lunedì 2 luglio 2018

Il Fatto 2.7.18
Regioni rosse, l’incapacità del Pd di ascoltare il disagio
La caduta delle roccaforti storiche in Emilia Romagna, Toscana e Umbria, rappresenta il punto più basso nella storia elettorale della sinistra. Il primo campanello di allarme suonò alle elezioni regionali del 2014
Regioni rosse, l’incapacità del Pd di ascoltare il disagio
di Federico Fornaro


Qualche osservatore dopo il primo turno delle recenti elezioni comunali si era improvvidamente spinto fino al punto di parlare di un recupero del Pd e del centrosinistra rispetto al disastro delle politiche del 4 marzo scorso. I risultati del secondo turno, invece, hanno restituito – in particolare nei Comuni capoluogo di provincia – la fotografia di uno dei punti più bassi nella storia elettorale della sinistra italiana. A cadere, come noto, sono state alcune delle roccaforti storiche come Pisa, Massa e Siena e città simbolo come Imola, la città di Andrea Costa e più in piccolo, Sarzana in provincia di La Spezia, rossa da sempre. Come risvegliatisi da un lungo torpore, in molti hanno scoperto che stavano scomparendo dalla geografia politica italiana le cosiddette regioni rosse, le aree di insediamento storico della sinistra che avevano resistito a tutti gli attacchi, Berlusconi dei tempi d’oro compreso. Emilia Romagna, Toscana e Umbria (con l’aggiunta delle Marche) sono state nel secondo dopoguerra il “cuore rosso” dell’Italia, un feudo prima di comunisti e socialisti e poi di tutte le successive trasformazioni del Partito comunista per giungere fino all’odierno Partito democratico.
La serie storica dei dati elettorali dal 1946 ci aiuta a capire la profondità di queste radici. Nelle elezioni del 1948, ad esempio, il Fronte Popolare (Pci e Psi) si fermò a livello nazionale al 31% dei voti, mentre nella circoscrizione di Bologna-Ferrara-Ravenna e Forli arrivò al 52%, in quella di Parma, Modena, Piacenza e Reggio Emilia al 50,4%. Analogamente in Toscana, i frontisti ottennero il 49,2% a Firenze-Pistoia, il 43,1% a Pisa-Livorno-Lucca e Mass Carrara e il 55,2% a Siena-Grosseto-Arezzo. In Umbria, invece, il dato del Fronte Popolare fu del 43,9% e nelle Marche il 34,2%. A dimostrazione della persistenza di questo radicamento nelle regione rosse della sinistra, nelle ultime elezioni della cosiddetta Prima Repubblica (anno 1992), se il Partito della Sinistra (Pds) si fermava al 16,1%, i risultati delle circoscrizioni di Emilia e Toscana erano mediamente il doppio: Bologna (34,2%), Parma (30,2%), Firenze (32,5%), Pisa (25,0%) e Siena (32,1%). Stesso andamento anche con l’Ulivo di Prodi, che nel 2006 otteneva a livello nazionale il 31,3%, in Emilia Romagna il 44,8%, in Toscana il 43,3%, in Umbria il 39,2% e Marche 39,1%. Lo stesso Pd di Bersani, nel 2013, confermava il suo radicamento in quei territori: Italia 25,4%, Emilia Romagna 37,0%, Toscana 37,5%, Umbria 32,8% e Marche 27,7%.
Il primo vero campanello di allarme per il centrosinistra suonò forte e chiaro nelle elezioni regionali del 23 novembre 2014, quando Stefano Bonaccini divenne presidente con il 49,1% dei consensi, ma con soltanto il 37,7% dei votanti. E a chi sottolineava con grande preoccupazione quel dato di astensionismo record, il segretario-presidente del Consiglio, Matteo Renzi, rispose, considerando anche la vittoria in Calabria con uno dei suo tweet sprezzanti: “2-0 per noi”.
Una clamorosa incapacità di ascoltare il segnale di disagio che arrivava dalla regione che più di altre si era caratterizzata per una straordinaria propensione alla partecipazione politica e al voto. Con le sole eccezioni del 1953 e del 1963, infatti l’Emilia Romagna era stata la regione italiana con la più alta percentuale di votanti: fino al 1996 superiore al 90% con punte nel 1972 e 1976 del 97,4%. Che in una regione con questa storia, un modello di partecipazione, cultura civica e coesione sociale studiato anche negli Stati Uniti, potessero non recarsi alle urne circa due elettori su tre fu vissuto da Renzi quasi come un fattore di modernità: l’unica cosa che contava, in fondo, era aver vinto. Anche il 48,2% di votanti alle regionali in Toscana l’anno dopo, il 31 maggio 2015, non preoccuparono i vertici dem anche in ragione della vittoria del governatore Enrico Rossi con il 48,2%. Da allora, però, sono arrivate sconfitte in serie e oggi, nella Toscana renzizzata, il Pd governa più solo Lucca (vinta lo scorso al ballottaggio con il 50,5%), Prato e Firenze che votano l’anno prossimo. Se è innegabile che il modello economico-sociale emiliano, costruito su un patto tra produttori (sistema di piccole e medie imprese, cooperative, sindacati dei lavoratori) e su di un welfare di stampo scandinavo, stava declinando da tempo, è altrettanto evidente che la svolta renziana ha impresso una accelerazione nefasta.
Se poi i primi segnali verranno confermati e Lega e M5S si metteranno d’accordo su di un contratto di governo ad hoc per le elezioni regionali dell’Emilia Romagna del 2019 e della Toscana e dell’Umbria del 2020, il lavoro di distruzione di un patrimonio politico, culturale e sociale rischia di essere completato per mano dell’alleanza giallo-verde. D’altronde il 4 marzo 2018 la prima coalizione in Emilia Romagna è già stata il centrodestra (33,1%) con la Lega al 19,2% e il M5S al 27,5%, mentre in Toscana il centrosinistra ha vinti di una incollatura (33,7% contro il 32,1% del centrodestra), con la Lega al 17,4% e il M5S al 24,7%.