanistan compaiono del sito della Farnesina viaggiaresicuri.it: «Si sconsigliano vivamente viaggi a qualsiasi titolo in considerazione della gravità della sicurezza interna al Paese, dell’elevato rischio di sequestri e attentati a danno di stranieri in tutto il territorio nazionale».
La storia all’indietro
La guida Fodor scriveva: «La macchina della modernizzazione si è messa in moto e niente potrà fermarla». Si sbagliava. La rincorsa del futuro, non solo si è bloccata ai check point talebani, ma è andata in retromarcia. Prima dell’inversione della Storia, fino a tutti gli Anni 80, a Kabul era donna il 40% dei medici, il 70% degli insegnanti e (nel 1977) il 15% dei deputati. Vestivano all’occidentale e il burka era roba da contadine. Nell’epoca d’oro del turismo in automobile, 90mila stranieri riuscirono a visitare l’Afghanistan. Molti arrivavano in Land Rover o con i pullmini Volkswagen sulla via per l’India. Partivano in cerca della spiritualità del buddismo o dell’induismo, ma spesso si accontentavano della marijuana e oppio afghani.
Gli alberghetti di Chicken Street a Kabul, allora non avevano le sbarre alle finestre o i metal detector anti attentato, ma avrebbero dovuto proteggere meglio i parapetti dei terrazzi. Senza aria condizionata, alla ricerca di frescura o di stelle, decine di europei si drogavano sui terrazzi e in preda alle allucinazioni cadevano di sotto. Il piccolo cimitero cristiano della città, prima che venisse profanato dai talebani, era pieno di lapidi di europei. Due i nomi degli italiani che si intravvedono ancora: Ottavio nel 1968 e Giovanni nel 1972.
Da comunisti a nazionalisti
In 40 anni sono stati coinvolti tutti i Paesi lungo il tragitto. Negli Anni 70 si attraversavano i Balcani sulle strade della Jugoslavia comunista, ma negli Anni 90 e 2000 quelle strade sono state a lungo vietate dalla Guerra Civile che ha generato Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Kossovo, Macedonia. Dieci anni di guerra, 100mila morti.
Da nazionalisti a islamisti
La Turchia di Ataturk era il Paese più laico del Medio Oriente. La modernizzazione post-ottomana la portò nel 1999 ad essere ufficialmente «Paese candidato» all’ingresso nell’Unione Europea. La Turchia venne lasciata in attesa, e cominciò la progressiva islamizzazione del presidente Erdogan con la sua politica neo-ottomana esplicitata dal «diritto delle donne a velarsi». Oggi il confine turco con la Siria è terreno di guerra e quello con l’Iran sorvegliato contro le infiltrazioni di migranti e trafficanti di droga.
Da modernisti a integralisti
La Persia si è allontanata ancora di più da quella che credevamo sarebbe stata la marcia inarrestabile della Storia. Dal 1979 è diventata Repubblica Islamica d’Iran. Invece di uno Scia reinsediato dalla Cia e affascinato da caviale di Chez Maxim’s, dalle Harley Davidson e dalle Chevrolet Cherokee, è arrivato il turbante dell’Ayatollah Khomeini. L’Iran è oggi la success story anti-occidentale per tutto il mondo islamico. La cravatta o le minigonne sono diventate simbolo di oppressione mentre il velo obbligatorio per legge è il vessillo di identità e indipendenza riconquistate. Risultato: negli ultimi 4 decenni l’Iran è rimasto chiuso al mondo esterno, figurarsi ai pullmini degli hippies. La Rivoluzione più la guerra con l’Iraq hanno causato oltre un milione di morti e 38 anni di sanzioni internazionali.
Dall’ospitalità ai rapimenti
L’Afghanistan degli Anni 70 è oggi irriconoscibile. Nel 1979 i sovietici invasero il Paese per domare la rivolta anti comunista e da allora è praticamente sempre stato in guerra. I primi dieci anni di scontri distrussero il 95% della capacità agricola e uccisero tra 700mila e 2 milioni di persone; 1,2 milioni furono gli invalidi e oltre 6 milioni i profughi. La Guerra Civile afghana (1992-1996) ha fatto altri 30mila morti e 500mila rifugiati. La guerra internazionale al terrorismo (dal 2001 a oggi) ha prodotto altri 300mila morti e 2 milioni di sfollati interni. Scomparse le coltivazione di grano, frutta secca e melograni, l’unico guadagno viene oggi dai papaveri per l’eroina e dalle armi. I talebani pagano un loro soldato 600 dollari al mese, l’esercito filo occidentale di Kabul circa 500. Non c’è tempo e spazio per essere ospitali con i turisti.
La speranza in uno schiaffo
La via della modernizzazione dall’alto, quella imposta da Ataturk, dallo scia di Persia o dal comunismo in Afghanistan, non ha dato risultati brillanti. Ci sta ora tentando anche il giovane erede al trono saudita Mohammad bin Salman: donne che guidano, sudditi che lavorano, esercito che combatte. C’è l’appoggio americano e israeliano. La scommessa è in corso. Potrebbe andar bene o portare a un’altra guerra con l’Iran.
Resta però anche la speranza di una modernizzazione dal basso, dove la popolazione chiede pace, più benessere, e più diritti. Le Primavere arabe sono state un’avvisaglia, ma sono andate come sono andate. Male. Forse il futuro entrerà attraverso la vita di famiglia. Nell’ultimo film della regista afghana Roya Sadat la protagonista risponde con uno schiaffo alle botte del marito. Durante la proiezione, a Kabul, qualcuno ha applaudito, sfidando le barbe nere. La storia comunque procede.

Repubblica 25.7.18
L’appello
Saviano e il dovere di prendere posizione
“Rompiamo il silenzio contro la menzogna servono voci libere”
Lo scrittore si rivolge a chiunque possa farsi ascoltare da una comunità: vi sembra che questo governo rispetti i valori della Costituzione?
Per i sondaggi oltre il 60% sostiene i partiti al governo. Una situazione mai vista
di Roberto Saviano


Dove siete? Amici scrittori, giornalisti, cantanti, blogger, intellettuali, filosofi, drammaturghi, attori, sceneggiatori, produttori, ballerini, medici, cuochi, stilisti, youtuber, oggi non possiamo permetterci più di essere solo questo. Oggi chiunque abbia la possibilità di parlare a una comunità deve sentire il dovere di prendere posizione. Ogni parola ha una conseguenza, certo, ma anche il silenzio ha conseguenze, diceva Sartre. E il silenzio, oggi, è un lusso che non possiamo permetterci.
Chi in questi mesi non si è ancora espresso — a fronte di chi invece lo sta facendo con coraggio — tace perché sa che a chi fa il nostro lavoro parlare non conviene. Spesso sento dire: «Chi esprime il proprio pensiero lo fa per avere visibilità», ma è una visibilità che ti fa guadagnare insulti sui social e la diffidenza di chi dovrebbe sostenere il tuo lavoro, perché si sente chiamato a dar conto delle tue affermazioni. Quello che nessuno ha il coraggio di dire è che spesso si tace per non essere divisivi, perché si teme che arrivino meno proposte, meno progetti. Ma se la pensiamo così, abbiamo già perso, perché ci siamo rassegnati a non stimolare riflessioni e ad assecondare chi crede che la realtà sia riducibile a parole d’ordine come “buonista”, “radical chic”, “taxi del mare”, “chiudiamo i porti”, “un bacione”, “una carezza” ed emoticon da adolescente.
Si tace perché prendere posizione divide non solo il pubblico che ti segue sui social, ma anche e soprattutto chi compra i tuoi libri, i biglietti dei tuoi spettacoli, chi viene a vederti al cinema o ti vede in televisione.
Con Berlusconi era tutto più netto: c’era lui e c’eravamo noi.
Criticarlo portava reazioni forti, artiglieria di fango, ma c’era una comunità che si stringeva attorno a chi lo faceva. Prendere posizione contro Berlusconi non significava perdere share, copie, consenso. Oggi non è più così e in questo governo si stenta a scorgere i germi di qualcosa di estremamente pericoloso.
«Fa’ il tuo lavoro e basta» è il richiamo all’ordine che subisce il calciatore che esprime la sua opinione sui migranti, l’attore che indossa la maglietta rossa. E il richiamo all’ordine è già un ricatto: guadagni con il tuo lavoro, non accettiamo commenti politici da chi ha il culo al caldo.
Oggi c’è fastidio verso chi fa quello che sarebbe invece normale: controllare chi ci governa perché, anche se legittimato alle urne, non tradisca non solo il proprio mandato, ma soprattutto la nostra storia e i valori che ci hanno consentito di vivere decenni di pace. La nostra Democrazia è giovane e fragile, ma è prima di tutto antifascista e antirazzista. Vi sembra che oggi questo governo si stia muovendo nel rispetto dei valori che sono alla base della nostra Costituzione? Non vi sembra piuttosto che i 70 anni di prosperità e pace appena trascorsi ci abbiano resi permeabili a partiti politici xenofobi? Che ci abbiano resi disattenti, se non disinteressati a vigilare su diritti che una volta acquisiti, se non li difendiamo, possono essere spazzati via da qualche post su Facebook e da una manciata di tweet?
Questo governo, speculando sulle difficoltà di molti, utilizza come arma di distrazione di massa l’attacco ai migranti e alle Ong. Mentre il M5S e la Lega litigano sui punti fondamentali del loro accordo, ci fanno credere che il nostro problema siano i migranti. E se mi rispondete che i governi precedenti hanno fatto altrettanto, vi dico: non si erano spinti fino a questo punto, ma di certo hanno asfaltato la strada perché tutto questo accadesse.
Se avete votato per Lega e M5S per ribaltare il tavolo, perché era l’unico modo per mandare via una classe dirigente che aveva fallito sotto ogni profilo, vi dico: vigilate, non delegate, aprite gli occhi perché le cose si stanno mettendo male, male per tutti.
Male anche per voi.
Perché quello che si sta consumando non è uno scontro tra me e Matteo Salvini. Per me non c’è nulla di personale; sento piuttosto fortissimo il dovere e la necessità di parlare per chi non ha voce. Per i seicentomila immigrati presenti in Italia che devono essere regolarizzati ora, subito, perché siano sottratti allo stato di schiavitù in cui, in molti casi, versano. Per le Ong che hanno iniziato a fare salvataggi in mare, aiutando gli Stati europei e l’Italia a gestire un fenomeno che non può essere bloccato, ma solo ben amministrato, perché è palesemente una risorsa. Quei politici che oggi si ostinano La risposta di Matteo Salvini a Roberto Saviano arriva, come al solito, sui social. «Artigiani, studenti, operai, commercianti, impiegati, pensionati, casalinghe, infermieri, poliziotti, disoccupati...Forse per il ricco scrittore non sono categorie abbastanza alla moda, chissà!», scrive. Poi l’immancabile “bacioni” e l’hashtag #stopinvasione ancora a sostenere il contrario di politica e di economia non capiscono niente e sono un pericolo per la tenuta sociale del nostro Paese, che è multietnico.
Fieramente multietnico.
Oggi chiedo a voi di mobilitarvi per i diritti di tutti, perché anche se a voi sembra di non far parte di questi “tutti”, siete già coinvolti. In nome di un presunto benessere, in nome di una maggiore sicurezza ci diranno che, in fondo, la libertà di espressione è una cosa da ricchi privilegiati e, invece, come sapete bene, la libertà d’espressione è lotta per i diritti; e la lotta per i diritti è sempre lotta per chi non può permetterseli.
E ora voi mi direte: ma le nostre battaglie le facciamo con i nostri libri, con le nostre canzoni, con i nostri spettacoli, con la nostra ironia. È vero, è sempre stato così: ma ci sono dei momenti in cui non basta più delegare la resistenza alla propria arte.
Dinanzi a truppe cammellate di bugiardi di professione (al loro cospetto gli scherani di Berlusconi erano dilettanti) e davanti al dolore reale che le loro menzogne provocano, abbiamo tutti il dovere di rispondere: NON È VERO!
Parlate ai vostri lettori, ai vostri ascoltatori, a tutti coloro a cui con la vostra arte e il vostro lavoro avete curato l’anima.
Abbiate fiducia, avete gettato le basi per essere ascoltati, non abbiate paura di dire a chi vi stima che voi non state con tutto questo.
Ci sarà disorientamento all’inizio, riceverete critiche per aver rotto l’equilibrio dell’equidistanza, che però è fragile e già incrinato. Ma gli effetti virtuosi che domani avranno le vostre parole, vi ripagheranno delle reazioni scomposte degli hater oggi.
Il trucco che useranno per delegittimarvi lo conoscete, quindi partite (partiamo) in vantaggio. Vi diranno: guadagni? Non puoi parlare.
Così Mussolini trattò Matteotti prima che venisse ammazzato: sei figlio di benestanti? Non ti puoi occupare di istanze sociali.
Ma davvero ci facciamo intimidire da questa comunicazione criminale?
Dovremmo vergognarci del frutto del nostro lavoro?
Accettare, come vogliono, che autentico sia solo chi tiene la testa bassa?
Tra i soccorritori di Josephine, l’unica superstite del naufragio che ha mostrato ancora una volta l’inadeguatezza della Guardia costiera libica a compiere missioni umanitarie, c’era Marc Gasol, uno dei giocatori di basket più forti del mondo. Dite un po’, cosa rispondereste a chi dice: Marc Gasol è ricco, non può occuparsi di chi soffre? Vi sembra un’obiezione plausibile, vi sembra che abbia senso o che siano i deliri di chi oggi ha paura?
E allora uscite allo scoperto, oggi l’Italia ha bisogno delle vostre voci libere. Non abbiate paura di chi, più di ogni altra cosa, teme il dissenso perché non ha gli strumenti per poterlo gestire, se non in maniera autoritaria. E un ministro della Repubblica che querela uno scrittore su carta intestata del ministero sta mettendo in atto un gesto autoritario, coinvolgendo l’intero governo.
Da una parte c’è chi critica, dall’altra tutto il governo, che a oggi non ha manifestato alcun fastidio a essere strumentalizzato.
Scrittori, l’attacco al libro, alla conoscenza, al sapere è quotidiano. «Vai a lavorare» viene detto a chi scrive. Il primo passo di qualsiasi deriva autoritaria parte dal disconoscere la fatica intellettuale, togliere alle parole la dignità di lavoro. In questo modo resta solo la propaganda.
Editori, non sentite franare la terra sotto i vostri piedi?
Prendete parte, non c’è salvezza nel prudente procedere: la conoscenza è uno strumento preziosissimo di emancipazione dalla miseria personale, difendiamo questo strumento.
Difendiamolo con tutte le nostre energie.
Ho riflettuto molto prima di scrivere queste righe: non vi sto chiamando a raccolta per difendere me, ma il tempo per restare nelle retrovie è finito. Se non prenderete parte vorrà dire che quello che sta accadendo sta bene anche a voi: o complici o ribelli.
«La storia degli uomini — scrisse Vasilij Grossman in Vita e destino — non è dunque la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male.
La storia dell’uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità. Ma se, in momenti come questo, l’uomo serba qualcosa di umano, il male è destinato a soccombere». Voi siete il piccolo seme dell’umanità, senza di voi l’Italia è perduta. Allora, da che parte state?

Repubblica 25.7.18
Intervista
Michela Murgia
“Noi ci battiamo ma la politica tace”
di Caterina Pasolini


ROMA «Davanti a quello che accade oggi, alle parole xenofobe e razziste di Salvini sui migranti, per me che sono militante è naturale schierarmi, espormi, pubblicamente come invita a fare Saviano nel suo appello, ma non è l’unica via», dice Michela Murgia, scrittrice, che travolge con la sua passione civile e politica.
Meglio denunciare o agire?
«Ognuno trova la sua risposta, la sua strada per opporsi. Non c’è una via più giusta dell’altra, la battaglia va fatta in mille modi diversi. I gesti eclatanti servono come esempio a chi cerca fiducia e indicazioni, ma è nelle piccole cose quotidiane che cresce la resistenza».
È stata attaccata per questo?
«Non è mai stato così difficile parlare, scrivere. Ti arriva una quantità di reazioni negative difficili da maneggiare e non solo dalla rete. Una cosa è certa: qualcosa è stato profondamente sottovalutato in questi anni, in cui la sinistra ha dimenticato gli svantaggiati».
Intellettuali latitanti?
«Assolutamente no, ognuno si organizza: chi fa volontariato, chi viene alle presentazioni per discutere, chi organizza scuole d’italiano per stranieri, chi va in carcere. Tanti scrittori sono tornati a scrivere di politica. Gli intellettuali si cercano tra loro come non accadeva da quando Berlusconi tentò di far passare la legge bavaglio. Ecco, chi è veramente assente è la politica».
Partiti silenti?
«Il Pd è troppo occupato a dare la colpa ai cattivi elettori che non hanno votato Pd per fare autocritica. La politica ora sembra occuparsi di se stessa invece che dei problemi del Paese».
Lei ha detto: bisogna tracciare un confine tra uomini e no...
«La mia idea è che siamo esseri umani empatici che hanno superato la legge della giungla, migliori dei nostri istinti. E poi c’è una parte del paese che ha vinto, anche se ricordiamo che Salvini ha avuto il 17 %, e che pensa all’essere umano come a un predatore dominante».
Qual è la differenza?
«La Lega soffia sulle paure che ci uniscono, come perdere il lavoro, non sulle idee che ci dividono. E le idee diverse fanno bene alla democrazia. Solo che la sinistra dovrebbe ripensare seriamente cosa significa essere di sinistra ».

Repubblica 25.7.18
Intervista
Eraldo Affinati
“L’impegno è agire io lo faccio a scuola”


«L’appello di Saviano a parlare, denunciare le falsità sui migranti è sacrosanto. Ma non basta. Io vorrei che le nostre parole fossero sempre legittimate da ciò che facciamo, altrimenti ogni pronunciamento rischia di essere vano. Oggi il discorso politico è svuotato di senso a causa di questo». Eraldo Affinati, docente e scrittore, i problemi di chi proviene dall’altra parte del mare li conosce bene per esperienza diretta. Nelle scuole di lingua che ha creato per insegnare l’italiano ai nuovi arrivati. Di loro ha anche scritto nella sua ultima opera: “Tutti i nomi del mondo”.
Che fare davanti a quello che accade oggi in Italia?
«Dipende dal carattere. Io preferisco agire in concreto.
Con la nostre scuole Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati, uno a uno, senza voti e classi, coinvolgiamo centinaia di persone in ogni parte d’Italia, anche studenti in alternanza scuola-lavoro».
Il silenzio però ha conseguenze, diceva Sartre.
«A me non piace tanto Jean Paul Sartre. Io sono sempre stato dalla parte di Albert Camus.
Bisogna superare le categorie novecentesche. Faccio un solo esempio: una nostra volontaria del Nord mi ha detto che fra gli insegnanti della sua Penny Wirton ci sono anche alcuni leghisti. Se noi connotassimo in chiave partitica la nostra azione didattica, non verrebbero.
Invece così lo fanno: gratis.
Riflettiamoci. L’essere umano è sorprendente».
Qual è il compito degli intellettuali verso il potere?
«Esistono le poetiche personali, le situazioni specifiche, non le categorie generali. Uno scrittore può formulare, se non la sua protesta, la sua ragione di stare al mondo, semplicemente restando fedele al proprio stile».
Se fosse nato in Africa?
«Ci sono stato, ho visto la miseria e lo splendore delle persone che non hanno niente e vivono, senza guerra sì, ma nella polvere e nel degrado. Se fossi nato lì, avrei cercato di venire qui. Noi parliamo spesso di ciò che non conosciamo. Consultiamo le tabelle. Guardiamo la tv.
Navighiamo in Rete. Ma ciò che conta è come ti guarda Mohamed quando gli spieghi il verbo essere».

il manifesto 25.7.18
Femen
Femen. Oksana, 31 anni, era stata nel 2008 assieme a Anna Hutsol e Inna Shevchenko una delle fondatrici nel 2008 a Kiev del movimento Femen
Inna Shevchenko nel dare alla amica e compagna l'ultimo saluto su Facebook ha ricordato che Oksana “si è battuta per se stessa e per tutte le donne del mondo"
di Yurii Colombo


MOSCA “You are all fakes” (“Siete tutti falsi”). Con questo biglietto ritrovato ieri vicino al suo corpo senza vita nella dimora di Parigi si è accomiatata Oksana Shachko.
Oksana, 31 anni, era stata nel 2008 assieme a Anna Hutsol e Inna Shevchenko una delle fondatrici nel 2008 a Kiev del movimento Femen. Inna Shevchenko nel dare alla amica e compagna l’ultimo saluto su Facebook ha ricordato che Oksana “si è battuta per se stessa e per tutte le donne del mondo. Siamo state insieme in piazza Indipendenza a Kiev, sventolando bandiere nel cielo e gridando slogan nel silenzio; siamo sopravvissute nella foresta bielorussa insieme, dopo essere state torturate; e abbiamo marciato per le strade di Parigi, formando nuovi gruppi di attiviste. Oksana è sempre rimasta una vera combattente. È nella storia del femminismo”.
Femen, composto per lo più da teenagers, rivoluzionò con la sua comparsa alcuni canoni del movimento femminista. Fin da subito si distinse per la sua capacità di usare la provocazione come arma per irrompere sui media e nel dibattito pubblico di tutto il mondo. La denuncia del sessimo, del turismo sessuale, della condizione lavorativa delle donne ucraine ma anche contro il liberismo e per i diritti umani si presentò con slogan tracciati a pennarello sui loro corpi, diventando un’icona dei movimenti anni 2000. Leggendarie le loro apparizione al summit di Davos, quella a Zurigo contro i mondiali di hockey nella Bielorussa di Lukashenko e quella sulla torre Eiffel per denunciare la condizione della donna nell’Islam.
Femen però ormai da alcuni anni era diventato l’ombra di se stesso. L’ascesa di Poroshenko e dell’estrema destra trasformò l’Ucraina in un paese ancora più autoritario, bigotto e sciovinista di quanto non lo fosse già. Il conflitto tra la Mosca e Kiev schiacciò le ragioni del pacifismo e della democrazia. In quel contesto le Femen abbandonarono l’attività in Ucraina. La nuova leva di attiviste femministe, lgbt e antifasciste ucraine che si battono ancora oggi a Kiev a rischio della vita, conoscono a stento il loro nome.
Femen si trasformò in una piccola legione di globtrotters della protesta. Coccolate dalle riviste glamour patinate, persero di radicalità, diventando stanche repliche di un canovaccio già visto. La tragedia di Oksana Shachko è individuale e privata ma sta dentro, in questo senso, alle difficoltà e alla ritirata della sinistra in Europa.

il manifesto 24.7.18
Casaleggio: il parlamento ha i lustri contati
M5S. Il capo della piattaforma Rousseau profetizza la fine della delega e della democrazia indiretta. Il vice premier Di Maio non lo smentisce: di solito ci azzecca
di Andrea Fabozzi


«Il parlamento potrebbe chiudere domani, nessuno se ne accorgerebbe» diceva Beppe Grillo cinque anni fa, quando il Movimento 5 Stelle era all’opposizione e Gianroberto Casaleggio profetizzava che «il peso delle decisioni si sposterà sul cittadino togliendo la delega al parlamento, i tempi non si possono sapere ma è ineluttabile». Ieri il figlio di Gianroberto, Davide, erede dell’associazione Rousseau che tiene le redini del Movimento, ha dettagliato la previsione e offerto un orizzonte temporale: «Tra qualche lustro è possibile che il parlamento non sarà più necessario». Luigi Di Maio, vertice del Movimento nel governo o, come ha detto lui stesso, nel «paese», ha raccomandato di prenderlo sul serio: «Di solito i Casaleggio ci prendono sempre quando parlano di futuro».
Non che questa affermazione del vicepresidente del Consiglio sia del tutto vera, per esempio Gianroberto Casaleggio qualche anno fa aveva previsto la chiusura entro il 2018 di un bel po’ di giornali quotidiani, come la Gazzetta dello Sport, il Corriere della Sera, il Sole 24 Ore e la Repubblica, che per fortuna sono ancora in edicola oltre che in rete. E Davide Casaleggio ha del resto scelto proprio un quotidiano di carta, uno tra i più giovani (il destro la Verità che non ha ancora due anni di vita), per la sua lunga intervista di ieri. Interrompendo il tradizionale silenzio stampa, Casaleggio figlio ha spiegato che il futuro della «democrazia digitale» per molti versi è già tra noi: «La democrazia partecipativa è già una realtà grazie a Rousseau che per il momento è stato adottato dal M5S ma potrebbe essere adottato in molti altri ambiti». Intendendo forse che altri partiti potrebbero decidere di aderire alla piattaforma, magari obbligando anche i loro parlamentari, come già i grillini, a devolvere 300 euro al mese all’associazione di cui Davide Casaleggio è presidente. Più probabile che l’allusione si riferisca alla possibilità – persino più inquietante – che qualche amministrazione pubblica possa adottare il software licenziato dalla Casaleggio associati.
Tra le altre affermazioni notevoli dell’intervista a Casaleggio figlio, quella in risposta alla domanda sull’immigrazione: è una vera emergenza? «Quel che conta è la percezione che ne hanno i cittadini», l’assioma che serve a coprire la stretta governativa. La frase più forte è però quella sul parlamento, preceduta dalla convinzione che «oggi grazie alla rete esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco». La Verità non ha fatto notare a Casaleggio che alle ultime elezioni online sulla piattaforma Rousseau, la settimana scorsa, hanno partecipato poco più di 13 mila elettori, mentre alle ultime elezioni politiche «novecentesche» gli elettori del M5S sono stati tra Italia ed estero quasi undici milioni. Per un parlamento che, secondo Casaleggio figlio, potrebbe continuare ad esistere «con il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti», ma potrebbe pure «tra qualche lustro non essere più necessario».
La correzione di tiro di Di Maio è quasi impercettibile, «starà a noi nel lavoro che faremo dimostrare che invece il parlamento è ancora uno strumento utile e democratico per questo paese» dichiara il vicepremier. Mentre il ministro ai rapporti con il parlamento (e la democrazia diretta) Fraccaro si lancia in un’interpretazione ardita: «Vuole valorizzare il parlamento con la piattaforma Rousseau». Nulla dichiara il presidente della camera Fico che nel suo primo discorso aveva annunciato di voler recuperare la «centralità» delle camere. Mentre le opposizioni ovviamente insorgono e ricompare anche la ex ministra Boschi. Però non se la prende con i grillini ma con gli avversari della«sua» riforma costituzionale del 2016: «Ci hanno accusato di deriva autoritaria, adesso i custodi della Costituzione dove sono?».

Repubblica 24.7.18
La tecno-ideologia di Casaleggio
di Ezio Mauro

Dunque il buon vecchio Parlamento ha le ore contate, perché (dopo aver incassato la nomina del Presidente di una delle due Camere, con l’elezione di Roberto Fico a Montecitorio) i grillini hanno annunciato ieri la sua prossima morte, fissando anche la data: tra qualche lustro.
L’ha decretata ufficialmente, in un’intervista a Mario Giordano su La Verità Davide Casaleggio, figlio del fondatore del movimento, e presidente di quell’associazione Rousseau che secondo il disegno dei Cinque Stelle è destinata a gestire la nuova era della democrazia diretta: per portare a termine la seconda fase della rivoluzione populista avviata pochi anni fa da Grillo, restituendo al cittadino il potere non soltanto di decidere ma anche di legiferare senza più intermediazioni, deleghe, perdite di tempo e riti del passato come le riunioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Casaleggio parte dalla constatazione che a causa della bolla di iperproduzione normativa la burocrazia nel nostro Paese assume un ruolo e un potere improprio «e diventa spesso depositaria di un sapere quasi esoterico». La Rete può bucare la ragnatela di questa rendita impropria. E qui il guru dei Cinque Stelle mescola populismo e informatica: i modelli novecenteschi stanno morendo, la sfiducia nella politica cresce, lo scollamento tra Palazzo e realtà aumenta, Internet è la nuova via di partecipazione, la cittadinanza digitale va garantita a tutti. La rappresentanza ha funzionato per lungo tempo: «Oggi però grazie alla Rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività del volere popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile». In una riforma grillina dello Stato «il Parlamento ci sarebbe, col compito di garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti». Ma «tra qualche lustro è possibile che non sarà più necessario nemmeno in questa forma».
Siamo dunque davanti all’idea della "democrazia digitale" che Gianroberto Casaleggio teorizzava da tempo: superare il voto per il Parlamento, considerandolo una semplice delega, per portare il cittadino a fare direttamente irruzione nella vita politica, anzi a diventare un politico in prima persona. Proseguendo su questa strada, si superano i partiti, si abolisce il quorum per il referendum, si istituiscono i referendum propositivi, si abolisce il voto segreto, si ritorna al vincolo di mandato per il parlamentare, e lo si giudica via Internet con un voto di collegio quando non mantiene le sue promesse elettorali.
È la concezione del Parlamento da aprire "come una scatoletta di tonno", con deputati e senatori che devono soltanto eseguire quello che i cittadini decidono votando in Rete: spesso a scelte compiute, come nel caso del contratto di governo. Dietro c’è l’idea dell’uomo comune che sovverte lo Stato con la sua sola pretesa di far politica, tanto che Grillo arriva a suggerire la sostituzione delle elezioni con il sorteggio, scegliendo i membri del Parlamento a caso per rendere le Camere davvero rappresentative della società: "significherebbe la fine dei politici e della politica come l’abbiamo sempre pensata".
Perché mai la politica dovrebbe "finire", se non per compiacere le idee più qualunquiste? C’è in questa profezia provocatoria l’idea salvifica e autoassolutoria professata più volte da un movimento che è nato con la pretesa esagerata di cambiare il mondo per poi estinguersi, il giorno in cui, dopo la redenzione, la fanta-tecnologia grillina consentirà ai cittadini di costruirsi la democrazia in casa, «da dove potranno agire decidendo "sì" e "no" su ogni cosa, potranno proporre le leggi, votarle, e allora il movimento non avrà più senso».
Stiamo dunque arrivando allo scontro finale tra la democrazia diretta e la rappresentanza. Secondo il credo grillino l’innovazione tecnologica denuda la vecchia forma democratica, mette a nudo tutta l’impalcatura di intermediazioni su cui è costruita la trasmissione fiduciaria del voto e del mandato, mentre la Rete fulmina i metodi del passato, li illumina denunciandoli come vecchia politica, e consente ad ognuno di ritagliarsi nel privato un pezzo di politica privata, fai-da-te, da consumare a casa o al lavoro o nel tempo libero, spendibile a piacere imbucandola nel rapporto diretto ed esclusivo con la piattaforma misteriosa del movimento, finanziata dagli eletti, guidata da non eletti.
Quanto più dovesse crescere il meccanismo della democrazia diretta attraverso le piattaforme digitali sul modello Rousseau, nascerebbe il problema del controllo di quei dati, del loro utilizzo, della garanzia della privacy degli utenti, del potenziale politico e commerciale che in poco tempo quel sistema di raccolta ed elaborazione di informazioni acquisirebbe: un problema di democrazia, evidentemente, che i Parlamenti per la loro parte hanno risolto, aprendo al pubblico e alla stampa le loro sedute.
Tra le intermediazioni che saltano nella pretesa di democrazia diretta, c’è anche quella assembleare, la forma del dibattito attraverso cui si prende una decisione, il concorso di opinioni diverse, l’obiezione, la critica e l’opposizione delle minoranze. C’è l’ascolto, la pubblica combinazione di differenti correnti di pensiero. E c’è infine l’intermediazione delle competenze, annullate dalla solitudine anonima dell’uno-vale-uno, davanti al computer. Io non voglio decidere su tutto, anche su ciò su cui non so nulla: voglio mandare in Parlamento persone competenti, perché decidano al meglio sui vari dossier, anche in mio nome, e proprio perché ne sanno più di me. E’ il rovescio della logica grillina, secondo cui la forza del movimento è trasformare l’incompetenza del singolo in virtù del popolo, quindi degna comunque del comando, proprio perché incontaminata dal contagio castale del sapere.
In realtà, la rappresentanza è ciò che crea il concetto e il soggetto di popolo: fuori dal patto di rappresentanza, infatti, c’è soltanto una folla di individui, non un popolo. E la tecnologia è benedetta: ma quando cambia il volto alla democrazia — in attesa di definire anch’essa un reperto novecentesco come il Parlamento — la cortocircuita in una moderna, nuovissima tecno-ideologia.

Repubblica 25.7.18
Il dibattito
Craxi, Prodi e la profezia di Casaleggio


Caro direttore, con una certa sorpresa ho letto l’articolo di Sebastiano Messina — "Parlamento inutile" Se Casaleggio insegue Craxi e Berlusconi — nel quale si descrivono le mie due esperienze di governo come due esempi falliti di altrettanti tentativi, almeno per gli epiloghi che ne seguirono, di aggirare le "sorprese" che il Parlamento avrebbe potuto riservarmi.
Debbo dire, con orgoglio, che le cose andarono proprio all’opposto. Pur essendo perfettamente consapevole, sia nel 1998 che nel 2008, che in Parlamento non c’erano i voti necessari, scelsi e decisi di presentarmi in Aula per chiedere ugualmente la fiducia. Penso e ho sempre pensato che fosse assolutamente necessario e ancor più doveroso, presentarsi dinnanzi al Parlamento, primo detentore del rapporto di fiducia con il governo. Non si trattò di dilettantismo della politica, ma di scelta precisa che rifarei ancora oggi, senza alcuna incertezza. Anche se gli altri non lo hanno fatto io ritengo che il governo debba cadere solo per un voto di sfiducia del Parlamento, supremo rappresentante del popolo. Dinnanzi al Parlamento, eletto dai cittadini italiani, chiesi e non ottenni la fiducia, fu certo doloroso ma non ho mai pensato, in nessun momento della mia vita politica, di evitare il Parlamento e con esso le sue prerogative. Lo affermo con orgoglio e con un profondo senso di rispetto per le Istituzioni che governano la nostra vita democratica.
Romano Prodi
Caro direttore, Sebastiano Messina ha inteso paragonare la sortita di Casaleggio, che denota una cultura autoritaria, eversiva ed una insofferenza verso gli istituti democratici, alle tesi sostenute ormai un quarantennio fa da Bettino Craxi ed in tempi e forme diverse da Silvio Berlusconi. A mio modesto avviso, si tratta di un errore di natura politica e storica. La delegittimazione degli avversari di una certa sinistra di ottimati, non ha portato fortuna né alla stessa sinistra né tanto meno al Paese. Di questo, se non d’altro, dovremmo almeno renderci conto, provando così a rinvenire i motivi per cui le nostre istituzioni abbiano progressivamente perso autorevolezza e la democrazia rappresentativa sia ormai pericolosamente e largamente vissuta come un orpello inutile.
Le ragioni, ovviamente, sono tante. Ma la principale sta probabilmente nell’incapacità del sistema di riformarsi e di riformare le nostre Istituzioni, seguendo magari la strada di quella "grande riforma" evocata vanamente da Craxi, che avrebbe schiuso le porte ad una forma di governo presidenziale che si sarebbe distinta per efficienza e per un protagonismo diretto dei cittadini. Altro che piattaforma Rousseau ed insofferenza verso il Parlamento. È l’esatto opposto! Un conto, pertanto, sono le critiche legittime e circostanziate avanzate da chi per tempo seppe intravedere i rischi che correva il nostro sistema democratico in assenza di un cambio di rotta; tutt’altro è il disprezzo per la politica e le Istituzioni che porta finanche a teorizzare il sorteggio come strumento sostitutivo del momento elettorale. Il presupposto per ridare centralità, ruolo ed un nuovo protagonismo al Parlamento è proprio quello di dar vita ad una stagione di riforme costituente, e non certo difenderne lo status quo.
Stefania Craxi
Non capisco la sorpresa di Romano Prodi. Io non l’ho indicato come esempio di leadership antiparlamentarista, ma al contrario ho ricordato la sua prudenza di scuola democristiana e gli affollati vertici dell’Ulivo convocati per tenere insieme una risicatissima maggioranza. E non ho difficoltà a riconoscere la sua coerenza: lui ha sempre teorizzato che un governo deve dimettersi solo quando viene sfiduciato dal Parlamento, cosa che a lui — unico presidente del Consiglio nella storia della Repubblica — è capitata non una ma due volte. Stefania Craxi, che ha perfettamente ragione sulla natura profondamente diversa delle critiche alla democrazia rappresentativa da parte di suo padre rispetto a quelle di Davide Casaleggio, ha visto invece nel mio articolo sulla storia dei tormentati rapporti tra i leader politici e il Parlamento un paragone che sarà impossibile — non solo con Craxi ma anche con Berlusconi, Prodi e Renzi — almeno fino a quando il governatore degli algoritmi della piattaforma Rousseau non diventerà — se mai lo diventerà — presidente del Consiglio. (s. m.)

Repubblica 25.7.18
Beni culturali
Arriva da Firenze l’allarme biblioteche
di Valeria Strambi


Alcune centinaia di insegnanti laureati in storia dell’arte, archeologia o giurisprudenza che oggi vivono di supplenze bloccati nelle graduatorie da precari, avranno la possibilità di andare a lavorare nelle biblioteche o negli archivi. Solo se lo vorranno però, nessuna imposizione o trasferimento di massa. È questa una delle ricette che il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, ha proposto per far fronte alla mancanza di personale.
L’emorragia all’interno delle istituzioni culturali va avanti da tempo e, da qui al dicembre del 2020, saranno almeno 3.437 i dipendenti destinati ad andare in pensione.
Un caso allarmante è quello della Biblioteca nazionale centrale di Firenze da dove è partito un ennesimo grido d’aiuto. Più di 90 intellettuali da tutto il mondo — da Adriano Prosperi a Salvatore Settis, da Paul Ginsborg a Jacques Marchand, e ancora Tomaso Montanari, Massimo Bray, Emanuele Scribano, Serge Noiret, Luca Serianni, Benedetta Tobagi, Margaret Haines — hanno indirizzato una lettera al ministro per chiedergli di salvare la biblioteca a rischio chiusura proprio per la mancanza di personale. In 35 anni, i dipendenti sono scesi da 400 a 149. «Una delle più importanti biblioteche al mondo ha bisogno di aiuto — si legge nell’appello lanciato dall’Associazione dei lettori coordinata da Natalia Piombino — I 5 bibliotecari assegnati con l’ultimo concorso bandito dal ministro Franceschini non sono in grado di colmare la voragine che si è aperta nei ruoli del personale. Nel 2020 la Biblioteca potrà contare solo su 10 funzionari bibliotecari: erano 30 a inizio 2018 e l’organico ne prevederebbe 42». L’invito è a un intervento immediato: «Chiediamo concorsi a cadenza regolare per personale qualificato e a tempo indeterminato, investimento necessario per salvare un patrimonio inestimabile».
La vicenda fiorentina si lega alla situazione generale del Mibac.
A fronte di un organico previsto a più di 19 mila unità, il ministero può contare su appena 16 mila persone che, presto, diventeranno meno di 13 mila. I "rinforzi" dal mondo della scuola, però, non saranno l’unica risposta: «Nel 2019 vorrei lanciare un concorso da 2.000 posti e, nel 2021, un ulteriore concorso con gli stessi numeri — ha annunciato ieri Bonisoli. «In più, penso a un intervento che possa incentivare la progressione di carriera per chi è già dei nostri». Misure pensate per soccorrere un ministero «vecchio e sottodimensionato — come lo ha definito Bonisoli — la cui età media è di oltre 54 anni».

Il Fatto 25.7.18
“La guerra è finita?”, Angelo del Boca, il più importante storico del colonialismo italiano, riflette e poi pronuncia un “mah…”.
“È un miracolo, ma non so quanto durerà davvero”
“Quante responsabilità italiane...”
di Michela A. G. Iaccarino


“La guerra è finita?”, Angelo del Boca, il più importante storico del colonialismo italiano, riflette e poi pronuncia un “mah…”.
Il pallottoliere della morte tra Eritrea ed Etiopia segna cifre con cui oggi si possono cominciare a fare finalmente i conti: due decenni di conflitto e 80mila vittime, seguiti dall’indipendenza di Asmara nel 1993. Adesso però la firma di Abiy Ahmed e Isaias Afewerki è sulla “dichiarazione di pace e amicizia”.
Non me lo aspettavo perché conosco le testardaggini eritrea ed etiope: sono due paesi che hanno fatto guerre lunghissime per piccolissimi pezzetti di territorio, decenni di lotta per piccoli punti al confine.
Invece oggi ripartono i voli delle compagnie aeree, riaprono le sedi diplomatiche. I due leader si sono abbracciati. Il conflitto sembra finito. Cosa ha pensato quando ha visto le immagini?
Che era un miracolo, ma un miracolo che però non so quanto durerà, posso valutarlo per quel che è, un passo importante, ma non so quanto definitivo; resisterà solo nel caso in cui si riuscirà a sopportare il processo di pacificazione.
In un territorio che vive in incertezza sociale, umanitaria ed economica, che non ha conosciuto sosta da tensioni militari per decenni, quante possibilità ha la pace di iniziare davvero?
Questa riappacificazione arriva in ritardo, non so chi dei due romperà l’alleanza, ma io temo che si romperà.
Se così non fosse, questo cambiamento influirà su più futuri, equilibri, prospettive?
In Eritrea, per esempio, non c’è più motivo di scappare adesso, i giovani fuggivano dal servizio militare che durava anni ed anni, adesso dovrebbe non accadere più, spero che duri, ma ripeto, temo non sarà così.
La storia scorre, la realtà cambia, le mappe si espandono…
Si ed è il timore del diverso, dello straniero, che nella storia ha sempre lasciato vuoti terribili. Poi c’è la responsabilità delle potenze coloniali, anche se ultimamente l’Italia aveva cercato di trasformare la sua politica. Spero solo che ora si rendano conto che hanno lasciato passare troppi anni.
All’Eritrea noi italiani abbiamo scelto perfino il nome dello Stato.
Abbiamo responsabilità in Eritrea, ma anche in Somalia. Noi i confini glieli abbiamo disegnati, per noi era normale, abbiamo rettificato il senso di Stato ed etnia all’Africa.
Parliamo dell’Africa in Africa. Poi c’è quella in Europa, l’Africa in migrazione. Sono anni di crisi e populismi, alleanze sghembe e razzismi. Guardando dal sud al nord del mondo e viceversa, qual’è la mappa del futuro con cui dovremo confrontarci?
L’Africa ha un destino terribile, nel giro di 50 anni triplicherà la sua popolazione. Tra 50 anni saranno due miliardi, sono popolazioni che devono avere uno sfogo e lo sfogo è l’Europa. Gli europei potranno fare quello che vogliono, ma è difficile bloccare un continente con una tale vitalità. Ma ci sono personaggi in giro che non hanno il senso della realtà, c’è uno che urla tutti i giorni ed è impossibile fermarlo.
I toni della propaganda sono sempre più alti.
Si e c’è in giro un personaggio pericoloso, che ha seguito. Agli italiani basta dire “non facciamo più entrare gli africani”, è un motto che ha subito successo.
Sta parlando di Salvini?
Certo, sto parlando di Salvini. Non avrei mai pensato si arrivasse a questo punto.

La Stampa 25.7.18
L’ex comunista che sfidò i Khmer rossi riporta la Cambogia verso la dittatura
di Alessandro Ursic


Era bella, quell’aria di primavera. Una popolazione giovanissima che emergeva dalla povertà, una società civile frizzante, un «uomo forte» al potere da tre decenni che iniziava a tremare. In Cambogia, il cambiamento sembrava imminente. Ed è arrivato, ma in direzione opposta rispetto alle aspettative di un lieto fine. Domenica 29 il Paese va a votare, in elezioni che sono un paravento per la nuova stagione: la dittatura di Hun Sen.
Il rivale annientato
Nonostante i 20 partiti in lizza, il premier non ha avversari. L’unico suo pensiero era l’ascesa del «Partito cambogiano di salvezza nazionale» (Cnrp), che nel 2013 l’aveva spaventato con un’impennata nei consensi e una vittoria sfiorata alle urne. Ma ora non esiste più: è stato sciolto poco dopo una prolungata persecuzione politica del suo leader Kem Sokha, culminata lo scorso settembre con l’arresto per «tradimento», che potrebbe costargli 30 anni di carcere. La colpa? Aver complottato con potenze occidentali per un cambiamento di regime. La prova? Un suo discorso pro-democrazia del 2013. L’ultimo anno ha visto una serie continua di intimidazioni, una morte per dissanguamento della facciata di democrazia che il governo aveva mantenuto dagli anni Novanta. Lo stato maggiore del Cnrp è fuggito all’estero temendo per la propria incolumità. Oltre trenta radio vicine all’opposizione sono state chiuse. Le Ong locali sono minacciate. Un quotidiano in inglese critico contro il governo è stato eliminato con lo spettro della bancarotta per presunte tasse non pagate; un altro è stato ceduto a un businessman malese in affari con Hun Sen. Criticare il premier può costare la vita: uno dei più noti contestatori, Kem Ley, è stato freddato in pieno giorno a Phnom Penh due anni fa.
Voti, salari e bustarelle
In tale clima, un trionfo alle urne è scontato. Per ampie fasce di elettori, specie nelle campagne, una bustarella con pochi dollari all’interno è sufficiente a convincerli. Per interi villaggi c’è la minaccia di vedersi tagliati i servizi più essenziali se non rigano dritti. Per i lavoratori del tessile, un settore vitale per l’economia nazionale, sono arrivati strategici aumenti salariali. Ma l’entusiasmo popolare manca. Hun Sen, uno scaltro disertore dei Khmer rossi avvicinatosi poi al Vietnam, che ad acume politico ha sempre stracciato i suoi rivali, lo sa. E ossessionato dal dimostrare la sua legittimità, con il suo controllo della macchina burocratica punta a stravincere. E con un’affluenza elevata.
Crescita e diseguaglianze
Di fatto non ci sono alternative, e comunque il governo può vantarsi di aver fatto il crescere il Paese del 7% l’anno dal 2000. Di sicuro moltissimi cambogiani vivono meglio ora rispetto alla miseria di venti anni fa. Ma le disuguaglianze sono enormi, e gran parte della crescita finisce nei portafogli di una ristretta cricca corrotta di affaristi vicini al governo. Che per anni è stata tenuta su prima dagli aiuti occidentali, e poi dal decollo dell’export del tessile e in generale della crescita economica del Sud-est asiatico. Da qualche anno il governo si è gettato nelle braccia della Cina, e per questo sente di poter fare quello che vuole in tema di diritti umani.
Pechino spalleggia il regime con aiuti umanitari, ma anche con una quantità di investimenti che surclassa i rivali. Progetti di casinò sulla costa, dove ormai i cinesi hanno colonizzato la località turistica di Sihanoukville. Grattacieli per l’élite nella capitale Phnom Penh, autostrade e aeroporti. Il tornaconto per i cambogiani è misero: per la costruzione vengono impiegati solo lavoratori cinesi. Ma in compenso, Hun Sen ha l’appoggio solido del suo nuovo protettore.
Quando nei primi anni Novanta l’Onu la prese in mano, la Cambogia era in macerie dopo la follia genocida di Pol Pot e oltre un decennio di guerra civile. L’Onu gli stilò una Costituzione e organizzò le prime elezioni. Hun Sen pian piano eliminò i suoi principali avversari, spesso con un misto di bastone e carota, ma almeno una parvenza di istituzioni democratiche rimaneva. Ora non più: e lui ha già dichiarato di voler governare per altri dieci anni. Per il dopo, sta già preparando i suoi tre figli. L’unica minaccia a lungo termine è una popolazione che per metà ha meno di 25 anni. Un’intera generazione che ha visto solo Hun Sen al potere, e che forse un giorno riuscirà a ritrovare la forza per cambiare. Ma che ora, come tutta la Cambogia, è nel tunnel verso la dittatura.

Corriere 24.7.18
Memoria
Italiani sui lazzaretti del mare
Le navi dei nostri emigranti respinte quando scoppiavano epidemie a bordo
Durante i viaggi per l’America si consumavano autentiche stragi per colpa degli armatori più cinici
di Gian Antonio Stella


«La lunga sosta lì, davanti alla costa sognata da anni, a due bracciate da quel Brasile che aveva animato sere e sere di chiacchiere e di sogni nei filò nelle stalle, a un soffio da quell’America per la quale tanti si erano venduti la casa e le vacche e le pecore, fu un tormento». Il diario di Cesare Malavasi, partito per la «Merica» dalla provincia di Modena, è un documento eccezionale per ricordare le Navi di Lazzaro, titolo di un libro di Augusta Molinari (Franco Angeli), cariche di emigranti italiani che sognavano di «catàr fortuna» nei lontani continenti e furono respinti.
Anche i nostri nonni subirono feroci blocchi navali. Costati centinaia di morti. Il piroscafo Nord America, per citarne uno, fu respinto nel 1892 da ben tre Paesi: l’Argentina, l’Uruguay, il Brasile. C’era un’epidemia a bordo. E gli italiani, come scrisse l’americana Regina Armstrong nel 1901 su «Leslie’s Illustrated», erano visti tra gli immigrati più a rischio: «C’è una gran quantità di malattie organiche in Italia e molte deformazioni, molti zoppi e ciechi, molti con gli occhi malati…».
Non bastasse, ai problemi sanitari si aggiungeva l’immonda ingordigia di certi armatori. Dice tutto il caso della Carlo R., una nave merci riadattata al trasporto di «tonnellate umane» che, salpata da Genova a fine luglio 1894, si fermò a Napoli per caricar altri migranti. Manco il tempo di allontanarsi di 300 miglia, scrive Tomaso Gropallo in Navi a vapore e armamenti italiani (Bertello editore), e già c’era a bordo il primo morto. Colera. Buon senso imponeva l’inversione di rotta, ma il capitano Scipione Cremonini, per non obbligare l’azienda a restituire i soldi dei biglietti, decise di tirare diritto. Un errore spaventoso. Arrivata al largo di Rio de Janeiro con l’epidemia che falciava i passeggeri, la Carlo R. fu fermata: attracco vietato. Cremonini cercò di forzare il blocco, le cannoniere di Rio risposero sparando alcuni colpi intimidatori. Disperati, i nostri nonni tentarono una rivolta. Domata con l’arresto e la reclusione nelle stive più malsane. Costretti a riattraversare l’oceano, vennero dirottati all’Asinara per una quarantena. Nell’autodifesa, lo stesso comandante fornì il numero dei morti: 141 per il colera più 70 per altre epidemie.
Non diverso fu il destino di altri piroscafi. Come il Matteo Bruzzo, una carretta del mare che più volte aveva rischiato il naufragio. Caricata «una turba» di 1.200 emigranti quasi tutti italiani, si legge in un rapporto del ministero dell’Interno, la nave salpò da Genova per Montevideo il 30 ottobre 1894 quando una epidemia di colera si era già manifestata pure in Liguria: «Sapevasi che le repubbliche del Plata» cioè l’Argentina e l’Uruguay «avevano dichiarato chiusi i loro porti alle provenienze da luoghi infetti, ma speravasi che il piroscafo sarebbe stato immesso a libera pratica dopo una quarantena in quei lazzaretti. E con questa speranza, fondata o no, ma sicuramente non bastevole ragione per giustificare la partenza, si uscì dal porto di Genova». Una scommessa. Rischiosissima.
Arrivati un mese dopo a Montevideo i nostri immigrati furono, com’era scontato, respinti. A metà novembre, decimati dai lutti, gli italiani chiedevano aiuto alle autorità brasiliane. Ma alla vista del bastimento «alcune cannonate partite dal forte di Santa Cruz lo obbligarono a fermarsi ed a retrocedere, in attesa di ordini. E furono d’abbandonare immediatamente le acque del Brasile». Il giorno dopo il piroscafo entrò comunque in rada, invocando acqua e provviste. D’accordo. Ma «il comandante del porto avvertì il capitano che qualunque mossa fosse fatta a bordo per isbarcare, il piroscafo sarebbe stato preso a cannonate a fior d’acqua».
Aggrappati al sogno di spuntarla, i nostri tennero duro per giorni. Certo, c’erano anche lì lazzaretti per i malati costretti a una quarantena. Gli immigrati, però, erano «foresti». Venivano dopo. Prima i brasiliani. Prima gli uruguagi. Prima gli argentini. E fu così che, riprende il rapporto italiano, «due navi da guerra brasiliane si avvicinarono ed intimarono nuovamente la partenza. Ed il piroscafo si fece il giorno stesso sulla via del ritorno». Una traversata di pianti e morti. Quando i sopravvissuti arrivarono a Pianosa era il 20 dicembre. Ripartirono per Livorno il 27 gennaio. Un calvario. Lo stesso vissuto quell’anno dall’Andrea Doria, costretto al tragico gioco dell’oca attraverso l’oceano fino al blocco navale brasiliano e al ritorno al punto di partenza…
Cesare Malavasi, il cronista autore de L’odissea del piroscafo Remo, ovvero il disastroso viaggio di 1500 emigranti respinti dal Brasile, incrociò due volte, davanti alla costa di Rio quell’altra nave di sventurati. Prima quando la vide mentre «recavasi a dar sepoltura ai cadaveri che aveva a bordo» poi quando «ritornò il vaporino Nereide con 2 uffiziali a bordo dai quali si seppe che i morti nel piroscafo Doria erano 92». Un numero che nel viaggio di ritorno sarebbe quasi raddoppiato fino a salire a 159. Una strage.
Tutti quei nostri nonni vissero storie simili a quelle narrate dal cronista del Remo. Sul quale il colera e la difterite salirono a bordo durante l’imbarco a Napoli di 700 partenti supplementari e fecero tante vittime da generare una muta rassegnazione: «Siamo al giorno 4 ottobre, sonvi morti e ammalati; ma io per non annoiare il lettore farò cenno di un solo caso». La fame, le notti pigiati nei dormitori, il rancio scadente («producendo alla massa dei passeggeri diarree, dissenterie…»), l’attesa impaziente: «È il 4 settembre, il cielo è sereno, il mare calmo e sul volto d’ognuno si legge un’ilarità indescrivibile. Si parla solo dell’America, si pretende precisare il giorno e persino l’ora del desiderato arrivo…». L’angoscia all’Isola Grande: «Sul pennone sventolava la bandiera gialla».
Un centinaio di poveretti, «che non ne potevano più, implorarono il comandante di far cessare l’agonia. Il comandante allargò le braccia. Intanto continuavano a morire vecchi e bambini, uomini forti come tori e donne dal fisico fragile e minuto…» Fino allo spossante e cupo ritorno verso l’Italia: «Il preciso numero dei morti ben rare volte si conosce perché di nottetempo, quando tutti sono nelle loro cuccette, vengono buttati a mare». L’arrivo all’Asinara, dove erano già ormeggiati o in arrivo altri «4 vapori con un 7.000 persone a bordo». Le notti nei ricoveri «sdraiati su di un grosso strato di arena del mare, la quale ne forma il pavimento», il «vento frigidissimo», l’assenza di acqua dolce, le fosse comuni per i morti, saliti a 91, «scavate nel vivo sasso, col mezzo delle mine». Nessuno ricorda più quei decessi, all’Asinara. Né sa più dove fossero le fosse comuni. Eppure il piccolo grande cronista del Remo aveva scritto «perché gli uni apprendano che tante rotte dell’emigrazione sono una tratta di bianchi» e «perché gli altri ne ritraggano ammonimento, allorché, sorrisi dalla speranza di un lucro onorato, daranno l’addio alla dolce patria».

Corriere 25.7.18
Il battito d’ali del Sessantotto
Svolte Cinquant’anni dopo, Marcello Flores e Giovanni Gozzini ridiscutono la (il Mulino)
Eventi limitati generarono mutamenti globali. E trionfò l’individualismo
di Fulvio Cammarano


Tra i volumi sul Sessantotto usciti recentemente, uno dei più stimolanti è senza dubbio quello di Giovanni Gozzini e Marcello Flores intitolato 1968 (il Mulino) che, richiamandosi «all’approccio della World History», vede nel Sessantotto una «data spartiacque dell’intera seconda parte del Novecento». Il Sessantotto infatti è, sì, la celebrata/denigrata esplosione di movimenti studenteschi, destinata nel breve periodo a una sconfitta politica, ma è anche il motore di lente e spesso carsiche trasformazioni che nel lungo periodo hanno modificato il rapporto tra potere e società civile.
Rifacendosi alla teoria dell’«effetto farfalla», gli autori vedono negli studenti in piazza un battito d’ali lì per lì ignorato, in grado però di cambiare le condizioni iniziali: «I processi storici si alterano in modo inizialmente impercettibile, ma alla lunga decisivo». Nonostante la sua dimensione elitaria (gli studenti attivi erano appena il 4 per cento di una coorte generazionale «“viziata” dalle aspettative su di essa riversate dalla generazione precedente»), «il Sessantotto rappresenta il primo evento della storia umana ad accadere simultaneamente ai quattro punti cardinali del mondo, di qua e di là della cortina di ferro (...) nel Sud del sottosviluppo e nel Nord dell’opulenza». Si tratta di un argomento non di poco conto, sino ad oggi stranamente «sottovalutato nella produzione storiografica».
Gli autori mostrano con una messe di dati tale ubiquità planetaria, mettendo a fuoco le caratteristiche del fenomeno anche oltrecortina e nel mondo musulmano, indagando le peculiari reazioni e trasformazioni che, almeno in parte, possono essere fatte risalire a quel «battito d’ali»: nei diritti umani, nella globalizzazione finanziaria, nell’organizzazione del lavoro, nell’uso della violenza terroristica, nel linguaggio informatico e nella cultura globale.
Il Sessantotto è certamente frutto dell’incremento di benessere, a cui sono collegati il baby boom, la moltiplicazione dei media e soprattutto degli universitari. Fattori che però non bastano a spiegare quei fermenti il più delle volte nati da circoscritte contestazioni locali molto diverse tra loro, legate solo dal filo rosso di una politicizzazione «sul campo», che non di rado è quella dello scontro con le forze dell’ordine. Proteste che, per contagio imitativo, cominciano anche a travalicare i contenitori «istituzionali» (partiti e sindacati ad esempio) riuscendo a generare, grazie ai media, il «mood emotivo» della consapevolezza di «far parte di un punto di svolta comune».
Ma perché una silloge di contestazioni diventa il «Sessantotto»? La risposta va cercata nelle aspettative deluse. In questo senso il raffronto con gli anni Venti, ipotizzato dalla Cia, è piuttosto emblematico: «Esistono evidenti parallelismi tra la situazione odierna e le condizioni di sfiducia, disperazione e inclinazione alla violenza che erano presenti nel primo dopoguerra».
Il Sessantotto interpretò la frattura fra desideri ed aspettative, alimentate dall’enfasi sulle sorti progressive di una democrazia che prometteva crescita, diritti e «diritto alla felicità», e la realtà di una politica stretta dalle maglie del confronto bipolare, dei limiti della democrazia del benessere, delle delusioni per gli ostacoli ad un’inclusione piena di donne, afroamericani e popoli in lotta contro il giogo coloniale. La critica al principio di autorità, spesso espressa in nuovi modi di socialità pubblica, diventa però il cavallo di Troia attraverso cui la soggettività individuale irrompe sul palcoscenico collettivista. Per la prima volta un movimento che si batte per una maggiore giustizia sociale, si pone dalla parte dell’individuo contro la massa amorfa e consumista.
È nel dissolvimento della vecchia etica che va letta anche la nuova relazione tra operaio e fabbrica. La libertà, più della giustizia, scardina i rapporti di potere della gerarchia «fordista», una prospettiva questa che avrà esiti paradossali, quando il capitalismo prometterà la soddisfazione dei bisogni proprio attraverso il consumo individuale. Di fronte a una sollevazione che rivoluziona il personale e il politico, una domanda cruciale è quella del rapporto tra violenza e terrorismo. All’interno di trame discorsive incentrate sul recupero della violenza rivoluzionaria, la sua «pratica» rimane però limitata ad una sparuta minoranza e questo induce a riconnettere locale e globale, ma anche ripensare le schematiche relazioni fra contestazione e terrorismo.
Per gli autori dunque, solo considerando il Sessantotto un catalizzatore/acceleratore di fenomeni in parte già avviati, si riuscirà a trasformarlo da mito antinomico a evento storico, il che, in una società sempre alle prese con un «passato che non passa», non sarebbe un risultato da poco.

Il Fatto 25.7.18
Quattro vittime, un errore e l’angoscia di appartarsi
Terza puntata dedicata ai delitti di Firenze - Due uomini tedeschi freddati con la solita calibro 22, mentre i fidanzatini di Vicchio vengono anche accoltellati: è l’omicidio più cruento
Quattro vittime, un errore e l’angoscia di appartarsi
di Davide Vecchi


Gliel’hanno gridato di cella in cella, nel carcere delle Murate, dove Francesco Vinci era rinchiuso dall’agosto del 1982 accusato di aver ucciso cinque coppiette e di essere il mostro di Firenze. Il 10 settembre 1983, dietro le sbarre, gli gridano: “T’han rubato il lavoro”. Quella mattina, a Giogoli, tra il Galluzzo e Scandicci, al confine tra città e campagna toscana, vengono trovati altri due cadaveri uccisi sempre con una calibro 22 Long Rifle e sempre con proiettili Winchester serie H, la firma del mostro.
Si erano appartati in un furgoncino Volkswagen per dormire, appena nascosti dietro gli alberi. I corpi, questa volta, vengono trovati all’interno del furgone, ancora stesi sui lettini: non sono stati trascinati fuori e allontanati, né accoltellati né è stata mutilata la donna. Perché, semplicemente, la donna non c’è: sono due uomini, due artisti tedeschi entrambi coi capelli lunghi. Questo, secondo gli inquirenti, avrebbe ingannato il mostro. Che però è tornato a colpire. A uccidere. E ancora una volta la scena del delitto non viene transennata.
Come per i duplici omicidi precedenti, gli inquirenti si rivelano totalmente impreparati. Alla Procura di Firenze è arrivato Pier Luigi Vigna, inizia a occuparsi del mostro. Quando arriva a Giogoli assieme alla collega Silvia Della Monica, trova talmente tante persone tra curiosi, fotografi e passanti che decide di lasciar perdere i rilievi nella zona intorno al furgone e tenta di “salvare” i possibili reperti conservati nel veicolo: lo fa portare nell’istituto di medicina legale con un carro attrezzi e senza toccare né spostare i cadaveri né altro.
Vinci, il sardo arrestato per omicidio pluriaggravato, chiede la scarcerazione. Ma non viene concessa. Né in quel settembre 1983 e neanche immediatamente dopo il 29 luglio 1984 quando il mostro tornerà a colpire a Vicchio, lungo la strada provinciale Sagginalese. Qui viene trovata una Fiat Panda celeste. A bordo ci sono Claudio Stefanacci di 21 anni e Pia Rontini, appena 18enne, impiegata al bar della stazione e majorette nella banda del paese. È una ragazza speciale, Pia. Ma il mostro non lo sa. Per lei è un massacro. Viene raggiunta da due colpi di pistola, poi portata fuori dall’auto. Tra i rovi. Trascinata per metri sulla terra. È ancora viva. La colpisce con diverse coltellate di cui due alla gola. Le asporta il pube e il seno sinistro. La ragazza sarà trovata con la camicetta e il proprio reggiseno stretti nella mano destra. È il delitto più cruento finora messo in atto dal mostro.
Vinci fa una nuova istanza di scarcerazione: è ormai chiaro che non sia lui il mostro. Ma solamente il 26 ottobre 1984 viene liberato e sarà assolto in via definitiva per non aver commesso gli omicidi nel dicembre 1989.
Se prima a Firenze c’era timore di appartarsi, dopo il delitto di Vicchio si diffonde il terrore. I genitori pur di non sapere in pericolo i figli, il sabato sera vanno al cinema, escono per lasciar loro casa. Il Comune allestisce delle aree di parcheggio dove appartarsi in sicurezza. Viene creata la Sam, squadra speciale antimostro, guidata da Perugini. Il poliziotto, con esperienze specifiche precedenti maturate anche nell’Fbi, fa riunire tutti i reperti dei delitti. Ma scopre che in realtà poco era stato fatto. O meglio, che nessun risultato concreto era stato raggiunto. Dal punto di vista investigativo le carenze erano enormi. Gli errori pure. Le indagini devono ricominciare da zero. Neppure la scena del delitto di Vicchio viene transennata con tempestività e molti rilievi si rivelano inutili. Impossibile, ad esempio, individuare quali impronte ha lasciato l’aggressore e quali i curiosi accorsi o gli stessi agenti di polizia. Sullo sportello destro dell’auto vengono trovate due impronte digitali e altre nella parte alta della portiera, ci sono anche alcune macchie di sangue sulla cornice del finestrino e sul predellino della macchina. Vengono analizzate. Appartiene a Pia. Il sangue. Le impronte? Non si sa. Ancora una volta è evidente come gli inquirenti brancolino letteralmente nel buio.
Sulle indagini è impegnato anche un altro magistrato, il sostituto procuratore Paolo Canessa, che dedicherà molti anni alla vicenda. A tentare di dar loro una mano si aggiunge anche Renzo Rontini, il papà di Pia. L’uomo non riesce a starsene ad aspettare e tenta di collaborare. Investe tutto quello che ha nelle ricerche del colpevole. Vuole veder catturata la bestia che ha massacrato in quel modo la figlia appena 18enne. Renzo è un uomo forte. Determinato. Un ingegnere navale, lupo di mare, capitano di macchine sulle petroliere sulle quali ha fatto ben 18 volte il giro del mondo. Per poter aiutare gli investigatori, un po’ alla volta, si ritrova costretto a lasciare il lavoro. Si indebita. Ipoteca la casa. Fa ricerche da solo. Arriva a contatto con pseudo santoni, prostitute, papponi, strozzini. Brutti giri. Che non portano a nulla. Con gli anni finisce sul lastrico. Sacrifica e perde tutto. Negli anni crea una familiarità con magistrati e forze dell’ordine che indagano sui delitti. E gli unici ad aiutarlo saranno proprio gli uomini del sindacato di Polizia Sap, che riescono a garantirgli una sorta di pensione da un milione di lire mensili. Consumato dal dolore, nell’ottobre 1998, muore colpito da un infarto proprio davanti alla Questura, dove stava andando per ricevere l’assegno e chiedere aggiornamenti sulle indagini. “Allora, che avete scoperto?”, chiedeva ogni volta. A Vicchio le vittime del mostro sono tre, non due.
(3. continua)