Corriere 2.7.18
La visione di Adriano Olivetti
Tecnologia e umanesimo nella città ideale del nostro Steve Jobs
di Aldo Cazzullo
Adriano
Olivetti si pensava come un incrocio tra un principe rinascimentale e
un educatore. Sognava e programmava insieme. Il riconoscimento
dell’Unesco è un premio a lui e alla comunità che ha fondato.
Il
quartiere di Ivrea in cui sorse l’Olivetti somiglia all’Addizione
Erculea di Ferrara, il primo quartiere rinascimentale d’Italia e quindi
del mondo: vie dritte, palazzi squadrati, prospettive razionali, come
nella Città Ideale.
Padre ebreo, madre valdese, antifascista,
Olivetti potrebbe sembrare anti-italiano. È invece uno dei protagonisti
della Ricostruzione del nostro Paese: perché, accanto agli ingegneri,
assume i migliori scrittori e intellettuali. Il suo segretario personale
è Geno Pampaloni, raffinato critico letterario. Capo del personale è
Paolo Volponi, che prima è stato responsabile dei servizi sociali
dell’azienda: biblioteca da 150 mila volumi, centro studi, mostre,
concerti, asili, mense, ambulatori. I colloqui ai neoassunti li fa
Ottiero Ottieri, che nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli scrive un
romanzo autobiografico, Donnarumma all’assalto, forse il miglior
racconto della Ricostruzione che si fa boom economico. Ci sono Giovanni
Giudici e Franco Fortini, l’urbanista Mario Astengo e i migliori talenti
della giovane generazione: il sociologo Franco Ferrarotti, il
finanziere Gianluigi Gabetti, il giornalista Nello Ajello; e un ragazzo
torinese, Furio Colombo, che Adriano manda in America, dove ha comprato
la più grande fabbrica di macchine da scrivere, la Underwood. Fonda
anche un partito, Comunità; ma l’unico eletto in Parlamento è lui.
Rinuncerà al seggio.
Il sogno di Olivetti è fare di Ivrea la
capitale della cultura industriale italiana. Un progetto in cui far
confluire cristianità e umanesimo, le scienze sociali e l’arte, la
tecnologia e la bellezza. Sugli operai Fiat vigilano ex carabinieri; su
quelli Olivetti vegliano i primi psicologi.
I suoi designer
inventano oggetti tra i più belli del Novecento, come la mitica Lettera
22, la macchina da scrivere di Montanelli. Nel 1948 viene creato un
gruppo di lavoro che metterà a punto una diavoleria mai vista in un
ufficio italiano: la calcolatrice, battezzata Divisumma. Nasce la
divisione elettronica: nel ’55 Adriano strappa Mario Tchou alla Columbia
University di New York, e gli affianca gli scienziati dell’università
di Pisa; ed ecco l’Olivetti Elea, il migliore «cervello elettronico» —
la parola computer non è ancora entrata nel lessico italiano — del
mondo.
Olivetti poteva essere il nostro Steve Jobs, e il Canavese
la sua Silicon Valley; ma l’Italia era un Paese vinto, e non avrebbe mai
potuto sostituire il Paese vincitore, l’America, nel guidare la corsa
alla modernità. Adriano muore all’improvviso il 27 febbraio 1960, su un
treno diretto a Losanna, in Svizzera, dove sta andando a chiedere
prestiti per nuovi investimenti. Non ha ancora 59 anni, è in ottima
salute. Si parla di emorragia cerebrale, ma l’autopsia non verrà mai
effettuata.
Un anno dopo muore Mario Tchou: il suo autista perde
il controllo sull’autostrada Milano-Torino, e si schianta contro un
furgone. Le voci che già sono circolate in morte di Adriano prendono
corpo. In molti a Ivrea sono tuttora convinti che l’ingegner Tchou sia
stato assassinato, per favorire l’industria Usa. Ovviamente, prove non
ce ne sono. E sarebbe comunque finita così, con l’egemonia americana
ripristinata e i sogni di Adriano consegnati ai libri di storia. A ogni
buon conto, la divisione elettronica dell’Olivetti viene venduta alla
General Electric. A volte, però, la storia paga un piccolo risarcimento.