La Stampa 2.7.18
Non solo Via della Seta, la Cina finanzia 35 porti
L’Africa e l’Asia pagano i prestiti cedendo i moli
di Luigi Grassia
La
Cina è in grandissima espansione nel settore dei porti, fondamentali
per i suoi commerciali. Hanno suscitato attenzione l’ingresso dei
capitali cinesi in vari porti europei come il Pireo (in Grecia) e in
Italia Vado Ligure (Savona) oltre alle mire su Genova, Trieste e
Monfalcone, come terminali della Nuova Via della Seta. Ma a parte questa
strategia ad alta visibilità, Pechino ne ha un’altra, più discreta, che
non consiste nel partecipare a quote di attività portuali già
esistenti, ma nel concedere prestiti generosissimi a Paesi africani e
asiatici per costruire ex novo dei porti dove c’è bisogno, o anche dove
non c’è bisogno affatto; se poi questi investimenti si mostrano
economicamente giustificati, bene, la Cina ne avrà un ritorno diretto,
ma se invece queste infrastrutture non rendono (e in molti casi appare
chiaro fin dall’inizio che si tratta di vuoti a perdere) bene lo stesso,
perché Pechino si farà pagare chiedendo la proprietà di questi porti, o
l’affitto gratuito per 99 anni, assieme alla cessione di vasti
retroterra in cui realizzare impianti industriali.
Come garanzia
preventiva Pechino concede prestiti solo a patto che i lavori per
costruire i porti (a spese dei Paesi che li ospitano) siano affidati a
imprese cinesi e a migliaia di lavoratori cinesi.
Uno studio della
Scuola di studi internazionali della Johns Hopkins University cita i
casi di 35 porti finanziati interamente o parzialmente da capitali
cinesi (vedi la cartina in pagina), in massima parte in Africa e in Asia
ma con incursioni anche in Paesi europei marginali, ai Caraibi e
persino in Australia; in massima parte si tratta di controparti africane
economicamente e politicamente fragilissime, ma anche quando a sedersi
al tavolo sono Paesi più solidi come il Pakistan, il Bangladesh o
Myanmar, si può dubitare che siano in grado di negoziare con i cinesi in
condizioni di effettiva parità.
Alienazione all’85%
Il New
York Times racconta in dettaglio il caso di Hambantota nello Sri Lanka,
riguardo al quale la concessione ripetuta di prestiti da parte cinese
per costruire un porto poco utile già sulla carta, perché doppione di
quello della capitale Colombo, ha portato a realizzare un’infrastruttura
incapace di attrarre flussi di traffico; l’atto finale è stata la
cessione dell’85% di questo porto agli investitori cinesi, assieme a 15
mila acri di territorio circostante, in cambio di una cancellazione solo
parziale del debito cumulato.
Sia chiaro: i Paesi occidentali non
possono dare lezioni storiche e morali alla Cina in fatto di prestiti
usati come strumenti di potere. Nell’età classica dell’imperialismo, fra
l’Otto e il Novecento, la spirale del debito è stata uno dei mezzi con
cui le potenze europee e gli Stati Uniti hanno imposto il dominio
indiretto su Paesi che non controllavano militarmente: così hanno fatto
per esempio la Gran Bretagna e gli Usa con l’America Latina, e così è
stato fatto (in forma collettiva) dalle potenze occidentali nell’impero
turco e nella stessa Cina. Anche l’attuale politica del Fondo monetario
internazionale viene spesso criticata come falsa generosità, che in
cambio della concessione di prestiti alla fine porta il Fondo a dettare
legge a interi Paesi.
Riconosciute queste colpe occidentali, sottoporre a scrutinio anche la Cina è lecito.