Corriere 2.7.18
Gli Intellettuali europei tacciono
Emergenza immigrazione, la cultura non ha parole
di Gian Arturo Ferrari
L’Homo
sapiens, cioè noi, è una specie irrequieta. E molto adattabile. Invece
di starsene buona nella sua culla africana si è sparsa dovunque. Giunta
all’estremo nord-est dell’Asia è passata sui ghiacci in Alaska e da lì
in circa diecimila anni – un tempo brevissimo – attraverso tundre,
praterie, deserti, foreste pluviali e vertiginose montagne è arrivato ai
ghiacci opposti della Terra del Fuoco. Inseguiva più cibo e più spazio.
Benessere e libertà, se vogliamo, proprio come gli odierni migranti,
maldestramente definiti economici. Per quale altro motivo infatti si
dovrebbe emigrare? Profughi, rifugiati, esuli non c’entrano, sono una
faccenda diversa. Dunque la storia delle migrazioni è la storia
dell’umanità, o la sua parte maggiore, come dovremmo ben sapere noi
italiani che abbiamo smesso di migrare – a milioni – negli anni
Cinquanta del secolo scorso. La presente ondata migratoria (non sarà
l’ultima, mettiamoci il cuore in pace) ha ragioni chiare: la crescita
della pressione demografica in Africa, dovuta anche, per grazia di Dio,
al crollo della mortalità infantile. E il fatto che chiunque disponga di
un telefonino può vedere con i propri occhi quanto si viva meglio nel
mondo occidentale e segnatamente, nonostante tutte le nostre
lamentazioni, in Europa. Ma se le ragioni sono chiare le soluzioni sono
oscure: l’idea di bloccarli a casa loro richiede muraglie o cannoniere,
quella di aspettare che in Africa si stia come in Europa apre orizzonti
secolari. Comunque sia, si tratta sempre di soluzioni dell’hic et nunc:
pratiche, amministrative, politiche. Importantissime certo, come si vede
dagli effetti elettorali, ma che non toccano il nodo centrale: qual è
l’atteggiamento giusto, la posizione ragionevole, degna di persone
civili, rispettosa delle esigenze di tutti? Non è più un problema
politico, è un problema culturale e finché non si affronta questo
secondo sarà difficile risolvere il primo. Ora il fatto davvero
stupefacente è il silenzio tombale della cultura non solo italiana ma
europea di fronte al tema che l’attualità ci spinge sotto gli occhi ogni
giorno. Questa è una novità assoluta. Nel troppo deprecato secolo
scorso la cultura è sempre stata legata, si è alimentata del rapporto
con la realtà. Dall’intervento nella Prima guerra mondiale, alla nascita
del comunismo, del fascismo, al nazismo, alla guerra fredda, alla
decolonizzazione, al Vietnam, al terrorismo, al crollo dell’Unione
Sovietica, all’islamismo, la cultura europea si è furiosamente e spesso
chiassosamente accapigliata su ogni spunto che l’attualità offrisse.
Sbagliando, molte volte, identificandosi con la politica, tradendo la
propria stessa ragion d’essere e giungendo, non di rado, a eccessi
ridicoli. Sempre meglio però di questo mutismo inarticolato. Come se
decenni di divagazioni deboli e liquide, di astrazioni strutturaliste,
di melanconie nichiliste avessero finito per togliere all’Europa il suo
maggior vanto, cioè la forza del suo pensiero, la capacità di guardare
senza timori e senza pudori nel fondo delle cose. Oggi di fronte al
problema dell’emigrazione la cultura europea gira la testa dall’altra
parte, non vuole abbassarsi a questioni così spicciole, in realtà non sa
che cosa dire. Certo, non è facile, ma quando mai ha affrontato prove
facili? Il lato peggiore è che dopo tanto sgolarsi e sbracciarsi per
cause spesso dubbie tace davanti a quel che la gente comune avverte più
acutamente, si rifugia in giaculatorie per esorcizzare la paura di non
saper rispondere. Forse mai nella storia recente si è aperto un abisso
così profondo tra comune sentire ed elaborazione intellettuale. L’unica
voce che ha risuonato è stata quella del cardinal Ravasi, il quale ha
citato un versetto del Vangelo. Nulla da eccepire, per carità, ma forse
l’orgogliosa cultura europea un ulteriore segno di vita avrebbe potuto
darlo.