Corriere 2.7.18
La sentenza su via d’Amelio le motivazioni
Dall’agenda scomparsa ai falsi pentiti Il più grande depistaggio della Storia
di Giovanni Bianconi
I giudici e l’ultima verità sulla strage Borsellino. Chiesto il processo per tre poliziotti
I
l mistero della morte di Paolo Borsellino si fa ancora più fitto
guardando a ciò che accadde dopo la strage di via D’Amelio. La scomparsa
dell’agenda rossa (dove probabilmente il magistrato aveva annotato
ipotesi e sospetti sull’attentato a Giovanni Falcone e le trame mafiose
che l’avevano pianificato e realizzato) e le successive dichiarazioni di
falsi pentiti istruiti dalla polizia, sono fatti collegati tra loro e
compongono «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria
italiana». Che deve avere un movente, forse connesso alle bombe esplose
fra il 1992 e 1993, la stagione del terrorismo mafioso.
Così hanno
scritto i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta che,
nell’aprile 2017, ha decretato due condanne all’ergastolo nel quarto
processo sulla strage del 19 luglio ‘92, e altre due per calunnia.
Facendo in parte giustizia delle storture verificatesi nei giudizi
precedenti, quando furono condannati degli innocenti proprio a causa del
«depistaggio». A ventisei anni dall’eccidio, e dopo dieci di indagini
avviate con le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ammise la
sua partecipazione all’attentato sconfessando le precedenti
ricostruzioni, è la prima volta che una sentenza certifica la
fabbricazione di prove false e l’occultamento (almeno parziale) della
verità nelle inchieste degli anni Novanta.
È la storia del falso
pentimento di Vincenzo Scarantino, piccolo malavitoso elevato al rango
di boss che contribuì a una ricostruzione «minimalista» circoscrivendo i
colpevoli a un nucleo di mafiosi (alcuni dei quali innocenti).
Spalleggiato da alcuni poliziotti che non solo ne raccolsero le prime
dichiarazioni ma poi lo aiutarono a confermarle e correggerle per
renderle credibili nei successivi dibattimenti. Nonostante le
contraddizioni e anomalie rilevate da pubblici ministeri come Ilda
Boccassini e Roberto Saieva. «Una trama complessa — annota ora la Corte
d’assise — che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due
processi».
L’anello di congiunzione tra i due principali momenti
della trama — la scomparsa dell’agenda rossa, presumibilmente sottratta
subito dopo l’esplosione della bomba da mani rimaste ignote, e le bugie
di Scarantino — per gli ultimi giudici è Arnaldo La Barbera, esperto e
stimato investigatore che all’epoca guidava la Squadra mobile di Palermo
e in seguito salì molti gradini fino a diventare questore di Roma e
responsabile dell’antiterrorismo. I giudici ne sottolineano «il ruolo
fondamentale assunto nella costruzione delle false collaborazioni con la
giustizia», e lo considerano «intensamente coinvolto nella sparizione
dell’agenda». Tuttavia La Barbera, deceduto nel 2002, non ha mai potuto
difendersi da sospetti e accuse che hanno preso corpo solo dopo la sua
morte prematura.
Le indagini sulle responsabilità e il movente del
depistaggio non si sono fermate, e la scorsa settimana la Procura di
Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio di tre poliziotti che
parteciparono all’inchiesta muovendosi agli ordini di La Barbera: Mario
Bo (posizione già archiviata e riaperta) , Fabrizio Mattei e Michele
Ribaudo. E la Corte d’assise nota che gli ulteriori accertamenti non
possono prescindere sia dalle reali finalità dell’eliminazione di
Borsellino (nemico storico di Cosa nostra, che però avrebbe deciso
l’esecuzione della condanna a morte solo dopo «sondaggi con persone
importanti appartenenti al mondo economico e politico», come disse un
pentito considerato attendibile come Nino Giuffrè) sia dalle drammatiche
confidenze dello stesso Borsellino alla moglie Agnese: «Il giorno prima
di morire Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma
sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse
accadere; in precedenza mi disse testualmente che “c’era un colloquio
tra la mafia e parti infedeli dello Stato”».
Così si ritorna al
nocciolo della questione: i contatti tra pezzi di criminalità e di
istituzioni che s’intravedono anche alla luce di questa sentenza, per un
ipotetico patto occulto di complicità e reciproca copertura. La mafia
uccide Borsellino per vendetta e per ciò che può scoprire dopo la morte
di Falcone, dentro e fuori Cosa nostra; poi arriva qualcuno che fa
sparire le tracce dei suoi sospetti (l’agenda rossa) e si adopera per
chiudere il cerchio sui boss (alcuni dei quali individuati a tavolino),
nel tentativo di ridurre i danni al minimo. Per tutti.