martedì 3 luglio 2018

La Stampa 3.7.18
Salvini si tiene lontano dal decreto filo-Cgil
“Lasciamoglielo fare”
di Alessandro Barbera


A Piazza del Campo, fra turisti, attori e appassionati del genere, ieri sera c’erano due ospiti che nessuno si sarebbe aspettato di vedere: Matteo Salvini e Gianmarco Centinaio. Il Palio di Siena invece del Consiglio dei ministri. Possibile? «Aveva preso l’impegno a festeggiare la vittoria storica della Lega in città», spiegano i collaboratori del leader leghista. Ci sono però gesti che, per quanto spiegati, lasciano poco spazio alle interpretazioni. L’assenza del vicepremier alla riunione dedicata ad una delicatissima riforma del mercato del lavoro è una chiara presa di distanze da un provvedimento che al Carroccio non è mai piaciuto. Quella del «decreto dignità» non è stata una gestazione semplice sin dall’inizio: bloccato dal ministero del Tesoro per mancanza di coperture, modificato per le proteste del mondo delle imprese, ha dovuto fare i conti con l’ostilità della Lega, di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. «Se il testo è quello circolato siamo di fronte ad una enorme presa in giro, un impianto marxista che confonde la lotta al precariato con lotta al lavoro e alle imprese», diceva ieri pomeriggio Giorgia Meloni. Nonostante le modifiche, il testo sancisce la svolta a sinistra del leader pentastellato: riduzione dei limiti per i contratti a termine, reintroduzione delle causali nei contratti di lavoro a tempo determinato, aumento del costo per i licenziamenti, multe per le imprese che delocalizzano fino al quinto anno dal ricevimento di aiuti pubblici.
Incurante degli ultimi dati Istat che segnalano un aumento dell’occupazione come non accadeva da dieci anni, Di Maio marca il territorio a sinistra al grido di «licenziamo il Jobs Act». Per il superministro quei numeri «sono solo il trionfo della precarietà» e dunque confermano il bisogno di irrigidire l’impianto normativo a difesa del «buon lavoro». L’articolo uno del decreto, quello che rivede le norme sui contratti a termine, coincide parola per parola con l’articolo 50 della Carta dei diritti universali del lavoro, il manifesto con cui nel 2016 la Cgil rispose al verbo renziano. La norma sulle delocalizzazioni, pur ammorbidita rispetto alle prime bozze, riprende una proposta della Fiom di Maurizio Landini. Ieri il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti ha insistito fino a tarda sera con Di Maio per ammorbidire il testo discusso nel preconsiglio tecnico. Le pressioni su Palazzo Chigi per cambiare questo o quel dettaglio sono state enormi: «Il mondo delle imprese non vedeva un decreto così dai tempi del governo Prodi-Bertinotti», si sfoga un lobbista che chiede di non essere citato. Nel timore di uno shock sul mercato del lavoro, Di Maio ha evitato l’abolizione dei contratti di staff leasing, accettato il ritocco di quelli di somministrazione, rinunciato a modifiche normative che avrebbero avuto conseguenze pesanti sulle entrate fiscali, come quelle che avrebbero penalizzato il gioco d’azzardo. Per riequilibrare un testo molto schiacciato sulle ragioni del lavoro e dei sindacati, la Lega ha tentato di reintrodurre la disciplina dei voucher, aboliti dal governo Gentiloni sotto la pressione di un referendum voluto dai sindacati. Resta la norma che abolisce la trattenuta Iva per chi lavora con la pubblica amministrazione, ma sarà limitata alle partite Iva. È la conferma di un governo di ispirazione destra-sinistra, un grande compromesso storico in cui ciascuno dei due grandi azionisti della maggioranza cerca di dare risposte ai rispettivi elettorati. Dice un ministro leghista: «Abbiamo lasciato uno spazio politico ai Cinque Stelle in una fase in cui soffrono il protagonismo di Salvini». Le distanze fra i due partner della maggioranza sono evidenti, e si ripresenteranno durante la conversione del decreto in Parlamento. I leghisti infatti pensano già a come modificarlo: sarà così per la reintroduzione dei voucher e le norme sul lavoro. In fondo si tratta della ragion d’essere del governo giallo-verde: mai alleati, bensì semplici contraenti di un accordo di governo.