martedì 3 luglio 2018

Il Fatto 3.7.18
Di Maio si prende la scena: “Licenziamo il Jobs Act”
Ok al testo. Stretta più forte sui contratti a termine. La parte fiscale (cara alla Lega) si sgonfia: mancavano le coperture
Di Maio si prende la scena: “Licenziamo il Jobs Act”
di Carlo Di Foggi


Alla fine il “decreto dignità” vede la luce. In tarda serata il Consiglio dei ministri ha approvato il provvedimento, il primo concreto in un mese di esecutivo, voluto dal vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che per giorni è rimasto impallinato tra gli uffici del dicastero guidati dal pentastellato e quelli del ministero dell’Economia di Giovanni Tria. Problemi di coperture – che fino all’ultimo restano vaghe – ma anche alcuni disaccordi con l’alleato leghista. Poco prima della riunione, Di Maio opta per superare le bozze che circolavano forzando la mano su uno dei temi cardine del racconto pentastellato: sferrare un primo colpo al jobs act. Alla fine il risultato è un compromesso che sorride più al leader dei 5Stelle che a Matteo Salvini, assente perché impegnato al Palio di Siena. Al traguardo il provvedimento applica una stratta più forte sul lavoro precario – “Da oggi licenziamo il josb act” fanno sapere entusiasti da Palazzo Chigi – mentre la parte fiscale si sgonfia quasi del tutto riducendosi ad alcuni ritocchi.
Di fatto, col decreto il M5S prova reagire alla scena mediatica rubata dall’alleato, un provvedimento che guarda spiccatamente a sinistra e prova a ricucire i malumori interni sul tema migranti.
Il testo finale si arricchisce di una modifica al jobs act, portando l’indennizzo massimo per i licenziamenti senza giusta causa da 24 a 36 mensilità (l’articolo 18 non viene ripristinato). Confermata la stretta al ricorso ai contratti temporanei che smonta il “decreto Poletti” del 2014 che ne ha liberalizzato l’uso (facendone esplodere il numero): non potranno essere prorogati per più di 4 volte e durare più di due anni e, dopo i primi 12 mesi o il primo rinnovo, avranno bisogno della “causale”, cioè della giustificazione che l’impresa deve fornire per ricorrere a un contratto a termine, abolita dal governo Renzi. I limiti verrano estesi anche ai rapporti “in somministrazione”, il lavoro affittato dalle agenzie interinali che però non sarà conteggiato nel limite del 20% imposto alle aziende per contingentare i contratti a termine. Salta invece l’abolizione del tempo indeterminato somministrato (se ne riparlerà in Parlamento). Per scoraggiare il ricorso al precariato, il testo aumenta di 0,5 punti il costo contributivo per ogni rinnovo, a partire dal secondo.
Stretta meno forte, invece, per le delocalizzazioni. Le aziende che hanno ricevuto un sostegno pubblico, in qualsiasi forma (contributo, finanziamento agevolato, garanzia, aiuti fiscali, ecc.) che delocalizzano le attività all’estero prima che siano trascorsi cinque anni subiranno sanzioni da 2 a 4 volte il beneficio ricevuto, che andrà restituito con interessi maggiorati del 5%. Se gli aiuti prevedono una valutazione dell’impatto occupazionale, i benefici vengono revocati in tutto o in parte a chi taglia nei successivi cinque anni i posti di lavoro.
È confermato anche lo stop alla pubblicità al gioco di azzardo, in qualsiasi forma (tv, stampa, etc.) ma rispetto alle prime versioni vengono escluse le lotterie “a estrazione differita”, cioè la lotteria Italia (sarebbe stato un autogol per lo Stato). Chi non rispetta il divieto avrà una sanzione del 5% del valore della sponsorizzazione o comunque di “importo minimo di 50 mila euro” (che sale a 100 mila per gli spot durante gli spettacoli dedicati ai minori). Gli incassi andranno al fondo per il contrasto al gioco patologico. Una svolta notevole e una mazzata per il settore. Nel complesso la pubblicità del gioco muove un giro di circa 200 milioni, il 70% verso il mondo dello sport (80 milioni vanno alle tv). Per evitare contenziosi lo stop non si applica ai contratti in essere.
A uscireammaccato dal “giro delle sette chiese” dei ministeri (copyright Di Maio) è il pacchetto fisco, voluto da entrambi gli alleati ma caro soprattutto alla Lega. Lo stop di rilievo a spesometro, redditometro e split payment avrebbe aperto un buco da oltre cinque miliardi. Tria, di sponda con la ragioneria dello Stato ha bloccato le ipotesi più ardite. Per questo il redditometro non viene abolito (ma solo revisionato) così come lo spesometro, per cui è solo prevista la proroga a febbraio 2019 di quello relativo al terzo trimestre 2018. Lo split payment, il meccanismo con cui lo Stato trattiene l’Iva a monte dai fornitori (sottraendo liquidità) viene invece abolito solo per i professionisti (in totale vale circa 60 milioni), resta invece per le imprese.