il manifesto 22.7.18
Da Spinoza a Diderot, il lungo processo dei Lumi
Illuminismo. Furono Margaret Jacob e Jonathan Israel a dare una ampia cornice storiografica alla categoria dell’illuminismo radicale: ora Carlo Borghero, per Le Lettere, ne verifica genesi e statuto
di Mario Mancini
«Illuminismo radicale» è tra le categorie più potenti e fortunate che si sono imposte per la narrazione della storia del pensiero moderno, e questo grazie alle opere di Margaret Candee Jacob, The Radical Enlightenment (1981, trad. it. L’illuminismo radicale, il Mulino, 1983) e di Jonathan I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity 1650-1750 (2001), seguito da A Revolution of the Mind. Radical Enlightenment and the Intellectual Origins of Modern Democracy (2009, trad. it. Una rivoluzione della mente, Einaudi, 2011). Con le sue ambizioni e le sue narrazioni questo disegno interpretativo, relegando ormai al passato l’idea della presunta «astrattezza» dell’Illuminismo e della sua povertà filosofica, ha riscoperto le tendenze più inquiete e «radicali», le correnti scettiche, libertine, materialistiche.
In questo vivacissimo quadro delle interpretazioni dell’Illuminismo ci introduce, mettendo opportunamente al centro il dibattito storiografico, il corposo e ben argomentato volume di Carlo Borghero Interpretazioni, categorie, finzioni Narrare la storia della filosofia (Le Lettere, pp. 534, € 38,00). Il suo discorso diviene discussione puntuale di tante cruciali categorie, ora utili come strumenti classificatori, ora elevate a miti: età classica, razionalismo cartesiano, crisi della coscienza europea – che è il titolo di un importante e influente libro di Paul Hazard, 1935 – libertinismo, spinozismo e, appunto, «illuminismo radicale». Queste immagini che sono emerse nel corso della tradizione per descrivere e interpretare la filosofia del Sei-Settecento, così diverse e anche conflittuali, non sono errori di lettura o forzature ermeneutiche, ma devono essere indagate come oggetto primario della storia della filosofia.
Il volume si configura, nelle sue linee di fondo, come una verifica delle interpretazioni di Jacob e di Israel, che vengono ricostruite in tutta la loro complessità, senza nascondere, all’occasione, perplessità e riserve. Jacob, in Radical Enlightenment, riscopre un mondo variegato di scrittori, giornalisti, editori e librai accomunati da idee politiche repubblicane, convinzioni panteistiche e deistiche e, in molti casi, dall’appartenenza alla massoneria. Questo movimento trova la sua maggiore espressione prima in Inghilterra e dopo il 1720 in Olanda e si caratterizza come un vasto movimento di idee, condividendo ideali di tolleranza religiosa, di critica della metafisica e di democrazia politica. Locke, Newton e Spinoza sono gli autori di riferimento di questi intellettuali, la cui figura più rappresentativa è quella di John Toland, interprete eterodosso dell’ideologia newtoniana. Il lavoro della Jacob riporta in luce testi di grande interssse, recuperando dottrine seicentesche eterodosse, e ricostruisce sapientemente la complessa trama della rete clandestina massonica. Mette anche in discussione il ruolo progressivo dell’Illuminismo «ufficiale», identificato con l’anima filosoficamente e politicamente moderata, opposta a quella panteistica, repubblicana, «radicale». Il rilievo dato ai movimenti massonici e clandestini comporta però un rischio, che Borghero non nasconde: «In questo modo si attenuava però, fino a quasi perdere importanza, il valore dell’uso pubblico della ragione, che da Voltaire a Kant era stato affermato e praticato come caratteristica essenziale dei Lumi, ed era stato visto come il tratto distintivo degli illuministi rispetto al nicodemismo e alla doppiezza dei libertini».
Israel, in Radical Enlightenment, ricostruisce le vicende della formazione intellettuale della modernità dalla prima e contrastata diffusione della filosofia cartesiana — così dirompente nel suo meccanicismo — nei Paesi Bassi, fino alla circolazione dei manoscritti clandestini in Francia e alla formazione di un materialismo francese con La Mettrie e Diderot. Egli anticipa al trentennio 1650-1680 la crisi della coscienza europea, cioè la fase di transizione che precede l’attacco sferrato dall’Illuminismo, e colloca nel periodo 1680-1750 il drammatico ripensamento che rivoluziona l’intero ordine intellettuale occidentale e lo obbliga a indirizzarsi lungo linee razionalistiche e secolarizzate. Israel attribuisce un’importanza fondamentale a Spinoza e allo spinozismo, un’importanza forse eccessiva, per Borghero, che richiama il ruolo di autori come Hobbes, Newton e Toland, per poi però ammettere che il Tractatus theologicus-politicus di Spinoza segna un eccezionale punto di svolta, e che senza Spinoza non si comprende Diderot.
Sia Jacob che Israel mettono al centro del loro discorso la circolazione dei manoscritti clandestini, il ruolo dei free thinkers e dei libertini. Borghero riprende e approfondisce il tema delle correnti eterodosse prima del Settecento, dialogando fittamente con le ricerche di Eugenio Garin e di Tullio Gregory — che tanto hanno insistito sulla continuità tra Rinascimento e Illuminismo — e proponendoci un panorama di grande fascino. Entrano in campo autori come Epicuro, Lucrezio e Sesto Empirico, Montaigne e Charron, Pomponazzi e Machiavelli, Rabelais e Luciano. È un viaggio avventuroso e sorprendente: l’Illuminismo radicale deve la sua radicalità non solo al meccanicismo cartesiano, ai principi di Locke e di Newton, ma anche a forme di ragione e di critica che vengono dal mondo del Cinquecento e del Seicento.
Il Fatto 22.7.18
Il grande peso della memoria
di Furio Colombo
Alcuni eventi sono dei veri e propri gridi di allarme, un gesto disperato di liberazione da qualcosa che non si può sopportare, la memoria. Ho visto questo segno di disperazione nella lettera demenziale, camuffata da scherzo lugubre, inviata il 13 luglio scorso (resa nota dal Corriere della Sera il 18 luglio) ad Adachiara Zevi, personaggio internazionale della critica d’arte contemporanea, nota e autorevole come ideatrice e realizzatrice della Biennale Internazionale “Arte in Memoria” (allestita nella Sinagoga di Ostia Antica) e come organizzatrice in Italia delle “Pietre d’inciampo” (ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig).
Pietra d’inciampo è un sampietrino di ottone dorato collocato di fronte alla casa in cui ha abitato una persona o famiglia deportata a norma delle leggi razziali (più giustamente dette razziste), con l’indicazione del nome, della data della deportazione, della data e luogo della morte nell’universo nazista e fascista di uno sterminio, bene organizzato con la complicità di collaborazione e silenzio, come ci raccontano, anche in questi giorni, con calma e precisione Liliana Segre al Senato e Lia Levi nel suo bellissimo romanzo Questa sera è già domani.
C’è anche una legge sul “Giorno della Memoria” per la Shoah, 27 gennaio, abbattimento dei cancelli di Auschwitz (la legge 211, entrata in vigore nell’anno 2000) e tutto ciò offre un contesto che dovrebbe essere molto nitido e molto forte al lavoro fervido di Adachiara Zevi, che attraverso “Arte in Memoria” e le pietre di inciampo ha cambiato esperienza e conoscenza di molti italiani sul loro, sul nostro passato.
Ma proprio qui io vedo il segno e il senso del furore che, a cicli sempre più stretti e più crudi, si solleva contro personaggi (specialmente se noti e creativi) che impediscono la polverizzazione della memoria. Penso a quel gruppo di Como, 17 camerati entrati arbitrariamente in una casa della città per obbligare un gruppo di persone, al lavoro per i migranti, ad ascoltare un loro demenziale documento. È stato un atto in apparenza inutile e penoso che però ha segnalato all’orda anti immigrazione che si poteva fare, e che si stava consolidando in un rapporto di lavoro fra vecchio fascismo (basato su disprezzo e persecuzione) e nuovo nazionalismo, fondato sulla chiusura dei porti e delle frontiere ed esaltato dal grido “la pacchia è finita”. Dove “pacchia” significa aggrapparsi, col bambino morto, ai relitti di una barca distrutta con soldi italiani da banditi detti “guardia costiera libica”, in un’operazione un pò rude organizzata affinchè nessuno si illuda che “la pacchia” di sopravvivere, possa ancora durare.
Ora mettetevi nei panni di un vero discepolo di Hitler, disturbato dall’attivismo di “Arte in Memoria”, della diffusione delle pietre d’inciampo, del continuo lavoro di collegare il presente al passato, affinché tutti si rendano conto del senso di ciò che è avvenuto allora e che potrebbe avvenire adesso. Questo discepolo di Hitler, non può non vedere in Josepha dallo sguardo perduto, in acqua accanto al bambino morto, la rappresentazione africana della Shoah in mezzo al Mediterraneo. Ma proprio questo lo stimola a insultare la docente ebrea che ha riempito Roma di pietre di inciampo e i musei italiani di “Arte in Memoria”.
Il fascista sa di essere minacciato dalla memoria. Ma constata di essere circondato da camerati che gridano, come lui intende gridare alla Zevi, “la pacchia è finita”. E mentre si moltiplicano, intorno a Brescia e intorno a Rimini le ronde miste di fascisti e leghisti, non sembra vero a certi seguaci del nazionalsocialismo di sapere che non corrono rischi nel dire agli ebrei, ciò che viene detto agli africani: “Noi, razza bianca e cristiana, siamo liberi finalmente di manifestare il nostro sano e assoluto suprematismo”.
Mai dimenticare che uno dei punti fondamentali del manifesto della razza era “gli ebrei non sono italiani, sono stranieri e come tali un pericolo sia politico che religioso”. Fontana, il nuovo presidente leghista della Lombardia, ha esaltato la “razza italiana” nel suo primo intervento elettorale.
Ovvio che il nazifascista che ha scritto ad Adachiara Zevi (a nome di Hitler) il suo dispiacere per non aver potuto partecipare personalmente allo sterminio, sa che il clima è giusto per simili parole. Invece di essere preso per pazzo, sarà accettato come un camerata delle ronde, o uno scafista diventato guardia costiera libica, a cura del governo italiano deciso a porre fine alla “pacchia” che consente ai profughi di sopravvivere.
Corriere La Lettura 22.7.18
Nietzsche oltre l’uomo
Non già un Superuomo fu quello immaginato dal più grande diagnostico della crisi europea, piuttosto un nuovo stadio antropologico, un salto evolutivo della nostra specie, mutando la stessa natura psico-fisica dell’individuo e smussando le distanze con i robot
di Claudio Magris
Per molti anni l’immagine diffusa di Friedrich Nietzsche, il più grande diagnostico della crisi europea ancora e sempre più in atto, era quella dell’araldo del Superuomo o addirittura del precursore ideologico delle dottrine nazionalsocialiste. Immagine falsificante che si richiamava certo ad alcuni elementi presenti nel suo pensiero, ma astraendoli dalla sua opera complessiva e distorcendoli unilateralmente. In un suo recente, affascinante saggio Claudia Sonino analizza e illustra il grande ruolo avuto da Nietzsche per gli ebrei che volevano distanziarsi dalla borghesia ebraico-tedesca, assimilata e patriottica, e aderivano invece con passione al nascente e già vitale sionismo di Theodor Herzl. Maestri dell’ebraismo specialmente orientale, chassidico, quali Martin Buber e Gershom Scholem si proclamavano nietzscheani.
Padre dell’avanguardia che in ogni campo ha sconvolto, lacerato, dissestato e rigenerato la cultura europea e soprattutto i suoi linguaggi, Nietzsche — ha scritto molti anni fa in un acutissimo libretto Guido Morpurgo-Tagliabue — era un genio presbite e strabico.
Vedeva lontano; ha visto più di un secolo e mezzo fa ciò che sta accadendo ancora oggi e avverrà ancor più furiosamente domani: l’avvento non del Superuomo, di un superman dominatore e amorale, bensì di un «oltre-uomo» felicissima traduzione-interpretazione di Gianni Vattimo nel suo saggio fondamentale e innovatore. Un nuovo stadio antropologico, quasi un salto evolutivo della nostra specie che sta avvenendo non in tempi lunghissimi come in passato ma con una velocità che sembra sfondare il muro del tempo come in un racconto di fantascienza, rendendo le diverse generazioni reciprocamente lontane quasi fossero specie diverse o stadi diversi dell’evoluzione, mutando la stessa natura psico-fisica dell’individuo e smussando le distanze tra uomo e robot.
«L’insuperato Nietzsche» — come lo ha definito qualche anno fa il cardinale Angelo Scola, che è stato patriarca di Venezia e arcivescovo di Milano, in un incontro tenuto a Trieste — ha visto e annunciato da presbite tale mutazione, ma, da strabico, ha spesso alterato e stravolto la realtà, la cultura, la vita che prendeva di mira.
Presi alla lettera, molti suoi giudizi, specialmente sull’arte e gli artisti a lui contemporanei, sono inaccettabili e talora aberranti. Un esempio estremo è la sua delirante e patetica stroncatura di Richard Wagner. Probabilmente i suoi insulti contro Wagner nascevano da uno choc morale dinanzi a certe prevaricazioni e miserie dell’uomo Wagner e dallo sgomento di fronte a un tale scompenso fra etica e genio creativo. Nietzsche, il distruttore della morale, è stato uno degli uomini più sensibili, più puri e più moralisti che siano esistiti. La prospettiva strabica dei suoi scritti su Wagner rivela forse pure un amore mai estinto anche se rimosso e capovolto per la grandissima arte di Wagner.
Ciò non giustifica il furore doloroso e anche banalmente offensivo delle sue pagine wagneriane, ma attraverso la sua distorsione strabica Nietzsche coglie un fenomeno che sarà sempre più di radicale importanza nella civiltà contemporanea ovvero le nuove modalità del consumo dell’arte e in particolare del consumo di massa. Pure in quelle pagine, insostenibili quali giudizi, Nietzsche annuncia ciò che avverrà, ciò che dopo di lui è già accaduto, che sta ancora avvenendo e che ulteriormente dilagherà, la totale e totalitaria forma del consumo della vita, dell’arte e dell’uomo stesso.
Nietzsche era un genio, forse più poeta che filosofo — «quest’anima avrebbe dovuto cantare», dice di lui un verso di un grande poeta tedesco, Stefan George — ma incapace di esprimere in poesia (tranne pochissime, dolorose liriche) la sua anima, la sua tragedia, il suo smascheramento delle cose. L’unico suo libro brutto è quello più famoso, Così parlò Zarathustra, fastidiosamente liricheggiante e retorico, impari anche stilisticamente ai suoi capolavori, asciutti e al calor bianco, quali Aurora, La gaia scienza, i Frammenti postumi e altre opere. L’opera di Nietzsche è un viatico, non un sistema; un sale e non una pietanza, ma un sale assolutamente necessario. Non si può — sarebbe solo ridicolo — essere nietzscheani, come si può invece essere kantiani o marxisti, ma senza Nietzsche non si comprende quasi nulla di ciò che accade nel mondo e nelle teste.
L’essenza di Nietzsche non è stata ancora capita, dice Sossio Giametta, instancabile, acuto e rigoroso interprete di Nietzsche, collaboratore della fondamentale edizione critica di Nietzsche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, traduttore di tante opere nietzscheane e di recente autore dell’illuminante Introduzione a Nietzsche. Opera per opera (Garzanti). La sua passione è indissolubile da un umanesimo partenopeo che impedisce ogni succube o esaltato culto del tragico filosofo; culto in cui sono caduti, talora non senza ridicolo, anche grandi intelletti, più apostoli che studiosi.
Nietzsche, afferma Giametta, «si riteneva il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, ma ciò era vero solo rispetto agli altri rappresentanti della cultura dell’epoca; non si rendeva conto di essere egli stesso una creatura della crisi europea, maturata ai suoi tempi in tutti i campi, che nutriva sotterraneamente il suo pensiero di solitario nelle sue lunghe passeggiate nei boschi, intorno ai laghi, sulle colline, per essere poi sciolto a casa». Come fanno tutti i geni, ribadisce Giametta, Nietzsche ha incarnato la crisi del suo tempo; col suo pensiero l’ha smascherata e insieme accelerata.
C’è un tema, nelle interpretazioni-mistificazioni di Nietzsche, spesso fraintese e manipolate, particolarmente bruciante. Il suo elogio della forza e, ben più ancora, la sua ostentata avversione alla «congiura (...) sotterranea e maligna dei sofferenti». Un tema più volte ribadito, sottolinea Giametta, forse anche per desiderio di scandalizzare. Come quando scrive «istintiva congiura universale del gregge contro tutto ciò che è pastore, animale da preda, solitario e Cesare, per la conservazione e la vittoria di tutti i deboli, gli oppressi, i malriusciti, i mediocri, i semi-falliti, come una sollevazione di schiavi protratta in lungo, prima inavvertita e poi sempre più consapevole, contro ogni specie di signori e alla fine contro il concetto stesso di “signori”».
In queste espressioni c’è il peggior Nietzsche, quello più enfatico e ingiusto verso sé stesso, impari al suo genio che ha scavato a fondo, attraverso il proprio dramma e talora il proprio strazio, nelle cose essenziali dell’esistenza e nel cuore di un radicale rivolgimento dell’uomo e del mondo. Questa concezione di mettere la vita degli uomini comuni al servizio degli uomini superiori è una banalità pseudo-aristocratica e di fatto plebea ignara di essere un luogo comune di massa, perché quasi tutti, in un modo o nell’altro, si ritengono anime più profonde del volgo che li circonda, geni incompresi.
Ma, anche per quel che riguarda i «deboli» nella sua distorsione c’è un pizzico di verità. L’inaccettabile distorsione è evidente. La tragedia infame dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei malati, dei torturati, dei massacrati è il cancro del mondo, contro cui è necessario e così difficile combattere. Una delle più alte parole della Scrittura dice che, della pietra rifiutata dai costruttori — ossia dell’ultimo, dell’infimo — il Signore farà la pietra angolare della sua casa. Inoltre identificare il debole — qualsiasi sia la sua debolezza — con l’indegno, non è solo crudele ma anche stupido, perché ignora le cause, di volta in volta, della debolezza e dimentica che i presunti deboli hanno tante volte dimostrato genio e coraggio e hanno dimostrato di saper combattere anche duramente.
Ma c’è pure un uso ipocrita e immorale della debolezza. Si sbandiera la propria debolezza per mettere il peso sulle spalle dei forti o presunti forti, considerati buoi perché tirano il carro senza lamentarsi. Si proclama la propria debolezza come se questa garantisse un animo delicato e sensibile che non può portare i pesi; la debolezza dovrebbe garantire una nobile fragilità dei sentimenti e dei nervi, un’anima poetica e sensitiva che soffre ad ogni contrarietà.
Spesso anche nelle famiglie c’è questa latente ingiustizia — specialmente nei confronti della donna — che destina alla fatica il «forte» solo perché non si lamenta e che vizia la dolente svenevolezza o l’ispirata sensibilità. Una punta di quest’ingiustizia c’è forse pure nell’episodio evangelico di Marta e Maria, quando la prima, indaffarata a preparare il pranzo per Gesù e per la sorella, chiede a quest’ultima, che sta ascoltando seduta la parola del Signore, di aiutarla e viene sgridata perché, dice lui, «Maria ha scelto la parte migliore». Ma chi dice che Marta, solo perché affannata con amore a lavorare e a cucinare per lui, fosse meno capace e desiderosa di ascoltare la Parola? Tant’è vero che il Vangelo in qualche modo la risarcisce, perché è lei a fare, in un altro momento, la più grande proclamazione di fede nel Cristo. Quel Cristo contro il quale Nietzsche si è scagliato, ma che ha contraddittoriamente amato, dolendosi che non avesse avuto fra i suoi discepoli un Dostoevskij, il solo a suo avviso capace di raccontare la sua persona e la sua vita, e addirittura firmandosi, al tramonto della propria esistenza, «il Crocifisso».
Nietzsche era un grande malato e anche il rapporto con il malato può essere ambiguo. Aiutarlo, soccorrerlo, ascoltarlo, essergli vicino contribuisce a dar senso alla vita, alla propria e alla sua. Fa capire che malattia e salute sono dei ruoli che inevitabilmente si alternano, ora più ora meno, per ognuno ossia fa toccare con mano il comune destino, l’autentica fraternità umana nella fragilità. Malattia, vecchiaia, morte — debolezze cui non sfugge nessuno, neanche i forti o i pretesi forti; lo stesso Nietzsche ne è un esempio toccante. «Quando eri più giovane», dice Gesù a Pietro, «ti mettevi da solo la cintura e andavi dove volevi, ma io ti assicuro che quando sarai vecchio, tu stenderai le braccia e un altro ti legherà la cintura e ti porterà dove tu non vuoi».
Ma il malato, proprio perché debole, può essere anche un prevaricatore prigioniero della sua malattia; comprensibilmente tutto preso dal suo Io aggredito, non vede e non può vedere altro. Senza rendersene conto, vorrebbe talora che tutti vivessero solo per lui, non può capire che anch’essi possono essere in difficoltà. Si deve certo aiutare il debole ma senza permettergli di prevaricare, anche nel suo interesse, così come chi cerca di salvare un altro che annega non deve lasciarsi tirare anch’egli sott’acqua e se necessario deve pure colpirlo per poterlo portare a riva. Il male, fisico e morale, fa male a tutti e perciò bisogna arginarlo. La debolezza reclama, comprensibilmente, la centralità dell’attenzione ma talora quasi il monopolio; c’è talora in essa una specie di risucchiante vampirismo.
Ho passato, molto tempo fa, un periodo difficile per la mia salute e il mio equilibrio e mi rendevo conto di essere talora insopportabile, tendenzialmente esasperante per le persone che mi aiutavano. Resistere alla tentazione egocentrica e prevaricatrice della malattia — del corpo o dell’anima — è difficilissimo e assai raro, è una delle più grandi virtù. Ho avuto la grande fortuna di conoscere alcune (poche) persone, soprattutto donne, capaci di questa virtù — la virtus latina, valore in battaglia e capacità di preoccuparsi per gli altri pur nella sofferenza, nella consapevolezza della propria fine e nella lotta contro questa fine.
Tutto ciò può succedere non solo a singoli individui, ma anche a gruppi, collettività, minoranze di deboli spesso barbaramente perseguitate, negate, oppresse. È ovvio che questi deboli soffocati dai forti vanno aiutati in ogni modo e con energia, pure difesi con la forza. Ma ogni organismo debole, individuale o collettivo, coltiva facilmente il compiacimento della propria debolezza, il desiderio di sentirsi e proclamarsi debole e perseguitato anche quando non lo è più, usare la propria passata debolezza come un’arma, ora non più necessaria ma intimidatoria. Pure una minoranza liberata da un’iniqua oppressione tende a sentirsi oppressa anche quando non lo è più, sentimento che la gratifica e la sprona a indurre gli ex oppressi o i loro discendenti a sentirsi ancora colpevoli e quindi a loro volta deboli.
Nietzsche era estremamente sensibile al dolore e alla sofferenza; la vista del cavallo frustato e bastonato a sangue in una via di Torino lo ha scosso e turbato al punto di far precipitare il suo collasso psichico. Ha aggredito la morale e ha celebrato la vita al di là del bene e del male, ma non era capace di afferrarla; era troppo morale, troppo buono per poter vivere «la grande quiete meridiana», la serenità marina del puro presente ignaro di comandamenti, divieti e anche pensieri, la spietata trasparenza dell’oscuro fondo della vita.
Nietzsche era vittima di quella morale che egli stesso aggrediva, di quel disagio della civiltà che aveva individuato genialmente, prima di Sigmund Freud, perché lo aveva patito. Ha smascherato genialmente, una volta per tutte, la livorosa meschinità del risentimento, nella vita personale come nella storia della civiltà, ma poteva essere anch’egli meschinamente risentito come quando, rifiutato nella sua richiesta di matrimonio e di amore da Lou Andreas Salomé, che lo amò sempre ma in altro modo, parlò di lei come di una «ragazza senza seno». Con ben altra classe, quest’ultima, tanti anni dopo, operata di cancro al petto con la devastante tecnica chirurgica dell’epoca, disse: «Adesso sì Nietzsche potrebbe dire che sono senza seno».
Corriere La Lettura 22.7.18
L’umanità aumentata
Per natura siamo esseri imperfetti, macchine fragili
Abbiamo capacità cognitive circoscritte, invecchiamo e moriamo, però da sempre abbiam inventato mezzi per non affaticarci, non sentire dolore, riparare tessuti organici danneggiati, rallentare o fermare il decadimento
Oa questa logica viene portata all’estremp sa chi si pone traguardi come il potenziamento intellettivo o addirittural’immortalità cibernetica
di Chiara Lalli
Siamo tutti un po’ transumanisti. Lo siamo letteralmente: usiamo molte tecnologie senza nemmeno rendercene più conto o pensando che siano «naturali», cioè qualcosa che ormai è familiare e non ci fa paura. Radio, computer, telepass, risonanze magnetiche, antifurti. Per non parlare dei telefoni cellulari, vere estensioni del nostro corpo. Come vi sentite quando la batteria si scarica? E quando non c’è campo? E lo siamo soprattutto in un senso allegorico. Vogliamo sconfiggere la morte. È forse la caratteristica più universale e crudele degli animali umani: essere consapevoli della mortalità e, al contempo, dell’impossibilità di rimediarvi. Da Andromeda a Faust, da Ganimede a Silver Surfer fino allo sfortunato Titone, per il quale Era aveva chiesto l’immortalità dimenticando l’eterna giovinezza. Ribellarsi alla morte significa provare a forzare i limiti della condizione umana. Quante illusioni! Quanti fallimenti! Da sempre abbiamo cercato almeno una consolazione. Ognuno lo ha fatto diversamente, ognuno con la propria divinità e la sua specifica promessa di una vita eterna.
Perfino nell’ammissione della nostra impotenza e nel rifiuto di un’illusione si può rintracciare un tratto comune: vogliamo stare meglio. Ma come? Ad alcune domande che un tempo rivolgevamo agli spiriti o agli dèi abbiamo risposto con la scienza. La realtà immateriale è caduta sotto i colpi del materialismo. Viviamo meglio grazie alle tecnologie e tutti ne approfittiamo — a parte alcuni ultraconservatori e luddisti, che si condannano a una condizione che non ha niente di magico o salvifico.
Il transumanismo parte da queste premesse e le amplifica. Una definizione sintetica potrebbe essere: è uno sforzo continuo per superare la nostra condizione umana grazie alla tecnologia. Ma che cosa significa «umano»? Appartenente alla specie Homo sapiens. È una classificazione corretta e indubitabile, ma non basta. È difficile dare una definizione esaustiva, anche perché può avere diverse declinazioni: biologica o descrittiva, esistenziale, morale, storica. Possiamo senz’altro dire che è una condizione cangiante e non stabilita una volta e per sempre, come vorrebbe qualcuno. Come la natura, l’umano è un concetto così nebuloso da rendere ambigua anche la più semplice delle affermazioni. Se ce lo domandiamo rispetto al transumanismo, la condizione umana è quella biologicamente determinata. Siamo sangue, ossa, muscoli. Siamo un sistema imperfetto, una macchina fragile. Le nostre capacità cognitive sono limitate e, soprattutto, invecchiamo e moriamo.
C’è un rimedio a questa inadeguatezza? Secondo i transumanisti sì. Come in ogni gruppo o movimento, i rappresentanti o gli aderenti sono diversi. Possono esserci declinazioni politiche ripugnanti e, come ogni volta che ci si ritrova in più di due, liti furibonde. Liberato da questo rumore di fondo, però, il transumanismo è una visione del mondo affascinante. Non vi piacerebbe imparare a pilotare un elicottero come faceva Trinity in Matrix, cioè caricando un programma nella vostra mente? O migliorare l’attenzione e la memoria (nella sola Inghilterra si spendono 179 milioni di sterline all’anno per ricomprare gli oggetti dimenticati quando si va in vacanza...), liberandoci delle limitazioni del cervello? La lista è potenzialmente infinita: non affaticarsi, non sentire dolore, riparare tessuti e organi danneggiati, rallentare o fermare l’invecchiamento. Eliminare i pregiudizi e gli errori di ragionamento ereditati da un passato che non esiste più, istinti che ci hanno permesso di sopravvivere nella savana ma che oggi ci danneggiano.
Insomma, come scrive Mark O’Connell in To Be a Machine («Essere una macchina», Doubleday, in Italia uscirà in settembre da Adelphi), la premessa del transumanismo non può che essere condivisibile: l’esistenza umana è un sistema subottimale. Certo, come dicevo, bisogna escludere quelli che ancora pensano che siamo al centro dell’universo o non si sono rassegnati alla più dura lezione dell’evoluzionismo: esistiamo, ma potevamo benissimo rimanere nella non esistenza e non è detto che non ci torneremo. Anzi. Se ci liberiamo di questa allucinazione narcisista, è un po’ più difficile giustificare lo scandalo o la condanna del nostro desiderio di migliorarci. E siamo costretti a giustificare i limiti e non solo a invocarli come una specie di entità sovrannaturale.
Se volete un esempio della nostra manchevolezza, pensate alla nascita — suggerisce O’Connell parlando del figlio che ha avuto qualche anno fa. Possibile che non ci sia un sistema migliore del dolore e dei rischi? Rischi che sono inversamente proporzionali allo sviluppo e alla disponibilità di tecnologia e igiene, perché fino a qualche decennio fa la morte puerperale e neonatale era frequente. Com’è ancora nei Paesi meno avanzati e per le persone povere. Possibile che, nel terzo millennio, siamo rimasti a questo stadio primitivo? Per non parlare degli orrori legati alla condizione umana: guerre, massacri, stupri e — come ho già detto — invecchiamento e morte. Possiamo ribellarci? Possiamo liberarcene? L’idea che la nostra biologia non sia un fato immutabile è in fondo all’origine dell’eradicazione del vaiolo o della possibilità di usare protesi per ripristinare la vista, la deambulazione o altre capacità perdute o ridotte. In una parola, della scienza e delle sue improbabili vittorie. È tutto giusto, facile e realizzabile? Ovviamente no.
Una delle credenze più bizzarre e contestabili è forse la crioconservazione dei corpi (o delle sole teste) in attesa che una tecnologia futura ci permetta di scongelarli e tornare a vivere. La nostra mente sarà caricata su un supporto più affidabile e meno caduco. I transumanisti che si affidano a questa credenza (o illusione), hanno un medaglione con le istruzioni da seguire in caso di morte. A pensarci, non è che la reincarnazione o altre credenze religiose siano più verosimili. E per alcuni transumanisti, è più una scommessa che una fiducia razionale nell’immortalità. Vale almeno la pena di scommetterci, un po’ come suggeriva Blaise Pascal.
Non solo. Immaginare di caricare e scaricare il cervello ci pone sempre le stesse domande (il cervello come software non è niente di nuovo). La questione fattuale: siamo in grado di replicare un sistema così complicato e che in larga parte non conosciamo? Quella filosofica: chi si risveglierebbe? Ovvero, se fosse davvero possibile caricare la mia coscienza su un hard disk, sarei ancora io? La medesima domanda vale per il teletrasporto, la reincarnazione e la resurrezione. Per i viaggi nel tempo e gli universi paralleli. È insomma la vecchia domanda che riguardava l’anima o l’essenza. Che cosa significa essere me? In che senso sono la stessa di quando avevo 12 anni? La nostra identità, cioè, non è un’entità fissa e non è per niente facile da definire. E ancora: rischiamo di finire in un nuovo dualismo, più raffinato di quello cartesiano ma pur sempre tale? O di credere a una ideologia diversa dalle religioni tradizionali ma altrettanto fallimentare?
Tutte le utopie, ci ricorda O’Connell, sono interpretazioni revisioniste di un passato mitico. Forse la risposta potrebbe stare qui, in un mito riadattato. Il transumanismo come metafora, almeno nelle sue parti più fantascientifiche, come una narrazione delle nostre paure e delle nostre speranze. Non sarebbe più temerario del fidarsi della psicoanalisi o del prendere alla lettera la Bibbia. Intanto Dmitrij Itskov, miliardario russo fondatore di «2045 Initiative», si sta costruendo degli avatar (robot umanoidi) con l’intento di arrivare entro il 2045 all’immortalità cibernetica: molti corpi diversi e la sua coscienza che passa da uno all’altro.
Il potenziamento cognitivo, infine, non è di per sé un sistema discriminatorio, che finirebbe necessariamente per favorire i ricchi e aumentare il divario con i più disgraziati. Come suggerisce Anders Sandberg, neuroscienziato e transumanista, il beneficio per le persone meno dotate sarebbe più significativo di quello per le più brillanti e l’effetto generale non potrebbe che essere benefico, aumentando l’intelligenza generale. È forse semplicistico, forse venato da un ottimismo eccessivo. Tuttavia la posizione contraria non è meno fragile o contestabile. Non razionalmente, almeno. Non se rinunciamo alla «saggezza della ripugnanza» di Leon Kass. È Max More, ora numero uno di Alcor, la principale azienda no profit di crioconservazione degli esseri umani, a sintetizzare la fallacia dell’ex responsabile del President’s Council on Bioethics: «Se qualcosa gli sembra sbagliato, allora è sbagliato». Le persone che si fidano di questa reazione istintiva sono destinate a ingannarsi. Se anche fosse solo questo l’insegnamento del transumanismo, sarebbe razionale scommetterci.
Corriere La Lettura 22.7.18
Filosofia I nuovi orizzonti della tecnica
Un altro futuro: ma sfidare i limiti della nostra specie comporta rischi
di Donatella Di Cesare
Si potrebbe parlare di un’ideologia dell’anti-destino. A promuoverla è lo sviluppo della tecnica con i suoi effetti travolgenti. Per la prima volta vengono messi in discussione idee, criteri, norme ritenuti a lungo incrollabili. Cadono barriere millenarie. Anzitutto quelle della vita nella sua genesi, qualità, durata, esito. Ciò che era considerato risultato di necessità naturale, o di volontà divina, appare oggetto di scelta. Non più dono, la vita è rimessa alle esperte mani umane, diventando via via sempre più manipolabile. Oltre a mutare il rapporto con la vita, cambia la comprensione di sé, il concetto di persona. Più che essere un corpo, si ha un corpo, scomponibile in singoli organi, modificabili, sostituibili. È qui che i confini saltano. Perché nel trapianto di organi si può passare non solo da un morto a un vivo, da un animale a un essere umano, ma anche dall’inorganico all’organico, come quando si inseriscono metallo, silicio, plastica intervenendo sull’equilibrio bioriproduttivo.
Per il transumanismo, corrente di pensiero sorta negli anni Novanta, la specie umana, non più solo soggetto, ma anche oggetto di un progresso glorioso e inarrestabile, è sul punto di superarsi in un’altra forma di vita. Questo mutamento epocale, pari a quello dai primati agli umani, è il passaggio al post-human, al «post-umano». Il trans- indica, dunque, quella fase transitoria in vista del post- che, invece, designa l’esito ultimo, il congedo dall’umano, la realizzazione dell’antico sogno di oltrepassarsi, di diventare altro da sé, sogno che, in forme diverse, da Icaro a Nietzsche, è abitato pur sempre dall’incubo di non sognare più. L’autodistruzione è un rischio reale, come riconosce Nick Bostrom, filosofo svedese cofondatore della World Transhumanist Association (Wta) e direttore, all’Università di Oxford, del Future of Humanity Institute.
«Un giorno, in un futuro non troppo lontano, i nostri discendenti penseranno con orrore ai tempi in cui l’invecchiamento e la morte erano accettati come parte normale della condizione umana». Così scrive Max More, deciso fautore del salto nel futuro tecnoscientifico. Nella visione transumanista è necessario liberare la condizione umana da tutti quei vincoli che l’hanno afflitta e limitata nei secoli. Vecchiaia e morte — suggeriva già Robert Ettinger — non possono più essere assunte come dati eterni e intangibili. Al contrario, sono patologie che la medicina sa già come trattare.
Ma è la medicina stessa a dover cambiare, accogliendo le nuove sfide e accantonando il vecchio modello terapeutico, che mirava a ripristinare l’equilibrio. Non si tratta di riparare, piuttosto di migliorare e potenziare l’organismo umano. A consentirlo sono le tecnologie indicate con l’acronimo Nbic: nanotecnologie, biotecnologie, informatica (big data, internet degli oggetti), cognitivismo (intelligenza artificiale e robotica). Le novità radicali introdotte in questi ambiti segneranno uno scarto rispetto ai quattromila anni precedenti. Il punto di svolta è il concetto di improvement, «miglioramento», su cui ha insistito il filosofo americano Allen Buchanan nel suo libro Better than Human del 2011.
Fino a che punto, però, è lecito giungere nell’autotrasformazione razionale dell’umano? Come la tecnologia non ha limiti, così non è giusto sopportare alcun fardello del passato, non solo malattie, ma anche sofferenza, angoscia, tristezza, paura, tutte spoglie inutili che solo un conservatorismo dannoso imporrebbe di accettare. Da tempo è stato cancellato il confine della «condizione originale». Che dire di tutta la chirurgia estetica? La bruttezza non è una malattia. I transumanisti sostengono perciò il ricorso alle nuove tecnologie, la clonazione riproduttiva, l’ingegneria genetica, l’uso di cellule staminali, l’ibridazione uomo/macchina, e tutte le manipolazioni che possono migliorare la condizione umana, anche al prezzo di modificare definitivamente la specie. Rivendicano la «libertà morfologica», il diritto di modificare e migliorare corpo e mente. Per quelli più radicali, come Ray Kurzweil, presidente della University of Singularity, si è già entrati nell’epoca in cui la singola coscienza è superata da una intelligenza come quella prefigurata da Google.
Le conseguenze etiche e politiche sono imponderabili. L’abbandono della specie umana sancisce la fine dell’antropocentrismo e prefigura una inquietante cosmopoli dove, nella convergenza evolutiva tra naturale e artificiale, possono coesistere «infomorfi», nuove creature, ibridi cyborg, intelligenze disperse, legati in una comunità edonistico-cognitiva che, nel nome del benessere, non cesserà di metamorfizzarsi.
La Stampa 21.7.18
Addis Abeba 1937, ventimila vittime degli italiani brava gente
L’eccidio dimenticato raccontato in un libro dello storico inglese Campbell
di Masolino D’Amico
L’eccidio dimenticato raccontato in un libro dello storico inglese Campbell
Di ritorno dall’Etiopia dove aveva avuto un breve incarico, un antico corteggiatore di mia madre le aveva portato qualche souvenir. Di quel dono facevano parte anche due o tre libri ben rilegati e in apparenza preziosi, scritti in una lingua indecifrabile.
Venivano dalla biblioteca del Negus, erano bottino di guerra, e una volta restaurato l’antico regime mia madre li portò all’ambasciata d’Etiopia perché fossero restituiti al legittimo proprietario. Credo che all’epoca quelle prede la mettessero a disagio, ma i suoi sentimenti sarebbero certo stati più accesi se avesse saputo quello che alla maggior parte dei connazionali della sua generazione era stato tenuto accuratamente nascosto.
Sì, qualche verità su quella impresa coloniale mia madre aveva subodorato, benché l’aggressore avesse minimizzato il fatto che l’Etiopia non era un territorio vasto e inesplorato ma un Paese di antichissima civiltà cristiana, iscritto alla Società delle Nazioni e perfettamente autonomo; che l’invasione non aveva giustificazione alcuna; che la guerra, dichiarata in spregio alla diffida dell’Onu (precedente incoraggiante per Hitler) era stata condotta con metodi proibiti dei trattati internazionali. Ma di certi episodi particolarmente imbarazzanti non si ebbe sentore.
In seguito la storiografia internazionale e in qualche misura anche la nostra avrebbe riaperto qualche partita, ma forse senza che le coscienze ne prendessero troppo atto. Io per esempio, che mi considero un cittadino ragionevolmente informato, non avevo mai sospettato che noi italiani fossimo stati responsabili «di atrocità che osservatori scriventi prima dell’olocausto nazista paragonarono solo a quei massacri armeni del 1895-6 e del 1915, che avevano scandalizzato il mondo». Cito dalla prefazione a uno studio inglese appena uscito, Il massacro di Addis Abeba (Rizzoli). L’autore, Ian Campbell, è un storico che vive e insegna in Etiopia, e sull’argomento ha già pubblicato due libri; questo, definitivo, contiene la summa di una ricerca durata 25 anni.
L’attentato di due irredentisti etiopi scatenò tre giorni di caccia all’uomo
L’episodio in questione durò tre giorni, a partire dal 19 febbraio 1937. In quella data il maresciallo Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia dal maggio dell’anno prima, quando l’invasione era stata completata, aveva deciso di ristabilire una cerimonia tradizionale annualmente celebrata dall’Imperatore, consistente nella distribuzione di elemosine a preti, poveri, storpi, vedove con bambini e via dicendo, nel recinto del palazzo governativo della capitale. Era prevista una gran folla, e per evitare disordini le truppe italiane avevano collocato uomini e mitragliatrici nei punti nevralgici.
Durante il rito due irredentisti gettarono delle bombe a mano, nove in tutto, senza uccidere nessuno ma facendo un certo numero di feriti, tra cui Graziani, che fu subito portato via (si sarebbe ristabilito in un paio di mesi). Presi dal panico, temendo l’inizio di una sollevazione, gli italiani reagirono aprendo subito il fuoco; il punto è che non si fermarono più. Pazientemente, esibendo foto, citando continuamente le sue fonti, che sono molteplici a partire dalle testimonianze di superstiti non solo indigeni, per più di duecento pagine molto fitte il professor Campbell ricostruisce momento per momento i fatti che seguirono, e che si possono sintetizzare come segue. Lì per lì gli italiani spararono alla cieca su tutti gli etiopi presenti, compresi i dignitari ligi al nuovo regime, compresi i preti, i mendicanti, le donne e i bambini, fino a ammazzare quasi tutti gli indigeni che si trovavano nei terreni del palazzo governativo.
L’eccidio durò circa un’ora e mezza e fece circa 3000 vittime. Dopodiché fu data la caccia a tutti gli etiopi che trovarono nel resto della città; e per tre giorni civili disarmati e indifesi di ogni sesso ed età furono macellati indiscriminatamente. Centinaia di case furono date alle fiamme, spesso con dentro i loro abitanti; quelle meno povere, dopo essere state saccheggiate. Alla mattanza presero parte, oltre alle feroci camicie nere, parecchi nostri connazionali in borghese, servendosi di armi improvvisate, come badili, zappe, persino manovelle di avviamento delle automobili. La moglie di uno degli attentatori si era rifugiata in un monastero; gli italiani andarono anche lì e sterminarono tutti, monaci e comunità, per un totale di altre 3mila persone. Quando quel raptus collettivo si fermò, il totale - oggi accertato - dei morti era di quasi 20mila, un quinto della popolazione della città.
Campbell, che non fa sconti nella descrizione della crudeltà degli occupanti, non è peraltro tenero nemmeno sui suoi connazionali, i quali così come erano stati conniventi con la guerra coloniale di Mussolini (meglio i fascisti dei minacciosi comunisti), misero a tacere le prime voci di indignazione che qualcuno in Occidente tentò di raccogliere; e finita la guerra, malgrado le istanze dell’Etiopia liberata, impedirono che l’Italia, ora alleata, venisse processata per genocidio accanto ai responsabili della Shoah. Così a rispondere di quei tre giorni di delirio omicida e di quei quasi ventimila morti non fu mai chiamato nessuno, nemmeno un solo individuo. Ma si sa, noi italiani siamo brava gente.
Corriere La Lettura 22.7.18
Diritti dei migranti, delle mogli, dei figli La summer school al Sant’Anna di Pisa
David appartiene a una minoranza etnica perseguitata nel suo Paese, scappa dalla Libia e sbarca in Italia. Potrà rimanerci? Potrà raggiungere la sorella in Svezia? Adam è in Italia regolarmente, con la moglie e due figli di 4 e 8 anni, l’azienda dove lavora chiude e lui perde il lavoro. Può rimanere nel nostro Paese? E la sua famiglia? Sono alcuni dei casi concreti che verranno presi in esame, dal 10 al 15 settembre, nella summer school sul diritto degli stranieri organizzata dall’Istituto Dirpolis (Diritto, Politica, Sviluppo) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. A dettare i temi sarà l’attualità politica dell’Unione Europea, degli Stati membri e dell’Italia, chiamata a regolare la condizione giuridica di migranti, richiedenti asilo e minori in base alla Costituzione e alle norme sovranazionali. «Dopo una giornata introduttiva sui principi generali, sulla condizione giuridica dello straniero, sui suoi diritti e doveri — spiega Francesca Biondi Dal Monte, coordinatrice dell’area Dream (Documentazione, ricerca e analisi sulle migrazioni) del Sant’Anna — i docenti e i relatori, professionisti del settore, interverranno su temi come lavoro, permessi di soggiorno, immigrazione irregolare, espulsione, diritto d’asilo, sanità e sul delicato tema dei minori non accompa-gnati». La summer school, con un approccio teorico-scientifico ed esercitazioni pratiche, è pensata per chi si avvicina al diritto degli stranieri o per professionisti che necessita-no di un orientamento generale, come avvocati, assistenti sociali, educatori o funzionari pubblici. Iscrizioni fino al 31 agosto (www.santannapisa.it).
Corriere La Lettura 22.7.18
Ora l’identità piace a sinistra
Roberto Esposito cita sull’«Espresso» i moniti di Stefan Zweig: per costruire l’Europa occorre una suggestione simbolica che parli al cuore e al sangue
dei popoli. Anche i progressisti si accorgono infine, pur senza fare alcuna autocritica, che il richiamo alle radici non conduce per forza al nazionalismo tribale e che vanno rispettati anche i sentimenti della maggioranza, non solo quelli delle minoranze
di Ernesto Galli della Loggia
L’intervento
Sull’«Espresso» dell’8 luglio scorso è apparso un articolo in cui il filosofo Roberto Esposito, prendendo spunto dal film Stefan Zweig: Farewell to Europe («Addio all’Europa», 2016) della regista tedesca Maria Schrader, richiamava alcune osservazioni del grande scrittore ebreo austriaco. Nei discorsi dei primi anni Trenta raccolti nel volume Appello agli europei (traduzione di Leonella Basiglini, Skira, 2015) Zweig sottolineava la necessità «di conferire visibilità e passione all’idea di Europa» per sconfiggere il nazionalismo allora dilagante nelle forme totalitarie del fascismo e del nazionalsocialismo. Nello stesso articolo Esposito rievocava anche l’opera di Julien Benda Discorso alla nazione europea (traduzione di Ada Caporali, Aragno, 2013), nella quale il filosofo francese sosteneva, nel 1933, che l’Europa si sarebbe affermata sulla scena mondiale «solo se avesse assunto la forma patriottica della nazione»
Gli autori
L’ebreo viennese Stefan Zweig (1881-1942) fu uno degli scrittori più popolari del suo tempo. Pubblicò poesie, racconti, opere teatrali, biografie di personaggi storici. La sua opera più famosa, soprattutto per il modo in cui descrive il tramonto dell’impero asburgico, è il libro di memorie Il mondo di ieri, le cui edizioni italiane più recenti sono uscite da Newton Compton (traduzione di Silvia Montis, 2013) e da Garzanti (traduzione di Lorena Paladino, 2014). Odiato dai nazisti, nel 1934 Zweig lasciò l’Austria per la Gran Bretagna, poi durante la guerra fuggì in America. Si suicidò a Petropolis, in Brasile, nel 1942.
Il filosofo francese Julien Benda (1867-1956) è noto soprattutto per il suo libro del 1927 Il tradimento dei chierici (traduzione di Sandra Teroni Menzella, Einaudi, 1976) in cui criticava severamente gli intellettuali del suo tempo per il modo in cui si erano messi al servizio di passioni bellicose come il nazionalismo
Alla ricerca di Come disintossicarci dal nazionalismo (titolo del commento di apertura del numero dell’8 luglio scorso), adesso «L’Espresso» rievoca, per la penna di Roberto Esposito, le cose scritte negli anni Venti e Trenta del Novecento da Julien Benda e da Stefan Zweig, soprattutto da quest’ultimo, sulla necessità di unire l’Europa.
E che cosa dice in particolare Zweig? Egli si sofferma sulla necessità che qualunque progetto europeistico curi innanzi tutto gli aspetti simbolici dell’unione: dunque una città-capitale scelta ad hoc tra quelle che non lo sono già, e poi «la lingua, la bandiera, le insegne militari». Tutti elementi, scrive, che prima che alla ragione parlino al sentimento popolare: infatti, sostiene Zweig, se non si parla al «cuore» e al «sangue» degli europei, la battaglia contro i nazionalismi sarà persa inevitabilmente, dal momento che (sono parole sue) «mai nella storia il cambiamento è venuto dalla sola sfera intellettuale o dalla sola riflessione». Per inventare «una politica europea ostensibile e persuasiva tutte le nostre iniziative devono assumere questa direzione: orientarsi verso la pratica, restare sul terreno del sensibile e del visibile». Insomma lo scrittore austriaco invoca né più né meno che l’Europa si doti dei caratteri storici tipici della nazione: che per sconfiggere la disgregazione nazionalistica diventi essa per prima una nazione.
L’invocazione della dimensione nazionale tradizionale da parte di un giornale come «L’Espresso» — da sempre vetrina del punto di vista progressista — è qualcosa che va segnalato. È il sintomo non solo di quanta acqua è passata e sta passando sotto i ponti, ma soprattutto di quanti treni la sinistra, che del punto di vista progressista si crede depositaria, ha perso nel frattempo. Beninteso sempre conservando quella sua aria da sopracciò intellettuale che la sa più lunga di tutti, e naturalmente senza mai darsi la pena — mai, neppure una volta — di dire: «Ah, è vero, su questo punto forse mi sono sbagliata».
Riscalda l’animo, comunque, assistere oggi, pur di sbarazzarsi di Matteo Salvini, alla rivalutazione — via Felix Austria, «mondo di ieri», ebraismo mitteleuropeo — della lingua, della bandiera, delle insegne militari, del sangue e del cuore. Constatare che sì, la sola nazione politicamente corretta sarà pure quella del «plebiscito di ogni giorno» cara a Ernest Renan, la nazione fondata sul consenso democratico, ma la storia e le tradizioni contano pur sempre qualcosa, dal momento che proprio una tribuna di sinistra si premura di riportare all’onore del mondo per l’appunto i simboli e i topos più classici di quella somma di storia e tradizioni che è costituita dall’identità nazionale. Fa piacere, insomma, vedere rimesso in auge quel concetto di identità che per tanto tempo il benpensante progressista ha giudicato alla stregua di qualcosa che andava assolutamente espulso dalla storia e dalla politica per bene. Non si è letto infatti mille volte che l’identità è un concetto che richiama le «radici», il Blut und Boden nazista, un concetto che sa di atavismo, di tribalizzazione, una dimensione che è fatta per escludere, per discriminare, qualcosa che più intimamente di destra di così è difficile immaginare? In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia non è stata addirittura messa sotto accusa la cultura dei patrioti del Risorgimento perché in quanto cultura della nazione era per ciò stesso inevitabilmente intrisa di pulsioni sessiste?
Ora che si torna a una più sobria valutazione delle cose non c’è che da rallegrarsi, com’è ovvio. Ma non era il caso di pensarci prima? Di farlo soprattutto se si era di sinistra? Non era il caso di pensarci ogni volta che per anni e anni non si è persa un’occasione per prendere le parti dell’identità, ma solo a patto che fosse di una minoranza, mai se era quella della maggioranza? Non era il caso di pensarci allorché in ogni occasione si è esaltata qualunque «diversità», qualunque «differenza» contro vere o presunte (sempre più presunte) persecuzioni? Non era il caso allora di farsi attraversare dal dubbio che a forza di legittimare sempre e comunque il punto di vista e gli interessi dei «meno» si finiva inevitabilmente per delegittimare il punto di vista e gli interessi dei «più», stante tuttavia il piccolo particolare che proprio di quei «più» la sinistra era chiamata storicamente ad essere la rappresentante nonché la paladina? Non era il caso di chiedersi almeno qualche volta se a forza di battere una strada del genere non si sarebbe inevitabilmente finiti per accreditare oltremisura le ragioni sociali dell’«io» a scapito di quelle del «noi», gettando dunque le basi ideologiche di quel collasso della sinistra che oggi è sotto gli occhi di tutti?
C’è dell’altro. Proprio seguendo l’ordine di pensieri ora esposti e leggendo proprio sull’«Espresso» le riflessioni di Roberto Esposito sulla bontà dell’immaginario nazionale e sull’importanza delle grandi identità collettive, è impossibile non pensare a una sorta di nemesi storica in atto. Infatti, se c’è stata una tribuna giornalistica che ha costruito la propria ragion d’essere sulla possibilità di tenere insieme — in un certo senso addirittura di far coincidere — il soggettivismo individualistico di tutte le identità minoritarie con le ragioni della rappresentanza di massa della sinistra maggioritaria, questa tribuna è stata «L’Espresso». Per oltre mezzo secolo «L’Espresso» ha voluto essere ed è stato il luogo d’incontro privilegiato dell’identità radical-elitaria delle più varie minoranze da un lato e delle esigenze di avanzamento sociale dei più. Ho l’impressione che in futuro l’impresa si rivelerà sempre più difficile, e forse l’antico settimanale di tante battaglie ha il merito di averlo almeno intuito.
Corriere La Lettura 22.7.18
I raggi cosmici di Orione
Il mitico arciere ucciso Diana per errore
Grazie a un rivelatore di neutrini costruito in Antartide siamo risaliti fino alla galassia Texas Source
È dominata da un gigantesco buco nero in rotazione che emette la misteriosa pioggia di particelle
di Guido Tonelli
Questa volta Francis mi ha giocato. Ha risposto con nonchalance alla mia domanda, mentre gustavamo gli asparagi al burro che entrambi avevamo ordinato. Se ci si trova a Bruxelles, ai primi di maggio, nel bel mezzo della stagione dei dolcissimi asparagi bianchi, non si può evitare il piatto di cui i belgi sono così orgogliosi. Con Francis siamo amici da tempo e ci incontriamo in Belgio almeno un paio di volte l’anno. Siamo entrambi membri dell’International Advisory Board (Comitato consultivo internazionale) dell’Università Libera di Bruxelles. Il nostro compito è giudicare le attività di ricerca dei gruppi di fisica e redigere un rapporto che riassume critiche o raccomandazioni.
Francis Halzen è il responsabile di IceCube, un esperimento collocato in Antartide, specializzato nella rivelazione di neutrini di alta energia provenienti dallo spazio profondo.
I neutrini sono onnipresenti in natura. Sono prodotti in grande quantità dalle reazioni nucleari che avvengono dentro le stelle, come il nostro Sole, ma nascono anche negli strati più interni di molti pianeti. Alcuni vengono emessi nel decadimento di altre particelle; altri vagano per l’universo da tempo immemorabile. Irraggiano in tutte le direzioni quando le stelle esplodono in supernovae, ma si organizzano in getti collimati quando sono prodotti da oggetti ancora più massicci come i buchi neri.
I neutrini sono alcune fra le particelle più elusive che abitano il nostro mondo materiale. Ogni secondo, a decine di miliardi, inondano ciascun centimetro quadrato del nostro corpo, e lo attraversano delicatamente, senza recare alcun disturbo. Sono leggerissimi e neutri e interagiscono molto debolmente con le altre particelle; per questo riescono a passare, da parte a parte, persino le stelle più massicce.
Per gli stessi motivi la rivelazione dei neutrini è una specie di incubo per i fisici sperimentali. Per avere una manciata di neutrini che collidono con i materiali dei rivelatori e registrare i piccoli segnali che ne derivano occorrono flussi imponenti e apparati di grandi dimensioni. Quando poi si vogliono studiare fenomeni rari, come i neutrini di alta energia, non ci sarà nessuna speranza di identificarne qualcuno se non si useranno rivelatori di dimensioni mostruose.
È il caso di IceCube, cubetto di ghiaccio, un nome ironico per un rivelatore che ha il volume di una montagna, un cubetto di un chilometro di lato. L’hanno realizzato in Antartide, vicino alla stazione Amundsen-Scott, per sfruttare la coltre di ghiaccio purissimo e trasparente che ricopre il continente. Hanno trivellato il ghiaccio, fondendolo, in 86 punti diversi, distanti 125 metri l’uno dall’altro e organizzati su una griglia esagonale. Sono andati in profondità per 2.450 metri e poi hanno calato, in ciascun pozzo, fissati su cavi robusti, sessanta sofisticati rivelatori di fotoni. Quando l’acqua si è ricongelata attorno a loro, i 5.160 rivelatori sono rimasti sepolti nel buio profondo del ghiaccio. E i loro occhi elettronici e ultrasensibili hanno cominciato a scrutare l’oscurità più totale alla ricerca dei più minuscoli lampi di luce. Quelli prodotti dai neutrini più sfortunati, quelli che muoiono sbatacchiando contro un nucleo, mentre attraversano la spessa coltre di ghiaccio.
Il tamponamento ad alta energia produce sciami di particelle cariche, talvolta accompagnate da muoni (particelle con carica negativa, ma di massa molto superiore a quella degli elettroni) che vengono emessi nella stessa direzione dei neutrini e si trovano, di colpo, a viaggiare più veloci della luce in quel mezzo. L’unico modo di evitare gli imbarazzi del caso, è comportarsi come gli aerei da caccia quando passano la barriera del suono. Ma anziché uscirsene con un fragoroso bang acustico i muoni si limitano a emettere minuscoli lampi di luce ultravioletta distribuiti su un cono caratteristico. Un effetto che per primo è stato registrato negli anni Cinquanta dal fisico sovietico Pavel Alekseevic Cerenkov (premio Nobel nel 1958), e che da lui ha preso il nome.
Ecco quindi che, quando un neutrino interagisce, i rivelatori di IceCube registrano una sequenza di segnali caratteristici che permettono di misurarne assieme energia e direzione da cui proviene. È questa l’informazione più importante, perché permette di risalire alla sorgente che ha emesso questi messaggeri delicati e leggeri che attraversano il cosmo muovendosi a velocità prossime a quelle della luce. I neutrini cosmici volano in linea retta, imperturbabili, ignorando le distribuzioni di massa ed energia che attraversano, totalmente insensibili ai campi magnetici che occupano le galassie e persino gli spazi intergalattici. Rivelarli significa capire da quale galassia provengono e cominciare a capire quale meccanismo li ha generati.
Quando ha cominciato a prendere dati IceCube ha registrato alcuni eventi spettacolari, che hanno lasciato tutti a bocca aperta: neutrini fino a 2000TeV (Teraelettronvolt), energie spaventose, centinaia di volte superiori a quelle che riusciamo a produrre in Large Hadron Collider (Lhc), l’acceleratore più potente al mondo situato presso il Cern di Ginevra. Nessuno, fino ad allora, poteva immaginare che vagassero per l’universo neutrini così energetici ed è subito partita la sfida per capire quale mostruoso acceleratore cosmico può produrre queste particelle.
Per questo, tutte le volte che ci incontriamo, chiedo a Francis se ci sono novità. Sono curioso di sapere se si comincia a capire qualcosa. E discutiamo a lungo delle possibili spiegazioni di eventi così spettacolari. A sua volta lui mi chiede di Lhc, se abbiamo scoperto qualche lontano cugino del bosone di Higgs o se ci sono segnali di supersimmetria.
Anche questa volta la nostra conversazione procede sui soliti binari ma Francis, in questa occasione, è più laconico del solito. Se la cava con un’affermazione piuttosto generica e lievemente enigmatica: «Forse cominciamo a fare luce». Poi si ferma e io attribuisco la brusca interruzione alla stanchezza e al jet-lag. In fin dei conti è appena arrivato dagli Stati Uniti e abbiamo passato tutto il giorno in riunione. Ho capito cosa voleva dirmi soltanto qualche giorno fa, il 12 luglio, quando l’ho rivisto, via web, alla conferenza stampa convocata dalla National Science Foundation (Nsf, il principale ente finanziatore delle ricerche delle università americane) per annunciare al mondo una scoperta eclatante.
Francis racconta, col suo inconfondibile accento fiammingo che la lunga permanenza negli Stati Uniti non è riuscita a cancellare, che cosa è successo il 22 settembre 2017. Quel giorno i rivelatori di IceCube hanno registrato l’interazione di un neutrino 300TeV che ha dato origine a un muone, che ha lasciato una spettacolare traccia luminosa rivelata da centinaia di fotosensori. I dati erano molto chiari e la direzione di volo del neutrino puntava a una galassia lontana, conosciuta per essere molto attiva nell’emissione di radiazioni di varia lunghezza d’onda. Si trova a circa 4 miliardi di anni luce di distanza, nei pressi della costellazione di Orione: il grande arciere che riluce nel cielo boreale, memoria perenne del gigante cacciatore della mitologia greca ucciso per mano di Diana.
Il mito vuole che il dio Apollo, contrariato per l’attrazione che la sorella provava per il mortale così abile nella caccia, la spingesse con l’inganno a uccidere l’amato. Zeus, preso a compassione per le lacrime della figlia e i lamenti inconsolabili del fedele segugio Sirio, compagno di tante battute, accoglie entrambi fra le costellazioni più splendenti. E nel cielo, sopra le nostre teste, li possiamo osservare ancora oggi, a cacciare assieme e lanciare frecce nella direzione del Toro.
Ma in questo caso Orione ha lanciato verso di noi altre frecce, più sottili e penetranti di quelle con cui abbatteva cervi e cinghiali. I neutrini rivelati da IceCube vengono dalla galassia TXS 0506+056, una di quelle sigle complicate cui gli astronomi devono ricorrere per dare un nome alla miriade di galassie che occupa la volta celeste. Ma i fisici non amano le complicazioni e la galassia viene subito ribattezzata con un nome che contiene le tre consonanti di base ma è molto più semplice da ricordare: la Texas Source.
Gli scienziati che gestiscono la presa dati dell’esperimento lanciano un’allerta a tutti gli osservatori del mondo. «Scienziati del pianeta terra, guardate verso la Texas Source; lassù sta succedendo qualcosa». L’appello viene raccolto da decine di osservatori che puntano i loro strumenti nella direzione indicata e qui viene il bello. Nei giorni successivi altri due apparati, specializzati nella rivelazione di fotoni di alta energia, registrano raggi gamma provenienti, indubitabilmente, dalla stessa sorgente. Non ci sono più dubbi che la Texas Source stia dando spettacolo.
Si sapeva da tempo che TXS 0506+056 era un oggetto molto strano. Si tratta di una gigantesca galassia ellittica dominata da un enorme buco nero in rapida rotazione su sé stesso. Il mostro ha una massa gigantesca, valutabile in centinaia di milioni, se non miliardi di masse solari e divora una enorme quantità di gas, polvere e stelle che si sbriciolano mentre spiralizzano verso il centro.
Tutti questi detriti formano un disco di accrescimento caldissimo da cui fuoriescono due getti polari, perpendicolari al piano di rotazione del buco nero, che emettono particelle altamente energetiche, capaci di raggiungere lo spazio più profondo. È l’effetto dei forti campi magnetici e dei venti mostruosi che si creano nel disco. Quando uno di questi getti è diretto verso la Terra i nostri strumenti sono in grado di rivelare alcune di queste particelle. Nelle spaventose accelerazioni che si producono nella Texas Source, oltre ai neutrini vengono prodotti raggi gamma, fotoni di altissima energia che accendono gli strumenti di Fermi e Magic, i due osservatori più sensibili: uno si trova in orbita attorno alla Terra, l’altro ha piazzato i suoi due telescopi nell’isola di La Palma alle Canarie. Eccola, la luce di cui parlava Francis.
È proprio il segnale che tutti sognavano. Una coincidenza così spettacolare non può essere casuale. Se assieme ai fotoni sono emessi anche i neutrini, questa è la prova che il gigantesco marchingegno alimentato dal buco nero della Texas Source accelera protoni, proprio come un Lhc di dimensioni mostruose.
Ed ecco che si comincia a capire uno dei misteri più grandi della fisica moderna. Dal 1912 i fisici si interrogano sull’origine dei raggi cosmici, questa pioggia di particelle cariche che investe il nostro pianeta da tutte le direzioni, incessantemente. Se ne sono registrate di energie cento milioni di volte superiori a quelle di Lhc e la loro origine è rimasta un mistero fino a qualche giorno fa. Ora le osservazioni di IceCube, Fermi e Magic ci dicono che a farci questo regalo sono galassie lontane, alimentate da giganteschi buchi neri.
Combinando l’osservazione di neutrini e di lampi gamma l’astronomia moderna ci permette di penetrare zone dell’universo fino ad ora rimaste completamente oscure e ciò che si osserva ci lascia, ancora una volta, senza fiato.
il manifesto 22.7.18
Josefa: «Sono arrivati i libici e ci hanno picchiato»
Sicuri da morire. L’accusa dell’unica superstite al naufragio. Da Open Arms denuncia per omicidio colposo
di Adriana Pollice
«Denunceremo chi, con bugie e falsità, mette in dubbio l’opera di salvataggio e accoglienza svolta dall’Italia»: il Viminale ieri ha attaccato ancora l’Ong catalana Proactiva open arms, arrivata ieri mattina a Palma di Maiorca con il cadavere della donna e del bambino ritrovati martedì con l’unica superstite, Josefa, aggrappata alle assi del fondo del gommone distrutto a 80 miglia dalla cosa libica, 90 da Lampedusa. La donna camerunese, ricoverata in forte stato di choc e con i postumi dell’ipotermia, dopo essere rimasta due giorni a galleggiare in acqua, ha raccontato: «Sono arrivati i libici, ci hanno picchiato e ci hanno lasciato in mare». Il Viminale insiste: «Qualcuno strumentalizza una vittima per fini politici. Se la Ong ha preferito rifiutare l’approdo per scappare altrove è un problema suo. I porti siciliani erano aperti». Alla Proactiva era stato offerto lo scalo di Catania ma il coordinatore della missione, Riccardo Gatti, aveva chiarito: «Rifiutiamo il porto di sbarco italiano dopo le dichiarazioni del governo (che aveva definito la denuncia dei volontari catalani una fake news ndr) e perché non crediamo che in Italia ci sia un porto sicuro». La scelta di Catania, poi, era risultata sospetta visto che la procura locale sta processando l’Ong tedesca Jugend Rettet per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
I membri della Proactiva open arms, insieme al campione dell’Nba Marc Gasol, si sono recati ieri al tribunale di Palma per presentare una denuncia per omissione di soccorso e omicidio colposo contro il capitano della Triades, il mercantile che per primo ha individuato i migranti e avvertito Tripoli senza però soccorrerli. «Lo faremo anche contro il capitano del pattugliatore della Guardia costiera libica» che avrebbe volontariamente affondato il gommone mentre a bordo c’erano ancora due donne e un bambino ha spiegato Oscar Camps, fondatore dell’Ong catalana, confermando anche l’intenzione di presentare una denuncia contro la Guardie costiera italiana e Malta perché potrebbero aver commesso il reato di omissione del dovere di assistenza.
Alla stampa Camps ha poi spiegato che l’Europa lascia alla Libia («un paese senza stato») le operazioni in mare nonostante i sospetti di connivenza della sua Guardia costiera con i trafficanti: «Siamo etichettati come criminali, l’Italia ci accusa di mentire, diffamare e insultare, vuole rimandare in Libia le persone che salviamo. Siamo gli unici testimoni e adesso nessun’altra Ong è attiva nell’area. Siamo stati testimoni della barbarie disumana che vive il Mediterraneo». L’ultima stoccata è per il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che da mesi ripete «le Ong vedranno i nostri porti in cartolina». Camps ne ha mandata una virtuale via twitter al leader leghista con la dedica «Un abbraccio da Maiorca. Oscar e Josefa». A Palma c’era anche il deputato di Leu, Erasmo Palazzotto, che ha partecipato alla missione: «Chiederò al governo italiano che renda pubblici i dati su ciò che è accaduto nel luogo in cui è stata trovata morta la madre con il bambino per vedere se c’è responsabilità del governo e della guardia costiera nell’omicidio».
La Marina italiana ieri ha respinto ogni addebito: «Non siamo mai stati coinvolti nel soccorso. Dopo il ritrovamento, all’Ong è stata data piena disponibilità a trasferire la donna, ancora in vita, in Italia, per ricevere assistenza sanitaria, è stata data anche la possibilità di raggiungere direttamente il porto di Catania». Anche il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, difende l’operato del governo: «Open Arms sbaglia obiettivo. L’Italia è un esempio per umanità ed efficienza nei soccorsi».
Nessuno però sa spiegare la presenza di una donna viva e due cadaveri tra i relitti del gommone distrutto. Non sa spiegarlo soprattutto la Libia, che martedì aveva negato di averli lasciati in mare, chiamando in causa una troupe di giornalisti tedeschi presenti durante le operazioni. Poi è stata costretta a precisare che i salvataggi lunedì sera erano stati due e quindi venerdì ha parzialmente ammesso di aver provato a rianimare i corpi senza vita ma di non saper spiegare la presenza di Josefa. Una spiegazione arriva però dall’Italia. Il fatto quotidiano, riportando notizie apprese dai nostri militari, spiega: «I migranti non vogliono essere riportati in Libia, per convincerli ad accettare il soccorso è ormai prassi che i libici inizino le operazioni per affondare la barca». È la spiegazione che aveva dato Camps martedì, bollata da Salvini come «fake news».
Il Fatto 22.7.18
“Così ci sfruttano e ci massacrano boss del deserto e guardie in Libia”
Le tariffe dal Sudan alla Cirenaica. Tra i disperati in fuga Mamadou, ex 007 gambiano
di Lucio Musolino
Èsufficiente leggere gli interrogatori resi alla polizia dai migranti sbarcati in Italia per scoprire l’orrore dei campi di detenzione in cui uomini, donne e bambini sono torturati prima dell’imbarco. Se i “signori del traffico” sono fantasmi, i loro mediatori lo sono meno. La rotta dei migranti è costellata di questi personaggi di cui, in molti casi, si hanno pure i numeri di cellulare trovati nelle tasche di chi poi arriva nel nostro Paese.
I nomi dei trafficanti e dei loro mediatori sono sempre gli stessi. Alcuni li ha conosciuti un giovane migrante che si occupava della sicurezza del presidente del Gambia, prima del colpo di Stato del 2006. Nella precedente vita, Mamadou lavorava per conto della National Intelligence Agency. Dopo essere stato in prigione, è scappato in Senegal per poi arrivare nel 2011 in Libia dove ha incontrato un mediatore suo connazionale, Muhamed Jawneh, che lo ha messo in contatto con Karim, noto anche con il nome di “Iman”: “Karim – ha riferito Mamadou alla polizia – è comunemente conosciuto come il capo dell’organizzazione che ha a disposizione i barconi e organizza le traversate”.
Per raggiungere la Libia, i siriani solitamente passano dal Sudan dove trovano i mediatori Mahmoud, Idriss o Bachir. Nomi senza un volto ma con un numero di telefono. Quello di Bachir lo ha fornito alla polizia Ammar, un siriano sbarcato a Reggio Calabria assieme al gambiano Mamadou.
Un mese prima di arrivare in Italia, Ammar viveva in Libano e una volta raggiunta Karthum, nella capitale sudanese è stato “contattato da Bachir” che per 600 dollari gli ha fatto attraversare il deserto: 28 persone stipate su un Land Cruiser e alla frontiera egiziana consegnate ad altri trafficanti fino alla frontiera con la Libia dove per “proseguire il viaggio fino alla costa un alto ufficiale della polizia libica di nome Mouftah (di cui ha fornito il numero, ndr) ci ha chiesto 900 dollari come saldo del viaggio per farci raggiungere la città di Tarablus. Un altro ufficiale della polizia libica ci ha chiesto 1.000 dollari per essere imbarcati. Il pagamento è stato effettuato a Rafou, personaggio conosciuto come il migliore organizzatore dei viaggi dalla Libia all’Italia”.
I migranti del Gambia o del Senegal si rivolgono allo “zio”. Si fa chiamare così il trafficante gambiano che per un posto sul barcone pretende 300 mila franchi senegalesi (450 euro al cambio attuale, ndr) da bonificare sul suo conto corrente prima della partenza. Un po’ quello che fa il curdo Aboumohammad con i siriani che percorrono la rotta turca: 3 mila dollari prima di salire a bordo e altri 3 mila “depositati presso un’agenzia di deposito, denominata ‘Said’, filiale di Istanbul”.
Non solo trafficanti, ma anche uomini con la divisa dell’esercito libico tra i “facilitatori della tratta”. Lo racconta Aymen, un ragazzo eritreo che quando è arrivato in Italia, nel 2015, aveva appena 17 anni: “A Misurata, insieme a 1500 persone sono stato portato in un campo dove c’era un’ex fabbrica di sardine, gestito da uomini indossanti la divisa dell’esercito. Sono stato maltrattato e più volte picchiato. Ci davano solo un pasto al giorno”.
Il libico Hani e l’eritreo Weled Ishak davano gli ordini all’interno del lager dove è morta Samira, una ragazza etiope. “Solitamente dormiva vicino a me – racconta Aymen –. Era magrissima, le si vedevano le ossa”.
Quella che lucra sui viaggi dei migranti è una criminalità senza scrupoli che degrada uomini donne e bambini a merce. Questa considerazione, contenuta nel rapporto di Eunavfor Med, la missione militare europea meglio conosciuta come operazione “Sophia”, non fa altro che confermare quanto da anni emerge leggendo i verbali che le forze di polizia redigono a ogni sbarco di migranti.
I loro racconti sono pressoché uguali. Storie di vite che tutti vogliono migliorare. Storie di famiglie che si vogliono ricongiungere. Ma anche storie di guerre, di violenze e di fughe che, se va bene, finiscono in barconi malandati e lasciati alla deriva dai trafficanti. Per loro, i migranti sono “un numero di serie” che i boss della tratta trasformano in milioni di dollari dei quali poco o niente va agli scafisti che la polizia italiana riesce facilmente a individuare dopo gli sbarchi o i salvataggi in mare. Ed è qui che spunta un altro dato interessante: finora il 74,6% degli scafisti viene fermato e processato in Italia grazie alla collaborazione dei migranti.
Ma gli scafisti sono solo l’ultimo anello di un’organizzazione criminale ben più vasta. Sono scafisti-migranti e perciò sacrificabili in quanto, fino al giorno prima, erano “numeri di serie” adesso piazzati al timone del peschereccio o del gommone.
Ecco quindi che la collaborazione dei migranti, definita “essenziale” perché utile a identificare lo scafista, non è sfruttata per colpire i veri boss della tratta come Ermias Ghermay o Ahmad Al-Dabbashi di cui il Fatto Quotidiano ha scritto nella prima puntata di quest’inchiesta.
Si è tentato di curare il sintomo e non la malattia. Allo stesso modo, la paura del migrante e l’ossessione per il lavoro delle Ong hanno spostato l’attenzione dal vero problema delle indagini sulla tratta. Se da una parte, il difetto di giurisdizione non consente alla magistratura italiana di indagare su reati che si consumano in Africa (a meno che non ci siano collegamenti concreti con il nostro Paese), dall’altra la mancanza di collaborazione con gran parte degli Stati africani ha legato, e continua a legare, le mani di pm e forze di polizia.
“Anche se individuo il cellulare di un trafficante di uomini, a chi invio le informazioni per fermarli? E se l’inchiesta la devo condurre io, perché indago su un’organizzazione transnazionale, a chi invio la rogatoria per mettere sotto intercettazione quel telefono libico oppure sudanese o senegalese?”, si domanda un investigatore. La risposta giustifica il suo sconforto: “Alle tribù o a quei governi che sanno bene cosa succede nel loro territorio, ma non fanno nulla?”.
Repubblica 22.7.18
L’"armata delle tenebre" è già fra noi.
Nasce The Movement
Bannon l’europeo apre a Bruxelles il fortino populista
Nuova impresa dell’ex stratega di Trump Obiettivo: un’alleanza da Salvini a Orbán
di Anna Lombardi
NEW YORK L’invasione dell’Europa è cominciata. Steve Bannon, 65 anni, il guru dell’estrema destra americana che fu braccio destro di Donald Trump alla Casa Bianca — salvo essere licenziato l’estate scorsa all’indomani delle violenze razziste di Charlottesville — si prepara a marciare su Bruxelles. Lanciando, lo ha confidato lui stesso al Daily Beast, una nuova fondazione no profit chiamata The Movement, il movimento, proprio nel cuore dell’Europa e delle sue istituzioni. Attraverso la quale spera di coordinare le destre populiste in vista delle elezioni europee che si terranno nella primavera 2019. Obiettivo: rivaleggiare con George Soros, il miliardario americano di origine ungherese, finanziatore del partito democratico, che dal 1984 con la sua Open Society ha speso almeno 32 miliardi di dollari in sostegno di Ong che si occupano di diritti umani. E per questo è diventato lo spauracchio delle destre populiste, accusato di complotti d’ogni genere: compreso quello di voler sostituire gli italiani con immigrati per avere manovalanza a basso costo. Un mantra ripetuto in passato su Twitter anche dall’attuale ministro degli Interni Matteo Salvini.
L’ambizione di Steve Bannon, ex direttore del sito dell’alt right americana Breitbart — che nella campagna d’Europa lo ha preceduto visto che già da tempo la piattaforma ha aperto redazioni a Londra e Roma — è dunque diventare il coordinatore di quella grande "internazionale populista" che sogna da tempo.
The Movement infatti si propone di funzionare come un think tank di estrema destra: fonte di consigli strategici che incanalino i malumori non sempre politicamente strutturati dei movimenti europei più estremisti.
Analizzando dati e dando consigli strategici. Ma anche raccogliendo fondi e incanalando finanziamenti.
Lo scopo è creare un’alleanza populista, sorta di "super gruppo" che se vittorioso può conquistare fino a un terzo del parlamento europeo alle elezioni del prossimo maggio.
Di fatto mettendo nelle mani di Bannon e i suoi la politica comune del Vecchio Continente. Lo stratega americano è legatissimo ai Freedom Caucus — la destra estrema del Congresso Usa — e nel 2014 fu ai vertici della società Cambridge Analytica, che nel 2016 usò i dati sottratti a Facebook per influenzare le presidenziali da cui emerse vincitore Donald Trump. Non è un mistero che da tempo corteggi nazionalisti di destra a Est come a Ovest. Ed abbia già incontrato, fra gli altri, l’ungherese Orbán, la francese Marine Le Pen e l’ex leader degli indipendentisti britannici Nigel Farage. Quest’ultimo riapparso, guarda caso, venerdì in Pennsylvania, Usa, a una raccolta fondi in favore del deputato repubblicano Lou Barletta. Senza dimenticare gli italiani di Lega e 5 stelle. Di loro ha detto: «Se funziona in Italia, possiamo importare il modello ovunque». The Movement, che per ora conterà su uno staff di 10 persone, sarà pienamente operativo nel 2019. Passate, insomma, le elezioni americane di midterm, dove Bannon sta brigando per influenzare le primarie sostenendo candidati potenzialmente capaci di mettere in crisi le prospettive dell’establishment repubblicano. Ma in futuro l’ex spin doctor dice di voler passare sempre più tempo in Europa. Anche perché i rapporti con Trump si sono logorati dopo le rivelazioni da lui fatte a Michael Wolff e pubblicate nel libro scandalo "Fuoco e Furia". «Meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso», dice ora Bannon parafrasando il Satana di uno dei suoi libri preferiti, il Paradiso Perduto di John Milton. L’inferno in questo caso sarebbe la cara vecchia Europa e i suoi valori democratici.
L’"armata delle tenebre" è già fra noi.
il manifesto 22.7.18
La resistenza oggi ha la pelle nera
Dall'altra parte dell'oceano. Cinque anni fa nasceva il Black Lives Matter: storia del un movimento nato sulla questione razziale nell’epoca Obama e ora è alle prese con il nazional populismo trumpista
manifestazione a Ferguson
di Luca Celada
LOS ANGELES È un paradosso significativo che il movimento Black Lives Matter, di cui ricorre il quinto anniversario, sia nato nell’era “post razziale” di Obama.
DURANTE IL MANDATO del primo presidente nero lo stillicidio di uccisioni di giovani neri da parte della polizia sembra incarnare istituzionalmente la reazione razzista di quella parte del Paese che non può e non ha voluto tollerarlo. L’ultima incarnazione del movimento di emancipazione nera nasce come risposta diretta ai macabri bollettini che giungono dalle strade della città americane. Su quelle strade le vite di centinaia di uomini e ragazzi neri, viste attraverso il mirino della polizia, valgono meno di zero.
Negli ultimi anni l’accumularsi delle uccisioni, sempre più spesso documentate nelle immagini sgranate di telefonini e siti social, diventa insopportabile, soprattutto dopo casi celebri come l’uccisione dell’adolescente Trayvon Martin da parte di un vigilante nel 2012. Il macabro elenco di vittime prodotte dall’intersezione di razzismo, giustizialismo, violenza e idolatria delle armi da fuoco è la causa scatenante di Black Lives Matter («le vite nere contano», in sigla Blm).
E dopo la sua fondazione, l’uccisione di Eric Garner, Terence Crutcher, Philando Castile, Sandra Bland, Freddie Gray, Walter Scott, Laquan McDonald, Keith Lamont Scott, Alton Sterling, Tamir Rice e dozzine di altri – tutte impunite – è sostanzialmente la risposta politica della polizia di quella che non può che definirsi una guerra «a bassa intensità».
LA MORTE di Michael Brown in un sobborgo del Missouri nell’estate del 2014 scatenerà le rivolte di Ferguson, la prima rivolta in cui il nuovo movimento afroamericano, che sfocia poi in Blm, è protagonista di una resistenza sul campo. In seguito la rabbia esploderà a New York, Baltimora, Houston… e sulle strade Blm diventa punto di riferimento per una nuova generazione di giovani militanti afroamericani, nipoti di Martin Luther King, faccia a faccia con una violenza che esplicita la discriminazione profonda e quotidiana che nega le conquiste dei padri, pur mentre ne elogia la «retorica della speranza».
Me lo spiegava nel 2016 una giovane leader, durante una manifestazione a Los Angeles. «Io sono una militante di terza generazione», mi disse allora. «Tempo fa ci è capitato di sfilare sotto i manifesti pubblicitari di Selma (il film di Ava DuVernay sulla storica marcia di Martin Luther King in Alabama). Vedete l’ironia? Stiamo tornando a combattere le lotte dei nostri nonni».
TA-NEHISI COATES, una delle voci più nitide della nuova coscienza nera, pubblicava allo stesso tempo Tra me e il mondo, che sotto forma di lettera straziante al figlio tentava una sintesi della civiltà fondata sin dall’origine sullo scempio effettivo e metaforico del corpo nero – la versione letteraria del discorso che ogni genitore nero in America è tenuto a fare, come un rito di passaggio adolescenziale soprattutto per i figli maschi, per far sì che non si facciano ammazzare dalla polizia sulla via di casa o a un posto di blocco. Una vera, concreta, quotidiana eventualità che accomuna classi subalterne e borghesia nera e confuta l’illusione di emancipazione.
Il nome del nuovo movimento rivendicava un valore umano per quelle vite cancellate. Sarebbe stato difficile allora prevedere che di lì a poco i governi europei avrebbero a loro volta ufficialmente assegnato a tutti quei corpi dalla pelle scura affogati nei flutti del Mediterraneo un valore uguale a zero – una deumanizzazione prerequisita e necessaria all’impulso fascista e non casualmente punto cardine dell’involuzione nazional populista che sarebbe seguita di lì a poco. Una condivisa ossessione per le gerarchie, per le tassonomie fra razze, fra cittadini e stranieri, «padri di famiglia» e poco di buono, accomuna non a caso il trumpismo e il nazionalismo identitario ascendente in Europa.
UNA PULSIONE ANTICA, che gli afroamericani hanno subito riconosciuto come atavica componente di una società fondata con lo schiavismo, una violenza rimossa come quella del colonialismo. Il progresso sociale americano può in larga misura venir misurato con l’elaborazione di quel retaggio, un processo frutto di successivi movimenti di protesta. Non sorprende quindi che la natura del trumpismo dipenda dal ripristino di «equilibri originari»: l’azzeramento della presidenza nera innanzitutto (di molte politiche, certo, ma ancor più di Obama come simbolo) e di più, la neutralizzazione delle conquiste del movimento per i diritti civili e la restaurazione di antichi meccanismi di controllo sociale. Il colpo di coda violento di un Occidente bianco in panico demografico è in misura fondamentale una restaurazione razziale.
Obama non aveva traghettato il Paese in un Eden post-razziale – ma il suo attorney general, Eric Holder, aveva parlato apertamente di «complesso penale-industriale» e dell’insostenibile razzismo del gulag americano che imprigiona due milioni di individui, di cui un terzo afroamericani. Il successore trumpista di Holder è un «galantuomo dell’Alabama» di vecchia scuola, che sarebbe più a suo agio in un circolo di ufficiali confederati che in visita a un carcere.
E JEFF SESSIONS nell’amministrazione Trump detiene il portafoglio delle politiche eugenetiche. Difende la bandiera confederata e i monumenti agli eroi sudisti della guerra civile, denuncia la protesta di atleti neri e invoca un nuovo patriottismo. Non casualmente Nehisi Coates, per descrivere la transizione, parlerà di paradigma della reconstruction: il tentativo nordista di riformare il Sud schiavista dopo la guerra civile, fallito per lasciare il posto a Ku Klux Klan, alla stagione dei linciaggi e alla segregazione istituzionalizzata durata un secolo.
LA QUESTIONE RAZZIALE è quindi al centro della faccenda, in Alabama come a Rosarno o a Lampedusa. Su entrambe le sponde dell’Oceano la partita che si gioca è quella eugenetica e siamo già alla pulizia etnica – nei «lager per la tenera età» in Texas o in quelli dati in franchising alla Libia. Black Lives Matter è stato dunque più che lungimirante nell’analisi politica e può ricoprire un ruolo importante nella resistenza (vedi i contatti fra Blm e i giovani del nuovo movimento americano anti-armi).
La questione che minaccia di dilaniare l’Europa, in America prende la forma di un attacco frontale ed esistenziale all’esperimento multiculturale americano. Una resistenza americana è forse l’ultimo baluardo alla forza che minaccia di divellere la democrazia occidentale e di istaurare un neo totalitarismo liberista e illiberale, securitario e razzista.
In questa cruciale resistenza Black Lives Matter continua ad esercitare un ruolo primario, ora come parte del Movement for Black Lives, una confederazione di oltre 50 formazioni militanti che si adopera per la sconfitta del trumpismo – alle urne ma anche di più, come sostiene Melina Abdullah, esponente di spicco di Blm in California: «Noi adottiamo l’idea abolizionsita, il che vuol dire non solo rovesciare il sistema che ci opprime, ma applicare quello che Robin Kelley definisce ‘l’immaginazione radicale’ del tipo di mondo migliore in cui vogliamo vivere».
il manifesto 22.7.18
Marchionne, il manager di un’era che non esiste più
Auto e dintorni. Sergio Marchionne è stato l’«uomo della transizione». Ha portato la Fiat fuori dall’Italia. E l’Italia fuori dall’era industriale. Ma la sua eredità è piena di macerie. L’autoritarismo padronale dei referendum a Pomigliano e Mirafiori lascia centomila operai in meno, fabbriche vuote e un futuro incerto sulle auto di domani
di Marco Revelli
L’«Era Marchionne» finisce bruscamente. Anzitempo, e drammaticamente.
Quello deciso ieri dai consigli di amministrazione di Fca, Ferrari e Cnh riuniti d’urgenza a Torino non è un avvicendamento fisiologico (che sarebbe dovuto avvenire nel 2019, come preannunciato dallo stesso Marchionne, con l’approvazione dei conti del 2018).
È piuttosto il frutto di un imprevisto. Di uno stato di necessità che assegna al termine «fine» un carattere più perentorio. In qualche modo definitivo, di quelli che, appunto, trascinano con sé il senso di un bilancio.
Cosa è stato Marchionne per la Fiat e per Torino? Cosa ha rappresentato per l’Italia? E in qualche misura per tutti noi, che sotto il segno di auto, industria, finanza abbiamo vissuto e, negli ultimi tempi, patito?
È l’«uomo che ha salvato la Fiat e l’ha portata nel mondo» – come recita la congregazione dei plaudenti – o quello che ne ha decretato la fine facendola americana?
È il manager che ha sburocratizzato la pesante macchina industriale fordista introducendovi lo stile informale e il passo lieve del demiurgo post-moderno, o quello della mano pesante e del tradizionale autoritarismo padronale nei referendum di Pomigliano e Mirafiori?
È l’uomo del futuro, che incarna nella propria visione e nella propria azione un «nuovo paradigma» industriale-finanziario, o è «soltanto» un buon navigatore nella sistematica del caos che caratterizza la nostra epoca, capace di mantenersi a galla grazie alla propria vocazione a cambiar forma?
Difficile dare ora una risposta certa. Ma su un punto credo di avere le idee chiare.
Marchionne è l’«uomo della transizione». Non certo l’uomo del passato – di un passato industriale diventato indubbiamente improponibile -, ma nemmeno l’uomo del futuro.
HA TRASCINATO LA FIAT fuori dal Novecento (e dal fondo di un baratro), ma non l’ha consegnata a un’identità certa e stabile. A un «modello» nuovo e sicuro. Ha pareggiato i conti, certo (e si tratta di un quasi-miracolo che gli ha permesso di annodarsi per la prima volta dal 2006 la cravatta al collo), ma Fca rimane comunque un gruppo minore nel panorama dei grandi produttori automobilistici globali: l’ottavo, con i suoi 4.863.291 autoveicoli venduti (di cui appena un settimo prodotto in Italia), il 5,1% del mercato, esattamente la metà rispetto a colossi come Volkswagen e Toyota, molto dietro alla francese Renault.
Un gruppo del tutto incerto sul profilo del proprio prodotto: unica certezza il successo di Jeep (il cui capo del brand, Mike Manley, è appunto il successore di Marchionne), per il resto oscillazioni tra l’opzione per modelli premium e de luxe o i tradizionali prodotti di massa.
In una delle sue ultime dichiarazioni pubbliche era stato annunciato un piano d’investimenti massicci sull’auto elettrica (45 miliardi in 4 anni), un settore difficile, affollato, a micidiale competitività, con concorrenti dalla tradizione ventennale come Toyota, che garantirebbe di sicuro vantaggi futuri ma su cui tutto resta molto incerto, ed embrionale.
Più chiara ed evidente la questione dell’Italia. Qui la «transizione» si è consumata con un exit secco, cioè con un trasferimento di risorse e di sedi che ha assestato un durissimo colpo alla vocazione industriale del Paese.
FORSE POTREMMO DIRE che l’Italia industriale, così come l’avevamo conosciuta nella seconda metà del XX secolo, ha cessato ufficialmente di esistere allora, con quell’esodo, quando la Fiat non ha cambiato solo nome, sede legale (Olanda) e sede fiscale (Londra), ma con un massiccio trasferimento di tecnologie ha contribuito al rinsanguamento di un’industria automobilistica americana esangue restando tuttavia a sua volta in una condizione di anemia quasi mortale.
Con il 2010 del «Progetto Italia», lanciato in gran pompa l’anno prima come condizione per una resa sindacale e operaia pesantissima, non è rimasto più nulla.
Sotto l’ala protettrice di Barak Obama, il baricentro è stato spostato da Torino e dalla Campania al Michigan e Detroit.
Qui da noi sono rimasti gli scheletri spolpati di Mirafiori (oggi pressoché deserta, dopo che i residui operai della Maserati sono stati concentrati a Grugliasco) e di Pomigliano (dove la parabola discendente della Panda lascia una scia dolorosa di cassa integrazione cronica).
Era stato lo stesso Marchionne, da Fabio Fazio (sempre lui!), nell’ottobre del 2009 ad affermare, testualmente, che «la Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia». E da uomo di parola aveva fatto seguire i fatti.
In Italia Fca è passata dai 120mila dipendenti del 2000 ai 29mila di oggi
Oggi i dipendenti diretti di Fca in Italia sono 29.000 compresi quelli di Maserati e Ferrari. Erano oltre 120.000 nel 2000.
ORA SERGIO MARCHIONNE lascia silenziosamente la scena quando l’era della transizione – il «suo» tempo – è finita.
Il mondo che viene avanti non è più quello della globalizzazione leggera, dello spazio liscio della comunicazione e delle contaminazioni feconde, e neppure di quella più dura dalla competizione feroce.
È il tempo dei muri e dei dazi. Delle barriere e del confronto muscolare. Il tempo delle guerre commerciali che minacciano di non fare prigionieri. Forse ricorderemo i suoi maglioncini tutti uguali, nel tempo degli elmetti e delle tute mimetiche.
Il Fatto 22.7.18
“I festini di Siena? Ora parlo io”
Il colonnello dei carabinieri replica all’inchiesta delle Iene: “Hanno intervistato la mia ex moglie per screditarmi”
di Selvaggia Lucarelli
“La storia dei festini legati alla morte di David Rossi è una gigantesca bufala. Parlo adesso per la prima volta perché dopo che sono stato tirato in mezzo dalle Iene e dalla mia ex moglie, la mia vita è sconvolta. E sono stanco di speculazioni sulla mia pelle”.
Il colonnello dell’Arma dei carabinieri, Pasquale Aglieco, non ne può più. Era il comandante provinciale dell’Arma a Siena quando David Rossi si suicidò. Fu uno dei primi ad arrivare sul luogo della tragedia, la notte del 6 marzo 2013 e, secondo alcuni testimoni intervistati da Antonino Monteleone de Le Iene nei mesi scorsi (un escort e la sua ex moglie), sarebbe anche uno dei personaggi influenti che presero parte a ipotetici incontri in alcune ville del Senese a base di sesso e di escort omosessuali.
Festini con politici, magistrati, sacerdoti e alti funzionari della banca Montepaschi. Festini la cui esistenza potrebbe spiegare – secondo quel che hanno lasciato intendere Le Iene – il perché le indagini siano state condotte male. In parole povere, come dice Aglieco durante l’intervista, “qualcuno avrebbe insabbiato le indagini sulla morte di Rossi perché chi indagava e chi poteva essere indagato, andavano a maschi insieme”. E Pasquale Aglieco ha deciso che si difenderà da queste accuse in tutte le sedi possibili.
“Quando le Iene hanno trasmesso il primo servizio sul filone dei festini a Siena, io stavo guardando altro in tv. Hanno cominciato a chiamarmi amici di Siena, chiedendomi cosa stesse succedendo. Era successo che questo fasullo escort col volto coperto aveva raccontato di questi festini gay, facendo dei nomi di battesimo dei coinvolti. Parlava di un Giulio, di un Nicola. Il tutto costruito in maniera subdola, perché poi Monteleone chiedeva se ricordasse dei soprannomi e quello diceva ‘Il carabiniere’. Di carabiniere con quel nome in tutto il comando c’ero solo io.
E lei a quei presunti festini non aveva mai preso parte?
Io non solo non vado a festini e non sono omosessuale, ma il mio lavoro lo faccio bene, sono stato a Siena dal 2010 al 2013 e mi creda, se si fossero fatti festini con personalità di quel calibro, io lo avrei saputo.
Non è solo l’escort però a tirare in ballo lei.
No. L’11 aprile arriva il secondo servizio e questa volta la super testimone di spalle è la mia ex moglie, con cui sono separato dal 2011. È riconoscibile perché mostrano dei dettagli dell’orologio, dell’anello, delle mani… a Siena l’hanno riconosciuta tutti. L’hanno fatto di proposito. Chiunque ci conosce ha capito chi fosse e il fatto che stesse parlando di me.
La sua ex moglie ha dichiarato di aver trovato frustini e mutande di pelle nel suo armadio.
Mi scusi se rido, ma quando parlo di questa storia ho una risata nervosa. Al di là dell’assurdità di queste accuse, la mia ex moglie mi fa denunce su denunce da anni, dall’appropriazione indebita al mancato mantenimento. C’è una conflittualità pregressa. Se nessuno mi ha cercato per chiedermi una mia versione dei fatti forse è perché avrei rivelato che il testimone chiave non è proprio imparziale nei miei confronti. Per giunta mi lasciò lei.
Su questo filone sta indagando la Procura di Genova. È stato convocato?
Certo. Mi è stato chiesto se ho mai posseduto frustini. Ho risposto che ho le manette, ma hanno altre funzioni. Mi è stato chiesto se possiedo mutande di pelle, ho risposto che mi fanno sudare solo al pensiero. Si rende conto delle domande a cui ho dovuto replicare?
Ha denunciato Le Iene?
Certo. Hanno realizzato 33 servizi tra tv e sito. L’ultimo il 4 luglio. Ho denunciato Rti, Le Iene, Davide Parenti, Antonino Monteleone e il suo autore Marco Occhipinti. La storia dei festini è una balla colossale. Si sono innamorati di una storia e l’hanno voluta portare avanti fino in fondo, ma senza uno straccio di prova, aggrappandosi a chiacchiere e falsi escort.
Perché dice che l’escort è falso?
Senta, io questi escort che vanno a cena con i clienti, trattati alla pari, seduti a tavola in una villa li trovo bizzarri. Poi ci sono alcune cose che non tornano. L’escort dice che giorni prima c’era stata agitazione per la morte di una ragazza e Monteleone specifica che l’omicidio di questa colombiana avvenne in un palazzo nei pressi della banca. A parte che il palazzo era più vicino a casa di Rossi che alla banca e che l’assassino è stato individuato poco dopo, la ragazza è stata trovata il 3 marzo. David è morto il 6. Come è possibile che nel momento più delicato, a due giorni dalla morte di David Rossi, si continuassero a fare festini come se niente fosse?
Lei ha indagato un po’ per conto suo immagino, sa chi sia questo escort?
No, ma vorrei tanto che i magistrati di Genova lo scoprissero. Ho chiesto ‘trovatemelo, lo vorrei tanto incontrare, fare un confronto’. Monteleone e la Orlandi lo hanno visto, proteggeranno la fonte, ma per proteggerlo hanno messo in croce un uomo.
Che cos’è che le pesa di più in questa vicenda?
Il fatto di passare per un corrotto in combutta con corrotti e per un omicidio. Ci sono momenti in cui vedi la trasmissione e dici: beh, potrebbero pure averlo buttato di sotto. Poi, nel mio caso specifico, sono pure arrivato lì per caso la sera in cui è morto Rossi, il passo successivo è quello.
In che senso per caso?
Ero in piazza della Posta, dal tabaccaio automatico a comprare le sigarette, a due passi da Montepaschi. Vedo passare una pattuglia della polizia, vado a vedere cosa fosse successo e trovo David Rossi lì, con l’ambulanza già sul posto. Congelo la scena del ritrovamento del corpo, poi l’ufficio, che era in perfetto ordine. Le indagini poi non le ho condotte io, perché erano competenza della questura.
Le indagini sono state fatte male. Questa è un certezza.
Non è l’unico caso in cui ci sono state indagini condotte male e se si conducono male delle indagini, la conclusione non è per forza che si sia trattato di un omicidio. Qui ci sono state due indagini diverse di giudici diversi che sono arrivati alla medesima conclusione: David Rossi si è suicidato. E così è andata. Non c’è nulla da scoprire, purtroppo.
Ma lei David Rossi lo conosceva?
Tutti lo conoscevano, anche io, certo. Siena è piccola, è come il paesino in cui il dottore, il parroco, il sindaco, si conoscono tutti.
C’è una cosa che è strana però. Da dove nasce l’idea dei festini? Da qualche parte sarà partita.
Che io sappia è partita dall’ex sindaco Piccini. Io non ci credo alla storia dell’intervista rubata dalle Iene. È furbo, non si fa fregare. Era praticamente in campagna elettorale, ha detto quello che la città voleva sentirsi dire in quel momento. Spero che riveli ai magistrati chi sarebbe questa avvocatessa che gli ha parlato dei festini. Perché anche questa sua versione ha i contorni di una chiacchiera, l’ennesima.
Quindi lei finisce in questa vicenda per delle chiacchiere?
Dalle chiacchiere da bar nascono tantissime indagini e i festini non sono mai stati neppure chiacchiere da bar. Tra l’altro, Siena nel 2012, nel periodo del crac della banca, aveva il mio nucleo investigativo, un questore, un prefetto, la finanza più la Bbc, la Cnn e tutte le tv e la stampa italiana, ma nessuno ha mai scoperto nulla di questi festini. Dopo 5 anni arrivano le Iene e viene fuori lo scoop. Strano, no?
Le Iene
sapevano di rischiare, avranno qualcosa di solido per cavalcare questa tesi dei festini…
Sì. Una moglie arrabbiata, un escort incappucciato, un ex sindaco la cui fonte è un’avvocatessa senza nome e una tesi di cui si sono innamorati, ovvero che si siano insabbiate delle indagini perché carabinieri, sacerdoti, magistrati e funzionari di banca andavano a maschi insieme. Un po’ poco, forse.
Il Fatto 22.7.18
Luciana Castellina
«Il Pd è morto, la sinistra no. Ripartiamo dagli sfruttati»
«I Cinque Stelle riempiono un vuoto in modo confuso Una parte di loro finirà per stare a sinistra, ma si sveglino»intervista di Fabrizio d’Esposito
Luciana Castellina è una politica, giornalista e scrittrice, parlamentare comunista per quattro legislature e più volte eurodeputata: un volto storico della sinistra italiana. Intellettuale eretica, nel 1969 è stata tra i fondatori de ”il manifesto”, a causa del quale fu radiata dal Pci. Con la rivista, poi quotidiano, non ha mai interrotto la collabora- zione. L’ultima avventura politica, nel 2015, è con Vendola e L’Altra Europa con Tsipras
Castellina, la sinistra e il Pd sono morti?
Per me il Pd non è di sinistra.
È, anzi era un partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria.
La sinistra è un’altra cosa. Minniti è stato un ministro di destra. E il Jobs Act ha contribuito a smantellare quella che un tempo si chiamava l’unità dei lavoratori, della classe operaia.
Quindi inutile chiederle di Zingaretti o Martina o Calenda?
La questione è molto più seria, c’è da ricostruire un percorso, un’egemonia culturale, ci sono da fare nuove casematte di contropotere. Il problema non è sapere cosa farà Zingaretti. Questa è un’ossessione per chi ragiona solo in certi termini.
Quali?
Mi ha colpito che dopo il 4 marzo si sia parlato solo di governo, non di società. E credo che perdere la società sia più grave che perdere Palazzo Chigi. Il Pd è morto perché è un partito nato male e finito peggio.
Governismo, malattia atavica affine a quel poterismo denunciato persino da Stalin.
Il cambiamento – una volta si sarebbe detto la rivoluzione – è un processo lento. Tutto quello che di buono ha fatto il Pci, lo ha fatto dall’opposizione, non dal governo.
Poi il Muro è crollato ed è arrivata la Seconda Repubblica: riformismo e adesione acritica al capitale, il blairismo, Clinton e l’Ulivo mondiale, eccetera eccetera. Fino al colpo mortale del renzismo cinico e vuoto.
Io vado indietro alla metà degli anni Ottanta quando è subentrato il mito del decisionismo socialista con Craxi, è stato a quel punto che non si è dato più spazio al protagonismo della società, alla partecipazione democratica.
Da Craxi a Renzi un solo filo, in mezzo Veltroni, D’Alema, Bersani.
Renzi non è stato che l’ultimo epigono e D’Alema è quello che ha meno colpe rispetto agli altri. Il Pd è stato l’ultimo approdo di una linea decisa dalla Trilateral (la “commissione” sovranazionale fondata da Rockefeller negli Stati Uniti, ndr) nel 1973.
Fa la complottista?
Per carità di Dio, è tutto pubblico, una linea politica annunciata.
Cioè?
Per la Trilateral c’era troppa democrazia nel mondo e così nacque l’idea di governance, l’idea di governare un Paese come una banca. E decenni dopo siamo finiti con Macron e Renzi, anche se il primo è meno ridicolo del secondo e pure in Francia i socialisti sono crollati.
L’Europa delle banche e non dei popoli.
Nessuno ha mai letto le sentenze della Corte costituzione tedesca contro l’adesione della Germania ai Trattati di Maastricht e Lisbona. Ormai il parlamentarismo non conta più, esistono solo gli esecutivi e a loro volta i primi ministri che si riuniscono a Bruxelles. Oggi non è la sinistra a essere in crisi, ma la democrazia.
A proposito di crisi della democrazia: nel Pd il renzismo appare come l’unico capro espiatorio. Ma il lungo regno di Giorgio Napolitano al Quirinale ha inferto altri colpi mortali, a partire dal 2011 quando impedì a Bersani di andare a votare. E due anni dopo, nel 2013, il Pd pagò più di tutti il tragico biennio dei tecnici di Monti. Eppure la questione Napolitano è ancora tabù a sinistra.
Napolitano è sempre stato per i poteri stabilizzanti. E nel 2011 per prudenza si è schierato coi poteri forti.
Dunque: la crisi della democrazia coincide con la crisi della sinistra.
Perché la sinistra ha bisogno della democrazia, molto più della destra.
Nel frattempo milioni di elettori di sinistra si sono rifugiati nel M5S: il 45 per cento dell’elettorato grillino viene dall’area ex Pci.
I Cinquestelle hanno riempito un vuoto in maniera confusa, dicono tutto e il contrario di tutto. Hanno sostituito la democrazia con la piattaforma Rousseau. E non hanno capito una cosa.
Quale?
Sostengono che tutto quello che è successo è stato colpa della politica. Ma è vero il contrario: è stata l’assenza della politica a favorirli.
Ma il M5S può far parte del futuro della sinistra?
Dipende se prevarrà la linea di Salvini. In ogni caso una parte dei grillini finirà per stare a sinistra. Però si sveglino, l’ingenuità è pericolosa perché si corre il rischio di essere manovrati da qualcuno.
Tolti il Pd e la metà dei Cinquestelle cosa resta?
Io non sono pessimista. Tra qualche giorno, in Calabria, c’è un grande campeggio di migliaia di studenti che si ritrovano non per chiedersi chi ha sbagliato tra Renzi e D’Alema, ma per interrogarsi sul presente e sul futuro. E sono tutti nati nel 2000.
Tolto pure il campeggio?
Ci sono l’associazionismo, c’è Sinistra Italiana di cui faccio parte.
Ahi: Sinistra Italiana sta in Liberi e Uguali, non proprio un successo.
Il guaio di LeU è stato quello di fermarsi al nome del leader. Una vera disgrazia, un cedimento alla comunicazione. Non si parte mai dai nomi. A meno che non sia Togliatti.
Togliatti era Togliatti.
Appunto.
Si comincia prima dalle battaglie.
La sinistra si può rilegittimare con la difesa dei nuovi sfruttati, che sono messi peggio rispetto ai primi del Novecento.
Sinistra, lavoro, diritti.
Libertà e uguaglianza, il comunismo.
Lei era un’eretica filocinese del manifesto. A Pechino c’è sempre la bandiera rossa.
Ma non è comunismo.
il manifesto 22.7.18
La rete di Zingaretti, base dem e associazionismo cattolico
Pd. Prime mosse del governatore del Lazio per la sua corsa al vertice del partito. L’ala sinistra sarà Futura, con Laura Boldrini presidente
di Daniela Preziosi
Nicola Zingaretti stringe i bulloni della sua rete e inizia a fare qualche mossa. Obiettivo: lavorare alla sua corsa al vertice del Pd ma anche mettere sotto pressing l’attuale segretario Maurizio Martina. Che, dopo essere stato votato dalla sinistra del partito all’assemblea nazionale in cambio della promessa di un congresso da concludersi prima delle europee, ora ha cambiato passo e ha dato un discreto ma deciso colpo di freno alla macchina organizzativa. E ha deciso di affrontare il dossier delle assise con tutta calma.
NON A CASO MERCOLEDÌ scorso, all’uscita dalla prima riunione di segreteria convocata a Tor Bella Monaca, un renziano di rango scherzava con un collega di partito: «Il congresso? Lo faremo nel 2019, questo è sicuro». Martina prova dunque ad allungarsi la vita al Nazareno. Del resto ha sempre maltollerato il fatto di essere un leader «con la scadenza, come uno yogurt». Il fatto è che Renzi e i renziani, ancora in cerca di un candidato, lo assecondano e lo appoggiano. Il suggello della ritrovata sintonia fra l’ex segretario e il suo ex vice è stata la partita delle bicamerali e delle nomine: praticamente tutti renziani.
Zingaretti fiuta dunque un altro rinvio del congresso e una vigilia che potrebbe prolungarsi all’infinito, e muove le sue pedine. Soprattutto nei week end, per non essere accusato di trascurare la regione. Vede giornalisti, sonda il terreno per capire come sarà accolta la sua corsa dai media. Valuta la presenza alle iniziative estive di alcune testate, insieme a quella nelle feste dell’Unità dalle quali fioccano le richieste di comizi. Organizza la sua rete, fuori e dentro il partito. Evitando con cura di apparire il candidato della sinistra interna, ma neanche il nuovo riferimento dei trasformisti di sempre. E così i suoi da una parte valutano persino con sollievo la notizia che Gianni Cuperlo accarezzi l’idea di ritentare alle primarie. Dall’altra tengono le distanze dai potentati del partito: nessuno accordo con Dario Franceschini e con gli antirenziani dell’ultima ora. Zingaretti cercherà di parlare direttamente con il popolo dem. Unica eccezione, Paolo Gentiloni: l’ex premier gli dà una mano sin dalle prime mosse. Ma la strategia è «base, tanta base» spiega chi ci ha parlato di recente.
BASE DEM, DUNQUE, civici e associazionismo cattolico. I primi a essere stati convocati, all’indomani delle amministrative, erano stati infatti i sindaci che lo hanno sostenuto alle regionali. Il presidente li ha riuniti per rivendicare le vittorie, quasi le uniche che le coalizioni progressiste potevano vantare in quella tornata. Ma soprattutto per discutere i punti il suo “manifesto” per le alleanze civiche e democratiche, un modello vincente nel Lazio e ora da esportare in tutta Italia, anche alle amministrative del 2019.
Poi c’è la rete dell’associazionismo cattolico. Il riferimento diretto è Paolo Ciani, consigliere regionale, eletto con Centro solidale e proveniente dalla Comunità di Sant’Egidio, vicinissimo all’ex ministro Riccardi e all’ex viceministro Mario Giro. La rete conta su attivisti di area cattolico-sociale come Cristiano Carrara, Rita Visini e Francesco Scoppola.
UN ALTRO SEGNALE è arrivato da fuori dal partito. Giovedì scorso a Roma la rete Futura, nata lo scorso 16 giugno, si è formalmente strutturata. Presidente onoraria Laura Boldrini, coordinatore il giovane Marco Furfaro. Nel comitato nazionale c’è il regista dell’operazione, il vicepresidente del Lazio nonché braccio destro (sinistro in realtà si dovrebbe dire) Massimiliano Smeriglio. Con lui molti esponenti dell’ex area di Giuliano Pisapia. «Non siamo un partito politico», spiega Boldrini, «ma una rete che aggrega persone e associazioni. Una rete aperta che guarda al mondo senza paura e vuole valorizzare le tante esperienze innovative che ci sono nel Paese. Uomini e donne che non si arrendono alla deriva oscurantista dell’attuale governo e che vogliono rilanciare una dimensione politico-culturale alternativa a partire dalle tematiche giovanili, l’ambientalismo, il femminismo, i diritti civili e sociali».
INFINE LE MOSSE nel partito. In queste ore si moltiplicano i parlamentari che chiedono pubblicamente a Martina di stringere i tempi del congresso. E’ la formula rituale dell’iscrizione alla corrente di Zingaretti, che però rifiuta l’idea stessa e infatti fin qui ha disertato tutti i caminetti e le riunioni dei capi bastone. Lui punta sulle iniziative della «base», appunto. E quelle cominciano ad arrivare: venerdì scorso il segretario regionale dell’Emilia Romagna, Paolo Calvano e i segretari provinciali di Forlì, Ravenna, Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Bologna, Modena, Rimini, Cesena, Imola e Ferrara hanno scritto a Martina un appello per convocare subito il congresso per «individuare una nuova classe dirigente» e che sia «aperto tra ottobre e novembre, in concomitanza con i congressi territoriali, per chiudersi in tempi congrui alla adeguata preparazione delle elezioni europee e amministrative del 2019». Nell’ex regno di Bersani in realtà il presidente della regione Stefano Bonaccini è tentato dalla ricandidatura ma anche dalla corsa per la segreteria dem. Ma, almeno per quest’ultima, i suoi dirigenti hanno già scelto il collega del Lazio. Ma soprattutto, insieme ai dirigenti della Toscana e del Piemonte, puntano alla riorganizzazione rapida del partito prima delle europee: perché nel 2019 ci saranno anche i rinnovi dei consigli regionali di quelle tre regioni. E senza un partito davvero “ripartito” il rischio per il Pd è di prendere un’altra botta pesante, stavolta irrimediabile.
La Stampa 22.7.18
Il dl dignità punta a salvare 5 mila precari della scuola
di Nicola Lillo
Il decreto dignità si trasforma sempre più in un provvedimento omnibus. Tra gli emendamenti presentati in accordo tra i due partiti di governo sono previste infatti misure che hanno poco a che vedere con quanto inizialmente contenuto nel decreto voluto dal vicepremier Luigi Di Maio, che lo definisce infatti un «decreto dignità 2.0». Lega e Movimento Cinque Stelle hanno concordato di introdurre misure sui più diversi temi, dalla riduzione dell’accisa sulle sigarette elettroniche al potenziamento dei centri per l’impiego, dal ritorno dei voucher al salvataggio di circa cinquemila precari di lungo corso della scuola. Quest’ultima misura in particolare cancella il limite di 36 mesi per le supplenze, dopo cui gli insegnanti avrebbero perso il posto.
Gli 890 emendamenti inizieranno a essere votati domani in commissione, ma l’attenzione si concentrerà sui 36 concordati dalla maggioranza (13 della Lega e 23 dei Cinque Stelle), che prevedono tra le altre cose che l’impresa che assume under 35 paghi la metà dei contributi anche per il 2019 e 2020, e la restituzioni dell’aumento dello 0,5% dei contributi per ogni rinnovo di contratto a termine se il lavoratore viene assunto a tempo indeterminato. Resta immutata invece la stretta sui contratti a tempo, che parte da ottobre per la pressione delle imprese, sulle delocalizzazioni e sugli spot per il gioco d’azzardo.
Le sigarette elettroniche
Una novità riguarda le sigarette elettroniche. La Lega - in accordo col M5S - ha presentato un emendamento che consente di nuovo la vendita online di liquidi con o senza nicotina e l’accisa per i tabacchi da inalazione senza combustione sarà ridotta dal 50 al 25%. Verranno inoltre rafforzati gli organici dei centri per l’impiego, fondamentali nei piani dei Cinque Stelle per il reddito di cittadinanza: saranno le Regioni ad assumere nuovi dipendenti fra il 2019 e il 2021 per «garantire la piena operatività», prima però servirà un accordo con lo Stato.
Voucher validi per 10 giorni
I due partiti hanno trovato poi un compromesso sui voucher. Per Di Maio, che era inizialmente contrario, la norma «non punta ad alcuno sfruttamento». In particolare l’emendamento prevede che possano essere usati in agricoltura, turismo e anche dagli enti locali, ma solo per studenti, pensionati e disoccupati. Potranno essere usati per dieci giorni e non più tre, e saranno tracciabili, digitali, ma anche cartacei.
Più fondi a radio e tv locali
Dalla Lega inoltre arriva un emendamento, anch’esso in accordo coi Cinque Stelle, che prevede lo sblocco dei fondi per l’editoria locale, e cioè a radio e tv, rendendo così più facile l’accesso alle risorse pubbliche. L’obiettivo, come si legge nell’emendamento, è «salvare 5 mila posti di lavoro» delle emittenti che lavorano a stretto contatto col territorio. Questa misura però è in contrasto con quanto più volte espresso dal Cinque Stelle Vito Crimi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria, il quale ha rilanciato un taglio dei fondi per il settore. Intanto il governo si prepara a fare una marcia indietro sull’aumento dei costi dei rinnovi dei contratti per colf, badanti e baby sitter, che sarebbero potuti arrivare fino a 160 euro all’anno in più per famiglia.
Il Sole 22.7.18
Salva-precari scuola tra le modifiche al Dl
di Giorgio Pogliotti
Estensione anche per il 2019 e 2020 della decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato degli under 35. Lo sgravio del 50% dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro – con l’esclusione dei premi e contributi Inail – è riconosciuto per un triennio, per un massimo di 3mila euro l’anno. Senza questa norma, prevista da uno degli emendamenti al Dl 87 concordati da Lega e M5S, il bonus al 50% sarebbe andato ai soli under 30. Sarà un decreto del ministero del Lavoro, di concerto con il ministero dell’Economia, entro 60 giorni dalla conversione in legge del Dl, a stabilire le modalità per fruire dello sgravio che richiede una copertura per 71 milioni per il 2019, 243 milioni per il 2020, 354 milioni per 2021. «Con gli emendamenti frutto del confronto parlamentare – commenta il sottosegretario al lavoro, Claudio Durigon - è stato migliorato il testo del decreto. Gli incentivi alla stabilizzazione per rendere più conveniente assumere con il tempo indeterminato rappresentano un primo passo perché la legge di Bilancio conterrà un taglio del cuneo fiscale».
Tra gli emendamenti della maggioranza - il testo è atteso in Aula il 26 luglio -, c’è una norma “salva-precari” di lungo corso della scuola, che cancella il limite di 36 mesi per le supplenze introdotto con la “buona scuola”, ed è confermato un incentivo alla stabilizzazione degli over 35, sotto forma di restituzione alle imprese del sovraccosto dello 0,5% che scatta in occasione di ogni rinnovo di contratto a termine. Si introduce un periodo transitorio: per i contratti in corso al 14 luglio resta la disciplina previgente fino al 30 settembre. Non tornano i voucher, ma tra gli emendamenti della maggioranza c’è la semplificazione della prestazione occasionale per agricoltura, turismo ed enti locali, e un ampliamento della durata d’utilizzo da 3 a 10 giorni. Per la somministrazione, la sussistenza delle causali per ricorrere a contratti a tempo determinato si verifica in capo all’utilizzatore. Inoltre, ai lavoratori somministrati non si applica lo stop and go - la pausa tra un contratto e l’altro. Tuttavia la soglia del 20% che si applica ai contratti a tempo determinato, include anche i lavoratori somministri, e viene calcolata rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato assunti dall’azienda utilizzatrice.
La Stampa 22.7.18
Grillo, i 70 anni e la blog-celebrazione
E lui si esalta: “Sto andando su Marte”
di Francesca Schianchi
Io ero uno di quelli che passavano di là, che ti ha sentito, che si è avvicinato e poi non se n’è più andato. Ora siamo milioni e siamo maledettamente orgogliosi del sogno che ci hai regalato». L’anonimo «sognatore delle stelle» dà il via al grande amarcord e presto viene seguito da centinaia di messaggi di auguri al «genio», al «rivoluzionario», il «guerriero dall’animo nobile», il «patriota», l’«amore nostro» che, nientemeno, «ci mostra una vita migliore»: chiamata tutta a raccolta, la comunità del Movimento Cinque stelle coglie l’occasione dei settant’anni del fondatore per una grande seduta di autocoscienza collettiva sul blog delle stelle attraverso la storia del Movimento, dai primi Vaffa day dritti dritti al governo.
Gli auguri dei ministri
«Vi aspetto su Marte per il Movimento 6 stelle», ringrazia lui via Facebook dopo che sono arrivate valanghe di commenti sul blog, e tweet e post, il ministro Riccardo Fraccaro che omaggia il «grande uomo» capace di «leggere il presente e immaginare il futuro», la collega siciliana Giulia Grillo che posta foto e lo invita «che ne dici di un’altra traversata dello Stretto?», il sottosegretario Manlio Di Stefano che lo ringrazia per l’invito costante a «prendere tutto col sorriso, scherzarci su e andare avanti», e poi Patrizia da Cagliari, Antonio da Carrara, Maurizio da Roma e tanti altri. Come una festa virtuale, gli auguri, e i grazie «per aver creato il partito dell’onestà, quello che è dalla parte dei cittadini», perché «erano decenni che aspettavo di vivere in un sogno come quello che tu hai regalato a tutti coloro che come bambini non smetteranno mai di sognare».
Dai Meetup in poi
Chissà quanti tra quelli che scrivono, tra cui c’è qualcuno che ringrazia in modo persino imbarazzante «la stella più bella e più splendente», il «grandissimo uomo» che «andrebbe clonato» o perlomeno, aggiunge un altro, insignito del premio Nobel per la pace, chissà quanti di loro hanno cominciato a crederci aderendo ai Meetup, o partecipando al primo Vaffa day, e hanno visto piano piano crescere la creatura inventata da Grillo e Gianroberto Casaleggio. «Io il 25 aprile 2008 ero là in piazza San Carlo a Torino tra la folla e per la prima volta in vita mia mi sono sentito parte di una moltitudine colta, preparata e onesta che voleva cambiare veramente le cose - scrive Osvaldo – e ora, dieci anni dopo, eccoci qui e questo è soltanto l’inizio».
«Occhi aperti»
Le prime vittorie nelle città – Parma, «la nostra Stalingrado», anche se poi con il sindaco Federico Pizzarotti è finita come è finita – i risultati sbalorditivi alle politiche del 2013, la prima ondata di parlamentari grillini con zaini e spillette, alieni nel Palazzo armati di virtuale apriscatole al grido «non siamo onorevoli ma cittadini», il periodo del bando alle tv e degli scontrini esibiti con orgoglio. «Per favore tieni sempre gli occhi aperti e fa sì che tutto vada avanti sempre come tu hai previsto che fosse», si raccomanda Susy, perché poi di strada ne è stata fatta, e sulle restituzioni qualcuno è inciampato, e il divieto di telecamera è caduto, e ora che sono al governo, vincitori delle ultime elezioni, succede anche che su 222 deputati eletti ieri l’altro a sentire le dichiarazioni del capo politico Luigi Di Maio su una questione delicata e importante come Ilva fossero giusto un paio, «io non posso tollerare che i nostri parlamentari non fossero presenti», approfitta Cristina degli auguri per fargli una richiesta, come al padre che deve rimbrottare i suoi ragazzi.
L’Elevato
Chissà se lui, il festeggiato, «l’Elevato», come si prende in giro spesso da solo, avrebbe mai immaginato di vivere un’altra vita, dopo quella da comico, di unire in rete le persone via web, «una comunità di persone vere», scrive Giuseppe, di vederla crescere fino a un partito. «Hai trasformato semplici idee in manifestazioni pacifiche fino ad arrivare al governo», ricorda Rosario. «Adesso è abbastanza?», si chiede il «sognatore delle stelle»: «Conoscendoti non credo», e «non mi sorprenderebbe se un giorno ti facessi sparare da un razzo per andartene tra le stelle». Perché «per noi sei un eroe e gli eroi possono fare qualsiasi cosa». Anche fondare un partito mandando tutti a quel Paese, e arrivare a governare.
La Stampa 22.7.18
Hamas si spacca sull’orlo della guerra
L’ala militare vuole l’escalation a Gaza
Tregua con Israele dopo razzi e bombardamenti. I miliziani boicottano l’accordo con l’Anp
di Giordano Stabile
Un’inversione di marcia sull’orlo del precipizio. Così hanno descritto gli analisti israeliani la tregua raggiunta nella notte fra venerdì e sabato tra Hamas e Israele. I tank stavano scaldando i motori per l’intervento di terra. Il consiglio di guerra guidato dal premier Benjamin Netanyahu aspettava un’ultima provocazione, un lancio massiccio di razzi come quello di una decina di giorni fa, per far scattare l’attacco. I servizi segreti egiziani erano corsi nella Striscia, a colloquio con i due leader del movimento islamico, Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh. Con loro anche un emissario del Qatar. La leadership politica ha mobilitato allora tutte le risorse per un controllo capillare del territorio. Razzi e mortai hanno taciuto e alla mezzanotte c’è stato l’annuncio del cessate il fuoco.
Come è nata l’escalation
I conti però ancora non tornavano. La «quarta guerra di Gaza» stava per essere innescata da un errore di calcolo impossibile da attribuire a capi esperti come Sinwar e Haniyeh. L’escalation comincia giovedì, quando un tank israeliano spara su un gruppo di palestinesi che preparavano il lancio di un aquilone incendiario, nel Sud della Striscia. Un militante dell’ala militare di Hamas rimane ucciso. Le Brigate Ezz al-Din al-Qassam annunciano vendetta. Non è la prima volta che lo fanno da quando sono cominciate il 30 marzo scorso le «marce del ritorno» al confine ed è scattata la dura reazione israeliana, 140 vittime palestinesi. Di solito la risposta sono lanci di razzi o colpi di mortaio. Non questa volta.
Nel primo pomeriggio di venerdì i dimostranti si ammassano al posto di confine di Khan Younis. C’è anche Haniyeh. Un cecchino palestinese spara su una pattuglia israeliana. Uccide un coscritto di 19 anni. È il primo soldato israeliano morto in servizio dall’estate del 2014, dall’operazione Protective Edge. Una provocazione grave. Israele non lascia passare le uccisioni o i rapimenti dei suoi soldati. Molte guerre, a cominciare dal Libano 2006, sono cominciate così. Haniyeh è ancora lì. Per questo gli uomini sulla torre di osservazione più vicina non possono essere evacuati, devono proteggere il leader. Un tank li colpisce in pieno e uccide quattro militanti.
La trappola
È chiaro che la leadership politica non aveva nessun interesse a esporre a un rischio così alto il suo maggiore rappresentante. L’ipotesi più probabile è che invece le Brigate Al-Qassem volessero coinvolgerlo e trascinarlo nel confronto armato. Per gli analisti militari israeliani, a cominciare dal veterano Ron Ben Yishai, non ci sono dubbi. L’ala militare è disposta a tutto pur di evitare la «riconciliazione» con l’Autorità nazionale palestinese, cioè la consegna della Striscia ad Abu Mazen e il disarmo delle milizie. Su questo punto la mediazione egiziana è in stallo dall’autunno dello scorso anno, quando è stato raggiunto un accordo quadro per la formazione di un governo di unità nazionale guidato dal premier Rami Hamdallah.
La morsa Israele-Egitto
Hamas ha accettato anche perché la morsa Israele-Egitto-Usa l’ha messa con le spalle al muro. Il Cairo ha chiuso il valico di Rafah e ormai nella Striscia mancano anche le bombole di gas che servono per cucinare. Pochi giorni fa il trio di mediatori formato da Jared Kushner, Jason Greenblatt e l’ambasciatore David Friedman ha dato un ultimatum in codice con una lettera sul «Washington Post»: o Hamas accetta la riconciliazione, nel qual caso ci sarà la ricostruzione di Gaza e massicci aiuti umanitari, o perderà ogni copertura e Israele avrà mano libera. Netanyahu e i suoi ministri hanno cominciato una raffica di visite al confine. Il titolare della Difesa Avigdor Lieberman ha minacciato «una guerra peggiore che nel 2014» se non fossero cessati i lanci di aquiloni-molotov e razzi. Un’ultima pressione per indurre Hamas a quella che assomiglia a una resa. La leadership politica sembra disposta ad accettare. L’ala militare no.
La Stampa 22.7.18
Baku-Vienna, il nuovo Orient Express corre sulla via della seta
di Gianni Vernetti
Agli inizi del secolo scorso tutte le potenze europee si resero protagoniste di diversi progetti infrastrutturali con l’obiettivo di consolidare la propria presenza geo-politica e geo-economica in Medio Oriente ed in Asia.
La Germania con il progetto della ferrovia Berlino-Baghdad, realizzato in fasi alterne fra il 1903 il 1940, aveva come obiettivo di garantire all’Impero tedesco uno sbocco sul Golfo Persico.
La Francia con la «Compagine Internationale des Wagons-Lits» collegava dal 1883 quasi tutti i giorni la Gare del’Est con Costantinopoli e nel 1919, grazie al completamento del Tunnel del Sempione, venne inaugurato il «Simplon Orient Express», via Losanna, Milano, Venezia e Trieste.
Le reti e i servizi ferroviari erano naturalmente qualcosa di più di un semplice ed efficace collegamento, ma rappresentavano una forte «proiezione» delle potenze occidentali verso i Paesi ed i nuovi mercati di Medio Oriente e Asia.
Le nuove reti aumentarono esponenzialmente i flussi di merci e passeggeri, gli scambi commerciali, consolidando ed espandendo la proiezione geo-politica dell’occidente.
Oggi assistiamo invece ad un fenomeno esattamente inverso, non solo da un punto di vista geografico.
E’ di pochi giorni fa la notizia che le Ferrovie dell’Azerbaigian hanno completato l’acquisto di 64 nuove motrici e carrozze dal gruppo svizzero Stadler-Alstom, che renderanno possibile un nuovo servizio passeggeri settimanale fra Baku, la capitale azera sul Mar Caspio, Tbilisi, Istanbul, Alexandopolis e Vienna.
Tutte vetture sono in grado di variare automaticamente il proprio «scartamento», rendendo cosi possibile unire le reti ferroviarie europee con quelle di Cina ed ex Urss.
Le implicazioni geo-politiche sono però ben più rilevanti.
Il nuovo «Orient Express» che sta per nascere, questa volta partirà da Oriente per giungere fino nel cuore della vecchia Europa.
Lo scorso ottobre i presidenti di Azerbaigian, Georgia e Turchia hanno tagliato il nastro del primo tratto che partirà dal nuovo Porto di Baku/Alat sul Mar Caspio, che è già oggi uno degli «hub» strategici della Nuova Via della Seta, il grande progetto infrastrutturale della «Belt and Road Initiative» di ispirazione cinese.
La Nuova Via della Seta rappresenta dunque molto di più di un grande progetto infrastrutturale: è innanzitutto una sfida economica ed anche politica all’Occidente.
Il progetto di integrazione delle economie euro-asiatiche è sicuramente una grande opportunità per le imprese e per il sistema economico del vecchio continente, ma non può essere guidato prevalentemente dalla Cina, un paese che ha chiuso al suo interno a ogni possibilità di sviluppo democratico e attribuito a Xi-Jinping, con la riforma della Costituzione, poteri senza precedenti.
Europa e democrazie liberali devono però accettare la sfida.
E la migliore risposta al nuovo protagonismo cinese non è certo quella «sovranista»: non servono muri, barriere, dazi e maggior protezionismo, serve un’Europa ancora più forte ed integrata, che abbia anche il coraggio di promuovere un’azione di soft-power in grado di affiancare alla sempre maggiore integrazione delle economie euro-asiatiche, la diffusione di democrazia, libertà e diritti.
L’alternativa non è attraente: «Un occidente diviso e indebolito - ha osservato ieri Henry Kissinger sul Financial Times - trasformerà l’Europa in un’appendice dell’Eurasia, alla mercé della Cina».
La Stampa 22.7.18
Eiger, 1938
Quando Hitler si impossessò della conquista delle cime
di Enrico Martinet
L’Eiger è diventato il simbolo di tutto ciò che l’alpinismo può offrire in fatto di tragedie e avvenimenti sensazionali». Heinrich Harrer scriveva queste righe nel 1953, 25 anni dopo aver compiuto una delle più grandi imprese alpinistiche, la salita della parete Nord dell’Eiger. Oltre la retorica e l’eroismo cercato anche sui monti negli Anni 30 quelle parole rappresentano l’Eiger più di molte altre. 80 anni fa, tra il 21 e il 24 luglio, due tedeschi e due austriaci raggiunsero i 3.970 metri della vetta dell’Eiger, nell’Oberland Bernese, seguendo la linea più logica nell’immensa parete Nord, quasi due chilometri di altezza. Cadeva uno degli «impossibili» di quella stagione alpinistica. E in quell’anno, qualche giorno dopo ne cadde un altro sulla Nord delle Grandes Jorasses, con Riccardo Cassin che saputo del tentativo di Harrer lasciò Grindelwald per risolvere l’altro enigma sullo Sperone Walker.
La storia dell’alpinismo subì una svolta in anni in cui il mondo intero svoltò. La politica hitleriana cavalcò l’eroismo evocato dalle montagne, territorio ostile dove l’uomo sfidava la morte. E l’impresa sulla Nord dell’Eiger fu l’apoteosi di una propaganda pronta a inseguire l’idea di guerra come un nuovo orizzonte. Hitler premiò i quattro alpinisti con la medaglia d’oro in una cerimonia a Breslau, la polacca Breslavia. I tedeschi Anderl Heckmair e Ludwig Wiggerl Vörg, e gli austriaci Heinrich Harrer e Fritz Kasparek. Harrer diventò famoso e già da prima di quel ’38, quando le truppe tedesche entrarono in Austria, si era arruolato, nonostante il divieto austriaco, nelle Sa, primo gruppo paramilitare nazista.
Le Olimpiadi del 1936
L’Eiger dopo le Olimpiadi di Berlino del 1936, l’apoteosi dello sport e dell’ardimento legato al nazismo. Harrer partecipò in quell’anno come sciatore alle Olimpiadi invernali di Garmisch-Partenkirchen. E nel 1939, già arruolato nelle SS, partecipò a una delle spedizioni organizzate da Himmler fra le più alte montagne del pianeta. Finì in Kashmir dove fu arrestato dagli inglesi che governavano la regione. Campo di concentramento ai piedi dell’Himalaya, poi la fuga oltre confine, in Tibet. L’incontro con il Dalai Lama (ne divenne precettore) quindi quel libro Sette anni in Tibet poi diventato film di successo firmato da Jean-Jacques Annaud con Brad Pitt nel ruolo di Harrer. L’Himalaya per Hitler era la terra degli antichi Ariani. E fu coincidenza tra folle idea della razza pura e il leggendario Regno di Agarthi. Politica, guerra e esoterismo. Harrer cavalcò tutto ciò, se ne pentì, fece pubblica confessione: «Fu un’aberrazione della mia vita, ma ero estremamente ambizioso e colsi l’occasione».
Sull’Eiger Harrer e Kasparek incontrarono per caso il già famoso alpinista Heckmair e Vörg che l’anno prima aveva trovato la chiave per salire la Nord dopo cento ore in parete. Erano bravi e attrezzati, potevano contare sui nuovissimi ramponi a 12 punte, mentre Kasparek li aveva a dieci e Harrer aveva deciso di non prenderli «per risparmiare il peso», affidandosi a scarponi chiodati. Un errore che li rallentò. I quattro si ritrovarono insieme in parete: temporali, grandine, valanghe, imprevisti, cadute da cui i quattro escono feriti ma vincitori. Da brivido perfino l’arrivo in vetta con una bufera di nubi nevose che per poco non scaraventa nel baratro Heckmair e Vörg.
Il Ragno bianco
In quei quattro giorni di scalata che resero popolare l’alpinismo una slavina travolse Harrer e Kasparek in uno dei punti più celebrati e misteriosi della parete, il «Ragno bianco», nevaio perenne infilato in una depressione raggiunta da quella che è stata battezzata la «Traversata degli dei». In quell’imbuto i due austriaci si salvano attaccandosi a un chiodo piantato nel ghiaccio, ma le pietre trascinate dalla neve feriscono una mano di Kasparek. Gliela «scorticano», scrive Harrer. Il giorno dopo sarà Heckmair a cadere nel canale oltre il «Ragno» e un suo rampone trapasserà la mano di Vörg, che lo aveva abbracciato per salvarlo. Scrive Harrer: «Le valanghe del Ragno non sono riuscite a strapparci alla parete, ma hanno spazzato le ultime briciole di vanità personale e di egoistica ambizione». Dei quattro, proprio Harrer e Heckmair invecchieranno, mentre la guerra ucciderà Wiggerl Vörg e il crollo di una cornice di ghiaccio nelle Ande seppellirà nel 1954 Fritz Kasparek.
Corriere 22.7.18
Una tragedia africana: migliaia di stranieri espulsi dall’Algeria
di Lorenzo Cremonesi
Mentre i Paesi europei sono impegnati in polemiche furibonde sulla gestione del fenomeno migratorio, l’Algeria sta tranquillamente espellendo nella totale impunità migliaia di lavoratori africani senza alcun rispetto per i loro diritti e con modalità da crimine organizzato. Il fenomeno è relativamente nuovo, ma viene registrato dalle agenzie Onu e dalle organizzazioni non governative in Niger. Lo confermano allo Unhcr, l’agenzia Onu sui profughi. E lo denunciano con forza i responsabili dello Iom, l’Organizzazione Internazionale sulle Migrazioni. «Da febbraio i lavoratori africani espulsi in malo modo sui due piedi dalle autorità di Algeri verso il territorio del Niger sono tra i 10.000 e 15.000. Ma potrebbero essere molto più alti, visto che solo una parte si registra ai nostri uffici», ci spiegava il 18 luglio Alberto Preato (nato 35 anni fa a Verona), dal 2016 responsabile del quartier generale di Niamey. Le modalità sono molto simili nei racconti delle vittime. Non si tratta affatto di migranti appena arrivati nella gerontocrazia di Abdelaziz Bouteflika senza lavoro, oppure impegnati a sopravvivere con mezzucci di ripiego al limite della legalità. Quelli che noi stessi abbiamo incontrato nei campi locali della Iom, gli ultimi scacciati sono originari del Mali e del Camerun, lavoravano da almeno due o tre anni nella regione di Algeri. Operai edili, imbianchini, artigiani di ogni tipo. «In maggioranza raccontano di essere vittime di retate dalla polizia algerina. Gli agenti si sono fatti consegnare tutto: soldi, auto, cellulari e documenti. In qualche caso hanno voluto vedere le abitazioni dei loro prigionieri per derubarle indisturbati. Poi, senza alcuna spiegazione, li hanno scortati al confine. Un lungo viaggio in jeep in pieno deserto a sud di Tamanrasset, quindi a piedi, da soli sotto il sole», aggiunge Preato. Alcuni hanno dovuto marciare per oltre 20 chilometri senza una goccia d’acqua prima di arrivare a Assamka, il posto di blocco dove i soldati del Niger li hanno finalmente dissetati.
Corriere Salute 22.7.11
Istituto Superiore di Sanità e pediatri si alleano sull’autismo
Potenziare le attività di riconoscimento precoce dei disturbi del neurosviluppo, tra cui l’autismo, e lo studio dell’impatto dei fattori ambientali sulla salute di bambini e adolescenti, in modo innovativo e in linea con le linee guida internazionali: è questo l’obiettivo dell’accordo firmato tra l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) e Federazione Italiana Medici Pediatri (Fimp). Un terzo delle malattie nei bambini al di sotto dei cinque anni è provocata da fattori ambientali. Solo i disturbi dello spettro autistico coinvolgono più di 500mila famiglie italiane. «Si tratta di un accordo lungimirante — sottolinea Walter Ricciardi, presidente dell’Iss — che favorirà il raggiungimento dei migliori standard assistenziali». Fimp e Iss collaborano già nell’ambito del progetto «Osservatorio Nazionale per il monitoraggio dei disturbi dello spettro autistico».
Il Sole Domenica 22.7.18
Johannes Keplero
Com’è armonico il mondo
Cade quest’anno l’anniversario della scoperta della terza legge dei moti planetari. Ma il senso delle sue opere era proclamare la gloria di Dio studiando la natura
di Franco Giudice
I libri, si sa, vanno quasi sempre incontro a un destino che si cura assai poco delle intenzioni di chi li ha scritti. Una volta pubblicati, prendono la loro strada e finiscono irrimediabilmente in balìa dei lettori, che se ne appropriano spesso in modo selettivo. Non stupisce quindi che l’Harmonice mundi (1619) di Johannes Keplero sia oggi ricordata soltanto perché vi si trova esposta la terza legge dei moti planetari, di cui proprio quest’anno ricorre il quarto centenario della sua scoperta, avvenuta il 15 maggio 1618. Esattamente come la sua opera precedente, l’Astronomia nova (1609), è nota per l’enunciazione delle prime due leggi, quelle cioè che stabiliscono che i pianeti si muovono lungo orbite ellittiche e che con i loro raggi condotti verso il Sole descrivono aree uguali in tempi uguali.
Sembra insomma che il senso e il valore delle opere di Keplero siano compendiati nelle tre leggi che portano il suo nome e che tutti abbiamo imparato a scuola. Come se fosse irrilevante che il loro autore le avesse invece originariamente concepite per altre e ben più elevate ragioni: proclamare la gloria di Dio attraverso lo studio della natura.
Un destino un po’ beffardo, non c’è che dire. Ma di cui forse Keplero non si sarebbe rammaricato più di tanto, poiché da buon protestante, che da giovane voleva diventare un pastore luterano, lo avrebbe interpretato come l’esito del disegno imperscrutabile della volontà divina. Sono tuttavia convinto che una lettura così riduttiva delle sue opere, oltre a essere decisamente anacronistica, ne trascuri l’imprescindibile retroterra spirituale. Ma questo dipende anche, e soprattutto, dal diverso punto di vista che distingue lo storico della scienza dallo scienziato di professione. Se è vero infatti che Keplero fu uno degli astronomi più dotati che la storia abbia mai conosciuto, lo è altrettanto che a guidare gli sviluppi delle sue ricerche fu sempre una profonda devozione religiosa. Che emerge fin dal Mysterium cosmographicum (1596), la sua prima pubblicazione, dove dimostrava con estrema audacia come la necessità del sistema copernicano scaturisse direttamente da Dio, che aveva creato l’universo attraverso l’armonia dei cinque solidi regolari della geometria euclidea. E che prorompe come un’esigenza insopprimibile anche dalle pagine dell’Harmonice mundi che annunciano la scoperta della terza legge dei moti planetari.
Era appunto il 15 maggio 1618. Un giorno memorabile per Keplero, che stava finendo di scrivere il libro, gran parte del quale era già in corso di stampa. Aveva aspettato questo momento per ben ventidue anni, e ora un’illuminazione improvvisa dissolveva le tenebre dalla sua mente, facendogli perfino temere di essere vittima di un sogno. Ma non c’erano dubbi: «È cosa certissima ed esattissima che il rapporto che esiste tra i tempi periodici di due pianeti qualsiasi è precisamente nel rapporto della potenza 3/2 delle loro distanze medie». Ovvero, nella formulazione più usuale, il rapporto tra i quadrati del periodo di rivoluzione di due pianeti è uguale a quello tra i cubi della loro distanza media dal Sole.
La scoperta della relazione tra le distanze e i periodi dei pianeti si era dunque rivelata a Keplero proprio mentre stava ultimando l’opera che considerava il culmine della sua carriera scientifica. Un fatto che lo aveva letteralmente mandato in estasi, in preda a un «sacro furore», al punto che non gli importava se a leggerla sarebbero stati i suoi contemporanei o i posteri. Poteva benissimo aspettare cent’anni i suoi lettori, «se Dio stesso aveva atteso seimila anni il Suo contemplatore».
Eppure, per quanto strano possa sembrare, soprattutto di fronte ad affermazioni così entusiastiche, questa legge non gioca affatto un ruolo centrale nell’astronomia dell’Harmonice mundi. Per Keplero, quella che noi chiamiamo «terza legge» – ma che lui, al pari delle altre due, non definì mai in tali termini, né tanto meno le diede alcuna numerazione – esprimeva semplicemente uno dei tanti rapporti celesti riscontrabili nell’armonia dell’universo. Un’armonia inoltre che rispecchiava i principi della consonanza musicale, che indicava lo stretto legame tra Dio e la sua creazione, e che si poteva scorgere in ogni parte del cosmo. Un’armonia infine che si trovava impressa come un archetipo negli esseri umani, i quali, essendo plasmati a immagine di Dio, erano quindi in grado di apprezzarla, anche se ignoravano le proporzioni geometriche da cui essa discendeva.
L’idea di scrivere sull’armonia universale risaliva al 1599. A incoraggiare Keplero nell’impresa aveva contribuito anche la recente lettura dell’Armonica dell’astronomo alessandrino Tolomeo, che confermava la sua convinzione che il cosmo fosse governato da un’armonia musicale. Ai suoi occhi, tutto ciò non poteva essere soltanto un caso: se la segreta natura dell’universo si andava rivelando a due uomini separati da una distanza di quindici secoli, voleva dire che «c’era il dito di Dio». Può darsi. Sta di fatto che durante i vent’anni in cui Keplero inseguì il suo progetto, la vita gli aveva fornito ben pochi segni di una divinità armonica e benevola.
Certo, i dieci anni trascorsi a Praga, dove nel 1601 era succeduto al grande astronomo danese Tycho Brahe nel ruolo di matematico dell’imperatore Rodolfo II, furono alquanto sereni e tra i più fecondi della sua attività scientifica, facendogli ottenere importantissimi risultati nel campo dell’astronomia e dell’ottica. Ma prima e dopo, era stato tutto un susseguirsi di incredibili tragedie personali e professionali. Il 1599, proprio l’anno in cui concepì l’idea dell’Harmonice mundi, coincise con la prematura scomparsa della sua secondogenita, che aveva soltanto trentacinque giorni. Nel 1611, quando la situazione politico-religiosa a Praga lo aveva costretto a trasferirsi a Linz, aveva assistito impotente alla morte di un altro suo figlio e della prima moglie Barbara. Tra il 1617 e il 1618, in poco meno di sei mesi, aveva perso i due bambini avuti dalla seconda moglie Susanna. Come se non bastasse, nel 1615 la madre Katharina era stata accusata di stregoneria e Keplero dovette assumerne la difesa legale per i successivi sei anni.
L’Harmonice mundi fu completata il 27 maggio 1618, dodici giorni dopo la scoperta della terza legge. La sua famiglia era stata letteralmente decimata e il mondo che lo circondava stava precipitando nel disordine. Ma da uomo dalla fede incrollabile, Keplero vedeva nell’armonia celeste la più alta manifestazione della saggezza di Dio. E dedicava l’opera a Giacomo I Stuart, nella speranza che il sovrano che aveva riunito le tre corone d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, potesse usare gli esempi della gloriosa armonia di cui Dio aveva dotato la sua creazione per portare altrettanta armonia e pace tra le chiese divise. Si trattava però di una pia illusione: soltanto quattro giorni prima, il 23 maggio 1618, la rivolta boema con la celebre defenestrazione di Praga segnava l’inizio della guerra dei Trent’anni, una delle più lunghe e sanguinose della storia europea.
Il Sole Domenica 22.7.18
Medioevo. Sviluppi e prospettive nelle tradizioni araba, ebraica e latina
La scienza magica non conosce confini
di Tullio Gregory
La magia naturale tra Medioevo e prima età moderna
A cura di Lorenzo Bianchi e Antonella Sannino
SISMEL – Edizioni del Galluzzo, Firenze, pagg. 361, € 55
Nella Micrologus Library della SISMEL (Società Italiana per lo Studio del Medioevo Latino) – una delle collezioni di medievistica più prestigiose in Europa, diretta da Agostino Paravicini Bagliani – compare un importante volume su La magia naturale tra Medioevo e prima età moderna, raccolta di studi curata da Lorenzo Bianchi e Antonella Sannino. Non si tratta di una storia continua ma di una serie di contributi che illuminano momenti e personaggi particolarmente significativi per comprendere i problemi, gli sviluppi, le prospettive della scienza magica della natura nelle tradizioni araba, ebraica e latina dal X al XVII secolo.
La fondamentale importanza, anche in questo campo del sapere, della cultura araba emerge qui in rapporto a due opere classiche: l’Enciclopedia dei Fratelli della purezza e un altro testo, destinato a larghissima fortuna fino al Rinascimento, noto in Occidente con il titolo enigmatico Picatrix, tradotto dall’arabo in castigliano e di qui in latino alla corte di Alfonso X il saggio, re di Castiglia e di Léon, attorno al 1256 – 1258.
Nell’Enciclopedia dei Fratelli della purezza è dedicata alla magia l’epistola finale, la 52 (sulla cui autenticità ha sollevato dubbi Alessandro Bausani): Carmela Baffioni, che ha portato molti contributi allo studio dell’opera (nel 2013 ha anche pubblicato il testo arabo con traduzione inglese delle epistole 15-21), ne mette in luce la complessa struttura e i nessi da un lato con l’astrologia e la medicina, dall’altro con la generale concezione del mondo come retto da un intelletto agente e da un’anima universale, ipostasi della tradizione neoplatonica che costituisce la trama di fondo di tutta l’opera. Platonismo che regge anche l’altro testo, capitale per la magia naturale, Picatrix (cui è dedicato il saggio di Daniel De Smet) ove anche la scienza dei talismani – artefatti destinati a raccogliere e orientare le influenze celesti – si inserisce in una concezione dell’universo retta – come in ogni sistema magico – dal gioco delle simpatie e antipatie, forze che si richiamano e si respingono e con le quali il mago – il sapiente per eccellenza – opera, conoscendole, secondo tecniche sue proprie: non a caso nella scienza magica il sapere teorico si congiunge sempre all’operare pratico, secondo una connessione sapere-fare che offrirà suggestioni significative agli ideali della scienza moderna, legata al tema dell’uomo come «ministro e interprete della natura».
Non possiamo seguire tutti i percorsi proposti nei vari saggi, alcuni dei quali accompagnati da utilissime raccolte di testi tradotti in italiano, come per Guglielmo di Alvernia, a cura di Antonella Sannino, per l’averroista bolognese Taddeo da Parma studiato da Valeria Sorge, per L’unguento delle armi di Charles Sorel nel saggio di Mariassunta Picardi; ma non possiamo non segnalare – oltre al saggio sulla magia nel medioevo ebraico di Marienza Benedetto, i sondaggi su ermetismo e magia in Cusano proposti da Pasquale Arfé e il suggestivo percorso sulle trasformazioni della maga Circe seguite di Simonetta Bassi – i capitoli dedicati a due personaggi niente affatto marginali nelle polemiche sulla magia naturale: Lazare Meyssonnier e Charles Sorel.
Medico e influente personaggio alla metà del Seicento a Lione il primo, studiato qui da Oreste Trabucco: nella sua attività di scrittore e di editore Meyssonier accumula le discipline più varie e spesso ambigue all’interno di una concezione onnivora della magia (dal giovanile Pentagonum del 1639 a La Belle Magie ou science de l’esprit del 1669); uomo dalle sconfinate letture e insieme «pecuniae amantissimus», «famae cupientissimus», avido dunque di fama e di ricchezze, ma anche editore di testi importanti e fortunati (dagli Aforismi di Ippocrate alla traduzione francese della Pharmacopaea di Joseph du Chesne); attento alle novità del suo tempo e pronto a farle proprie e celebrarle, come per la dottrina della circolazione del sangue di Harvey o il cannocchiale di Galilei. Calvinista, convertitosi al cattolicesimo, «invecchia di anno in anno senza diventare saggio» annotava Guy Patin.
Vorremmo altresì ricordare lo studio su un’importante figura del Seicento francese, Charles Sorel, qui forse per la prima volta studiato da Mariassunta Picardi sul tema della magia naturale, non solo nella celebre Science universelle ma nella polemica contro la dottrina paracelsiana sull’unguento delle armi, che proponeva una «cura magnetica delle ferite» (come si intitola uno scritto di Rudolph Göckel del 1608) consistente nella guarigione a distanza di una ferita da arma da taglio ungendo, con opportuno «unguento armario», l’arma che aveva inferto il colpo, oppure indumenti macchiati dal sangue del ferito. Al problema è dedicato un interessante opuscolo polemico di Sorel (L’unguento delle armi, 1636) del quale è data qui la traduzione completa.
Questa attenzione ai testi è caratteristica di tutti gli studi raccolti nel volume, che permette anche di cogliere ambienti culturali attenti ai problemi della magia naturale, pur con esiti diversi: come emerge dal saggio di Lorenzo Bianchi su Campanella, soprattutto per i suoi giudizi e rapporti con Giovanni Battista Della Porta, Ferrante Imperato e altri autori operanti nel Regno di Napoli, presenti nel testo campanelliano Del senso delle cose e della magia, messo di nuovo a disposizione degli studiosi da Germana Ernst nel 2007, presso l’editore Laterza.
Il Sole Domenica 22.7.18
Nel mar dei Marmora dell’antica Roma
Grandi libri. La nuova edizione di uno studio fondamentale
(e introvabile) scritto da Raniero Gnoli e dedicato alla storia e alla classificazione delle pietre decorative policrome usate dai romani
di Alvar González-Palacios
Sono fra i fortunati che hanno il privilegio di possedere le tre edizioni di Marmora romana, molto simili tra loro ma non identiche, nelle quali si tratta delle pietre colorate usate dagli antichi romani per la decorazione. La prima edizione del libro risale al 1971 e fu curata personalmente da un ottimo impaginatore, anzi molto di più, da Enzo Crea, proprietario delle Edizioni dell’Elefante. Non offenderò il lettore ripetendo che l’autore di questo capolavoro è Raniero Gnoli, indologo, professore di sanscrito, antichista, edotto come pochi nell’arte classica e in tanti altri aspetti del gusto, della decorazione e persino in facezie squisite come nappe, frange e galloni.
Conobbi Raniero molti anni fa in casa di un comune amico, Mario Praz: ho già raccontato altrove la straordinaria circostanza in cui il nostro amato anglofilo pregò Raniero di elencare tutti i marmi colorati che adornavano un suo prezioso mobile sostenuto da sfingi. Sfingi erano anche Raniero e Mario, custodi di molti segreti. Posso dire che quello fu uno dei giorni più fortunati della mia vita? Mario era Mario per pochi, ma trovare di un sol colpo Mario e il Mago, per rammentare un racconto di Thomas Mann, fu un atto di benevolenza divina. Raniero ed io eravamo ancora giovani: parlo del 1971, quando era appena uscita la prima edizione del suo libro. Alto e biondo, in parte tedesco (come Bianchi Bandinelli) aveva quel distacco e quei modi che non erano del tutto mediterranei. Ma non di soli marmi si parlò, piuttosto di letteratura, di mobili, di amici con quel gusto per gli oggetti rari e per le descrizioni preziose di fatti e di persone. Molte cose sono mutate ma la bellezza e la bizzarria restano tali per noi due.
Non sapevo allora molto sugli antichi sassi ma qualcosa mi era già noto e quando venivo a Roma facevo il giro dei marmisti alla ricerca di qualche campione colorato. In quelle passeggiate romane conobbi gli stessi artigiani che si menzionano ne Lo Gnoli (così dovrebbe chiamarsi questo celebre repertorio): Fiorentini, Onori, Maiorani e anche Bruno Cordiano, allora giovane apprendista presso la Galleria Sangiorgi, uomo dotato di capacita rabdomantiche. Ad essere sinceri i nostri interessi erano filologici ma anche – e non certo di meno - “antiquari”, come si chiamava in antico la conoscenza erudita di coloro che erano interessati in ogni tipo di anticaglie, persino nelle tazzine di porcellana (quelle «monache dell’antiquariato» come le chiamava Praz) e addirittura nella polvere vera e propria, il miglior collante del sapere.
Qui parliamo con reverenza di un volume bellissimo e per più di un motivo. Innanzitutto ci incanta il suo aspetto tipografico meditato a lungo anche dall’autore: «Cosa importantissima mi è parsa quella di insistere sulle illustrazioni a colori ed in misura naturale di ogni singola pietra. Queste illustrazioni, commentate dalle tavole in nero, formano, per così dire, l’ossatura del volume».
Ma come spiegare la chiarezza pari all’eleganza di un testo straordinario? A mio modo di vedere nel pieno Novecento solo altri due autori, Roberto Longhi e Mario Praz, hanno dedicato pari cura allo stile della prosa. Longhi, Praz e Gnoli sono saggisti, non narratori, e gli uomini italiani di sapere - o se si vuole di scienza - non sempre si distinguono per la grazia stilistica. I tre hanno avuto la capacità di rendere l’erudizione affascinante e dunque li leggiamo non solo perché ci insegnano ma anche perché ci regalano ore di grande incanto letterario, perché raccontano bene ciò che sanno.
Questa nuova edizione, dicevo, è quasi identica alle altre che però non sono più in commercio da anni. Forse la terza – quella appena uscita per i tipi de La nave di Teseo - è più vivace della seconda poiché nuove tecniche e nuovi macchinari consentono di migliorare, se fosse ancora possibile, ciò che già appariva perfetto. Ed è comunque sorprendente che un’opera ideata mezzo secolo fa resti così incomparabilmente fresca sia nel suo insolito formato - quasi una sigla delle ormai cessate Edizioni dell’Elefante - sia nella perfezione del dettato sul quale non certo potremmo dire quel che lo stesso Raniero scrisse su un cultore cinquecentesco delle vecchie pietre, Agostino Del Riccio: «Dello stile non dobbiamo far tanto caso». Lo stile di Gnoli è sempre originale e polifonico.
Il Sole Domenica 22.7.18
Lo stralcio
«I monti mandan marmorei drappi»
di Raniero Gnoli
Chi s’aggiri ancor oggi per il Palatino, per i Fori, per le rovine di terme e di monumenti, vedrà tra i sassi e la terra smossa, soprattutto dopo la pioggia, spiccare piccole scaglie e frammenti di varie sorta di marmi colorati. Questi frammenti non sono pietre originarie del suolo di Roma, ma vengono da tutte le parti dell’Impero.
«I monti d’oriente/ i monti d’occidente/ d’Austro e di Borea, mandan marmorei/ drappi a comporre/ tinto nell’iride/ il manto imperiale a la città fatale».
Queste parole d’un poeta romano del secolo scorso non sono un’esagerazione. La Spagna, la Mauritania, la Numidia, la Tripolitania, l’Egitto, l’Asia, la Grecia, le Gallie, ogni provincia ha mandato il suo contributo di pietre a Roma, né c’è quasi marmo, usato nella più remota località dell’Impero, che non sia in qualche modo rappresentato a Roma, o di cui non si sia rinvenuto ai nostri giorni o in antico qualche frammento negli scavi. Talune varietà di marmi, al dire di Plinio, provenivano perfino dall'India e da Taprobane, l’odierna Ceylon.
La ricerca ed il gusto del marmo bianco o colorato, usato, non come in Egitto ed in Grecia, come pietra da costruzione, per motivi pratici o sacrali, ma per ornamento di case, di ville e di templi prese sì enorme ed universale sviluppo con Roma, ma non nacque con lei. «L’uso di segare il marmo in lastre (così Plinio) fu forse inventato in Caria. Il più antico esempio, a mia conoscenza, è il palazzo di Mausolo in Alicarnasso colle pareti in mattoni rivestiti da marmo Proconnesio». L’uso di marmi colorati a fine decorativo è largamente ancorché indirettamente attestato nell’Egitto tolemaico. [...]
Il numero dei marmi usati in epoca romana è grandissimo. Lo studio di essi non è solo interessante per una maggiore conoscenza dell’evoluzione, delle tecniche, del gusto e delle complesse relazioni commerciali che univano le varie regioni del mondo antico, ma anche, direi, perché ci rivela un diverso aspetto della natura. I marmi usati dagli antichi (o, come dirò d’ora innanzi i marmi antichi), sono in generale assai più belli dei marmi moderni. Di questa mutazione in peggio la colpa non è, evidentemente, della natura, ma dei diversi criteri con cui si scelgono e cavano oggi i marmi, e, insieme, della differente lavorazione ed uso che si fa solitamente di essi. I marmi nell’antichità erano cosa di lusso. Non solo le ville con pavimenti marmorei sono nel mondo romano relativamente assai poche, ma in marmo vengono di regola lastricate le stanze di maggiore importanza soltanto. Nella grande villa imperiale di Piazza Armerina l’unico ambiente lastricato esclusivamente di marmo è la grande Basilica. Tutto il resto è a mosaico, che, in antico, era assai più economico del marmo. Per avere un’idea della rarità e del costo del marmo basta, del resto, andare a Pompei. La maggior parte dei pavimenti è in coccio pesto, in alcuni casi modicamente arricchito da qualche mattonella di marmi di vari colori [...]. Il marmo, in conclusione, era cosa di rado ed in scarsa misura accessibile ai provinciali, anche se relativamente benestanti, e riservata ai grandi edifici pubblici, ai palazzi ed alle ville imperiali, alle sedi di città e di campagna delle grandi famiglie senatorie e dei ricchi liberti romani.
Il Sole Domenica 22.7.18
Paternità discusse
Restituite a Machiavelli la «Commedia in versi»
di Michele Ciliberto
Pasquale Stoppelli, autorevole conoscitore del teatro di Niccolò Machiavelli, ha pubblicato una nuova edizione della Commedia in versi generalmente attribuita a Lorenzo Strozzi sostenendo che essa debba essere invece attribuita a Machiavelli. Non si tratta di una tesi di poco conto: il teatro è una dimensione essenziale della personalità del Segretario e una chiave di accesso fondamentale al suo pensiero. La proposta di riconoscergli la Commedia in versi è dunque importante.
Stoppelli procede nel suo lavoro con gli strumenti del filologo, ma soprattutto parte da un dato di fatto inoppugnabile: «Machiavelli – scrive – è uno scrittore ricorsivo quanto a lessico, sintagmi, associazioni verbali, modi sentenziosi». Ed è vero: chiunque abbia pratica dei suoi testi sa che le cose stanno così.
Su questa base Stoppelli nell’apparato che accompagna il testo fa un lavoro notevole mostrando come lemmi, espressioni, sentenze presenti nella Commedia siano presenti in altre opere di Machiavelli: ciò che gli consente, prima, di poggiare su fondamenta rigorose la sua proposta; poi, di avanzare ipotesi sia sulla data di composizione della Commedia che sulla sua rappresentazione, a Firenze, di fronte ai Medici.
Per Stoppelli, «il 1510 deve essere assunto come terminus post quem per la composizione della Commedia in versi», e i mesi tra il 1512 e il ’13 sono «la data più probabile di conclusione» del testo. Non è questa però, a suo giudizio, la data di compilazione del fascicolo autografo di Machiavelli incluso nel ms. Banco Rari 29 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (A) che poi Lorenzo Strozzi ha ricopiato, facendo anche alcune modifiche al testo originario (B). Tale data, sostiene Stoppelli analizzando la grafia di Machiavelli, va collocata dopo il 1517, quando Strozzi, molti anni dopo la composizione e una prima rappresentazione della commedia in forma ridotta avvenuta forse nel 1512, ne allestisce un’altra in onore dei signori di Firenze.
È da questo sovrapporsi di eventi e di situazioni che è sorta, secondo Stoppelli, la tradizione che ha attribuito, con la sua complicità, la paternità della commedia a Lorenzo Strozzi, cui però Machiavelli doveva non poco: fu lo Strozzi a farlo entrare, nel 1520, in casa Medici dopo tanti anni di ostracismo. E ciò ne spiegherebbe il silenzio, anzi il disinteresse: era ormai impegnato in altre cose.
Come si vede, è una proposta interessante. Resta da capire se sia condivisibile. Né è facile dare una risposta: bisognerebbe rifare il cammino di Stoppelli e lavorare in primo luogo sulla grafia di Machiavelli. Sono proprio le scelte grafiche del Segretario che consentono infatti a Stoppelli di sostenere che A non può risalire a prima del 1517.
Comunque, sulle convergenze di punti essenziali della posizione generale di Machiavelli con la Commedia in versi non ci sono dubbi. Un esempio: nel Prologo l’autore si presenta alla ricerca di strade nuove, in esplicita polemica con quelli che seguono i vecchi sentieri, senza alcuna autonomia critica. Sono temi tipici di Machiavelli che rivendica sempre la scelta di andare contro le opinioni correnti per guardare al futuro. Come dice Guicciardini, Machiavelli era «plurimum extravagante [...] et inventore di cose nuove».
Ci sono, al tempo stesso, motivi di ordine concettuale su cui è possibile individuare una distanza dell’autore della Commedia da Machiavelli: ad esempio nell’enfasi – in modi scontati, ordinari, a differenza della Mandragola – sul potere dell’uomo, o della donna, nel riuscire a realizzare i propri disegni.
È un punto delicato: come si vede nel Ghiribizzo al Soderino – un testo al quale non verrà mai meno – in Machiavelli il rapporto tra virtù e fortuna ha sempre un timbro tragico, e il potere della fortuna tende sempre a prevalere sulla virtù dell’uomo. Perfino nel Principe – nel quale cerca con energia di salvaguardare il libero arbitrio – pur riconoscendo che la fortuna «arbitra della metà delle azioni nostre [...] ne lasci governare l’altra metà [...] a noi», si precisa subito: «o presso», ribadendo di fatto il potere della Fortuna.
È comprensibile che questo timbro non sia presente nella Commedia in versi, se essa risale al 1512 – quando Machiavelli non era stato ancora definitivamente travolto dalla sconfitta. Mentre, e questo confermerebbe l’ipotesi di Stoppelli, si possono comprendere le affinità – soprattutto per la sporgenza autobiografica, tipica di Machiavelli – tra il Prologo della Mandragola e quello della Commedia in versi, composto in occasione della messa in scena della commedia, cioè nel 1518, l’anno, per Stoppelli, «maggiormente indiziato».
In effetti, tra le due commedie corrono anni decisivi, segnati da esperienze traumatiche per Machiavelli. Ma già in testi scritti prima del 1512 una considerazione tragica della condizione umana era ampiamente presente. E come è noto nella sua prima esperienza teatrale – le Maschere – il Segretario aveva suonato tasti assai diversi.
Naturalmente è possibile che Machiavelli, che amava lo scherzo e si divertiva con la brigata degli amici – i quali si lamentavano quando non era presente perché senza di lui si annoiavano –, abbia voluto scrivere un testo giocoso, gradevole, senza impegno, per puro divertimento: a bassa temperatura, senza particolare originalità; per trascorrere una serata. E questo porterebbe ad accettare la proposta di Stoppelli, togliendo peso alle discrasie concettuali, e dando, per contrasto, valore al Prologo, che scaturisce da tutt'altra temperie esistenziale, culturale, politica. Per darla per acquisita bisogna però che le scoperte della filologia convergano in modo più pieno con le ragioni della storia, come riconosce Stoppelli.
Qualunque sia il giudizio, un fatto comunque è certo: la vicenda della Commedia in versi contribuisce a una miglior conoscenza della vita culturale e politica fiorentina dei primi decenni del Cinquecento.
Commedia in versi Da restituire a Niccolò Machiavelli A cura di Pasquale Stoppelli Edizione critica secondo il ms. Banco Rari 29. Edizioni di Storia e letteratura, Roma, pagg. 144, € 21
Il Sole Domenica 22.7.18
Milena Jesenská
Una grande giornalista nota ormai solo come amica di Kafka
di Giorgio Fontana
Milena Jesenská è conosciuta soprattutto per la sua relazione epistolare con Franz Kafka, e per essere stata la sua prima traduttrice: nel 1920 pubblicò Il fochista in ceco presso il settimanale «Kmen». Ma questa veste ancillare le sta stretta: anche prima di conoscere Kafka era una figura nota del panorama culturale praghese di inizio Novecento; poco più tardi sarebbe diventata una brava scrittrice di feuilleton e una reporter di grande spessore.
A colmare il vuoto pensa Qui non può trovarmi nessuno, edito da Giometti&Antonello nella traduzione di Donetalla Frediani — dal tedesco e non dal ceco: scelta curiosa, ma giustificata dall’eleganza della resa. Nel volume, curato da Dorothea Rein, compare una selezione degli scritti di Jesenská, ordinati cronologicamente e con otto lettere a Max Brod su Kafka in appendice.
Leggiamo per primi i bozzetti su Vienna, città in cui la scrittrice visse con il marito ma dove si sentì assai infelice. Sono scene di vita quotidiana: i mercati neri degli operai, la miseria del dopoguerra e i bagordi dei bohémien, con un gusto particolare per gli spaccati dei sobborghi. Un esempio: «lo spettacolo che si offre ai vostri occhi allorché vi avvicinate alla stazione di una grande città, le facciate posteriori delle case incollate l’una all’altra, le cucine e i pianerottoli illuminati da una luce grigio-giallastra, la biancheria stesa alle ringhiere dei ballatoi dove sono i servizi — immaginate una sera d’agosto nella città deserta, infocata, una giostra dei sobborghi, col suo organetto di Barberia, le sue perle, i suoi diamanti blu e i suoi cavallini di legno». Degli uomini che abitano queste zone Jesenská conosce la dignità come la stortura. Sa che la miseria partorisce i difetti più tremendi, e che «la fame non spinge l’uomo verso una scodella piena, ma alla folle dissipazione». Riconosce il cinismo dei mendicanti, la loro capacità di trasformare la sofferenza in pubblicità, e la compara al nudo dolore di una madre dal figlio morto, che non chiede nulla e provoca la fuga della scrittrice — «quasi fossi io a dovermi salvare».
Molto interessanti sono anche gli scritti sul cinema, dove Jesenská recensisce alcune pellicole dell’epoca (Chaplin, von Stroheim, Lubitsch, Stiller), e naturalmente il breve e stupendo ricordo di Kafka, apparso pochi giorni dopo la sua morte. Ma a rivelare la reale caratura dell’autrice sono i lunghi reportage commissionati dalla testata «P?ítomnost» nel difficile periodo 1937-1939: testi sulla condizione degli emigrati tedeschi in Repubblica Ceca e sull’emarginazione dei neri a Vienna, dove si impedisce loro di lavorare e gli si confisca ogni bene (un «linciaggio compiuto all’ombra della legalità»); e in particolare gli straordinari dispacci sull’annessione dei Sudeti da parte del Reich. Qui vediamo davvero la Storia in presa diretta: ma l’occhio di Jesenská ne coglie soprattutto le ricadute sulla quotidianità, come il rifiuto da parte di due bambine di salutare con «Sieg Heil», e la punizione che ne segue.
Jesenská cercò a lungo, nella parola come nella vita, un luogo «in cui nessuno potesse trovarla». Non vi riuscì. Nel 1940 fu rinchiusa nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove morì quattro anni dopo; ma fino all’ultimo conservò la sua lucidità di pensiero e la sua resistenza alle compromissioni. Ulteriori buone ragioni per rileggerla oggi.
Qui non può trovarmi nessuno, Milena Jesenská Giometti&Antonello,Macerata, pagg.252, €24
Il Sole Domenica 22.7.18
L’Unione incompiuta
Dieter Grimm. L’autore tedesco è tra i critici di un’Europa cui manca una sufficiente legittimazione democratica, discendente per lo più dagli Stati membri. Ma è davvero così?
di Sabino Cassese
L’Unione europea continua a essere un «oggetto non identificato» (come fu definita alcuni anni fa) e ad attirare l’attenzione di studiosi che ne indagano la natura, i poteri, la legittimazione. Tra i recenti contributi alla conoscenza dell’Unione vi è questo, opera di Dieter Grimm, uno dei maggiori studiosi di diritto costituzionale tedeschi, professore sia alla università Humboldt di Berlino sia in quella statunitense di Yale, già giudice del Tribunale costituzionale di Karlsruhe, autore prolifico di contributi importanti allo studio dello Stato (sono recenti due suoi libri, uno sulla sovranità, un altro su passato, presente e futuro del costituzionalismo).
Questo libro sulla Costituzione della democrazia europea comprende 12 saggi, scritti dal 2009 in poi (ma per la maggior parte negli ultimi cinque anni), i tre iniziali sul modello europeo, seguiti da quattro sulla democrazia europea, quattro su Costituzione, Parlamento e corti, con un saggio finale sui principi che dovrebbero reggere la costruzione europea.
Grimm si schiera tra i critici dello stato attuale dell’Unione. Le sue critiche sono fondamentalmente due. L’Unione si è trasformata da organismo economico in comunità politica senza che la sua struttura si sia adeguata a questa transizione. Ne deriva che i poteri esecutivo e giudiziario europeo non hanno sufficiente legittimazione democratica. In secondo luogo, la legittimazione dell’Unione discende principalmente dagli Stati. La proposta di trasformare l’Unione in un sistema di governo parlamentare finirebbe per impedire il flusso di legittimazione che proviene dagli Stati membri.
La critica maggiore è quella rivolta alla Corte di giustizia, a cui il Consiglio non è riuscito a fare da contrappeso. Essa ha preso decisioni di straordinaria importanza politica, continuando ad essere un meccanismo non politico. Lo stesso Parlamento europeo non ha stabilito una continua interazione con l’elettorato, come sarebbe necessario per svolgere una funzione legittimante.
Questa “esondazione” europea trova una barriera nella Costituzione tedesca (e nelle altre Carte nazionali), perché gli Stati continuano ad essere i “padroni dei trattati” (secondo la nota formula del Tribunale costituzionale tedesco), mentre all’Unione spettano specifici e limitati poteri trasferiti dagli Stati e la sua legittimazione dipende largamente dalla democrazia degli Stati membri.
Questo breve ma prezioso libro di Dieter Grimm finisce affermando che l’Europa ha bisogno di principi, non di pragmatismo e che il Tribunale costituzionale tedesco deve continuare a giocare il ruolo di “guardiano”.
Anche una succinta sintesi delle sole idee portanti del libro consente di comprendere che le riflessioni del grande studioso tedesco vanno al cuore della discussione aperta in tutta Europa sul presente e sul futuro dell’Unione. Al lettore italiano esso suscita tre interrogativi. Il primo riguarda la distinzione tra Unione economica e Unione politica, tra una prima e una seconda fase della storia dell’Unione: come può dirsi che una unione di mercati, l’abbattimento delle frontiere per consentire la circolazione di merci, persone, servizi, capitali, non facciano parte anch’esse del mondo della politica? Non è vero che, dopo il fallimento della Comunità europea di difesa, si scelse la via della unione economica proprio per assicurare per quella strada una integrazione politica?
Il secondo interrogativo riguarda i modi della legittimazione e gli organi che richiedono una legittimazione democratica. Siamo sicuri che i parametri della legittimazione democratica dell’Unione debbano esser simili a quelli degli Stati, debbano provenire necessariamente da elezioni e dalla continua interazione con l’elettorato, e che comunque questa interazione debba realizzarsi nell’Unione così come si realizza negli Stati? Perché richiedere a una “non-majoritarian institution” come la Corte di giustizia una legittimazione democratica? La forza di una Corte non sta proprio nell’essere (parzialmente) sottratta al circuito società–Stato?
Infine, se gli Stati continuano ad essere i “padroni dei Trattati”, perché hanno sottoscritto la formula, inclusa nei trattati, per cui l’Europa deve essere una “unione sempre più stretta”? Questa formula non può esser interpretata se non come un invito all’Unione a svilupparsi da sola, per forza interna, o come un auto-vincolo degli Stati a procedere verso una Unione sempre più forte.
Questi sono soltanto tre interrogativi tra i molti che suscita un libro importante e tempestivo, una lettura d’obbligo per chi è interessato al futuro dei nostri Stati e dell’Europa.
The Constitution of European Democracy
Dieter Grimm Oxford, Oxford University Press, pagg. 252, € 60
Il Sole Domenica 22.7.18
Ta-Nehisi Coates. È stata determinante nelle ultime due corse alla Casa Bianca
La «razza» come fattore di successo
di Massimo Teodori
L’ascesa alla Casa Bianca di due Presidenti anomali - Barack Obama e Donald Trump - ha innescato un dibattito sull’interpretazione White Vs. Black del tutto nuova rispetto alle classiche analisi politologiche delle forze che risultano decisive per la conquista della Casa Bianca. È stato sollevato l’interrogativo su come siano stati possibili i successi, prima del “negro” Obama tra i Democratici, e poi del “bianco” Trump espressione dei suprematisti bianchi tra i Repubblicani: presidenti del tutto opposti che tuttavia rappresentano una parallela rottura nell’alternanza di sperimentati leader dei grandi partiti che da oltre un secolo si alternano al potere.
Il brillante scrittore nero Ta-Nehisi Coates, in prima fila tra gli affermati intellettuali americani, ha rivolto aspre polemiche sia al “negro” Democratico che al “bianco” Repubblicano, sostenendo la centralità della questione razziale nel libro Otto anni al potere. Una tragedia americana, strutturato in otto note, tante quanti sono stati gli anni della presidenza Obama. Dapprima ha polemizzato con il “primo presidente nero” degli Stati Uniti, accusato di essersi qualificato come Presidente di tutti gli americani dimenticando la drammatica storia dei suoi fratelli di colore che può essere sanata solo da una “Grande Riparazione” in grado di cancellare la “segregazione invisibile”; poi ha riconosciuto le virtù della Presidenza Obama che ha saputo affrontare annose questioni quali il servizio sanitario pubblico, la qualità della vita nei ghetti e la salvaguardia dell’ambiente, pur qualificandosi secondo il criterio del “buongoverno dei neri” che, però, è utile a legittimare solo la loro integrazione nella società americana mentre perdura la discriminazione. A sua volta Trump, eletto per reazione dei bianchi contro i neri giunti alla Casa Bianca, è il “primo Presidente bianco”, espressione del razzismo bianco radicato nella profonda America che finora non era mai riuscito a inviare un proprio esponente al vertice presidenziale.
La tesi di Coates secondo cui la razza è la forza della storia che ha portato al successo gli ultimi due Presidenti - la “negritudine buona” di Obama che ha messo in atto il buongoverno gradito ai bianchi, e il “razzismo bianco” di Trump che «ha capito il grande potere di non essere negro» - è stata contestata da Cornel West, un intellettuale di sinistra che insegna filosofia pubblica ad Harvard. In un saggio apparso sul «Guardian» ha giudicato inadeguata la chiave dell’identità di razza per spiegare l’imbarbarimento dell’America: da intellettuale bianco cresciuto nella sinistra tradizionale ritiene che vanno presi in considerazione entrambi i termini del binomio Class Vs Race, per comprendere la dialettica dell’America d’oggi in cui non è lecito trascurare le questioni socio-economiche e quel che Obama ha fatto in politica estera, analogamente ai suoi predecessori.
Il dibattito intellettuale tra il bianco West e il nero Coates che esprime i divergenti punti di vista delle diverse generazioni nella sinistra americana, si è ancor più infiammato dopo i risultati elettorali delle ultime presidenziali in cui è apparsa la netta divisione tra due mondi ormai irrimediabilmente separati. Da una parte c’è l’America di Obama, simbolo della cultura urbana e universitaria, di tono liberal e democratico, disponibile al dialogo multirazziale e aperta all’integrazione delle minoranze di colore; e dall’altra l’America di Trump, un’autentica rivelazione della nazione erede della frontiera e legata ai valori tradizionalisti, rinserrata in un orizzonte che ha mostrato al mondo l’ossessione del populismo, del nativismo e dell’autarchia isolazionista.
Otto anni al potere.
Una tragedia americana Ta-Nehisi Coates Giunti, Milano, pagg. 476, € 19
Il Sole Domenica 22.7.18
Regno d’Italia. Fu una guerra fratricida tra meridionali e un conflitto di classe
Doppia violenza al tempo dei briganti
di Valerio Castronovo
L’energica azione repressiva condotta al Sud contro il brigantaggio dopo l’annessione del Mezzogiorno al nuovo Regno d’Italia è una pagina della nostra storia rimasta, per molto tempo, da scrivere in tutti i suoi aspetti e risvolti. Tant’è che solo dal secondo dopoguerra, quando si è cominciato ad alzare completamente il velo su questa complessa vicenda rispetto alle relazioni ufficiali tramandatesi dal passato, si è giunti man mano a disporre di analisi equanimi e di valutazioni appropriate.
A gettare ulteriori luci al riguardo è adesso un saggio di Enzo Ciconte, che va apprezzato sia per la ricca documentazione su cui si basa sia per i criteri esplicativi da lui adottati in quanto concorrono ad ampliare il campo d’osservazione di un fenomeno complesso e di lungo periodo come il brigantaggio nonchè l’ambito dei diversi protagonisti e comprimari che li ha coinvolti da fronti opposti nel corso del tempo.
È un dato di fatto che la lotta al brigantaggio coincise con i difficili anni immediatamente successivi alla formazione dello Stato unitario, quando l’esigenza dei governi d’allora di spegnere a ogni costo e il più rapidamente possibile i focolai insurrezionali scoppiati in varie province meridionali appena incorporate dopo l’impresa garibaldina spinse le autorità militari ad agire con metodi altrettanto spicci quanto indiscriminati, sovente al di fuori della legalità, che si tradussero in una sequela di esecuzioni sommarie e di eccidi. A loro volta, nel corso di una vasta ondata di sommosse (estesasi dalla Basilicata all’Irpinia, dal Molise all’Abruzzo, dalla Puglia alla Capitanata), numerosi crimini e atti di spietata violenza vennero commessi dalle bande brigantiste col sostegno iniziale di ex soldati borbonici e la connivenza di esponenti clericali, visti di buon occhio da Vienna. Al punto che esplose tra il 1861 e il 1864 una vera e propria guerra civile tra gli italiani del Nord e quelli del Sud, fra i “piemontesi” inclini per lo più a considerare il Mezzogiorno un’area della Penisola non ancora approdata alla “civiltà”, e gran parte della popolazione locale indotta a odiare i “conquistatori” scesi dal Settentrione accusati di mire di dominio e di pesanti vessazioni fiscali.
Ma quello che si svolse all’indomani dell’unificazione nazionale (con l’impiego, da un lato, di un esercito cresciuto via via da 15mila a oltre 116mila uomini, e la mobilitazione, dall’altro, di folti nuclei di insorti (trasformatisi in altrettanti guerriglieri), fu un capitolo di un conflitto di più vasta portata, le cui matrici risalivano all’epoca dell’ancien régime. Tra l’eclissi dei Borboni e l’avvento dei primi governi post-unitari riemersero pertanto, secondo Ciconte, due generi di ostilità: una «guerra fratricida» di meridionali contro altri meridionali, e una «guerra di classe» fra proprietari e contadini senza terre.
Queste due guerre, latenti da vari secoli, erano sfociate, durante la Repubblica partenopea, in un duplice scontro cruento, ideologico e sociale: tra gli intellettuali eredi dell’Illuminismo e assertori dei principi della Rivoluzione francese e le bande dei controrivoluzionari reclutate dal cardinal Ruffo pure tra le masse contadine; nonché fra alcuni nuclei di una nascente borghesia, che intendevano eliminare i retaggi del vecchio sistema signorile nelle campagne e la nobiltà più retriva arroccata nella difesa dei suoi vetusti privilegi.
Allo stesso modo, seppur con le debite varianti, si riprodusse dopo il 1861 una situazione conflittuale che ebbe per scenario, da un lato, l’insorgenza popolare, aizzata dai nostalgici del Regno delle Due Sicilie, contro i nuovi “usurpatori” (come a suo tempo erano stati considerati gli invasori francesi), e, dall’altro, l’irruzione alla ribalta del brigantaggio, erettosi ad alfiere di una vasta schiera di braccianti e di coloni più poveri. E ciò perché gran parte di quanti, fra la borghesia provinciale, s’erano avvantaggiati nel frattempo della parziale confisca di alcuni possedimenti nobiliari e della messa in vendita di vari beni ecclesiastici e dei demani comunali, era costituita per lo più da sublocatari; speculatori, appaltatori o grossi intermediari, ben poco inclini sia a condurre le terre in economia sia a modificare i vecchi rapporti contrattuali fondati su condizioni di lavoro precarie e su pesanti forme d’indebitamento delle famiglie contadine più indigenti.
La grande mattanza., Storia della guerra al brigantaggio.
Enzo Ciconte, Laterza, Roma-Bari,, pagg. 278, € 20
Il Sole Domenica 22.7.18
Sergio Romano
Stati Uniti ed Europa, declino parallelo
di Piero Craveri
La “real politik” è un approccio necessario all’esercizio del potere, quale che sia il livello in cui lo si esercita, ed anche una forma indispensabile di conoscenza che permette di seguire i rapporti di forza tra gli Stati e le vicende politiche nazionali e transnazionali. Quest’ultima richiede una visione approfondita non solo del presente ma anche del passato e delle vicende storiche che lo costituiscono. Sono doti che Sergio Romano possiede, conferendo una particolare lucidità ai suoi giudizi, come mostra questo Atlante delle crisi mondiali, che a volo di uccello, ma non omettendo nulla di sostanziale, affronta tutte le questioni che al momento risultano aperte sullo scacchiere geopolitico. Naturalmente quello che conta in queste analisi è il punto di vista da cui si guardano, e in questo caso la deriva è quella dell’Occidente, degli Stati Uniti e dell’Europa, tra di loro e nei confronti del resto del mondo.
La sua è infatti una disamina severa della politica americana e della mancanza di prospettive di quella europea. Con la fine della Guerra fredda la supremazia degli Stati Uniti ha continuato ad utilizzare dei tradizionali strumenti di forza economici e militari, assicurando l’approdo globale del libero scambio, senza accompagnarlo ad altre strategie stabilizzatrici, in un mondo che mutava rapidamente. In Afghanistan la vittoria contro l’Unione Sovietica dell’insurrezione islamica, che gli americani avevano sostenuta, si è volta contro di loro, in una sfida che, col suo radicalismo religioso, sfociava nel terrorismo internazionale. L’intervento in Medio Oriente, a partire dalla guerra all’Iraq, ha rotto equilibri etnici e religiosi consolidati, senza dare ad essi soluzioni plausibili, allargandosi poi alla Siria e mettendo in moto nuove alleanze regionali come quella tra la Russia, l’Iran e la Turchia che segnano un progressivo indebolimento dell’Occidente. Così nella vicenda di Taiwan è la Cina a condurre sempre più il giuoco. L’influenza americana, con essa anche quella dell’Europa, declina ovunque, in Asia e in Africa, perde colpi nella stessa America latina.
Romano, di questo declinare, vede anche le conseguenze riflesse sulla società americana, come su quella europea. Sono società che si radicalizzano, mettendo in discussione persino i loro tradizionali modelli interni di vita civile e politica. Questa tendenza, nelle sue manifestazioni religiose e politiche, è radicata nella società americana, anzi un suo modo di essere storico e perfino antropologico. Trump ne è un’evidente espressione, anche se la solidità delle istituzioni democratiche americane, messa così alla prova, potrebbe reagire a queste forzature e, come altre volte ha fatto, portare a un riequilibrio interno.
La crisi di sistema investe anche l’Europa, minando la vita democratica interna dei diversi Paesi, mettendo in discussione le istituzioni europee. Il sentimento di Romano è europeista, come egli stesso sottolinea in un ricordo biografico nell’appendice del libro. Anche le nazioni europee non hanno saputo accompagnare la fine della guerra con i necessari mutamenti di prospettiva. La loro passiva permanenza nella Nato ne è un esempio rilevante. Avendo legato ad essa, e al ruolo preminente che vi svolgono gli Stati Uniti, la loro difesa, non avendo ancora deciso di provvederne in proprio, questa costituisce sempre uno scudo necessario. L’Unione Europea si è estesa ai Paesi dell’Est, così come la Nato. Con la crisi dell’Urss si è così portata la linea potenziale di uno scontro bellico sul confine della Russia, che lo avverte come una minaccia.
L’Europa ha troppo supinamente seguito poi la linea dura che gli Stati Uniti hanno impresso al confronto con la Russia. Secondo Romano questo viene a costituire uno strascico della guerra fredda che serve agli americani anche per continuare a tenere sotto scacco gli europei. Non si nasconde che la Russia sia un interlocutore difficile e insidioso, per il mai dismesso autoritarismo e nazionalismo. Ma queste attitudini hanno anche tratto alimento dall’atteggiamento punitivo e insidioso che l’Occidente ha tenuto nei suoi confronti con la fine della guerra fredda.
Romano evoca la suggestione sollevata da De Gaulle di un’Europa dall’Atlantico agli Urali. Ciò che gli pare oggi evidente è che l’Europa non può conseguire la sua definitiva stabilità, se non prende a colmare il solco che la divide dalla Russia, così come ha scancellato, nei decenni passati, quello tra la Francia e la Germania.
Atlante delle crisi mondiali, Sergio Romano, Rizzoli, Milano, pagg. 278, € 20