martedì 12 giugno 2018

Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, dal Quirinale ieri
«Fate che il volto di questa Repubblica sia umano. Ricordatevi - dice usando le parole senza data di Saragat - che la democrazia non è soltanto un rapporto tra maggioranza e minoranza, ma è soprattutto un problema di rapporti fra uomo e uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste; dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide».
citato da Li.P. sul Sole di oggi


il manifesto 12.6.18
Populismo e trasformismo, la lezione di Gramsci
di Fabio Vander


Che c’entra Gramsci con il nuovo governo della destra e dei populisti? Chi voglia provare a capire i caratteri della nostra (eterna) crisi non può fare a meno delle sue analisi. Che come quelle di ogni classico mantengono intatta nel tempo la loro attualità.
In una nota del «Quaderno 6» scrive proprio del “populismo”: esso è una forma di neutralizzazione del protagonismo delle masse; di fronte alla loro domanda di diritti e di potere le classi dominanti «reagiscono con questi movimenti ‘verso il popolo’». Il “pensiero borghese”, aggiunge Gramsci, «non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte dell’ideologia proletaria».
La parola chiave è “egemonia”. Il “populismo” è insomma il travestimento della destra che si fa sinistra, per conservare il potere economico, politico e culturale accoglie “parte” delle istanze di sinistra: il lavoro, le tasse, le domande securitarie, le identità corporative o di campanile, fino a certo deteriore “nazionalismo popolare” del ‘sangue e suolo’.
In una nota del 1930 Gramsci aveva indagato il fenomeno dall’altro verso: non dell’andare al popolo dei potenti, ma della ripulsa della politica da parte del popolo. Popolo che prova «avversione verso la burocrazia» o «odia il funzionario», antipolitica diremmo oggi, ma che pure non riesce a darsi una strategia autonoma di alternativa. Si tratta, nota acutamente Gramsci, di «odio ‘generico’ ancora di tipo ‘semifeudale’, non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe».
Due elementi: è una politica immatura quella del populismo, regressiva; d’altro canto non è possibile populismo ‘di sinistra’ (osservazione non scontata, non mancano oggi infatti tentativi di declinazione progressiva del populismo, direi da Laclau a Mélenchon). Occorre invece una critica moderna dello stato di cose esistente. Che solo la politica può dare. Contro populismo e antipolitica occorre non farsi corrivi con lo spirito dei tempi, non porsi “sulla difensiva” rispetto al piano egemonico dell’avversario. E invece la sinistra italiana, già agli occhi di Gramsci, scontava proprio un difetto politico, di «scarsa efficienza dei partiti», ridotti a «bande zingaresche» o al «nomadismo politico». L’eterno trasformismo della politica nazionale.
Questa doppia debolezza strutturale della destra di governo e della sinistra di alternativa è la ragione profonda ed esaustiva non solo della fragilità storica della nostra democrazia, ma dell’intero nostro tessuto civile, se è vero che in Italia non è «mai esistito un ‘dominio della legge’, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale e di gruppo».
Si pensi proprio alla nascita del governo Conte. Sul manifesto Gaetano Azzariti ha parlato di «gestione del tutto privata della crisi», con «il programma di governo trasformato in un contratto tra due signori stipulato davanti a un notaio, le cui obbligazioni sono assolte da un loro fiduciario». Populismo e privatismo possono ben andare insieme. Come per altro avevamo imparato già da Berlusconi.
L’alternativa a tutto ciò deve essere chiara e netta: tornare alla politica, al «dominio della legge», dell’interesse generale. Perché se certo la colpa dell’antipolitica è della politica, pure l’antidoto all’antipolitica può essere solo di nuovo la politica. Combattere il populismo si deve rivendicando la nobiltà della politica. E praticandola. Rischiando anche l’impopolarità dell’antipopulismo (tanto più che il risultato straordinario del referendum del dicembre 2016 prova che nei momenti topici il popolo italiano mostra discernimento e intelligenza politica).
Ancora Gramsci ricorda che il fenomeno dell’“apoliticismo” si spiega col fatto che i partiti in Italia «nacquero tutti sul terreno elettorale», risultato di «un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un’accolita di piccoli intellettuali di provincia», senza visione, senza strategia, senza senso della politica.
Queste dunque le priorità della possibile e necessaria alternativa al populismo: organizzazione delle masse popolari, autonomia culturale e politica, un partito della sinistra in grado di corrispondere al dettato dell’articolo 49 della Costituzione: «Concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Avendone un’idea possibilmente: di interesse nazionale, di politica, di democrazia.

La Stampa 12.6.18
“Ci vuole più emozione che ragione per convincere gli altri”
di Paola Mariano


Le emozioni e desideri contano più dei fatti, quando si tratta di credere a qualcosa o di compiere scelte considerate ragionevoli. L’idea che dati certi e inconfutabili prove scientifiche abbiano una presa definitiva sul nostro modo di vedere le cose e plasmino il pensiero altrui è destinata a fallire. Ognuno di noi, infatti, dà peso e tende a credere prima di tutto alle informazioni che confermano la propria visione del mondo. A spiegarlo a «Tuttosalute» è Tali Sharot, neuroscienziata dello University College di Londra, autrice di «La scienza della persuasione, il nostro potere di cambiare gli altri» (Urra Feltrinelli).
Professoressa, quali atteggiamenti sono controproducenti quando si vuole influenzare l’opinione altrui?
«Pensiamo che dare degli avvertimenti induca le persone a compiere certe scelte: agitiamo sui nostri figli lo spettro di punizioni se non riordinano la stanza, mentre sui pacchetti di sigarette c’è l’avviso “Il fumo uccide”. Ma molti studi dimostrano che questo approccio ha un impatto limitato. È più efficace alimentare la speranza, spiegando che cosa fare per migliorarsi: per esempio, spronando il proprio figlio con una frase del tipo: “Se riordini la stanza, ritroverai quel gioco che hai perso”. Anche dare ordini, poi, è poco produttivo, perché toglie all’interlocutore la sensazione di essere in controllo di se stesso e di scegliere, rendendolo così demotivato e ansioso».
Perché fornire dati e fatti spesso non funziona?
«Perché è come dire agli altri: “Io ho ragione e tu torto e ora te lo dimostro”. Anche se hai una borsa piena di prove sulla correttezza della tua opinione, le persone tendono a ignorarle. Per cambiare il pensiero altrui dobbiamo partire dagli aspetti che ci vedono d’accordo: pensiamo a questioni controverse come il legame tra autismo e vaccini. Fornire prove scientifiche contro tale tesi è inutile. Per aprire un dialogo produttivo è meglio partire da un’informazione che nessuno nega e cioè che i vaccini proteggono dalle infezioni».
Quali, allora, i fattori fondamentali per influenzare (positivamente) gli altri?
«Un approccio che mette davanti a tutto i fatti ignora ciò che ci rende umani, cioè desideri, motivazioni, paure. La scienza dimostra che, fornendo dati a supporto di una tesi già appoggiata dal nostro interlocutore, lui, o lei, li accetterà a braccia aperte. Altrimenti, li ignorerà. Se diamo a un amante della carne prove del fatto che mangiarla fa male, non ci darà credito e, viceversa, se le prove sono a favore della carne, ci darà ascolto. Abbiamo scoperto che, quando qualcuno è in disaccordo con le tue idee, il suo cervello è come si spegnesse per non assorbire quello che dici. Viceversa, se c’è un accordo, presta massima attenzione».
Che cosa è cruciale, quindi, per arrivare a un accordo?
«Fare leva sulle emozioni, prima di tutto. Il piano emotivo è un modo efficace per convogliare informazioni ed è più probabile ricordare un messaggio che solleciti l’emotività, la quale, poi, influenza le capacità mnemoniche. L’amigdala, che governa le emozioni, comunica con il centro della memoria, l’ippocampo, e con i lobi frontali che regolano l’attenzione».
E poi cosa si deve fare?
«Evitare di mettere in primo piano le cattive notizie e concentrarsi sugli aspetti positivi di una questione. Dare, infine, la sensazione di poter scegliere e di essere protagonista delle proprie decisioni: per il cervello questa condizione è gratificante come il cibo e l’acqua».

Repubblica 12.6.18
Psichiatria
Nostalgia. E la nostra storia diventa terapia
Il nuovo libro di Eugenio Borgna. Un’indagine sui modi in cui il passato riesce a farci affrontare il presente
di  Valeria Pini


Lo sguardo si ferma su una tovaglia a quadretti o su un barattolo di caramelle. Accarezza un viso che ricorda quello di una persona amata che non c’è più. Sono dettagli che fanno riemergere sensazioni che sembravano perdute. Si alza un velo e ci ritroviamo indietro nel tempo. I colori del nostro passato sono il tema che lo psichiatra Eugenio Borgna affronta nel suo ultimo libro, La nostalgia ferita. « Viviamo in un’epoca divorata da quello che accade nell’immediato, nulla viene inquadrato nel tempo, nella storia. Gli individui rifiutano la propria interiorità e questo ci svuota. Porta a vivere solo ciò che è occasionale».
Professor Borgna, perché è necessario rielaborare quanto accaduto?
«È importante recuperare la storia pubblica e interiore, perché quanto ci è accaduto dà continuità alla nostra esistenza. Gli episodi che ci hanno salvato nel passato ci danno forza per affrontare presente e futuro. Conoscere gli errori di ieri è prezioso. Serve nella sfera pubblica, per questo i politici dovrebbero conoscere la storia, ma anche nel privato. Le tracce di chi abbiamo amato e conosciuto devono restare ».
Perché pensiamo volentieri alla nostra infanzia e adolescenza?
« L’adulto ripensa a quel tempo inconsapevole in cui era “protetto” e dipendente dai genitori. Attingere a quel periodo ci aiuta, anche se si tratta di anni infelici. Ci dà la sensazione che oggi la vita ci può far realizzare quello che vogliamo. Ricordare la vita infantile o adolescenziale non è mai tempo perduto. È la premessa perché genitori, educatori e insegnanti possano avvicinarsi agli adolescenti, a quelli che stanno male in particolare, cercando di rivivere le proprie esperienze personali di gioventù».
Anche un sapore può riportarci
indietro nel tempo, come nel caso della madeleine di Marcel Proust.
« Tutte le sensazioni: le immagini, gli odori e i sapori regalano emozioni importanti. Arricchiscono la nostra vita interiore e ci aiutano a vivere in comunione con gli altri».
Ma la nostalgia può essere anche un modo per tirarsi indietro e non guardare avanti?
«In questo caso, temendo la paura e l’angoscia della morte, che sono rivolte al futuro, ci rifugiamo nel passato, nella nostalgia di un passato, quando le abbiamo già vissute, e siamo riusciti a superarle. Dalle esperienze di ieri rinascono allora le tracce di una speranza che ci consenta di guardare avanti. Passato, presente e futuro si ricongiungono così l’uno nell’altro».
La nostalgia può essere dolce, ma può fare anche ammalare.
« Quando si fa dolorosa e bruciante, si accompagna a depressione e ad angoscia. Diventa espressione di uno stato d’animo logorato dalla tristezza. Allora il male di vivere diventa malattia».
È spesso la condizione del migrante che abbandona tutto?
«Per chi deve fuggire dalla terra natale a causa delle terribili condizioni di vita, questo si accompagna a un infinito dolore. Lo si vede dai volti che la televisione ci fa vedere. Sono esistenze ferite che hanno bisogno di gesti concreti, ma anche di parole silenziose, come testimonianza di ascolto. Sono molti i migranti che si ammalano per il dolore».
Come curare chi si ammala?
«Con il dialogo, che non deve essere mai giudicante. È necessario cancellare le barriere fra paziente e medico. Solo così lo si può accompagnare verso la guarigione. Bisogna consentire di portare alla luce le sue esperienze per evitare che il suo cuore si spezzi. A volte servono anche i farmaci».
Come si conciliano i traumi subìti con il concetto di nostalgia?
«Anche in questo caso il passato va rielaborato. Non è possibile cambiare quanto accaduto, ma bisogna ripartire da lì per costruire qualche cosa. È necessario conoscere anche un passato doloroso e traumatico per fare luce sulla propria esistenza».
Perché alcune persone sono più nostalgiche di altre?
«Perché le emozioni sincere sono considerate inutili. La nostalgia è una levatrice di sentimenti che rende la vita più calda. Ma alcune persone sono prese da se stesse, vivono o nel narcisismo o nell’autismo, in un presente pilotato che non dà spazio alla nostalgia. Sono prigioniere di un mondo senza passato e senza speranza».

Repubblica 12.6.18
Laura non vuole più mangiare chissà perché
di Elena Bozzola

Pediatra, membro segreteria naz Sip

«Laura non vuole più mangiare e io non so cosa fare per convincerla. Mi può dare delle vitmine dottore?», chiede la mamma al pediatra appena entra nel suo studio. Tra le sue braccia, ecco Laura, di appena 6 mesi e mezzo. «Il tutto è iniziato dieci giorni fa - continua la mamma - dopo che l’ho portata alla visita di controllo. All’inizio ho pensato fossero capricci perché rifiutava la pappa. Ma almeno beveva il mio latte. Anche con la sorella Simona, quattro anni fa, ho fatto fatica a introdurre la prima pappa: alle mie figlie il brodino proprio non piace! Ma dopo un paio di giorni, la situazione è peggiorata: Laura ha iniziato ad attaccarsi sempre meno volentieri al seno. Che strano. Ho provato anche con il biberon, ma non ha fame». Il pediatra mette Laura sulla bilancia, la stessa su cui l’aveva pesata due settimane prima. In effetti la mamma ha ragione: Laura ha perso 150 grammi rispetto al controllo precedente. Il pediatra cerca allora di raccogliere qualche informazione in più: niente febbre, niente vomito, niente diarrea. «Anzi - aggiunge la mamma - Laura è l’unica in famiglia a non essersi ammalata questo mese. La sorellina tre settimane fa ha avuto la febbre fino a 40°C. Essendo venerdì sera, l’abbiamo portata in ospedale, dove le hanno prescritto l’antibiotico perché aveva le placche in gola. Dopo una settimana anche io e il papà abbiamo avuto un forte mal di gola». Ecco, potrebbe trattarsi di una faringite, pensa il pediatra.
Visita Laura: la gola non è rossa e non ci sono placche. E se fosse otite? Anche l’esame otoscopico è normale. Il pediatra chiede alla mamma se Laura è raffreddata o ha la tosse. La mamma nega. In effetti, quando il dottore la visita non sente né ronchi né sibili al torace. Ma allora perché Laura non mangia?

Corriere 12.6.18
Emergenza prof
di Massimo Gramellini


Ogni quattro giorni un insegnante viene picchiato dal padre o dalla madre di uno dei suoi studenti. Ecco un’emergenza che, provenendo dall’interno, non spaventa nessuno. Immaginate tutti questi prof su un barcone alla deriva, la scuola italiana, mentre cercano di attraccare al porto della nostra attenzione: centinaia di volti disfatti dai lividi per avere osato dare un quattro, quasi sempre meritato, invece di un sei. Ai genitori maneschi interessa il voto, mica il livello di preparazione. Non se la prendono con i maestri scarsi, ma con quelli severi.
L’ultimo bersaglio, Francesca Redaelli, è una professoressa di inglese che sulla soglia della pensione si è ritrovata all’ospedale di Padova con il setto nasale fratturato da un uppercut. Illuminante il grido di battaglia della pugile, la madre di un alunno: «Tr…, te la farò pagare, hai rovinato la mia famiglia». Nella sua testa, l’insuccesso scolastico del figlio non è un episodio infelice, e però rimediabile l’anno prossimo con iniezioni supplementari di impegno. È un’onta che segna in modo indelebile l’onore del clan. Caricata di significati così nefasti, la sconfitta non viene più attribuita a chi l’ha rimediata — il pupo di casa —, ma a un complotto che ha nel prof l’esecutore o addirittura il mandante. Il genitore che lo picchia non si sente un carnefice, ma una vittima, forse un giustiziere. Di questo passo per insegnare nelle scuole italiane servirà una laurea in arti marziali.

Il Fatto 12.6.18
Chiesa e pedofili, non basta la denuncia
di Marco Marzano


Per affrontare fenomeni globali ci vogliono organizzazioni globali. Questo vale anche in quello degli abusi sessuali commessi dal clero cattolico. È di ieri la notizia della costituzione, a Ginevra, dell’Eca (Ending Clerical Abuse), un’associazione internazionale formata da vittime di abusi e da attivisti contro la pedofilia clericale provenienti da quindici paesi sparsi in tutti i continenti. Del nuovo organismo, ricevuto a Ginevra da una delegazione di funzionari delle Nazioni Unite, fa parte anche l’italiana Rete L’abuso, rappresentata al suo presidente Francesco Zanardi, che ha per intanto reso noto al mondo intero un dettagliato dossier sul processo milanese contro don Mauro Galli, di cui si è occupato di recente anche FQ Millennium.
L’Eca indicherà all’opinione pubblica mondiale tutti i vescovi accusati di aver protetto i pedofili e inviterà il pontefice a creare un nuovo strumento centralizzato per individuare e punire chi ha coperto e tutelato i pedofili. Lo scopo della nuova istituzione è mostrare che il caso del Cile è più la regola che un’eccezione. Nel Paese sudamericano, poche settimane fa, tutti i membri dell’episcopato hanno rimesso il loro mandato nelle mani del pontefice, assumendosi di fatto la responsabilità di aver coperto i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali sui minori. L’Eca non solo invita il papa (che non ha ancora preso una decisione in materia) ad accettare in blocco le dimissioni di quei vescovi e a rinnovare la classe dirigente cattolica del Cile, ma lo esorta anche a epurare i dirigenti ecclesiali coinvolti negli scandali di questi anni.
La nascita dell’Eca è un evento incoraggiante per tutti coloro che desiderano contrastare la pedofilia clericale. Grazie al suo intervento sarà più facile mettere a confronto il comportamento dei diversi episcopati, incalzare la Santa Sede ad assumere un atteggiamento efficace nella limitazione del fenomeno e interloquire con l’Onu con gli altri organismi internazionali.
Tuttavia non bisogna farsi troppe illusioni, dal momento che il problema verrà davvero risolto solo se la Chiesa cattolica deciderà di mettere mano alla sua struttura organizzativa, procedendo anche a rivedere radicalmente le modalità attraverso le quali vengono addestrati i suoi funzionari.
Sono i seminari i luoghi dove il problema ha origine. È lì che si genera quella mentalità omertosa, collusiva e settaria che spinge i membri del clero a considerarsi parte di una casta superiore al riparo dalle responsabilità per le azioni che compie esercitando il proprio ufficio. Sono i seminari le palestre dove viene praticata quella sistematica repressione sessuale e quella sterilizzazione della sfera affettiva che, in molti casi, sono la vera radice della sessualità distorta e predatoria di chi pratica gli abusi.
Si potranno mettere in pratica tutte le epurazioni di questo mondo, ma il problema non verrà risolto sino a quando non si risalirà alle sue cause profonde, al suo motore primo, e cioè alla mentalità clericale e ad un modello organizzativo basato sulla superiorità di genere (e l’esclusione delle donne), lo spirito di corpo (e la superiorità sui laici), la disciplina ferrea e la sistematica repressione dei bisogni sessuali combinata con l’obbligo della solitudine affettiva, l’addestramento all’incapacità di amare e di identificarsi davvero nei sentimenti del prossimo.
L’Eca dovrebbe farsi promotrice, oltre che di puntuali azioni investigative su questo o quel vescovo, di un’azione di riforma complessiva della Chiesa cattolica, basata su solide evidenze scientifiche e nell’interesse generale di tutti i membri della società, e soprattutto dei più deboli. In questo modo, aiuterebbe moltissimo coloro ai quali sta a cuore la vita e la serenità dei bambini a scrivere un’importante pagina di storia.

Il Fatto 12.6.18
Abusi sessuali in Cile, il Papa accetta le dimissioni di 3 vescovi


Papa Francesco ha accettato le dimissioni di tre vescovi cileni: Juan Barros Madrid (Osorno), Cristian Caro Cordero (Puerto Montt) e Gonzalo Duarte Garcia de Cortazar (Valparaiso). Si tratta dell’ultimo episodio che coinvolge la chiesa cattolica in Cile nello scandalo degli abusi sessuali e della protezione del responsabile, il sacerdote Fernando Karadima. In Vaticano, il mese scorso, i vescovi cileni si erano dimessi in blocco ma ora il cerchio si è ristretto. “Comincia un nuovo giorno per la Chiesa cattolica in Cile!”, ha scritto sui social Juan Carlos Cruz, una delle vittime di Karadima. Cruz – che assieme a James Hamilton e José Andrés Murillo ha portato avanti le denunce contro Karadima e chi copriva i suoi abusi – ha aggiunto: “Se ne stanno andando tre vescovi corrotti, e altri seguiranno. È una vera emozione per i tanti che hanno combattuto per vedere questo giorno. La banda dei vescovi delinquenti comincia a disintegrarsi!”. Cruz ha voluto anche esprimere il suo “affetto” alla comunità di Osorno, la diocesi cilena alla quale era stato assegnato monsignor Barros nel 2015, e che non ha mai voluto accettarlo. Papa Francesco ha nominato amministratori apostolici per le tre diocesi. A quella di Osorno è stato destinato mons. Jorge Enrique Concha Cayuqueo.

Corriere 12.6.18
Attacchi choc a Ravasi che twitta il Vangelo
di Luigi Accattoli


CITTA’ DEL VATICANO In vita sua il cardinale Gianfranco Ravasi, 75 anni, biblista e presidente del Consiglio vaticano della cultura, non si era mai trovato in mare aperto, nel mezzo di una bufera di critiche, come gli è capitato ieri per un tweet che più biblico non poteva essere: «Ero straniero e non mi avete accolto (Mt 25,43) #Aquarius». Quella parola di Gesù riportata dal Vangelo di Matteo ha provocato l’approvazione di alcuni, ma anche l’ira di tanti. «Il Vaticano quanti migranti ha accolto?» è una delle risposte polemiche alla frase scritta in Rete dal cardinale. Un’altra: «Accoglieteli voi nelle vostre parrocchie e super attici e affidatevi alla beneficenza e alla provvidenza divina, il popolo italiano ha già dato e deve pensare ai suoi terremotati, disoccupati e indigenti». C’è chi gli fa il verso: «Ero italiano e mi avete massacrato dalle tasse costringendomi a licenziare le mie dipendenti». Con la variante: «Ero italiano e mi avete rovinato con le delocalizzazioni». Nel vasto gorgo della Rete i pochi che difendono Ravasi polemizzano con il cattolico Matteo Salvini postando la foto che lo ritrae davanti al Duomo di Milano, che sventola il Rosario, o invitandolo a leggere il Vangelo dell’evangelista suo omonimo che riferisce la sentenza di Gesù twittata dal cardinale. Ieri ha parlato anche un altro cardinale italiano, Francesco Montenegro, che ha maggiore competenza in materia: è arcivescovo di Agrigento (l’isola di Lampedusa appartiene alla sua diocesi) e presidente della Caritas italiana. Montenegro ha definito «una sconfitta della politica» la decisione del ministro Salvini di chiudere i porti italiani: «L’Europa deve prendere atto che nessuno può fermare questi flussi, che sono epocali, e non è chiudendo porti e rimbalzandosi le responsabilità che si troverà una soluzione. Dobbiamo prepararci a un mondo multietnico e non a chiudere porte e finestre».

Repubblica 12.6.18
Chiesa e sinistra, a Brescia il Pd resiste
Del Bono: “Abbiamo vinto perché non siamo arroganti”. Salvini striglia i suoi: non avete fatto tutti il vostro dovere
di Oriana Liso


BresciaLa festa al comitato elettorale, ieri sera, è stata organizzata in tutta fretta per una vittoria che neanche le più rosee previsioni davano così netta. Emilio Del Bono è ancora sindaco di Brescia per i prossimi cinque anni. Porta a casa una vittoria al primo turno con il 53,9 dei voti, stacca la candidata del centrodestra di quasi 16 punti. Movimento 5 Stelle quasi non pervenuto, i due candidati di estrema destra che ci avevano provato con lo slogan “ Basta feccia” prendono gli zero virgola dell’irrilevanza.
Un successo, per Del Bono e per il Pd, nonostante l’avanzata dell’astensione. « Abbiamo vinto perché non siamo stati arroganti, con un centrosinistra che si è allargato al civismo, che ha tenuto assieme tante anime » , dice il sindaco. Che usa due concetti per leggere la sua vittoria: «l’affidabilità e lo stare dentro le cose, sempre, per spiegare, prendersi le responsabilità e trovare soluzioni. Se riusciamo a essere un grande partito popolare, vinciamo ». Una ricetta con qualche altro ingrediente: una presenza non troppo ingombrante del Pd nazionale — uniche eccezioni, Maurizio Martina e Graziano Delrio, spazio ai sindaci lombardi, Sala, Gori, Palazzi — , legami saldi a sinistra — Leu era in una delle liste civiche — e una robusta storia nel volontariato cattolico dello stesso, moderato, Del Bono. Tutto amalgamato in una coalizione che ha vinto, al di là delle aspettative, in terra nemica: Regione di centrodestra, la Lega che ha fatto il pieno alle politiche. Ma i bresciani non hanno prestato orecchio ai richiami alla linea dura sull’immigrazione della candidata forzista Paola Vilardi, scelta da Mariastella Gelmini, con l’avallo dei leghisti lombardi.
Ieri Matteo Salvini, in via Bellerio, ha fatto mea culpa per alcuni risultati non esaltanti, come quello di Brescia, strigliando i suoi parlamentari: «Qualcuno anche dei nostri non ha fatto il suo dovere». Perché è vero che qui la Lega ha fatto un buon risultato, marginalizzando Forza Italia, ma Del Bono ha preso voti anche nei quartieri popolari, dove si concentrano quei 37mila immigrati regolari che rappresentano oltre il 17 per cento dell’intera popolazione. « Qui c’è un grande sforzo di integrazione — racconta Enzo Torri, direttore dell’Ufficio impegno sociale della diocesi — , l’amministrazione ha sempre lavorato con la curia, il terzo settore, mettendo assieme accoglienza e fermezza, quando serve ». Un mix di buone pratiche, di pragmatismo, di lavoro sul territorio — che ha raccolto il favore anche delle grandi famiglie della buona borghesia — tanto che Del Bono ( che si schermisce: « Io segretario del Pd? Non scherziamo » ) lega a questo il risultato scarso dei 5 Stelle (5,5 per cento): « Dove non c’è terreno per l’antipolitica si fermano».
La vittoria di domenica lenisce, in parte, le ferite del 4 marzo. Con questo risultato, che un Pd dal basso profilo sa a chi attribuire: « Siamo stati degli ottimi gregari — ammette il segretario cittadino dei dem Giorgio De Martin — ma il campione è Del Bono: i bresciani hanno riconosciuto le sue capacità, e hanno premiato anche noi».

il manifesto 12.6.18
Destra mutante, M5S sotto schiaffo, Sinistra in apnea
di Norma Rangeri


A gran velocità nel processo di mutazione della destra italiana, il voto amministrativo ha acceso un grande semaforo verde per la Lega che corre portandosi dietro tutto il centrodestra. Per i 5Stelle il semaforo ha fatto scattare la luce gialla della frenata e in alcuni casi, per esempio nei due mega-municipi di Roma, quella rossa della sconfitta.
L’avanzata leghista, significativamente al ballottaggio in una città simbolo come Terni, premia la propaganda da pugno di ferro contro l’immigrazione, con annessa guerra ai nuovi schiavi che «rubano il lavoro agli italiani». Il voto amministrativo conferma questa impronta culturale, in linea con quello politico del 4 marzo e con l’attuale assetto del governo gialloverde.
La voce grossa di Salvini sovrasta quella dei 5Stelle sull’immigrazione, e non solo. Il partito di Di Maio parla con voci diverse, da quella del sindaco di Livorno Nogarin al presidente della Camera Fico, a quella di altri parlamentari e consiglieri pentastellati.
La forza propulsiva della Lega, che riprende Treviso al Pd, fa man bassa a Pisa, dove diventa il primo partito, porta Siena e Imola al ballottaggio, lascia poco spazio ai ragionamenti che pure inevitabilmente i fattori puramente localistici del voto comportano (per esempio la resurrezione di Scajola a Imperia).
Per effetto della locomotiva leghista al centro-nord, o a causa delle liste civiche dei potentati di sempre al Sud (Catania e Messina), il centrodestra, di lotta e di governo, da palazzo Chigi e dall’opposizione, domenica ha fatto man bassa.
Il Pd, il partito che secondo l’ex ministro Orlando «non esiste più in gran parte del paese», prende il sindaco a Trapani e a Brescia, e spera nei ballottaggi. Dove però potrebbe essere definitivamente cancellato dal possibile sommarsi dei voti pentastellati e leghisti, avversari ovunque al primo turno, ma possibili alleati nel secondo e decisivo round. E se, proprio in polemica con Orlando, l’ex presidente del consiglio Gentiloni tenta di rincuorare la base osservando che «forse la notizia della morte del Pd era esagerata», vuol dire che, allo stato dei fatti, basta galleggiare per esistere.
Dentro la battaglia nazionale ingaggiata dai partiti soprattutto nei venti capoluoghi, nella Capitale c’è stata una sfida municipale assai significativa. Due municipi erano chiamati a elezioni anticipate per la crisi nella stessa maggioranza pentastellata innescata dalle dimissioni di alcuni consiglieri. A Roma, dove governa la sindaca Raggi ormai da due anni, i 5Stelle subiscono una dura batosta.
Se si considera che una sola delle due municipalità (la zona est) conta 200mila abitanti, quanti una città grande come Trieste, è evidente il peso di un risultato che punisce i grillini e premia lo schieramento di centrosinistra. Tuttavia sarebbe saggio non indulgere a facili entusiasmi: i romani chiamati alle urne non hanno nemmeno raggiunto un terzo dei votanti fermandosi al minimo storico del 26% quando solo alle ultime elezioni regionali aveva votato il 66%. Tutti gli altri, la grande maggioranza del 70% di questa enorme fetta di città, ha preferito andare al mare.

il manifesto 12.6.18
La Fortezza Europa ringrazia Salvini
di Guido Viale


«Garantiamo una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia». Così il ministro della Repubblica Salvini, nell’atto di negare l’accesso ai porti italiani a una nave di Sos Mediterranée con a bordo con 629 profughi (non tutti «ragazzi»; ci sono anche 7 donne incinte, 11 bambini e 123 minori non accompagnati). Ora ad accoglierli sarà la Spagna e non sarà facile, anzi. Ma poi c’è in vista anche il blocco di una seconda nave, la Sea Watch, in attesa di altri naufraghi salvati da navi mercantili e di decine di gommoni stracarichi che non troveranno più navi delle Ong a raccoglierli, per le quali si prospettano ulteriori e drammatiche strette.
La «vita serena in Africa» che Salvini offre a quei ragazzi è il ritorno in Libia.
Con le donne stuprate in modo seriale, gli uomini venduti come schiavi e tutti e tutte torturate, affamati, ricattate, ammazzati come insetti. Quanto a quella garantita ai «nostri figli», anche per loro c’è l’emigrazione; certo in condizioni di maggiore sicurezza, ma per andare a fare i lavapiatti dopo una laurea o un diploma.
Così si svuotano i paesi «periferici» – dell’Africa, con il politiche coloniali tutt’altro che finite; ma anche dell’Europa, con l’«austerità» – delle forze migliori; purché quelle peggiori continuino a governare.
«Tutta l’Europa si fa gli affari suoi», aggiunge «vittorioso» Salvini. Ma in realtà è lui che fa gli affari sporchi per conto di tutti coloro che sono al governo dei paesi europei. Perché per difendersi dal «nemico» – che ormai sono i profughi, e solo loro – la Fortezza Europa ha tracciato due distinti confini: uno alle frontiere esterne dell’Unione: muri, reticolati, filo spinato, guardie, cani, hot spot, eserciti, navi militari, leggi, regolamenti di polizia, accordi e laute mance per i governi dei paesi di transito, truppe mascherate da consiglieri e chilometri di costosissimi impianti di sorveglianza. L’altro alla frontiera delle Alpi (e a Idumeni o a Lesbo), per impedire a chi è già arrivato in Europa senza affogare di raggiungerne il cuore: i paesi dove ha parenti, amici, compatrioti che lo aspettano e forse persino la possibilità di trovare lavoro.
Per questo le alternative, per l’Italia e il suo governo, sono due: o rafforzare ulteriormente il primo di questi confini o cercare di «sfondare» il secondo. Salvini, in perfetta continuità con il predecessore Minniti, ha scelto la prima, aumentando la dose con il blocco dei porti e rivendicando per sé una responsabilità che i suoi colleghi europei non hanno il coraggio di assumersi: di far affogare, morire di fame e di sete, respingere e rinchiudere nel lager libico i fuggiaschi che l’Europa non vuole accogliere. Ma Salvini sostiene, con questa sua scelta, di voler mettere alle strette il resto d’Europa: non rivendicando l’apertura dei confini alle Alpi, la libera circolazione di profughi e richiedenti asilo, un grande piano di investimenti – magari, per la rigenerazione ambientale dell’Europa – che offrirebbe occasioni di impiego anche a tutti i nuovi arrivati e ne favorirebbe l’accettazione da parte delle comunità locali (preparando magari anche le condizioni per un ritorno volontario, dopo qualche anno, nei paesi da cui sono scappati, per ricostruirlo). Senza un piano del genere, infatti, anche l’accoglienza non ha futuro. Invece Salvini chiede un maggior impegno europeo nel rafforzamento dei confini «esterni»: più soldi a chi si impegna nei respingimenti, più navi a sbarrare le rotte marine, più leggi e regolamenti liberticidi, più deroghe alle convenzioni internazionali, più campi di concentramento fuori dei confini dell’Unione, ecc. Per questo, di fronte a una timida proposta di riforma della convenzione Dublino 3 – che impone ai profughi di rimanere nello stato di approdo – Salvini si è alleato con i governi più ferocemente ostili ai migranti, quelli capeggiati dall’ungherese Orbán, le cui politiche comportano di fatto un aggravamento degli oneri che gravano sull’Italia. Salvini queste cose le sa, come sa che i respingimenti su cui ha basato tutta la sua campagna elettorale sono impossibili e si risolvono solo in più «clandestinità», lo «stato giuridico» dei senza diritti istituito dalla legge Bossi-Fini. Centinaia di migliaia di profughi e migranti senza permesso di soggiorno, o perché «denegati» per le spicce, o perché rimasti senza lavoro; tutti messi per strada e costretti ad arrangiarsi: a cader vittime della tratta, a raccogliere arance e pomodori o mungere vacche nei tanti lager dispersi in tutte le campagne del paese, a rischiare la vita nei cantieri illegali, ad elemosinare o a farsi reclutare dalla malavita, ad accamparsi sotto i viadotti. È questa la situazione che «crea allarme» nel paese e su cui Salvini e i partiti come il suo stanno costruendo le proprie fortune elettorali – ma non solo – in tutta Europa; nel doppio ruolo di vittime e di persecutori di un popolo di persone private di tutto: nella speranza che nessuno possa o voglia più guardare negli occhi quegli esseri umani senza diritti.

il manifesto 12.6.18
«La Spagna è un porto sicuro», Sánchez offre Valencia
Immigrazione. Il nuovo governo nel segno della solidarietà: «La nave Aquarius venga da noi». Per l’accoglienza dei profughi si sono già fatti avanti Paesi baschi, Navarra, Baleari, Extremadura, Madrid e Barcellona
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA «Il presidente del governo, Pedro Sánchez, ha dato istruzioni perché la Spagna rispetti gli accordi internazionali in materia di crisi umanitarie e ha annunciato che accoglierà in un porto spagnolo la nave Aquarius, nella quale si trovano più di 600 persone abbandonate alla loro sorte nel Mediterraneo. Per questa ragione, è nostro obbligo aiutare a evitare una catastrofe umanitaria e offrire ‘un porto sicuro’ a queste persone, rispettando gli obblighi del Diritto internazionale».
Con questo comunicato, il governo spagnolo ha sbloccato ieri la tragica vicenda della nave Aquarius e dei suoi 629 profughi in condizioni estreme. Il breve testo è arrivato nel primo pomeriggio di ieri, dopo che sindaci come Ada Colau (Barcellona), Manuela Carmena (Madrid) e Joan Ribó (Valencia) avevano chiesto al governo centrale di prendere posizione sulla crisi in atto nelle acque antistanti le coste italiane. Ed è proprio la città di Valencia quella scelta da Sánchez per accogliere i profughi. La comunità valenziana è guidata dal compagno di partito (ma non di cordata) di Sánchez, Ximo Puig, appoggiato da Compromís, partito alleato di Podemos, mentre il sindaco valenziano, di Compromís, Joan Ribó, guida una giunta appoggiata dai socialisti.
Anche Alberto Garzón, leader di Izquerda Unida, in mattinata aveva chiesto al nuovo esecutivo di Madrid di offrire i suoi porti e suoi mezzi «per salvaguardare i diritti umani che il governo italiano nega». E in un tweet Podemos qualifica come «buona decisione» quella presa da Sánchez e gli chiede finalmente di rispettare la quota di rifugiati che la Spagna si era impegnata ad accogliere con l’Unione Europea. Delle 17.337 persone che il governo Rajoy aveva promesso di accettare (più di 9mila delle quali erano «obbligatorie»), ne sono arrivate meno di 2mila. I restanti paesi europei, in media, ne hanno accolte fra il 50% e il 60% di quelle accordate, secondo i dati resi noti da Oxfam Intermon proprio pochi giorni fa. La scadenza per questi impegni (presi nel 2015) è la fine di settembre di quest’anno.
Il neopresidente, dall’insediamento del suo governo, si sta muovendo con molta accortezza, misurando con attenzione i gesti e i segnali. Il primo presidente a giurare senza Bibbia e crocifisso – il gesto simbolico che ha aperto la stagione del nuovo governo – ha dato una lezione di umanità a chi in Italia, come i ministri Di Maio e Salvini, e il premier Conte, della religione fanno sfoggio. Anche nel caso Aquarius, così come avvenne con la fulminea mozione di sfiducia a Rajoy subito dopo la sentenza sulla corruzione del Partito popolare (a proposito, ieri, è arrivata un’altra batosta per il ramo valenziano del partito, con un’ulteriore sentenza per corruzione), Sánchez ha colto l’opportunità al volo di lanciare un messaggio. Sia verso l’Europa, sia verso chi in Spagna gli reclamava un ulteriore gesto di discontinuità rispetto al suo antecessore.
Due settimane fa una decisione di questo genere sarebbe stata impensabile: la stessa Ada Colau durante la crisi per la nave di Proactiva Open Arms bloccata dal governo italiano a marzo spiegava al manifesto che «il problema è che i porti li controlla lo stato, così come i flussi migratori», aggiungendo che se fosse uno stato, «la città di Barcellona farebbe di tutto per accogliere le navi di Open Arms e salvare esseri umani». Allora il governo spagnolo fu molto tiepido (pur appoggiando la Ong catalana). Stavolta Sánchez ha preso il toro per le corna.
Il neo ministro degli Affari esteri, Ue e cooperazione Josep Borrell ha dichiarato che la decisione, che ha definito «personale e diretta» del capo del governo, è «senza dubbio una vittoria per la gente che sta sulla nave».
Intanto si moltiplicano le offerte di aiuto: il capo del governo basco, il lehendakari Iñigo Urkullu si è già offerto di accogliere in Euskadi una sessantina di profughi. Analoga proposta è arrivata anche dalla Navarra, dalle Baleari, dall’Extremadura e dalle città di Barcellona e Madrid. La vicepresidente valenziana Mónica Oltra ha ringraziato pubblicamente Sánchez per la «rapidità» e «sensibilità» con la quale ha risposto il governo e ha annunciato che offrirà all’Onu Valencia come «porto sicuro» (safe harbour).

il manifesto 12.6.18
Nespolo, presidente nazionale dell’Associazione partigiani: avvilenti i 5 Stelle a rimorchio del razzismo
Il blocco navale del governo gialloverde. «L'odio verso i deboli di Salvini era noto. I grillini hanno meno voti della Lega ma sono subalterni anche al linguaggio violento. A questo punto si facciano sentire i loro elettori. Toninelli dice che con il nuovo esecutivo c'è un vento nuovo? E' il vento vecchissimo dell'egoismo, gli italiano lo hanno già sconfitto una volta»
di Andrea Fabozzi


«Bloccare in mare le persone è una atto malvagio che ci offende come donne e uomini», dice Carla Nespolo, presidente nazionale dell’Associazione partigiani. «Salvini si vanta dell’uso della forza, ma non l’ha diretta contro l’Europa, come dice, bensì contro donne incinta e bambini senza genitori. È stato violento con i più deboli. Ora la nave va in Spagna, c’è un governo nuovo e democratico, lì. Un po’ dell’onore dell’Italia lo hanno difeso i sindaci che hanno messo a disposizione i porti delle loro città: Napoli, Messina, Ravenna, Taranto, Palermo, Reggio e Livorno tra le altre».
Il sindaco di Livorno ha cancellato l’offerta per non creare problemi al governo.
Ha fatto sentire una voce diversa ma ha subito taciuto. La vicenda potrebbe dimostrare che dentro il Movimento 5 Stelle si sta aprendo un confronto. C’è da augurarselo. Anche perché il vero problema sta lì.
In che senso?
Che il ministro dell’interno avesse come linea politica l’odio verso i più deboli era cosa nota. Che sia lo stesso anche per i 5 Stelle è avvilente.
È grillino il ministro delle infrastrutture responsabile della chiusura dei porti.
Ho trovato agghiacciante la dichiarazione di Toninelli che ha detto «con noi soffia un vento nuovo». Nuovo? Con voi soffia il vento dell’egoismo e della mancanza di umanità. Se lo chiamate «nuovo» significa che non conoscete per nulla la storia. È un vento che il popolo italiano ha conosciuto. E sconfitto.
Si aspettava più autonomia da parte dei grillini?
Dobbiamo sentire la voce di chi dissente, se c’è. Altrimenti stiamo vedendo all’opera il governo più razzista del dopoguerra. Al momento parlano con una voce sola, quella di Salvini. La subalternità dei 5 Stelle alla sua linea è evidente. Salvini si impone anche nello stile, nelle forme di comunicazione. I tweet violenti non sono un dettaglio di cattivo gusto, servono ad affermare che il vero capo è lui. A questo punto penso che sia il caso di rivolgersi a tutti quelli che in buona fede, e per certi versi anche comprensibilmente, hanno votato i 5 Stelle per convinzione democratica e da sinistra.
Per dirgli cosa?
Semplicemente: dove siete? Perché non vi fate sentire? Perché non chiedete il rispetto del vostro voto e delle vostre idee? Votando 5 Stelle cercavano giustizia sociale e hanno finito per votare Salvini con la sua politica razzista e di odio.
I 5 Stelle sono il partito di maggioranza relativa.
Con il 32% hanno preso il doppio dei voti della Lega e adesso sono in tutto e per tutto al rimorchio. Dieci giorni fa i loro ministri, come tutti gli altri e il presidente del Consiglio, hanno giurato sulla Costituzione antifascista. Che ha il suo cardine nel rispetto della vita umana e dei diritti umani, dell’uguaglianza senza distinzioni di razza , lingua e religione.
Non è altrettanto disonorevole una reazione della società civile non all’altezza?
Certamente, ma non vorrei che fosse sottovalutato il gesto dei sindaci. So bene che questo è il paese dei razzisti che vanno a messa la domenica. Ma sono convinta che l’Italia sia ancora, nel profondo, un paese democratico. Anche se, certo, vedo i passi indietro che abbiamo fatto. E vedo le responsabilità di chi diffonde odio ed egoismo, facendoci retrocedere come collettività. Bisogna che si torni a parlare a voce alta di solidarietà e rispetto. Anche perché questo non sarà un singolo episodio.
Purtroppo è sicuro. Salvini dichiara di aver «vinto» ed è pronto a replicare il blocco con la prossima nave.
C’è davanti a noi un vero e proprio scontro di civiltà, sono in campo due visioni opposte del mondo. È compito nostro, delle associazioni come delle singole persone democratiche, lavorare per difendere e far crescere una coscienza civile e democratica, per sconfiggere la brutalità e l’odio. Con l’Arci, l’Azione cattolica, Libera, Legambiente e altre associazioni abbiamo denunciato «l’imperdonabile errore di alzare nuovi muri di odio e paura che aumentano le disuguaglianze». Siamo in campo.

il manifesto 12.6.18
Aquarius, scaricabarile Europa. E la destra affila le armi
Ue. La debolezza delle politiche comuni sui migranti apre alle «soluzioni» sovraniste di Austria ed Est. Domani dibattito al parlamento europeo in plenaria su proposta di Verdi e Socialisti
di Anna Maria Merlo


PARIGI Venerdì Giuseppe Conte è invitato all’Eliseo, lunedì sarà a Berlino da Angela Merkel: il dramma degli esiliati sarà al centro degli incontri. Intanto la politica dello scaricabarile per scardinare l’embrione di politiche comuni sull’immigrazione nell’Unione europea va a gonfie vele. L’estrema destra utilizza la debolezza europea su questo fronte – l’immigrazione non è una politica comune – nel tentativo di affossare la ricerca di una soluzione.
Matteo Salvini, prima di venire a conoscenza dell’offerta spagnola, del resto, ha affermato con sicumera che «la Spagna difende i confini con le armi», come tutta l’Europa che «si fa gli affari suoi». La Commissione è in difficoltà, dopo il fallimento del Consiglio europeo della settimana scorsa sugli esiliati.
Ieri Bruxelles ha evitato persino di citare chiaramente Italia e Malta nell’intervento del portavoce Margaritis Schinas sul dramma dell’Aquarius: «Chiediamo a tutte le parti in causa di contribuire a una soluzione rapida, perché le persone a bordo della nave Aquarius possano essere sbarcate in sicurezza appena possibile», si è limitata a dire la Commissione (Malta ha poi accettato di rifornire Aquarius).
Il commissario all’Immigrazione, Dimitris Avramopulos, si è complimentato con la Spagna, «vera solidarietà messa in pratica». Ci sono stati contatti continui nel fine settimana e ieri tra Bruxelles e i due paesi implicati nel braccio di ferro per trovare una soluzione per «un imperativo umanitario». E ieri, su iniziativa del gruppo di Verdi e Socialisti, è passata con 212 voti a favore la proposta di dibattito sul caso Aquarius in plenaria al Parlamento europeo: si terrà domani.
L’Alto Commissariato ai rifugiati dell’Onu, invece, ha citato esplicitamente Italia e Malta chiedendo «un’autorizzazione immediata» per l’attracco dell’Aquarius: «C’è gente in difficoltà, sono a corto di provvigioni, hanno bisogno di aiuto immediatamente – ha detto Vincent Cochetel, responsabile dell’Alto commissariato per il Mediterraneo centrale – La questione più ampia di sapere chi ha la responsabilità e come queste responsabilità debbano essere condivise tra Stati dovrà essere affrontata più tardi».
Per il gruppo dei socialisti europei, «è disgustoso che il nuovo governo italiano sia pronto a rischiare centinaia di vite innocenti, comprese quelle di bambini e donne incinte, solo per tenere in piedi una campagna elettorale permanente ai fini di politica nazionale». Il gruppo dei Verdi sottolinea «la necessità della riforma del diritto d’asilo e degli accordi di Dublino». Il governo tedesco ha chiesto «a tutte le parti in causa di non sfuggire la responsabilità umanitaria».
In Francia, silenzio da parte del governo, che non ha risposto alla richiesta della Licra (Lega contro il razzismo e l’antisemitismo) di accogliere la nave. Médecins sans frontières se ne rammarica, ma insiste: l’importante è che venga rispettato il diritto del mare. Dall’Ungheria, Viktor Orban ricorda che non vuole «le quote», ma si dice pronto ad aiutare l’Italia.
La destra europea affila le armi sull’immigrazione. Dal Belgio, il segretario di Stato all’asilo e all’immigrazione, il nazionalista fiammingo Theo Francken, ha ricordato con cinismo (e ammirazione) che «Salvini fa quello che ha promesso in campagna elettorale».
Nei giorni scorsi, il primo ministro liberale danese Rasmussen, sostenuto dall’esterno dai populisti del Partito del popolo, ha fatto sapere che al vertice di Sofia del 17 maggio tra i 28 e 5 paesi dei Balcani, alcuni partecipanti dell’Ue hanno discusso sul «nuovo regime europeo dell’asilo», per la presidenza austriaca (che inizia il 1° luglio) una priorità.
Il premier austriaco Sebastian Kurz, da vero cuore di tenebra, ha rivelato che «un circolo ristretto» di paesi sta pensando alla creazione di centri di ritenzione per esiliati fuori dai confini Ue: nei Balcani, in Albania e in Kosovo (entrambi candidati ad entrare nella Ue). La ministra dell’immigrazione danese, Inger Stojberg, ha detto di «essere sempre pronta a esaminare delle buone idee».
Dopo il fallimento del Consiglio dei ministri degli Interni, la questione dell’asilo e della riforma di Dublino sarà sul tavolo del prossimo vertice dei capi di Stato e di governo, il 28 e 29 giugno. La Commissione ha rimesso nel cassetto la proposta delle quote di rifugiati da redistribuire tra i membri, iniziativa fallita e nei fatti mai partita.

il manifesto 12.6.18
La Guardia costiera libica cita e incoraggia il ministro Salvini
Caos Libia. Un comandante della stessa Guardia costiera, di Zawia, colpito la scorsa settimana, insieme ad altri 5 libici e eritrei, da sanzioni Onu come boss del traffico di esseri umani
di Rachele Gonnelli


C’è una curiosa concordanza tra le esternazioni del portavoce della Guardia costiera libica Ayoub Qassem e di Matteo Salvini, che ha appena preso il posto al Viminale di Marco Minniti. Soltanto 48 ore prima dei soccorsi in mare dei primi 200 naufraghi a bordo della Aquarius ha attaccato a testa bassa le ong che si prodigano nei soccorsi nel Mediterraneo. Parlando all’agenzia Aki ha detto che le ong umanitarie: «Sono tutte slogan scintillanti e toccanti sui diritti umani ma traggono profitto dalla sofferenza dei migranti africani». Di più: «Hanno piani segreti per svuotare l’Africa dai giovani e rubare le fortune del continente». Concludendo: «Non abbiamo bisogno di ong dubbie senza ideologie chiare».
Non contento ieri parlando con l’Agenzia Nova lo stesso Ayoub Qassem ha dichiarato, concordando con l’iniziativa di Salvini di chiudere i porti italiani: «La decisione dell’Italia potrebbe ridurre le partenze dei migranti verso l’Europa ma aumenterà le sofferenze di coloro che sono nel Mediterraneo». Per finire con la previsione: «Il messaggio che Salvini ha voluto lanciare è che l’Europa ha smesso di accoglierli e questo atteggiamento spingerà i migranti africani a pensarci bene prima di salire sui barconi della morte verso l’Italia».

Corriere 12.6.18
La rottura dell’isolamento
di Goffredo Buccini


Qualcosa di storico è accaduto, ammetterlo non è di destra o di sinistra: è puro realismo. Non c’è da cantar vittoria né da menar scandalo ma c’è, semplicemente, da tirare tutti assieme un profondo sospiro di sollievo.
Per la prima volta, dopo anni di isolamento nei quali l’Italia era stata ridotta dai suoi partner europei a imbuto rovesciato e sigillato delle migrazioni, il tappo è saltato, il sigillo s’è rotto.
La nave Aquarius, con i suoi 629 migranti (tra cui undici bambini e sette donne incinte) non approderà in un nostro porto ma in quello di Valencia, grazie all’apertura del nuovo premier spagnolo, il socialista Pedro Sánchez.
Difficile non riconoscere che questo sia un buon risultato a meno di essere ostaggi dell’ideologismo più accanito. Difficile, in egual misura, non vedere come questo risultato sia frutto di un grosso azzardo politico e giuridico giocato sul filo del rasoio dal ministro degli Interni italiano e capo della Lega, Matteo Salvini: qualcosa che poteva tramutarsi in tragedia se appena i dadi della sorte si fossero girati altrimenti.
Questo azzardo muoveva da ragioni in parte comprensibili e certamente condivise da una grande fetta dell’elettorato cui Salvini non smette di rivolgersi pure nei suoi primi passi istituzionali. Quando, tra sabato e domenica, la Aquarius ha raccolto con una serie di interventi il suo carico di umanità disperata, s’è riproposto un canovaccio che tutti conosciamo da troppo tempo: l’ennesimo rifiuto di Malta di farsi carico dei profughi nel suo spicchio di Mediterraneo (a ragione o a torto nel caso di specie, a questo punto, poco importa); e il consueto non cale dell’Unione Europea e della comunità internazionale: si tratta di una faccenda che devono sbrigarsi maltesi e italiani, ci veniva detto da qualche portavoce della Commissione (il commissario Dimitri Avramopoulos ha poi con medesima leggerezza lodato la «vera solidarietà europea» finalmente mostrata con la scelta di Sánchez). Non risultavano, in quelle ore angosciose di stallo nel mare, solidali prese di posizione da chi, come Emmanuel Macron, aveva sostenuto che l’Italia fosse stata vittima di un fenomeno migratorio «brutale»; o da chi, come Angela Merkel, aveva mostrato comprensione per il nostro lungo isolamento.
C’è, in questo azzardo, finito bene anche per il desiderio politico di Sánchez di marcare subito una netta differenza col proprio predecessore, il conservatore Rajoy, un risvolto cinico che non può sfuggire. E che sta alla base delle vibrate proteste (e minacciate denunce) di un fronte che va dalla sinistra ai radicali, dalla Chiesa alle organizzazioni umanitarie. La domanda posta è semplice: si poteva (si potrà) giocare una simile partita sulla pelle di profughi, famiglie, bambini, madri in fuga da violenza, paura e morte? Si può negare il soccorso in mare nel nome della ragion di Stato? Il fronte umanitario, tuttavia, mostra di dimenticare totalmente la condizione del nostro Paese (frontiere sigillate, Schengen sospeso de facto e flussi frenati a tempo e solo dall’attivismo di Marco Minniti): con uno scontro tra ultimi che sta minando il patto sociale e la convivenza democratica specie nelle aree più svantaggiate delle nostre metropoli. E soprattutto quel fronte pone, a nostro avviso, la domanda in termini impropri.
La mossa di Salvini, prima del clamoroso colpo di scena spagnolo che ne ha «europeizzato» il contesto, era rivolta alle Ong e al loro rapporto controverso con l’Italia: è palese che un blocco, per odioso che sia, si possa semmai applicare a navi attrezzate e sicure come le loro, non certamente a «boat people» sul punto di affondare. I migranti dell’Aquarius erano già in salvo e nostre motovedette avrebbero rifornito la nave in caso di bisogno.
Resta un elemento morale quasi indigeribile, è vero: l’idea di far politica gettando sul tavolo verde vite umane. E resta il retrogusto un po’ grottesco d’una battaglia diplomatica tra una potenza mondiale (lo siamo ancora?) e uno staterello grande appena sei volte l’isola di Ischia. Ma, d’altra parte, resta un improvviso cambiamento di scenario che può avvantaggiare gli stessi migranti e cambiare di nuovo la narrazione delle migrazioni in Italia.
Il caso Aquarius e l’esempio spagnolo costituiscono precedenti da cui sarà difficile tornare indietro. In qualche modo si cambia il trattato di Dublino nei fatti prima ancora che nei dossier della diplomazia. Nuovi azzardi sono però sconsigliabili. Non sarà male riprendere il lavoro di Minniti con i libici per evitare un’estate di bracci di ferro. Ricordando che rompere l’isolamento italiano non è una partita di fazioni. E risolvendo magari qualche contraddizione: perché a isolarci di più sono stati sinora i Paesi dell’Est europeo, quel gruppo di Visegrád capitanato dall’ungherese Orbán che Salvini sembra avere eletto a stella polare.

Il Fatto 12.6.18
Ecco perché Salvini ha vinto anche se ha torto (ma perderà)
di Antonio Padellaro

Ecco perché Matteo Salvini ha ragione anche se ha torto. Salvini ha ragione perché l’Unione europea, e gli altri Paesi che ne fanno parte, con i loro costanti “me ne fotto” alle ripetute richieste di aiuto dell’Italia sulla questione migranti gli hanno regalato una campagna elettorale coi fiocchi. Anzi, per mostrarsi un minimo riconoscente il leader leghista dovrebbe ora spedire a Bruxelles un bel mazzo di fiori. Infatti, se l’Europa non si fosse mostrata così stupidamente sorda e insensibile, lasciandoci affogare in un mare avete capito di cosa (come riconosciuto dalla stessa Merkel, purtroppo a babbo morto) Salvini, probabilmente, si sarebbe dovuto trovare un lavoro onesto. Invece che impazzare dal Viminale a colpi di diktat, bloccando navi e chiudendo porti come giocasse a Risiko.
Salvini ha ragione perché con il fiuto volpino che gli va riconosciuto ha scelto il giorno giusto (una domenica elettorale), la nave giusta (una Ong con bandiera di Gibilterra) e il nemico giusto (la minuscola e chiacchierata Malta) per sferrare l’attacco. Al grido di “spezzeremo le reni a La Valletta” oggi canta vittoria.
Salvini ha ragione perché dichiarando guerra a 629 africani in balia delle onde è diventato l’eroe di un altro pezzo d’Italia, che si aggiunge a quello che lo vorrebbe già proclamare duce. Come dimostra l’ulteriore avanzata del Carroccio nelle Amministrative di domenica.
Salvini ha ragione perché con l’editto del 10 giugno ha dimostrato chi comanda davvero nel governo gialloverde testé inaugurato. Fedele alla massima del prima meno e poi discuto, solo dopo aver comunicato al mondo le decisioni prese le ha trasmesse al ministro delle Infrastrutture grillino, Danilo Toninelli, competente per i porti. Dopodiché, con gesto di squisita cortesia, ne ha messo al corrente il collega vice Luigi Di Maio. Dicono i maligni che il premier (?) Giuseppe Conte abbia appreso la notizia dai tg.
Salvini ha torto perché la sua è una vittoria di Pirro. Sul problema immigrati, l’Ue continuerà tranquillamente a fottersene perché non c’è un solo Paese, tra i 27, che voglia seriamente accollarsi una minima parte del peso che da sempre ricade sull’Italia. Per ragioni geografiche: siamo l’approdo naturale per chi parte dalle coste africane. E per demerito dei leghisti predecessori di Salvini che firmarono gli sciagurati accordi di Dublino sul Paese di prima accoglienza che si becca tutto il cucuzzaro.
Salvini ha torto perché oggi ha trovato il premier spagnolo, il socialista Pedro Sánchez disposto ad accogliere i profughi dell’Aquarius. Un atto definito di “buon cuore” dal medesimo Salvini, ma piuttosto umiliante per il nostro Sparafucile. Senza contare che nella stagione estiva degli sbarchi, di navi Aquarius ne arriveranno chissà quante. E allora il ministro degli Interni dovrà decidere se lasciarle alla deriva, attirandosi e attirando al governo le accuse più infamanti di disprezzo per la vita umana. Oppure cuccarsi in silenzio gli sbarchi.
Salvini ha torto perché dopo aver tenuto in ostaggio per un’intera giornata 629 persone, tra cui numerosi bambini e alcune partorienti, la sua immagine è già irrimediabilmente macchiata. L’obbligo della salvezza in mare è una legge universale a cui per nessuna cinica ragion di Stato si può derogare.
Salvini ha torto perché, dopo il trattamento subito, nel M5S crescono i malumori per un’alleanza di fatto sbilanciata dal protagonismo dal socio di minoranza. Senza contare l’emergere nel Movimento di sensibilità diverse rispetto alla politica dei negher fora di ball. Come dimostra l’annuncio dell’apertura del porto di Livorno (poi ritirato) del sindaco grillino Nogarin. E il viaggio del presidente della Camera Roberto Fico andato nella bidonville di San Ferdinando a portare le condoglianze dello Stato ai compagni del sindacalista di colore Sacko ucciso a fucilate.
Salvini, infine, ha torto perché a quella grande massa di voti raccolti seminando rabbia e protesta contro i migranti presto o tardi dovrà dare una risposta assai concreta. Perché quegli stessi elettori, disposti ad applaudire i suoi spottoni, si aspettano poi che ne rispedisca a casa (come promesso) cinquecentomila. Vasto programma.

La Stampa 12.6.18
La politica dei piedi nel piatto
di Marcello Sorgi


È un calcolo abbastanza miope quello del ministro dell’Interno, Salvini, esultante per aver costretto la nave Aquarius - carica di 629 migranti, tra cui 123 minori, 11 bambini, 7 donne incinte e 15 ustionati gravi - ad allontanarsi dalle coste siciliane, dopo il rifiuto di Malta di farla attraccare, e a far rotta sulla Spagna. Dov’è attesa a Valencia, grazie alla disponibilità ad accoglierla del neonato governo spagnolo Sánchez, «per evitare una catastrofe umanitaria».
Nell’immediato, certo, il leader leghista e fresco responsabile del Viminale, avamposto strategico sulla trincea dell’immigrazione clandestina, potrà dirsi vincitore - e non solo delle amministrative di domenica grazie alla sua campagna permanente - perché ha vinto su tutto e tutti: il governo italiano, a cui ha imposto la sua linea dura senza neppure discuterla con colleghi e alleati; il premier Conte che si è dovuto adeguare; l’alleato Di Maio e il ministro delle Infrastrutture Toninelli, responsabile dei porti chiusi e della Guardia costiera messa in riga da Salvini, che hanno condiviso a denti stretti; il M5S, anch’esso obbediente, pur tra vistose crepe, la più evidente delle quali rappresentata dal sindaco di Livorno Nogarin, disponibile a soccorrere i profughi ma subito zittito d’autorità, nella gran confusione che per due giorni e due notti ha accompagnato la prima vera emergenza dell’esecutivo giallo-verde.
Se serviva una prova che governare l’Italia non è affatto dispiegare l’attuazione di un programma predefinito, come appunto il «contratto» che unisce la Lega e il M5S, ma far fronte ai problemi che si presentano, uno dopo l’altro, è arrivata perfino in anticipo sulle previsioni. Il dirottamento dell’«Aquarius», tra l’altro, non potrà che essere una soluzione una tantum, rispetto alla ripresa degli sbarchi che si annuncia massiccia, complici la buona stagione, il bollettino meteorologico favorevole, la mancata cura - per non dire l’aperta polemica, vedi lo scontro con la Tunisia - delle intese delicatissime che il predecessore di Salvini, l’ex-ministro Minniti, aveva concluso, riducendo del 78 per cento gli sbarchi negli ultimi due anni, con la Libia quartier generale del traffico illegale di immigrati, e con i Paesi della costa nordafricana destinati a ricevere i clandestini da rimpatriare sulla base di accordi internazionali.
C’è da chiedersi subito quanto resisterebbe la barriera italiana dei porti chiusi e del rifiuto di soccorsi ai naufraghi davanti a una serie di arrivi come quella che è logico prevedere per tutta l’estate, e quanto sia lecito scommettere sulla solidarietà, chiaramente occasionale, di Paesi come la Spagna, che si trovano a centinaia di miglia dal tratto di mare in cui i migranti vengono abbandonati al loro destino.
Salvini ha dalla sua - oltre a un’indubbia e evidente capacità politica e talento da leader - l’abbandono in cui è stato lasciato il problema dell’immigrazione, in un periodo, che potremmo datare almeno a tre estati fa, in cui assumeva dimensioni sempre più gravi, con la Germania che prima apriva, e poi si pentiva di aver aperto, i suoi confini a un milione di profughi siriani, la Francia, teatro dei più gravi attentati terroristici islamici, che s’irrigidiva, chiudendo anche le sue frontiere con l’Italia, e così l’Austria, e così la Gran Bretagna, travolta dalla Brexit anche per l’irrazionale paura di un’invasione di clandestini, mentre nella nuova Europa polacca e ungherese sorgevano muri di filo spinato. Inoltre, non va dimenticato, la permanenza di un numero esagerato di immigrati sul nostro territorio, s’è talvolta trasformato in affare per spregiudicati imprenditori italiani dell’assistenza - che rappresentano, in molti casi, l’interfaccia degli scafisti che caricano i disgraziati africani sui gommoni e li lasciano alla deriva -, offrendo alloggi in condizioni sub-umane che lo Stato paga a prezzi da piccoli alberghi, o lavori irregolari il cui traffico degenera spesso in scontri armati con vittime che rimangono sul campo, com’è accaduto in Calabria fino a pochi giorni addietro.
Un governo che avesse per davvero l’obiettivo di cercare una soluzione per un problema enorme e in qualche modo epocale come questo, rimediando anche agli incontestabili errori del passato, e facendo chiarezza sulle iniziative spesso incontrollate delle navi delle Ong nel Canale di Sicilia, cercherebbe per prima cosa un aiuto dall’Europa, di cui l’Italia è membro fondatore. Lo farebbe, non mettendo i piedi nel piatto, come ha fatto Salvini, ma cercando di ottenere impegni più stringenti di quelli disattesi anche di recente dai partner dell’Unione, che avevano garantito la loro disponibilità a condividere le conseguenze del flusso migratorio e poi non lo hanno fatto. Salvini al contrario sostiene che solo «alzando la voce» è possibile farsi ascoltare nel consesso europeo in cui a parole tutti, a cominciare dalla Merkel, promettono aiuti all’Italia, ma non mantengono mai le promesse. Si vedrà, di qui a poco. Ma che presentarsi al prossimo vertice Ue con gli applausi di Orban e della Le Pen sia un buon viatico per ottenere concreta solidarietà, sarà tutto da dimostrare.

Repubblica 12.6.18
L’attracco negato è un atto illegale
di Carlo Bonini

La presa in ostaggio dei 629 della Aquarius interpella il Parlamento e il Capo dello Stato quale garante del rispetto della Costituzione e dei trattati internazionali. Perché il rifiuto di autorizzarne l’attracco nei porti italiani disposto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini nulla ha a che vedere con la discrezionalità dell’azione politica. È un atto insieme illegale e fraudolento.
In aperta violazione della “Convenzione Internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo” siglata ad Amburgo il 27 aprile del 1979 e ratificata dal nostro Paese con la legge 147 del 1989. Quella Convenzione fissa l’obbligo di soccorso in mare a chi sia in pericolo di vita e quello del suo trasferimento in un luogo sicuro. Per quanto riguarda il nostro Paese, questo significa che il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo della Guardia Costiera di Roma (Imrcc), ricevuta la segnalazione di un’emergenza al di fuori della propria area di responsabilità Sar (Search and rescue), in acque internazionali, assume il coordinamento del soccorso.
Avvisa l’autorità Sar competente e, se questa non è disponibile, coordina le operazioni fino al loro termine (se necessario con mercantili e navi delle Ong), individuando il luogo sicuro di sbarco.
Ebbene, sabato scorso, per disposizione dell’Imrcc di Roma, sulla motonave della Ong “Sos Méditerranée”, sono stati trasferiti 119 migranti recuperati dalla motonave “Jolly Vanadio”; 70 tratti in salvo dalla motovedetta Cp 319 della Guardia costiera italiana; 87 recuperati dalla motonave “Vos Thalassa”, trasbordati prima sulle nostre motovedette Cp 267 e 319, e da queste su Aquarius; 129 recuperati dalla motonave “Everest”, portati prima sulla motovedetta Cp 319 e da questa alla Aquarius.
Complessivamente, 405 esseri umani che si sono aggiunti ai 224 soccorsi direttamente da Aquarius. Per questo, contestualmente al trasbordo, alla “Aquarius”, come previsto dalla Convenzione internazionale, l’Imrcc aveva dato quale “approdo sicuro”, “place of safety”, il porto di Messina. Perché in quell’esatto momento, l’Italia, che aveva condotto le operazioni di salvataggio e trasbordo con la sua Guardia costiera, aveva assunto un obbligo giuridico — “indisponibile” alla propaganda — di portare a termine il soccorso con l’individuazione di un approdo sicuro che non poteva che essere italiano.
Salvini ha consapevolmente violato quell’obbligo. E per giunta, in modo fraudolento, spacciando al mercato del rancore come “vicescafista” la nave di una Ong che aveva partecipato a un’operazione di soccorso disposta dal Paese di cui è ministro dell’Interno.

La Stampa 12.6.18
Un’azione umanitaria che non significa solidarietà con l’Italia
di Vladimiro Zagrebelsky


Stupisce la soddisfazione del governo italiano per il gesto del nuovo governo spagnolo che ha dichiarato di aprire il porto di Valencia alla nave Aquarius e al suo carico umano. Il governo spagnolo, nel rifiuto opposto dalle autorità maltesi e italiane, ha dichiarato di essere disposto a un gesto umanitario. Vero è che il ministro Toninelli, responsabile dei porti, accodandosi alle decisioni del ministro dell’Interno Salvini, ha detto che la situazione a bordo è buona, ciò che permetterebbe a lui e a noi di non preoccuparci troppo. Ma l’intervento spagnolo non è stato motivato da solidarietà verso l’Italia, come fanno credere il presidente del Consiglio Conte, il ministro Salvini (e, dalla Francia, Marine Le Pen). Si tratta invece di un’azione umanitaria verso le donne, le donne incinte, i bambini e gli uomini a bordo. È azzardato allora pensare che invece il rifiuto italiano (e maltese) è inumano?
Certo secondo il diritto internazionale un Paese può inibire l’attracco a navi straniere. Più in generale gli Stati sono competenti per la gestione dei loro confini, per ammettere o negare l’entrata agli stranieri, per gestire i flussi di migranti. Tuttavia gli Stati d’Europa, orgogliosi della loro civiltà, hanno accettato di assoggettarsi a limiti e obbligazioni. Tutti coloro che vengono a trovarsi nell’ambito della loro giurisdizione sono protetti, tra l’altro, dalla Convenzione europea dei diritti umani, la quale vieta trattamenti inumani o degradanti e riconosce a tutti, in quanto esseri umani, una serie di diritti e libertà. L’Italia è parte di quella convenzione da più di sessant’anni. Quella nave è stata doverosamente presa in carico da Roma dal servizio dal Comando generale del corpo delle Capitanerie di Porto e così l’Italia è il Paese giuridicamente responsabile del coordinamento dei soccorsi; non sarà l’espediente di tenerla a galleggiare fuori delle acque territoriali a escludere l’ormai acquisita giurisdizione italiana. Né la condotta dell’isolotto maltese, comunque motivata, esclude la responsabilità italiana. Non è improprio ricordare che siamo un Paese di sessanta milioni di cittadini e pure membri del G7.
Sull’atteggiamento del nuovo governo del cambiamento pesa inoltre un’altra domanda. Se non fosse intervenuta la Spagna, si potrebbe immaginare che il comandante della nave, nonostante il divieto, si presenti all’imboccatura di un porto italiano, dichiarando di avere a bordo malati o donne prossime al parto, oppure semplicemente perché ha esaurito le scorte. L’Italia rifiuterebbe l’attracco? E prima ancora, per fermare la nave, la silureremmo? La trascineremmo al largo? Impensabile, ridicolo. Forse non solo i vescovi protesterebbero.
Insomma il gesto spagnolo ha sì un effetto di solidarietà per il governo italiano, ma nel senso che l’ha tirato fuori dall’angolo in cui si è cacciato, evitandogli l’alternativa secca di perpetrare un’azione indegna di un Paese civile oppure di dover fare marcia indietro.
Il modo in cui il governo italiano ha assunto posizione nella vicenda sembra impostato come se si trattasse solo di una nave e di una indifferenziata massa di individui (perlopiù irregolari, ma in verità non sappiamo nemmeno chi sono, da dove vengono, cosa hanno alle spalle). E di questo caso il governo fa occasione di sfida a un’Europa matrigna, che «ci lascia soli». Per un verso la recriminazione ha fondamento, anche se il numero di migranti accolti da altri Paesi (la Germania per esempio) è in percentuale molto più elevato dell’Italia. Per altro verso sbaglia bersaglio. L’Unione europea come tale – l’odiata Bruxelles, con i suoi burocrati – ha ridotta competenza nella politica delle migrazioni verso gli Stati membri. Dai Trattati su cui l’Unione si fonda, si trae che nella materia la sua possibile azione è regolata dal principio della solidarietà, tra Stati membri e tra Stati e Unione. Scarsi sono gli strumenti per imporre solidarietà quando questa è rifiutata. Sarebbe utile all’Italia più Europa, non meno. In effetti nella materia, in epoca di nazionalismi galoppanti, è forte la tentazione di far valere la tradizionale sovranità degli Stati. È sotto gli occhi di tutti il rifiuto di solidarietà da parte di numerosi Stati dell’Unione: primi tra tutti quelli che si riuniscono nel gruppo di Visegrad. È sconcertante che a essi i partiti al governo in Italia sembrino strizzar l’occhio.

il manifesto 12.6.18
Frontiere aperte, alta tensione. Alla fine la Linke sigla una tregua
Germania. Il congresso di Lipsia si è chiuso con un compromesso sul tema dei migranti: una commissione approfondirà la questione in cerca di una sintesi. Ma il clima nel partito resta tesissimo
di Jacopo Rosatelli


La tensione resta altissima, ma, per ora, è tregua. La Linke ha chiuso domenica il suo congresso a Lipsia con un compromesso sul tema che sta lacerando il partito: le frontiere aperte ai migranti. Una commissione formata da componenti di entrambi gli schieramenti interni dovrà approfondire la questione e cercare una sintesi che possa rappresentare tutti: sia i seguaci dei co-segretari Katja Kipping e Bernd Riexinger, fautori della linea anti-confini, sia quelli della capogruppo parlamentare Sahra Wagenknecht, sostenitrice della limitazione per «i migranti economici». Proprio l’intervento di quest’ultima, domenica mattina, aveva surriscaldato la platea al punto da indurre la presidenza a stravolgere l’ordine del giorno e dedicare una sessione straordinaria al confronto sul suo discorso.
Delegati contro altri delegati, toni molto accesi, esplicite accuse a Wagenknecht di sabotare l’azione del partito respinte indignate al mittente. In mezzo, un’area di dialoganti che invitavano – senza molta fortuna – a condurre la discussione senza demonizzazioni reciproche. Poi, quando la situazione sembrava sul punto di degenerare, la decisione di tutto il gruppo dirigente: si continuerà a discutere ordinatamente in altra sede.
Il congresso è finito dunque senza veri vincitori né vinti. Il clima nel partito è di quelli che possono preludere a una scissione, che, tuttavia, per ora non si è consumata. Sul dibattito fra le due anime intorno ai migranti incombe, in realtà, anche la proposta di Wagenknecht di creare «un’alleanza di sinistra» che rimane piuttosto nebulosa.
L’intervento di fronte ai delegati non è servito a capirne qualcosa di più: fra i sostenitori di Riexinger e Kipping circola il sospetto che la capogruppo stia tramando per la creazione di una «lista Wagenknecht».

Il Sole 12.6.18
La «pista austriaca»: frontiere mobili e hotspot in Kosovo
La strategia della prossima presidenza Ue in caso di disaccordo a fine giugno
di Gerardo Pelosi


Roma Tra Berlino e Bruxelles è in corso un tentativo (forse l’ultimo) per recuperare al summit europeo del 28 e 29 giugno la proposta di modifica del regolamento di Dublino sui migranti nella versione messa a punto dalla presidenza bulgara della Ue, respinto dai ministri degli Interni europei il 5 giugno scorso. Una strategia emersa chiaramente dall’ultima riunione del Coreper (riunione degli ambasciatori Ue) a Bruxelles ma che vedrebbe inevitabilmente isolati Italia e Ungheria su un testo da approvare a maggioranza.
La modifica del regolamento di Dublino non piace a Roma e Budapest, ma per motivi diversi. Prevede infatti molta più responsabilità dei Paesi di primo approdo come l’Italia con nuovi obblighi su hotspot e identificazione e scarsa solidarietà (per l’Ungheria sempre troppa) facendo scattare una procedura di emergenza del ricollocamento solo allorquando si superi del 160% una quota prefissata di arrivi. «Continuerò a porre con forza la modifica del regolamento di Dublino di modo che si possano accogliere i nostri inviti e si possano trovare soluzioni più giuste», ha detto ieri il premier, Giuseppe Conte che incontrerà venerdì il presidente francese, Emmanuel Macron e lunedì 18 la cancelliera tedesca, Angela Merkel. Soprattutto con quest’ultima si dovrà necessariamente entrare nel merito di Dublino e magari trovare un’intesa sulle possibili modifiche al testo della presidenza bulgara (ad esempio ridurre da 160% a 120% il tetto oltre il quale far scattare la relocation).
Molto scarse sono invece le possibilità, in questa fase, di far progredire in qualche modo la proposta del Parlamento europeo per modificare Dublino messa a punto alla fine dell’anno scorso dalla liberale, Cecilia Wikstrom. Una proposta che parla soprattutto italiano perché sostenuta da alcuni correlatori che rispondono al nome di Laura Ferrara (Cinque stelle Efdd), Alessandra Mussolini (Ppe) e Elli Schlein (Leu). Una proposta che cerca di bilanciare le diverse esigenze avendo riguardo non solo al Paese di primo approdo ma anche altri elementi quali la lingua e la presenza di familiari in altri Paesi diversi da quelli della prima accoglienza.
Ma il tempo stringe e la presidenza austriaca dell’Unione europea che partirà il primo luglio sta già scaldando i muscoli anche sul dossier dei migranti. Per ora si tratta solo di rumors diffusi a Bruxelles. In caso di impossibilità a trovare un accordo sulle modifiche di Berlino il 28 e 29 giugno, Vienna intenderebbe affiancare il regolamento con una proposta innovativa di “esternalizzazione” delle frontiere con lo scopo di alleggerire i flussi in arrivo nel Sud del Mediterraneo. La proposta (che avrebbe ottenuto il sostegno della Danimarca) prevede di creare centri di identificazione e rimpatrio d’intesa con le agenzie delle Nazioni Unite (soprattutto Unhcr) in Albania e Kosovo, Paesi candidati all’ingresso nella Ue. Lì verrebbero concentrati quei migranti di cui si ha la certezza che non hanno i requisiti per chiedere l’asilo. Una proposta che sicuramente alleggerirebbe la pressione sulle rotte balcaniche dei migranti (e per questo silenziosamente appoggiata anche da Berlino) ma che difficilmente andrebbe ad incidere sui flussi nel Canale di Sicilia. Il nostro Paese, a quel punto, dovrebbe solo chiedere analoga “esternalizzazione” ma sulle frontiere esterne Schengen, al Sud della Libia.

Corriere 12.6.18
Un esecutivo dominato dall’agenda di Salvini
di Massimo Franco


Dal punto di vista di Matteo Salvini, quanto è successo ieri è una vittoria. Il leader della Lega e ministro dell’Interno può intestarsi la decisione della Spagna di accogliere i 629 migranti della nave Aquarius, respinta da Malta e dall’Italia. «Alzare la voce paga», sostiene con un certo trionfalismo. E aggiunge che sulla chiusura dei porti il governo è stato compatto. Difficile dargli torto: almeno nel senso che il M5S è stato spiazzato dall’iniziativa di Salvini; e non ha potuto fare altro che assecondarla, zittendo il sindaco di Livorno, pronto a far sbarcare quelle persone. Da questa vicenda, il governo riemerge a trazione leghista. Sul piano elettorale, si può essere sicuri che quanti hanno votato per il Carroccio, il resto del centrodestra e anche settori del M5S e della sinistra, applaudono. In fondo, era il risultato al quale il successore di Marco Minniti al Viminale puntava: dimostrare che con lui l’aria sarebbe cambiata; che la richiesta di sicurezza proveniente dalla pancia dell’Italia avrebbe ricevuto una risposta forte; che gli sbarchi estivi sarebbero stati arginati sul nascere, a costo di una polemica frontale con l’Unione europea, accusata non a torto di avere lasciato solo troppo a lungo il nostro Paese. Politicamente, è la conferma di una Lega protagonista e di un M5S subalterno e in sofferenza: se non altro per le posizioni eterogenee al suo interno in tema di immigrazione. Il vertice di ieri sera a Palazzo Chigi col premier Giuseppe Conte e l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, ufficializza un’agenda strategica dettata dal Carroccio; e destinata a aggiungere nuovi capitoli conflittuali. «Anche se il problema dell’Aquarius si è avviato a soluzione con il gesto di disponibilità, solidarietà e responsabilità della Spagna, il problema dell’emergenza immigrazione resta», ha avvertito Conte, allineato a Salvini. Ma a livello europeo, parlare di successo del nuovo governo italiano risulta prematuro. Non tanto perché risulta controverso, in termini di immagine, il «no» italiano e il «sì» spagnolo ai migranti. È da vedere quanto la strategia leghista riuscirà davvero a cambiare l’atteggiamento delle nazioni europee, finora indifferenti; e se diminuirà o accentuerà l’isolamento italiano. Può darsi che abbia ragione Di Maio a dire che «l’Italia non è più sola». Per il momento arrivano le critiche della Chiesa cattolica, e si avverte l’imbarazzo di parte del M5S. L’appoggio entusiasta di Fratelli d’Italia, formalmente fuori dal governo, alla linea dura, diventa ulteriore elemento di riflessione, per il Movimento di Di Maio. Certifica la piega che l’esecutivo sta prendendo. È difficile, tuttavia, che questo possa cambiare la strategia sull’immigrazione. Salvini ha mietuto consensi il 4 marzo, e forse li ha accresciuti alle Amministrative di domenica martellando a urne aperte sulla chiusura dei porti italiani. I migranti sono un affare anche per i partiti che li additano come la minaccia da esorcizzare, e che sanno usare la paura come moltiplicatore del proprio potere.

Il Sole 12.6.18
Le «praterie» di Salvini e le spine di Di Maio
di Lina Palmerini


I voti si pesano e non si contano: sembra che questa regola che il banchiere Cuccia applicava alle azioni non valga solo in finanza ma pure in politica e Salvini ne è diventato l’interprete. Non solo ha gestito la metà dei consensi avuti il 4 marzo rispetto ai 5 Stelle con un'abilità tale da risultare l'azionista forte della alleanza ma ieri ha pure incassato il dividendo in una elezione amministrativa in cui lui ha fatto il pieno mentre il partito di Luigi Di Maio arretra. E la vicenda di questi giorni della nave Aquarius è illuminante di come detenga una leadership effettiva sul Governo. E qui non basta dire che lui è il ministro dell'Interno perché ha occupato talmente tanto la scena da farci dimenticare che esiste un premier. E che esiste un’altra forza della coalizione – i grillini – che però sono andati completamente al traino della Lega, figurando solo come i portatori di acqua. È vero che sull’immigrazione si può essere arrivati a una piena sintonia tra i due partiti, ma per i 5 Stelle il problema è dove trovare gli spazi per fare loro da traino e non giocare solo di rimessa. Il dilemma, insomma, è se ce la faranno mai a ribaltare il gioco di Salvini. Al momento non sembra.
Innanzitutto perché l'immigrazione è stata trasformata dal leader leghista in una “prateria” politica: nella sua “narrazione” sta lì la causa principale di molti dei mali italiani, dalla sicurezza all’economia e al lavoro. Non è detto che la strategia del ministro dell’Interno funzioni, anzi. La vicenda Aquarius ha mostrato i rischi - al di là dell'aiuto offerto dalla Spagna - che si riproporranno con i prossimi sbarchi. Tuttavia, anche solo cambiare il linguaggio e fare prove di forza – adesso – può bastare agli italiani e comunque rafforza l’immagine di un Governo ritagliato su Salvini. Ma quello che più conta è che la Lega sa gestire la propaganda tanto quanto la sostanza con posti di potere. Per esempio, a Palazzo Chigi il ruolo di Giancarlo Giorgetti è di quelli che pesano soprattutto se – come si dice – prenderà lui la gestione del Cipe. Cosa vuol dire? Di fatto gestire le infrastrutture e “oscurare” il ministro grillino Toninelli perché è lì che si decidono i fondi. Su Tav e Tap esisteva una versione a 5 Stelle diversa dalla Lega ma anche su questo fronte – a quanto pare - si curva a destra. Proprio in questa chiave - di equilibrio reale tra i due partiti - diventa interessante vedere come finirà sulle nomine.
Ma al netto di quelle caselle, ai 5 Stelle cosa rimane? Luigi Di Maio, come titolare dello Sviluppo e del Lavoro ha in mano solo i dossier con le spine: le crisi aziendali, i numeri della disoccupazione, il reddito di cittadinanza che non partirà subito, la riforma della Fornero che potrebbe deludere elettori leghisti e grillini. Tanto più che al Mef il ministro Tria ha già tracciato una linea netta pro-Europa e rispettosa dei vincoli che stringe i cordoni della borsa. La vera sponda per Di Maio potrebbe essere il premier ma questo, per Conte, vorrebbe dire assumere un profilo sempre più marcatamente grillino. E forse a non volerlo non sarebbe solo Salvini ma anche Di Maio che avrebbe un competitor in più e proprio a Palazzo Chigi.

Il Sole 12.6.18
Osservatorio Politico
Dalle politiche alle comunali i grillini perdono il 70% dei voti
di Roberto D’Alimonte


Come era prevedibile il primo turno delle prime elezioni di questa nuova fase politica ha prodotto solo un risultato parziale. I sindaci già eletti nei 109 comuni superiori ai 15.000 abitanti sono stati 34, di cui 6 nei 20 comuni capoluogo. La partita decisiva si giocherà il 24 Giugno quando gli elettori sceglieranno il sindaco tra i due candidati passati al secondo turno. E saranno da una parte l’astensionismo e dall’altra le seconde preferenze di chi ha votato i candidati eliminati al primo turno a decidere la sfida in 75 comuni. Quelle seconde preferenze che ai nostri giudici costituzionali non piacciono, ma che invece sono lo strumento più adatto per decidere in un contesto tripolare, sia a livello locale che nazionale.
Ma anche con i dati parziali di questo primo turno ci si può chiedere se il risultato delle elezioni “critiche” del 4 Marzo abbia o meno influito su questo risultato amministrativo. Sono due le domande da farsi. La prima è questa: in che misura i partiti o le coalizioni sono riusciti a convertire meglio in voti amministrativi i voti che hanno preso alle politiche? La risposta è nella tabella in pagina. Il centro-sinistra è la coalizione che ha avuto il rendimento migliore. Infatti, fatti 100 i voti ottenuti alle politiche in 90 comuni superiori ai 15.000 abitanti (sono esclusi in questo calcolo i comuni siciliani), i candidati di questo schieramento ne hanno preso in media 132%, cioè il 32% in più. Per il M5s invece l’indice è un misero 31%. Vale a dire tra politiche e amministrative il partito di Di Maio ha perso quasi il 70% dei voti. Né il rendimento positivo del Pd né quello negativo del M5S sono una novità. Sono una conferma di fenomeni noti. Il centro-sinistra a livello locale può ancora contare su una rete e su risorse che il M5s non ha. Prendiamo il caso di un piccolo comune del Molise, Guglionesi. Alle politiche del 4 Marzo il M5S ha preso il 49% dei voti, alle regionali del 22 Aprile il 38%, in queste comunali è sceso al 21%. Il tutto nel giro di pochi mesi. Guglionesi non è un caso isolato. Anzi.
Quindi, il fatto è che il successo alle politiche del 4 Marzo e la formazione del governo non hanno cambiato affatto il rendimento dei cinque stelle a livello locale. I casi di Roma e Torino hanno nascosto la semplice realtà che il brand M5S non basta a vincere nei comuni e nelle regioni. In questa tornata elettorale in nessun comune capoluogo il M5S ha eletto il sindaco. A livello di capoluoghi solo a Terni, Ragusa e Avellino un suo candidato è andato al ballottaggio. Complessivamente solo in 7 comuni sui 75 che vanno al secondo turno ci sarà un candidato cinque stelle. A livello locale il sistema dei partiti resta largamente imperniato ancora sulla contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra. Per il Pd e i suoi alleati è una base da cui ripartire.
Seconda domanda: in queste comunali si nota un cambiamento nel rendimento tra il ciclo 2018 e il ciclo 2013? La risposta richiede una spiegazione preliminare. Sia nel 2013 che nel 2018 si è votato prima alle politiche e immediatamente dopo alle comunali. Si può quindi confrontare il rendimento di partiti e di coalizioni tra questi due cicli. Ciò premesso, la risposta è che sia il centro-sinistra che il M5S mostrano lo stesso rendimento, positivo per il primo, negativo per il secondo. Diverso è il caso della Lega Nord. Per il partito di Salvini il rendimento nel ciclo 2013 era stato 56% , mentre nel ciclo 2018 è salito al 66% (tabella in pagina). Questa è la novità. La Lega Nord tra il 2013 e il 2018 ha triplicato i propri voti alle politiche, ma ha anche migliorato la propria capacità di trasferire nei comuni i maggiori consensi che raccoglie a livello nazionale. Non così il M5S. Un altro segnale del rafforzamento del partito di Salvini all’interno del centro-destra e nei territori.

Corriere 12.6.18
Fico ringrazia la Spagna: «È la strada giusta»
La visita alla tendopoli di San Ferdinando: «Garantire i diritti di tutti i braccianti»
di E. Bu.


MILANO«Da tempo l’Italia chiede all’Europa di farsi carico con solidarietà sugli sbarchi. Il gesto della Spagna va in questa direzione e penso che questa sia la strada da percorrere, quella del rispetto della Costituzione, della solidarietà che però deve essere condivisa anche dagli altri Paesi europei», tira un sospiro di sollievo il presidente della Camera, Roberto Fico, alla notizia della soluzione del caso Aquarius.
Ha vissuto la giornata di domenica e lunedì in costante contatto con il ministro Danilo Toninelli e con il capo di Stato maggiore della Marina, Valter Girardelli, prima di volare in Calabria, per la sua visita nella tendopoli di San Ferdinando, dopo le tensioni dei giorni scorsi, seguite alla morte di Soumalia Sacko, il sindacalista ucciso mentre prelevava lamiere per fare una baracca.
Una visita che cade in ore di tensione. Il presidente della Camera ribadisce la sua linea, che è poi quella del governo. «È molto importante — dice Fico — che ci sia una solidarietà europea e una presa d’atto di una situazione che non può gestire l’Italia. Se l’Italia è in Europa è chiaro che diventa un confine dell’Europa che va gestito insieme con responsabilità. Fermo restando che la linea è sempre la cooperazione, l’accoglienza e il dialogo per cercare di lavorare tutti insieme per dare a queste persone opportunità e darne anche al Paese e all’Europa». E ribadisce: «L’Europa spesso ci lascia soli su situazioni gravi come quella degli sbarchi. Ci sono accordi che vanno assolutamente rivisti». Fico si stacca dalle dispute interne alla base e ai parlamentari M5S, sull’intervento lanciato e poi rimosso dal sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, minimizza: «Ha parlato con me per telefono ma non riguardo il post». Nessuna forzatura dei toni, ma ruolo super partes, con massima attenzione alle colonne d’Ercole, a quei paletti d’azione rappresentati dal contratto di governo gialloverde.
E sulla tendopoli Fico auspica il superamento delle soluzioni provvisorie con l’impegno di tutti i soggetti. «È una questione assoluta di diritti dei lavoratori. I braccianti, che siano migranti con permesso di soggiorno o italiani, devono essere garantiti al cento per cento nei loro diritti». Accanto al presidente della Camera Aboubakar Soumahoro. L’italo-ivoriano, dirigente sindacale Usb con cui il presidente della Camera ha stretto buoni rapporti, scrive: «Grazie Roberto Fico per la visita al ghetto di San Ferdinando, mentre altri fomentano odio e razzismo. Ma le passerelle non bastano: smontiamo ghetti, sfruttamento e caporalato! Scendiamo tutti in piazza il 16 a Roma e il 23 a Reggio Calabria per Soumaila Sacko».

Corriere 12.6.18
I malumori della sinistra M5S Di Maio minimizza la frenata
Allarme anche per la crescita leghista. Ma il leader: noi Davide contro Golia
di Alessandro Trocino


ROMA L’allarme è arrivato forte e chiaro, anche se la linea ufficiale, dettata da Luigi Di Maio, è di minimizzare. I risultati dei 5 Stelle al primo turno delle Comunali sono deludenti. Ma quello che preoccupa di più è un doppio fenomeno: il gelo dell’anima di sinistra dei 5 Stelle, con relativa diserzione delle urne, e la contestuale avanzata della Lega, che qualcuno teme possa finire per cannibalizzare l’elettorato di destra del Movimento. Un doppio fronte che preoccupa, anche perché si salda con i crescenti malumori sulla deriva anti migranti di una parte dei 5 Stelle, guidata (simbolicamente) da Roberto Fico. Che non a caso, ieri, è andato fino a San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, per far visita ai migranti della tendopoli dove viveva Soumaila Sacko, il 29enne del Mali attivista di Usb ucciso a fucilate il 2 giugno.
Di Maio sulle urne si dichiara soddisfatto. Ripete una metafora un po’ fuori dai tempi e dal nuovo abito governativo — «Siamo Davide contro Golia» — ma soprattutto adduce una motivazione sempre valida per i risultati non esaltanti a livello locale per i 5 Stelle: «Anche questa volta eravamo da soli contro coalizioni di decine di liste». Motivazione tecnica, che consente agli altri schieramenti di avere, viste le dimensioni del voto, un impatto più forte sul territorio, tra amici e parenti delle decine di candidati sfidanti. Limite strutturale dei 5 Stelle, che non vogliono collegarsi con altre liste né crearne ad hoc. Ma non è l’unica motivazione per la delusione dei risultati, una manciata di ballottaggi conquistati. E — come ha sottolineato Di Maio con un’enfasi non troppo in linea con la rilevanza dei casi — «la vittoria al primo turno a Crispiano in Puglia, a Ripacandida in Basilicata, a Pantelleria in Sicilia, a Castel di Lama nelle Marche».
Il leader politico dei 5 Stelle manca di soffermarsi, invece, sulla cocente sconfitta romana, dove due Municipi (le circoscrizioni romane) sono passate in mani avversarie. Segno che il mandato di Virginia Raggi non sta entusiasmando tutti i romani. La sindaca promette: «Ci impegneremo di più su decoro, lavori pubblici e trasporti». Il capogruppo Paolo Ferrara ammette: «È un segnale d’allarme. I cittadini hanno sempre ragione». Ma la capogruppo alla Regione Lazio Roberta Lombardi va oltre e chiede di «prendere atto del messaggio». E propone una «rete di competenze 5 Stelle per coordinare, organizzare e supportare» gli eletti. Insomma, chiede di strutturare di più il Movimento sul territorio.
Comunque sia, non c’è da stare tranquilli. Perché Salvini resta ben saldo con un piede in due staffe: al governo con i 5 Stelle, sul territorio con Forza Italia. E sembra ben deciso a non mollare la guida di un centrodestra di cui ormai è il dominus. In attesa di capire che succederà, i malumori tra i 5 Stelle crescono. Sergio Battelli, certo non un simpatizzante della Lega, dice: «Non è andata molto bene, dobbiamo essere maturi e ammetterlo». E il drappello dei più attenti ai diritti si fa sentire. Non c’è solo la solita Paola Nugnes. Ci sono gli ex Vega Colonnese e Massimiliano Bernini. E diversi senatori che temono che i 5 Stelle diventino «gli utili idioti» della Lega: «Anche perché i nostri temi sono messi sempre in secondo piano dalle sparate di Salvini». Fico, in visita ai migranti calabresi, lo fa come rappresentante delle istituzioni. Ma non sfugge il segnale politico. E basta vedere i commenti sui social. Come quello di Massimiliano: «Bene presidente! Affrancatevi dalla Lega di Salvini o sotto la sua ruspa ci finisce il M5s». Ed Enrica: «Bravo, ritroviamo l’umanità».

Repubblica 12.6.18
L’equilibrio spezzato fra M5s e Lega
di Stefano Folli


È bastato il primo test elettorale, a pochi giorni dalla nascita del governo Conte, per spezzare l’equilibrio fra M5S e Lega. Il risultato è chiaro: il movimento di Di Maio perde in maniera vistosa; il partito di Salvini vince, da solo o sotto una sigla di centrodestra, e ribadisce una tendenza. Perché è accaduto? Non può essere un giudizio sull’operato di un esecutivo appena insediato e senza dubbio hanno influito le situazioni locali tipiche di un voto amministrativo, a parte la solita astensione che stavolta ha colpito anche i Cinque Stelle. Ma è probabile che gli elettori abbiano colto i segni della nuova stagione e non li abbiano granché apprezzati: la spinta anti-sistema di ieri è diventata voglia di governo a tutti i costi. Di Maio e i suoi avrebbero sottoscritto il loro contratto con chiunque, pur di varcare la soglia della magica stanza dei bottoni. Alla fine si sono trovati come partner la Lega: un socio scomodo, ingombrante e soprattutto capace di esercitare una brusca leadership politica, palpabile fin dalle prime ore.
Così l’idea che i due partiti e i loro elettorati siano complementari e addirittura tendenti alla fusione è smentita dai fatti. Cinque Stelle e Lega hanno costruito, è vero, un’intesa di governo, ma si rivelano per quello che sono: distanti e persino diffidenti fra loro, più nella base che al vertice. La vicenda della nave Aquarius, intrecciatasi con la giornata elettorale, lo ha confermato. Il Movimento non più di lotta ma di governo si è trovato stretto in una morsa. Salvini ha dettato la musica («informando», bontà sua, il presidente del Consiglio), gli alleati si sono adeguati. Tutti, da Di Maio al ministro Toninelli, responsabile della gestione dei porti, hanno condiviso la tesi imposta dalla Lega e non poteva essere altrimenti. Ma si è capito che subivano un’iniziativa altrui. E quando qualcuno ha eccepito, come il sindaco di Livorno, Nogarin, desideroso di accogliere la nave per ragioni umanitarie, è stato più o meno rimesso in riga. Mentre il presidente della Camera ha preferito misurare le sue parole e non alimentare il dissenso.
Questo non significa che il risultato delle urne sia stato determinato dalla crisi dell’Aquarius. La coincidenza temporale non lo avrebbe permesso.
Tuttavia le novità sulla scena politica sono talmente vistose e rapide da essere ben percepite dall’opinione pubblica.
La fotografia descrive una Lega che applica senza esitazioni la sua linea, mentre i Cinque Stelle sembrano subordinati a un alleato che sulla carta vale la metà del movimento grillino eppure esercita un primato di fatto.
Certo, la rottura della simmetria fra M5S e Lega non può venire alla luce troppo presto. Ma una prima incrinatura si è verificata e sarebbe pericoloso sottovalutarla. È un’incrinatura nei rapporti politici e di governo, ribadita dal risultato del voto amministrativo.
Sullo sfondo si capisce fin troppo bene che Di Maio e Salvini stanno giocando due partite parallele, ma è il leghista a disporre delle carte migliori. Il ministro dell’Interno parla un linguaggio diretto e perfettamente comprensibile dal suo elettorato: legge e ordine, sicurezza, porti chiusi ai migranti. Certo, la nave dirottata in Spagna non esaurisce il problema, ci saranno altre Aquarius.
Ma la trama del romanzo è leggibile.
Viceversa Di Maio deve cercare le risorse per attuare il suo programma, contenere l’Iva, finanziare il reddito di cittadinanza. La strada è in salita, come ha rivelato l’intervista del ministro Tria al Corriere. E la via di Di Maio è molto più tortuosa di quella del suo rivale.

il manifesto 12.6.18
Se le élites sono economiche e non culturali
di Carlo Freccero


Ho scritto sul manifesto del 5 giugno, che con l’adesione acritica alla terza via del neoliberismo la sinistra è diventata non l’antagonista del neocolonialismo globalista, ma addirittura, la sua maggiore fautrice. Aggiungendo che, in quanto sinistra, non può palesare le sue intenzioni. Un’esponente della destra come Trump può bombardare in nome della superiorità militare americana al grido “America First”. Una neocon liberal come Hillary Clinton o un buonista come Obama, devono trincerarsi invece dietro lo schermo dell’esportazione della democrazia.
La sinistra del politicamente corretto si estingue perché non riesce più ad elaborare un pensiero critico. In questi anni ha creduto alla favola dei dittatori cattivi e, come unico rimedio, ha proposto l’accoglienza dei profughi, vittime non dalla guerra, ma dei loro stessi governanti. Ha fatto propria l’equazione fascismo = comunismo. Si è schierata sempre dalla parte sbagliata. Questo perché la terza via non è che l’espressione del pensiero unico per cui tutto il resto è totalitarismo.
Di questo pacchetto di riforme dell’originario pensiero di sinistra, fa parte l’idea che la democrazia preveda una frattura popolo/élites, e che le élites debbano guidare un popolo incapace di autodeterminazione.
Confesso che le mie idee sulle élites nascono, come reazione, alla lettura del libro Propaganda di Edwards Bernays. Bernays, l’inventore della propaganda, la giustifica a partire dall’esigenza di piegare il popolo, mosso da istinti bestiali, ai voleri delle élites che invece perseguono a livello sociale, interessi legittimi. Questa visione elitaria della democrazia fa parte della visione del mondo americano. Ma, per fortuna, non è condivisa dalla nostra Costituzione che all’art.1 recita: «La sovranità appartiene al popolo».
Ma, polemizzando con queste mie considerazioni, sul manifesto dell’8 giugno Alessandro Dal Lago scrive che anche Gramsci credeva nelle élites. Siamo qui davanti all’ambiguità della parola élites che significa cose diverse in Europa o in America. Le sinistre europee, secondo la classica priorità del capitale culturale sul capitale economico, attribuivano al capitale culturale le élites. Viceversa l’America ha sempre e solo conosciuto il capitale economico. In un contesto neoliberista élites significa élites economiche, quindi multinazionali e banche con tutto il sistema di propaganda che le circonda. Il disprezzo del popolo in quanto incapace di conseguire risultati economici ha a sua volta radici nell’etica protestante che, come Weber ci insegna, attribuisce al ricco l’evidenza della grazia Divina.
Concludo sui migranti. Sono reduce da Migranti Film Festival di Pollenzo, dove ero in giuria.. Ho visto un film bellissimo, The Fifth Point of The Compass di Martin Prinoth che spiega il disagio della migrazione più che tutta la teoria. E’ la storia di un ragazzo straniero adottato in Sud Tirolo, cresciuto nella nebbia e nel gelo, che indagando sulle sue radici, riesce a ritornare nel suo paese. I bisogni identitari e culturali non sono necessariamente fascisti o di destra e l’occidente non è necessariamente il migliore dei mondi possibili. Temo che la sinistra, privata dalla sua classe di riferimento, il proletariato, abbia fatto dei migranti una sorta di foglia di fico per dimostrare di essere ancora dalla parte dei più deboli.
Ma i migranti non sono il nuovo proletariato perché la loro coscienza identitaria non è qui ma altrove. Hanno diritto a non essere culturalmente sradicati, a meno che non si tratti di una loro libera scelta. Viceversa gli abitanti dei quartieri più poveri in Europa, hanno diritto a non essere sradicati dalle loro usanze da parte di un’immigrazione culturalmente eterogenea. I migranti non risiedono in via Montenapoleone e non portano via lavoro agli amministratori delegati. Decidere come fanno le élites che il popolo è brutto sporco e cattivo perché non vuole accoglierli è ingiusto. E’ il popolo che porta il peso dell’immigrazione con la perdita di valore del lavoro manuale.
La svalutazione del lavoro in questi anni di ordoliberalismo e di euro, è stata possibile solo grazie all’esercito di riserva costituito dai migranti. E’ logico che le élites economiche siano favorevoli all’immigrazione. Le libera dall’incombenza di delocalizzare dove c’è disperazione, portando la disperazione direttamente qui.

Repubblica 126.18
Il futuro dell’Unione
L’inerzia di Macron e Merkel
di Thomas Piketty

Mentre in Italia e in Spagna la crisi politica si aggrava, la Francia e la Germania continuano a dimostrarsi incapaci di formulare proposte precise e ambiziose per la riforma dell’Europa. Eppure basterebbe che questi quattro Paesi, che da soli rappresentano i tre quarti del Pil e della popolazione della zona euro, si mettessero d’accordo su una base comune per sbloccare la situazione. Come spiegare un’inerzia simile, e perché è così grave?
In Francia, la teoria in voga è che sia tutta colpa degli altri. Il nostro giovane e dinamico presidente non ha forse avanzato delle meravigliose proposte sulla rifondazione della zona euro, il suo bilancio e il suo Parlamento? Per sfortuna i nostri vicini non riescono a rendersene conto e a rispondere con la stessa nostra audacia! Il problema di questa teoria oziosa è che queste famose proposte francesi molto semplicemente non esistono: nessuno è capace di mettere in fila tre frasi che consentano di spiegare attraverso quali imposte comuni sarà alimentato questo bilancio, quale sarà la composizione dell’Assemblea della zona euro, chi eserciterà questa nuova sovranità fiscale e così via. Chiedetelo pure al vostro amico macroniano preferito, o se non ne avete — nessuno è perfetto — scrivete ai vostri giornali preferiti!
E un po’ come se i rivoluzionari del 1789, invece di formare un’Assemblea nazionale che permettesse di votare immediatamente l’abolizione dei privilegi e l’istituzione di un nuovo sistema fiscale, si fossero accontentati di annunciare che sarebbe stata cosa buona prendersi il tempo di riflettere all’istituzione di una commissione di riflessione finalizzata in prospettiva a salvare l’Ancien Régime. È la differenza tra fare qualcosa e parlare a vanvera.
In realtà le proposte francesi sono talmente vaghe che ci si può mettere dentro tutto e il suo contrario. Ed è proprio questo il problema: tutti i discorsi nazionalisti e antieuropei possono riversarcisi comodamente dentro. È facile denunciare oggi la pavidità di Angela Merkel, e in effetti la sua risposta alle « proposte francesi » è più che timorosa: stando alle ultime notizie, direbbe sì a un budget della zona euro per gli investimenti, ma a condizione che sia minuscolo (meno dell’ 1 per cento del Pil dell’Eurozona).
Tutto ciò senza dire nulla, naturalmente, sulle imposte comuni che dovrebbero finanziarlo (tanto che si rischia seriamente di ritrovarsi a riciclare investimenti già realizzati, a colpi di manipolazioni contabili, come con il piano Juncker). E naturalmente senza proporre nulla sull’indispensabile democratizzazione della zona euro. Si tratta semplicemente di ribattezzare il Meccanismo europeo di stabilità in «Fondo monetario europeo», cosa che esprime abbastanza chiaramente una visione iperconservatrice: applicare al Governo dell’Europa il modello del Fmi, vale a dire un Governo a porte chiuse, pilotato dai ministri dell’Economia e dalla tecnostruttura. Agli antipodi del modello di deliberazione parlamentare, pubblica, democratica e basata sul contraddittorio, che dovrebbe sempre avere l’ultima parola. È molto triste che Merkel e la Germania siano arrivati a questo, trent’anni dopo l’uscita dal comunismo e dalle certezze delle sue porte chiuse burocratiche.
Ma se è facile denunciare la pavidità della Merkel, è ora che i media francesi capiscano che non è altro che una risposta alla pavidità di Macron, che in realtà condivide lo stesso conservatorismo. In fondo, questi due dirigenti non vogliono cambiare nulla di essenziale nell’Europa attuale, perché sono vittime della stessa cecità: ritengono che i loro due Paesi non se la stiano cavando troppo male e che non abbiano nessuna responsabilità negli errori dell’Europa meridionale.
In questo modo, rischiano di far esplodere tutto. Dopo aver umiliato nel 2015 la Grecia, il cui Governo di «estrema sinistra» magari non era perfetto, ma aveva almeno il merito di promuovere dei valori di solidarietà nei confronti dei più poveri e dei migranti, si ritrovano, nel 2018, con l’estrema destra al potere in Italia, un Governo il cui solo collante — autorizzato dai regolamenti europei — è la caccia allo straniero.
Come uscire dall’impasse? Il problema è che buona parte dei dirigenti tedeschi e nordeuropei hanno spiegato da anni ai loro elettori che tutte le difficoltà dell’Europa erano causate da quei fannulloni del Sud, che questi volevano prendersi i loro soldi e che sarebbe bastato che si mettessero a lavorare e a esportare come dei tedeschi o degli olandesi per mettere a posto ogni cosa.
Sul piano economico, questi discorsi sono deliranti quanto le promesse del Fronte nazionale o della Lega ( perché nessuno al mondo potrebbe assorbire un surplus tedesco esteso a tutta la zona euro). Ma sta di fatto che questo fantasma dell’«unione dei trasferimenti » (Transferunion in tedesco corretto) blocca oggi qualsiasi riflessione.
Per uscirne, bisogna forse proporre che il futuro budget della zona euro, alimentato da imposte comuni sugli utili delle società e i redditi e i patrimoni più alti, votato da un’autentica Assemblea democratica, benefici ciascun Paese in misura della sua contribuzione fiscale (con trasferimenti netti limitati allo 0,1-0,5 per cento del Pil). Questa visione strettamente nazionale della solidarietà non è soddisfacente, ma in definitiva non è questa la cosa essenziale: l’obiettivo è innanzitutto permettere a un potere pubblico europeo di imporre la propria volontà agli operatori economici più importanti almeno tanto quanto a quelli più modesti, per investire nel futuro e ridurre le disuguaglianze all’interno dei Paesi. Discutiamo finalmente di Europa e avanziamo!

il manifesto 12.6.18
Toscana, duello finale fra Pd e Lega
Comunali 2018. Tutte al ballottaggio le sei città più popolose. Risultati in bilico a Pisa, dove la destra a trazione leghista è il lieve vantaggio su democrat e alleati, e anche a Siena, dove sarà decisivo il 20% dell'ex sindaco diessino Piccini. Sinistra alternativa ok sotto la Torre Pendente, con i Diritti in Comune di Auletta che sfiorano l'8%, e a Campi Bisenzio con il 6%.
di Riccardo Chiari


FIRENZE Dal voto di opinione delle elezioni politiche, al voto di prossimità delle comunali, il passo può essere lunghissimo. In Toscana ne fa le spese il M5S, che dopo il travolgente successo del 4 marzo arretra parecchio, tanto da non raggiungere alcun ballottaggio nelle sei città più popolose andate alle urne. Il secondo dato che emerge dal voto è la cannibalizzazione operata dalla Lega nei confronti di Forza Italia e Fratelli d’Italia, pallidi comprimari in una coalizione ormai senza centro e tutta a destra. Resiste invece il Pd, che in solitaria o quasi come a Siena, oppure con una coalizione di centrosinistra come a Massa, arriva ai ballottaggi. E può sperare anche a Pisa, dove la “sicurezza” coniugata dal Pd, contro quella xenofoba salviniana, porta a un sostanziale pareggio nel primo round elettorale. Infine la sinistra di alternativa, che a Pisa con i Diritti in Comune di Ciccio Auletta coglie un lusinghiero 7,8%, tale da renderlo il quarto polo cittadino. Mentre a Campi Bisenzio il giovane Lorenzo Ballerini sfiora il 6% con un altro buon risultato, e a Siena e Massa si oscilla fra il 3,5 e il 4%.
Sotto le Apuane, viste le premesse che lo vedevano in partenza terza forza, il ricandidato sindaco massese Alessandro Volpi può attendere il ballottaggio con rinnovate speranze. Con un’affluenza al 62,3%, Volpi e la sua coalizione formata da Pd, Mdp, Si e quattro liste civiche è al 33,9%, mentre Francesco Persiani sostenuto da Lega, Fdi e Fi si ferma al 28,2%. Dimezza la percentuale di marzo il M5S, il cui 15,1% ha il sapore di un grande delusione. Mentre, in vista del ballottaggio, sarà interessante capire come si muoverà Sergio Menchini, che dopo il gran rifiuto alle primarie ha messo in piedi quattro liste civiche, sottraendo anche numerosi ex consiglieri e militanti del Pd, e che ha raggiunto il 13,2% dei voti.
Nella città della Torre Pendente, con un’affluenza ferma al 58,6%, a sfidarsi il 24 giugno saranno il candidato della coalizione di centrosinistra Andrea Serfogli con il 32,3%, e quello del centrodestra Michele Conti, che con il 33,4% parte in lieve vantaggio. Decisivo per la vittoria finale a Pisa sarà il ruolo delle liste civiche, da quelle di Antonio Veronese (6,2%) orientate verso il Pd, a quella di Raffaele Latrofa (6,6%) che invece guarda alla destra forzista. Da non trascurare nemmeno il residuo voto pentastellato, che con Gabriele Amore ha raccolto un (deludente) 9,9%, peraltro potenzialmente decisivo per un verso o per l’altro. Anche i Diritti in Comune con Auletta rientrano in consiglio comunale, mentre gli altri quattro candidati sindaco sono sotto il 3% e ne restano fuori.
A Siena, dove l’affluenza è stata del 63,1%, i Cinque stelle non correvano e in prima battuta è in vantaggio il sindaco uscente Bruno Valentini, che con il Pd e la lista civica In Campo ha preso il 27,4%. A breve distanza il candidato del centrodestra Luigi De Mossi, che non ha sfondato raccogliendo solo il 24,2%. Decisivi al ballottaggio saranno i voti dell’ex sindaco (Pds-Ds) Pierluigi Piccini, che sognava il colpaccio ma si è dovuto accontentare del terzo posto con il 21,2% della sua lista personale, e quelli del civico a 360 gradi Massimo Sportelli, che potrebbe portare in dote il suo 15,9%.
Di rilievo anche il voto a Campi Bisenzio, 42mila abitanti nella Piana fiorentina, dove il ricandidato Emiliano Fossi del Pd e civiche si è attestato al 42,1%, distaccando Maria Serena Quercioli del centrodestra (28,8%). Come Piccini a Siena, anche l’ex sindaco (Pds-Ds) campigiano Adriano Chini sperava nel ballottaggio ma si è fermato al 23,1%, che sarà comunque decisivo. Non per caso Fossi ha teso la mano aprendo al programma “no aeroporto” di Chini: “I valori legati a una politica inclusiva, basata sui temi quali l’ambiente, la qualità della vita, e una decisa contrarietà alle grandi opere, ci permetteranno di vincere”. Un appello distante da quello di Marco Recati, portavoce del Pd toscano, che invece chiama al sostegno “delle liste civiche, e del mondo dei moderati che guardano al centrosinistra”.
Il Pd non andrà al ballottaggio a Pescia (affluenza 55,4%) in provincia di Pistoia, dove il duello finale sarà tra Francesco Conforti del centrodestra e l’ex sindaco Oreste Giurlani, già del Pd poi dimesso per un’inchiesta giudiziaria. Infine a Pietrasanta, unico dei sei comuni guidato dal centrodestra, il candidato post-Mallegni, Alberto Giovannetti, va al ballottaggio con Ettore Neri appoggiato da Pd e una lista civica.

Corriere 12.6.18
Ucciso al semaforo
La rabbia di Firenze, blitz al campo rom
Interviene la polizia. Salvini: «Verrò in città»
I due arrestati accusati di omicidio volontario
di Marco Gasperetti


FIRENZE L’hanno vegliato un giorno e una notte. Hanno sperato e pregato. E poi, quando alle 19 di ieri i medici hanno annunciato la morte di Duccio, si sono messi a piangere come bambini. Proprio loro, gli amici più cari, che con quel ragazzo avevano giocato a calcio, corso dietro alle ragazze, tifato in Curva Fiesole la Fiorentina, riso a crepapelle, sfidato il mondo. Duccio Dini, 29 anni, è morto mentre con il suo scooter era fermo a un semaforo rosso. Stava andando al lavoro. A ucciderlo, domenica, la folle corsa delle auto guidate da due rom (con precedenti penali per rapina, sfruttamento della prostituzione, furti) che si inseguivano e si speronavano nel quartiere dell’Isolotto a Firenze. E che poi sono piombate su quel ragazzo. «Proprio lui, Duccio, che lì non ci doveva essere perché domenica non avrebbe dovuto lavorare», dice Luca, il padre, una vita da impiegato, allenatore di calcio giovanile.
Il sindaco Dario Nardella ha annunciato il lutto cittadino, il ministro dell’Interno Matteo Salvini arriverà a Firenze «per affrontare la questione della sicurezza e per porre un argine alla criminalità diffusa in alcune zone della città». Durante una manifestazione organizzata da Fratelli d’Italia nel luogo della tragedia, un gruppo di manifestanti si è staccato dal corteo e ha cercato di entrare nel vicino campo rom del Poderaccio dove vivevano gli arrestati, presidiato dalle forze dell’ordine. A cercare di placare gli animi è arrivato anche Luigi Ciatti, il padre di Niccolò, il giovane ucciso in una discoteca spagnola da due ceceni.
La morte di Duccio non è stato un incidente, almeno di questo sono convinti carabinieri e Procura; i due arrestati sono stati accusati di omicidio volontario. Sono Amet Remzi, 65 anni, e il nipote Dehran Mustafa, 36 anni. Una terza persona è inquisita. Oltre a uccidere Duccio, i sospettati hanno ferito altre due persone, mentre padre e due figli di 8 e 6 anni si sono salvati per un miracolo. Una delle macchine dopo lo scontro ha preso fuoco, dall’altra ridotta in rottami è uscito uno degli imputati armato di una mazza.
A quella velocità e guidando in quel modo avrebbero potuto fare una strage e hanno accettato il rischio, il «dolo eventuale», hanno stabilito le indagini condotte dal reparto operativo carabinieri di Firenze guidato dal colonnello Carmine Rosciano e coordinate dal pm Tommaso Coletta. Agli investigatori gli indagati hanno raccontato la storia di una faida familiare per un suocero impiccione e un genero che trascurava la moglie. Si può morire per questo?

Corriere 12.6.18
La Terni operaia diventa leghista Il leader celebra i «dati commoventi»
In Umbria al 29%, a Pisa sopra il 24. Maroni: ridisegnati i rapporti dentro il centrodestra
di M. Cre.


MILANORisultati «commoventi». Matteo Salvini esulta per l’esito delle amministrative 2018, in particolare per quanto riguarda Terni (oltre il 29%) e Pisa (24,7%), capoluoghi fuori dai tradizionali insediamenti leghisti in cui la Lega si è risvegliata ieri mattina come primo partito. Per il ministro dell’Interno, «vuol dire che questi primi giorni di attività di governo sono stati riconosciuti da chi ha votato».
In realtà, oltre alle dichiarazioni pubbliche, qualche rimostranza il leader leghista ieri l’ha fatta. Al consiglio federale riunito nel quartier generale di via Bellerio, Salvini si è mostrato poco soddisfatto del risultato di Brescia, dove il centrodestra unito non è riuscito neppure ad arrivare al ballottaggio: «Lì, abbiamo sbagliato qualcosa». Lo stesso è accaduto a Imola, dove la sfida al ballottaggio sarà tra Pd e 5 Stelle. In generale, l’Emilia che pare sempre a portata della mano leghista rimane sempre un po’ sotto le attese.
In Veneto il partito riconquista Treviso e strappa Vicenza, con il presidente Luca Zaia che parla di «risultati strepitosi». Soddisfatto anche Roberto Maroni. Per l’ex governatore lombardo «la Lega si rafforza molto e si conferma in grande ascesa. Vedo in difficoltà i Cinquestelle. Il Pd così così, barcolla». La tornata elettorale per Maroni «ridisegna in modo netto i rapporti dentro il centrodestra, la fase iniziata nel 1994 può dirsi definitivamente conclusa. Se c’è un futuro per il centrodestra? Sì, ma bisogna costruirlo».
Il riferimento è soprattutto a Forza Italia, in affanno in molte realtà. Chi lo nota è Raffaele Volpi, deputato ma soprattutto protagonista — attraverso Noi con Salvini — dell’espansione della Lega al centro e al sud: «Il dato è positivo anche dove non era scontato. Vedo purtroppo la presenza di FI sempre piu leggera anche in Lombardia. Se vogliono rimanere centrali, gli alleati devono uscire dalle loro logiche tradizionali. Il 7% a Brescia dovrebbe essere un bagno di consapevolezza». E al Sud? I risultati migliori sono stati in Puglia, a Brindisi e Barletta, dove però resteranno fuori dalle alleanze di governo. Ma per Volpi i risultati alterni non sono un problema: «Il dato non è numerico ma politico. Ora qui ci siamo anche noi. Fino a ieri, non c’eravamo».

Il Fatto 12.6.18
Sfida atomica Kim-Trump: guerra o pace hollywoodiana
Il faccia a faccia tra il nordcoreano e l’americano negli Universal Studios: per gli Usa un’intesa “prendere o lasciare”
di Giampiero Gramaglia


Non scoppierà subito la pace. E neppure scoppierà subito la guerra. Ma il vertice tra il presidente americano Donald Trump e nord-coreano Kim Jong-un può imprimere spinte opposte alla sicurezza dell’Estremo Oriente. Se Trump e Kim s’intendono, se la loro ‘chimica’ funziona, la strada è quella di una progressiva ‘denuclearizzazione’ della penisola coreana e della trasformazione in pace dell’armistizio del 1953, in cambio del blocco delle sanzioni e della concessione di aiuti. Se Trump e Kim si lasciano in malo modo, il confronto potrebbe di nuovo inasprirsi e gli Stati Uniti potrebbero pensare a un’azione coercitiva e rispolverare la ‘dottrina Bush’, secondo cui “i leader degli Stati canaglia sono attori irresponsabili ed irrazionali, disposti a far subire al proprio popolo una durissima reazione pur di arrecare danni ai loro nemici”.
Che Kim sia un dittatore, Trump pare per ora esserselo dimenticato. Anzi, la sua vigilia è stata tutta all’insegna dell’ottimismo: a pranzo con il premier di Singapore Lee Hsien Loong, s’è detto sicuro che il Vertice “andrà molto bene” e ha ringraziato l’anfitrione per l’accoglienza e la collaborazione – tanto per dire, paga lui tutte le spese -. Lee gli ha fatto trovare una torta di compleanno anticipata: giovedì, Trump compirà 72 anni. Kim, invece, s’è concesso la sera un giro in auto dei ‘Gardens by the Bay’, un parco molto popolare ricavato su oltre 100 ettari di superficie bonificata nel centro di Singapore, accanto al lago artificiale Marina Reservoir.
Le delegazioni americana e nord-coreana hanno lavorato sui possibili sbocchi dell’incontro, anche se l’imprevedibilità e l’impulsività dei due leader rende l’esito dei colloqui aleatorio. Il programma prevede, dopo la stretta di mano alle 9, le tre del mattino in Italia, subito un incontro che potrebbe anche durare due ore.
Il vertice dovrebbe concludersi con un pranzo di lavoro; poi, Trump farà una conferenza stampa e ripartirà da Singapore alle 20, le 14 italiane. Già si parla di un bis: Kim, che ripartirà con lo stesso aereo cinese con cui è arrivato, potrebbe invitare Trump a Pyongyang già a luglio (e, allora, potrebbe esserci pure il presidente sud-coreano Moon Jae-in). Nel dare per la prima volta l’annuncio del vertice, i media nordcoreani scrivono che Trump e Kim discuteranno una “nuova relazione tra Washington e Pyongyang” e che si scambieranno opinioni su come costruire “un meccanismo di pace duratura e permanente nella penisola coreana”, perseguendo anche l’obiettivo della denuclearizzazione. Gli Usa, dal canto loro, insistono “per la completa, verificabile e irreversibile denuclearizzazione della penisola coreana”, scrive su Twitter il segretario di Stato Mike Pompeo, che guida la squadra dei colloqui preliminari, svoltisi al Ritz Carlton. Con lui c’è Sung Kim, ex ambasciatore degli Usa in Corea del Sud ed ex capo negoziatore sul nucleare con il Nord, richiamato poche settimane fa dalle Filippine.
Le foto pubblicate da Pompeo mostrano che, a capo della delegazione nord-coreana, c’è Choe Son-hui, vice ministro degli Esteri, esperta da anni di relazioni con Washington e autrice della nota in cui dava dello “stupido” al vicepresidente Usa Mike Pence, che aveva prospettato per la Nord Corea una “soluzione libica”. Trump ne era stato indotto a cancellare il vertice “per la rabbia tremenda e l’aperta ostilità” mostrata da Pyongyang.
Le fonti di stampa nord-coreane citano pure Kim Yo-jong, sorella del leader, il ministro degli Esteri Ri Yong Ho e Kim Yong Chol, ex capo dei servizi d’intelligence militare, ora considerato il braccio destro di Kim. A Singapore, ci sono i due team che nelle ultime settimane si sono incontrati più volte a Panmunjom, sul confine tra le due Coree. Pompeo dice che Trump è pronto a dare a Kim “certezze e sicurezze”. Fra le curiosità della vigilia, il lapsus d’una conduttrice della Fox che in diretta ha definito il vertice tra Trump e Kim “un incontro tra due dittatori”. Abby Huntsman, figlia di Jon, l’ambasciatore Usa in Russia, stava parlando con Anthony Scaramucci, ex direttore per undici giorni delle comunicazioni della Casa Bianca, che non ha battuto ciglio; la conduttrice s’è poi scusata. Quando tornerà a Washington, Trump troverà grane ad attenderlo: le dimissioni del capo dello staff John Kelly e del suo vice Joe Hagin sarebbero già pronte. Alla Casa Bianca regna di nuovo il caos, come l’estate scorsa, quando ci fu una raffica di licenziamenti e dimissioni. S’ipotizza un esodo dopo le elezioni di mid-term a novembre, ma la prospettiva non turba molto il presidente, convinto che sia meglio sbarazzarsi di chi non gli dà sempre ragione e non lo asseconda.

Il Sole 12.6.18
Donald Trump e Kim Jong-un
Un dossier da non banalizzare
di Ugo Tramballi


«Non credo di dovermi preparare molto: tutto dipende dall’atteggiamento, dalla volontà di fare le cose», diceva qualche giorno fa Donald Trump del suo incontro con Kim Jong-un. La semplificazione di ciò che invece è complesso, insieme alla presunzione di essere un uomo speciale – «a very stable genius», aveva twittato una volta – sono qualità pericolose per un presidente degli Stati Uniti.
È la certezza di saper risolvere un conflitto durato 70 anni; di ottenere ciò che vuole da un dittatore più instabile di lui; di tener sotto controllo i piani cinesi; di rispondere alle aspettative degli alleati Sud-coreani e giapponesi. È in sostanza questa assenza di dubbi nelle dichiarazioni e nei messaggi di Trump su cose così grandi e complesse, che preoccupa la comunità internazionale.
Tutti i confronti diplomatici sono un dedalo in fondo al quale si arriva, se si arriva, dopo aver fatto dolorose concessioni e ripetutamente sfiorato il fallimento. Fra i negoziatori e gli sherpa la più banale ma più vera delle affermazioni è che il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. Esattamente ciò di cui Trump sembra non interessarsi: i dettagli. Un diplomatico che era stato nello staff repubblicano, sostiene che il presidente «pensa che tutto quello che serve sia chiudersi per due ore in una stanza con Kim, e che tutto possa essere sbrigato». Come se il dittatore coreano fosse un immobiliarista di New York, e in gioco non ci fosse la stabilità dell’area geografica commercialmente più dinamica del mondo ma un lotto da edificare a Lower Manhattan.
È comunque uno sviluppo storico della lunga crisi coreana, che il presidente Usa e il leader del Nord si incontrino e si parlino. Il nonno e il padre di Kim avevano sempre sognato di uscire trionfalmente dal loro isolamento, stringendo la mano addirittura del capo supremo americano. Non avevano mai ottenuto più di un segretario di Stato. Qualcuno a Washington fa notare che Trump ha fatto questa importante concessione senza chiedere nulla in cambio. Il sospetto – meglio, la grande paura – è che per ottenere il successo che manca dopo un anno e mezzo, Trump voglia raggiungere obiettivi che per tutti tranne che per lui, sarebbero invece dei fallimenti. Il presidente potrebbe chiedere al Nord di smantellare il suo programma missilistico strategico, quello che potrebbe minacciare il territorio americano, ma non anche i vettori di breve e media gittata. L’America sarebbe in sicurezza, non gli alleati della Corea del Sud e del Giappone. In cambio di altre concessioni Trump potrebbe mettere sul piatto anche il ritiro dei quasi 29mila soldati Usa in Corea del Sud, aggravando ancora di più la sicurezza degli alleati nella regione. Durante la campagna elettorale Trump aveva consigliato coreani e giapponesi di dotarsi di arsenali indipendenti, proponendo una proliferazione nucleare che avrebbe reso il mondo più pericoloso ma l’America non vincolata verso gli alleati. Tutte queste erano eventualità impensabili: fino al G7 di due giorni fa, quando Trump ha tradito gli alleati occidentali in ogni capitolo dell’agenda del vertice, chiamando questo terremoto “America first”. Una bussola che potrebbe indicare la direzione anche a Singapore, nel faccia a faccia con Kim.
A poche ore dal primo incontro fra i due, il dubbio che non è ancora stato chiarito è se, come e quando la Corea del Nord sia pronta a rinunciare non solo al programma nucleare ma anche alle bombe che già possiede: forse già un centinaio. Nella storia della proliferazione nucleare molti Paesi hanno cancellato i loro programmi ma non gli arsenali, se li avevano già creati. Cosa farà Kim? E come reagirà Trump a caccia di un successo, se da una trattativa sul nucleare la Corea facesse uscire il suo nucleare?

Il Fatto 12.6.18
Le associazioni umanitarie ricordano che Pyongyang è una prigione a cielo aperto: oltre 100 mila nei lager
Quella “bagattella” dei diritti umani fantasmi al vertice
di Andrea Valdambrini


I diritti umani sono il convitato di pietra del vertice di Singapore. Se Trump – ansioso di chiudere un accordo storico – dovesse sollevare la questione, l’irritazione del regime di Pyongyang sarebbe certa. Se invece Trump non lo facesse, l’imbarazzo dell’opinione pubblica occidentale e perfino lo sdegno, sarebbe sicuro.
Michael Kirby, che ha presieduto la commissione d’inchiesta Onu sui diritti umani in Corea del Nord, ha affermato: “Per gravità, portata e durata, le indicibili atrocità commesse nel Paese rivelano uno Stato totalitario che non ha alcun parallelo nel mondo contemporaneo”. Trump, evidentemente, non lo ignora. Prima dell’inaspettato idillio con il dittatore di Pyongyang, lo scorso novembre The Donald si era rivolto ai parlamentari sudcoreani definendo il Nord “un inferno che nessuno al mondo merita”. È ancora vivo negli Usa lo sdegno per la morte lo scorso anno di Otto Warmbier, studente 22enne condannato ai lavori forzati per presunte attività sovversive e rispedito a casa in stato comatoso. Eppure, poco prima del vertice, la Casa Bianca è rimasta sul vago: parleremo dei diritti umani? Sì, no, forse.
In uno Stato in cui il governo ha il controllo assoluto dell’informazione, e tanto della vita politica che soprattutto di soprattutto di quella privata, gli abusi di potere sui cittadini vengono documentati da anni, grazie al lavoro degli attivisti di ong internazionali e alle testimonianze di dissidenti e sopravvissuti alle prigioni. Difficile dire esattamente quante persone si trovino nei campi di detenzione, paragonabili a veri e propri lager, la cui esistenza sempre negata dal regime è stata documentata in modo incontrovertibile lo scorso anno attraverso immagini satellitari.
Il Dipartimento di Stato Usa, nel suo ultimo rapporto, ha stimato che nei campi di prigionia possano trovarsi fra le 80.000 e i 120.000 persone, ma c’è chi parla addirittura di 200.000. Secondo la descrizione di molti attivisti, chi vi è imprigionato paga reati che possono andare dall’aver guardato un dvd sudcoreano all’aver tentato la fuga dal Paese: in ogni caso, crimini di opinione.
Amnesty International ha descritto la vita dei prigionieri come “dura all’inverosimile”, dettagliando torture e violenze per gli uomini e abusi sessuali per le donne.
Il rapporto della Commissione d’inchiesta Onu (2014) riassumeva la situazione ricordando che le violazioni sistematiche dei diritti umani in Nord Corea includono “omicidio, schiavitù, tortura, imprigionamenti, stupro, aborti forzati e altre violenze sessuali”. Ce n’è abbastanza per denunciare Kim per “crimini contro l’umanità”.
Nel 2015, in effetti, il Consiglio per i diritti umani Onu adotta una risoluzione di condanna contro Pyongyang, autorizzando anche la creazione di un gruppo di esperti indipendenti con l’intento di portare il regime a risponderne davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja. Kim Jong-un non sembra essersene preoccupato troppo. È bastato il rilascio di 3 detenuti con passaporto americano, a marzo, per fare sorridere l’inquilino della Casa Bianca – e provare a cancellare la tragedia trans-pacifica del giovane Warmbier. I nordcoreani, in fondo, non sono che fantasmi. Per Donald, si capisce, mica solo per Kim.

Repubblica 12.6.18
Il romanzo di Mary Lynn Bracht
“Ecco la guerra segreta delle coreane diventate schiave del Giappone”

intervista di Filippo Santelli

Ci vogliono decenni per curare le ferite di una guerra. Alcune perché profonde, come la divisione che oggi Corea del Sud e Corea del Nord stanno provando a sanare.
Altre perché nascoste, lasciate incancrenire nell’inconscio individuale e collettivo. Mary Lynn Bracht, 39 anni, nata in Texas da una madre sudcoreana, aveva la giusta distanza per raccontare una delle più oscure, quella delle “donne di conforto” rapite durante la Seconda guerra mondiale dagli occupanti giapponesi, deportate al fronte e costrette a prostituirsi per i soldati dell’imperatore. Nel suo romanzo d’esordio Figlie del mare (Longanesi), Hana è una di queste 200mila ragazzine della Corea (molte giovani provenivano anche dalla Cina) strappate alle famiglie.
Si sacrifica per salvare la sorella più piccola Emiko, che dopo settant’anni e una vita passata a seppellire la vergogna della sopravvissuta troverà la forza per affrontare il passato.
Una tragedia di cui in Corea del Sud a lungo non si è parlato: perché?
«Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra di Corea c’era da pensare a ricostruire il Paese e al conflitto contro i comunisti. Le donne coinvolte provavano troppa vergogna per essere ancora vive: secondo la cultura coreana una donna onorevole si sarebbe suicidata, parlarne voleva dire condannarsi. La prima di queste comfort women che negli anni Novanta ha denunciato i crimini giapponesi ha potuto farlo anche perché non aveva famiglia».
È stata sua mamma a parlarle
delle donne di conforto?
«No, l’ho scoperto quando avevo vent’anni, mentre mi preparavo a un viaggio in Corea. Le ho chiesto perché non le avesse mai menzionate e mi ha risposto che “tutti conoscevano la storia”. In Corea non se ne parla ai figli.
Quando sono diventata scrittrice e ho scoperto che lottavano ancora per avere giustizia mi sono immaginata che cosa provano, dopo tante sofferenze, a dover ancora combattere».
Un riconoscimento dei crimini giapponesi è arrivato nel 2015.
«Non è sufficiente. Il Giappone ha garantito dei soldi alla Corea, chiedendo in cambio la rimozione della statua che ricorda la tragedia, di fronte alla sua ambasciata a Seul.
Tokyo vuole solo che non se ne parli più, non ha intenzione di inserire l’accaduto nei libri di storia. Quelle donne vogliono essere ricordate come cittadine rese schiave con la forza, per una guerra non loro».
Sia a Hana che a Emiko i ricordi si ripresentano in maniera improvvisa, brutale. Il passato non si lascia cancellare?
«Emi viene costretta ad accettare la memoria, altrimenti non troverà mai pace. Per Hana i ricordi sono un modo per cancellare la sofferenza, per sopravvivere».
La loro è una famiglia di “haenyeo”, le pescatrici subacquee dell’isola di Jeju, orgogliose della propria forza. Si direbbero delle femministe.
«Non credo sia un romanzo femminista, bensì un romanzo storico raccontato dal punto di vista delle donne. Durante la guerra, su di loro si riflette immediatamente il fatto di non avere scelta: non possono che sopportare quello che succede ai propri Paesi. Nei libri di storia non ci sono, io volevo raccontare la loro forza e il ruolo che hanno avuto dopo, nella ricostruzione della comunità».
In Corea del Sud il movimento anti-abusi MeToo sta avendo enorme risonanza.
«Le donne hanno trovato la forza per rivelare quello che hanno subito, a scuola o sul lavoro, da uomini potenti; stanno rompendo gli schemi. Molti degli accusati si sono dovuti dimettere, ma credo che per un vero cambiamento il governo dovrà fare sua questa battaglia. L’intervento delle istituzioni è necessario».
Nel romanzo sia Hana che Emi alla fine trovano una forma di riconciliazione. Anche le ferite più dolorose si possono curare?
«È difficile ma credo di sì. Oggi restano in vita 29 donne di conforto e spero che abbiano l’occasione per riconciliarsi con il passato».
Sembra più facile sanare la frattura tra le due Coree che quella tra Seul e Tokyo…
«La Corea del Nord ha bisogno di aiuto, il Giappone no. Ma la Germania è un esempio: dopo la Seconda guerra mondiale ha accettato la responsabilità per l’Olocausto e le sue vittime, non si è nascosta. Anche un Paese può fare pace con il suo passato».

Repubblica 12.6.18
La polemica
Ai Tony Awards
“Donald, vaffa...” e De Niro conquista due standing ovation
L’attore contro il presidente in diretta tv “Sono tempi pericolosi, andate a votare”
di Alberto Flores D’Arcais


NEW YORK «Prima di tutto voglio dire “fuck Trump!”». Robert De Niro non si è lasciato sfuggire l’occasione, troppo ghiotto il palcoscenico del Radio City Music Hall, dove era in corso la premiazione dei Tony Awards, gli Oscar per i musical di Broadway. Lui The Donald come presidente proprio non lo sopporta e il fatto che sia (come del resto l’attore) un nativo di New York City — città liberal e multietnica per definizione e scelta — glielo rende ancora più insopportabile. Così, chiamato a presentare il suo amico Bruce Springsteen, che di lì a poco si sarebbe esibito al pianoforte con “My Hometown”, ha lanciato la “Bomba F”, come subito è stata definita dai media americani per assonanza col vertice di Singapore. Smoking blu petrolio, occhialetti sottili, barba grigia ben curata, stampato sul volto quel mezzo sorriso che diventa ghigno e che ha fatto impazzire generazioni di donne (e uomini), il grande attore si è preso un minuto per dire la sua (e per una doppia standing ovation in diretta tv). «Prima di tutto voglio dire Trump vaffanculo», ha gridato alzando le braccia e i pugni verso il pubblico entusiasta quasi come fosse il Jack La Motta di Toro Scatenato, «ora non è più abbasso Trump, è Trump vaffanculo». I milioni che stavano seguendo i Tony Awards in tv la frase non l’hanno sentita, gli addetti alla censura preventiva sono stati velocissimi nel coprire le sue parole con un sonoro beep. Hanno però capito subito, dagli applausi scroscianti e dal sorriso-ghigno di soddisfazione di Bob, che il vecchio giullare l’aveva fatta grossa. Chi era presente la “Bomba F” l’ha sentita fin troppo bene, i giornalisti presenti (e qualcuno anche tra il pubblico) l’hanno rilanciata via Twitter e sui social network (complice anche un video della tv australiana che non ha censurato nulla) nel giro di pochi minuti è diventata virale.
Tutti hanno sentito le parole successive, quando ha voluto ringraziare Springsteen per l’impegno politico del cantante, lanciando un appello a recarsi in massa alle elezioni per il Congresso del prossimo novembre. «Bruce, tu puoi scuotere (De Niro ha usato la parola ‘rock’, che ha diversi significati), questo posto come nessun altro è in grado di fare, ma, cosa ancora più importante in questi tempi pericolosi, puoi promuovere (anche qui ha usato ‘rock’) il voto, perché hai sempre lottato, con le tue parole, per la verità, la trasparenza e l’integrità del governo. Ragazzo, adesso ne abbiamo proprio bisogno».
Che il mondo di Hollywood non ami troppo Donald Trump è risaputo e Robert De Niro, ancora prima che The Donald venisse eletto alla Casa Bianca, è stato il capofila della pubblica contestazione. Come quando lo aveva definito in un video un «cane, maiale e truffatore» per poi rincarare la dose con «è un idiota», dicendo che la cosa che desiderava di più era di dargli un bel pugno in faccia (diventato anche questo ovviamente virale sui social network). Un anno fa, parlando alla cerimonia di laurea della Brown University (uno dei college che fa parte della prestigiosa Ivy League) aveva definito l’America di Trump «una commedia tragica e stupida» e nel maggio scorso aveva dichiarato che se il presidente si presentasse in uno dei suoi ristoranti (come il celebre Nobu di Manhattan) verrebbe «inesorabilmente messo alla porta». Nel più celebre show del sabato sera in tv (The Saturday Night Live) andato in onda il 14 aprile scorso l’attore (che è anche regista e produttore) si era poi “travestito” da Robert Mueller, il procuratore speciale del Russiagate in un duetto con Ben Stiller nei panni dell’avvocato di The Donald, Michael Cohen.

Corriere 12.6.18
Gli archibugi del papa
Un saggio di Giampiero Brunelli (Salerno) ricostruisce le imprese del generale Giovan Francesco Aldobrandini, che affrontò gli ottomani in terra magiara alla fine del XVI secolo nonostante la posizione incerta dei sovrani asburgici
I pontifici contro i turchi in Ungheria al comando del nipote di Clemente VIII
di Paolo Mieli

Ippolito Aldobrandini fu eletto Papa nel gennaio del 1592 e prese il nome di Clemente VIII. Aveva 56 anni e visse fino al 1605. Sotto il suo pontificato ebbe luogo, nel 1600, una celebrazione dell’anno santo davvero considerevole per il numero di pellegrini che giunsero a Roma: oltre un milione. Ma quello stesso 1600 restò nella storia per il rogo in Campo dei Fiori che mise fine alla vita di Giordano Bruno, un’uccisione che ancora oggi la cultura laica (e parte di quella cattolica) non ha perdonato alla Chiesa. Clemente VIII fece cardinali due nipoti, Cinzio Passeri e Pietro Aldobrandini, ai quali affidò importanti ruoli di direzione della Chiesa, e si giovò anche della collaborazione di un grande gesuita, il cardinale Roberto Bellarmino. Il personaggio più importante del pontificato di Clemente VIII, quantomeno sotto il profilo militare, fu però Giovan Francesco Aldobrandini, appartenente a un ramo cadetto della casata, ma che — avendo sposato Ippolita Aldobrandini, figlia di un fratello del Pontefice — era stato ammesso nella cerchia dei «nipoti» (pur essendo poco più giovane del Papa).
A Giovan Francesco Aldobrandini furono affidate, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, ben tre missioni militari in Ungheria per soccorrere gli Asburgo contro i turchi impadronitisi del 40 per cento delle terre magiare. Spedizioni che sono adesso oggetto di un interessantissimo libro di Giampiero Brunelli, La santa impresa. Le crociate del Papa in Ungheria (1595-1601), che la Salerno si accinge a mandare in libreria. Quelle tre «imprese», spiega Brunelli, costituirono per il Papa e per la sua segreteria «la rivisitazione dell’antico sogno crociato, con nuovi obiettivi»: non più la riconquista di Gerusalemme, ormai impossibile, bensì «l’arresto immediato dell’avanzata turca e il contrattacco… puntando direttamente su Costantinopoli, dal 1453 capitale dell’impero del sultano».
Era passato molto tempo dall’epoca delle crociate, i Paesi europei erano in competizione uno con l’altro e su di loro si poteva contare assai limitatamente. Clemente VIII riuscì a mobilitare in quella «santa impresa» qualche migliaio di soldati che disordinatamente, agli ordini del «nipote» Giovan Francesco, raggiunsero l’Ungheria. E, almeno in due occasioni, nel 1595 e nel 1597, ebbero ragione degli ottomani. Gli Asburgo (dapprima con Massimiliano II; poi, dopo il 1576, con Rodolfo II) avevano firmato ben quattro trattati con gli invasori turchi (nel 1568, nel 1574, nel 1583 e nel 1590) con i quali si impegnavano a versar loro una cospicua dote in fiorini ungheresi purché cessassero le loro aggressioni. Aggressioni che con ogni probabilità in quel momento non avrebbero avuto luogo, quantomeno su larga scala, dal momento che gli ottomani erano impegnati in una guerra contro la Persia durata una dozzina d’anni (1578-1590). Questa guerra li dissanguò e fu proprio la crisi economica provocata dal conflitto turco-persiano a provocare i primi contraccolpi come effetto di qualche cedimento militare degli ottomani.
Le «chiacchiere» fecero il resto. In che senso? Anche a non voler retrodatare alla fine del Cinquecento la nascita della cosiddetta «opinione pubblica», scrive Brunelli, è «indubbio» che la diffusione delle voci circa la ripresa del conflitto in Ungheria contro i turchi «debba esser collegata alla nascita di quel primissimo giornalismo che si esprimeva attraverso la pubblicazione di fogli manoscritti di notizie (chiamati “Avvisi”)». Come funzionavano queste prime forme di giornalismo moderno? Gli antenati di quelli che sarebbero stati i corrispondenti «si incaricavano di raccogliere informazioni sull’andamento della guerra, informazioni che venivano da Vienna, Costantinopoli, Venezia o da altre città più prossime al teatro delle operazioni; poi traducevano i testi in tedesco o in ungherese, li vagliavano, li ricopiavano e li mettevano in circolazione, facendoli vendere agli ambulanti». Al grido di «Nuove!», «Avvisi!».
Roma fu invasa da questo genere di proto giornali che parlavano di «rotta» dei turchi e di «felice successo» degli eserciti asburgici. Notizie davvero esagerate che, però, crearono un clima particolarmente favorevole a una nuova «crociata». A chiunque — com’era il caso dell’ambasciatore veneziano Paolo Paruta — gli riferisse di questo «clima» o dei capovolgimenti militari in Ungheria, papa Clemente rispondeva compiaciuto: «Lo sappiamo, lo sappiamo». Era giunto il momento — secondo l’«opinione pubblica» romana — di «riprendere il discorso» che si era interrotto dopo la vittoria di Lepanto sulla flotta ottomana nell’ottobre 1571. Rodolfo II d’Asburgo a cui il Papa, appena eletto, aveva rivolto una specifica richiesta in tal senso, gli aveva risposto di essere ben lieto di continuare a ricevere sussidi pontifici per l’opera di contenimento dei turchi, ma che non aveva intenzione di avventurarsi in una guerra contro di loro e che — eccezion fatta per qualche scaramuccia atta a riconquistare piazze perdute, le piccole battaglie che tanto avevano elettrizzato Roma — il suo progetto era proseguire in una politica di «amicizia» e di «tregua» con la Sublime Porta.
Papa Clemente decise allora di non limitarsi più alle donazioni economiche, anche perché sospettava che esse restassero impigliate nella giungla della corruzione che infestava la corte asburgica. Si rendeva conto che il resto d’Europa — Filippo II di Spagna, pur ben intenzionato, la Francia, i ribelli olandesi, la regina d’Inghilterra — non si sarebbe mobilitato per contrattaccare e, deciso a scatenare comunque questa offensiva, pensò bene di mandare in loco un corpo di spedizione. Un corpo di spedizione di diecimila fanti e seicento cavalleggeri guidati dal già citato Giovan Francesco Aldobrandini, che aveva dato buona prova in precedenti operazioni di repressione del banditismo nelle campagne romane. Il reclutamento dei soldati fu assai complicato e alcune città, come Spoleto, fecero ostruzionismo. Ma alla fine l’azione di Clemente VIII fu coronata dal successo e — secondo i calcoli dell’ambasciatore veneziano Paruta — tra il 1592 e il 1595 l’esercito pontificio era riuscito ad arruolare ben 30 mila soldati. Un terzo dei quali — come si è detto — nel 1595 furono inviati in Ungheria. In che modo? Alla spicciolata, «sbandati», a piccolissimi gruppi, di fatto ognuno a spese proprie. Marciavano «allegramente», secondo quel che riferì il luogotenente generale Paolo Sforza. Le città e i paesi attraversati, in segno di solidarietà alla «santa impresa» erano tenuti ad offrire a questi «viandanti» ricovero e cibo a prezzi più che contenuti. Le armi sarebbero state acquistate a Brescia e a Milano, poi spedite a Trento e di lì in Tirolo. Il tutto per non destare allarme nelle lande attraversate.
Solo il viaggio di Giovan Francesco Aldobrandini fu «principesco». Ma quando giunse alla meta, ad Ala in Tirolo, si trovò di fronte un esercito di «straccioni», talché il generale pontificio dovette impegnarsi non poco a rimetterli in sesto con grande rapidità. Alla fine di agosto Aldobrandini raggiunse l’accampamento imperiale il cui esercito era, per così dire, impegnato in guerra con i turchi dai primi di luglio. Pochi giorni dopo gli uomini di Aldobrandini attaccarono Strigonia, che dal 1543 era in mano turca e dal 1594 resisteva all’assedio asburgico. In men che non si dica, le truppe pontificie la conquistarono. E quando, dodici giorni dopo, la notizia giunse a Roma, il Papa, per ringraziamento, si recò a piedi recitando il rosario a Santa Maria dell’Anima.
In seguito Aldobrandini avrebbe voluto attaccare Buda e per qualche tempo sembrò che anche gli alleati fossero d’accordo. Ma l’intesa durò poco: ripicche, stanchezza, diserzioni, gelosie e disordine suggerirono di levare le tende e tornare a casa. «Negli accampamenti», scrive Brunelli, «gli alleati stavano diventando più temibili dei nemici». Per reazione — ma anche per fame e disperazione — i soldati pontifici «svaligiavano le masserie in cui sostavano, abbattevano e macellavano gli animali degli allevamenti, non pagavano i viveri, angariavano persino i contadini che glieli fornivano». I paesi che avrebbero dovuto attraversare, li accoglievano — di conseguenza — con ostilità. Più di cento uomini di uno dei villaggi deputati ad ospitarli li affrontarono «con bastoni e archibugi alla mano, decisi a tutto pur di vederli allontanare». L’imperatore Rodolfo II («occupato», riferisce una cronaca dell’epoca, «dalli suoi soliti piaceri et passatempi») alla corte del quale Aldobrandini era andato a perorare la causa del proseguimento dell’offensiva, fece attendere a lungo il generale e fu disposto a riceverlo solo nell’aprile del 1596.
Nel frattempo i musulmani di Maometto III erano tornati all’attacco e in ottobre di quello stesso 1596 inflissero agli imperiali pesanti sconfitte. Rodolfo II se ne dispiacque al punto da proibire per quell’anno qualsiasi festeggiamento di Natale. Il Papa, anche per spronare Rodolfo, ordinò ad Aldobrandini di tornare sul campo di battaglia e coprirsi ancora una volta di gloria. All’inizio di febbraio del 1597 il generale si mise in movimento. Giunto in Ungheria, ottenne subito qualche vittoria e propose di attaccare Buda (a suo avviso, solo «un grande successo contro la capitale dell’Ungheria ottomana avrebbe dato coraggio agli ungheresi e ai transilvani»). Il 4 novembre ci fu un confronto in campo aperto fra soldati pontifici e ottomani, «praticamente da soli a soli». E gli uomini di Clemente VIII ebbero la meglio. Il Papa ne gioì nuovamente ma quella fu l’ultima volta che ebbe occasione di compiacersi per ciò che accadeva in terra ungherese. Dopo quello scontro — anche per mancanza di risorse economiche — le truppe cattoliche furono fatte rientrare e passarono quasi quattro anni prima che, nel 1601, venissero rispedite sul luogo per la terza e ultima missione, sempre guidata da Aldobrandini. Il Papa adesso si era convinto che gli Asburgo non fossero più una famiglia compatta e che alla corte dell’imperatore ci fossero troppi protestanti che boicottavano le imprese militari sotto insegne cattoliche. Tra i soldati poi l’entusiasmo si era spento per il deludente esito delle campagne precedenti e si era stati costretti a ricorrere al reclutamento di banditi ai quali veniva promessa l’impunità (a patto che, una volta tornati in patria, non riprendessero a delinquere).
Vennero persino arruolati, nota Brunelli, «sudditi già condannati per aver contravvenuto agli ordini di non militare per altri sovrani». Una soldataglia che in molti casi aspettava solo la paga per poi disertare. Si diffuse poi la voce di trattative in extremis tra Rodolfo II e il sultano e a Roma iniziarono i borbottii contro imprese che «non portavano a niente», provocavano un ingente «spreco» di risorse al quale si accompagnavano anche delle «ruberie». Per di più si era in estate, un’estate torrida, e Aldobrandini, ormai sicuro di sé, si lasciava andare a qualche eccesso nel consumo di vino e frutta ghiacciata. Effetto degli eccessi fu una febbre improvvisa che lo avrebbe portato dritto alla morte. Nel mentre i soldati, senza più la sua guida, andavano incontro alla catastrofe militare. Fu come un segno divino: dopo quei giorni infausti il Papa non si sarebbe più cimentato in questo genere di impresa, avrebbe smesso di sognare la «Lepanto ungherese», sarebbe tornato a sovvenzionare (malvolentieri) Rodolfo II, e — a celebrazione della «santa impresa» — si sarebbe limitato a riportare a casa il cadavere del valoroso «nipote» per rendergli sontuosi onori funebri.
Il funerale barocco del «capitano generale di Santa Chiesa» fu celebrato il 30 dicembre del 1601. Erano presenti, oltre al Papa, quasi tutti i prelati della Curia. L’orazione, tenuta dal gesuita Francesco Sacchini, fu interamente dedicata all’esaltazione del casato a cui apparteneva il defunto (nonché il Pontefice). Il vicegerente della diocesi di Roma, l’arcivescovo Berlingerio Gessi, aveva l’ordine di annotare chi fosse mancato alla cerimonia. I gendarmi dovevano altresì prender nota dei commenti dei cittadini comuni. Qualcuno, sorpreso a sparlare del morto, fu arrestato su due piedi. Venne messo in prigione persino un frate che raccontava di aver sognato, la notte prima, proprio quel funerale e di aver constatato ben nitidamente «che tutte queste spese erano fatte al vento». Forse le spese per le pubbliche esequie furono eccessive, ma la «santa impresa» degli Aldobrandini fu tutt’altro che superflua. E diede alla Chiesa — per quel che riguarda la storia della resistenza alle invasioni musulmane — titoli che fino a quel momento le erano mancati.

La Stampa 12.6.18
La (resistibile) prevalenza dell’uomo in bermuda nei centri delle città
di Chiara Beria di Argentine

Dalla rotula al tarso. Già alle spalle abbiamo un lungo inverno che ha visto i giovanotti fashion victim scoprire le loro caviglie (altro che quelle fragili estremità maliziosamente mostrate dalle lady di secoli fa!) grazie a certi pantaloni - a volte a cavallo superbasso e supermolle - assai stretti e corti dall’effetto bambino troppo cresciuto o lavatrice infame. Il tutto accompagnato da piedi rigorosamente nudi infilati (a volte si sospetta la presenza dell’orrido fantasmino antivescica) dentro a scarpe da ginnastica e persino stringate di cuoio. Ahi, ahi: dove è finita l’eleganza maschile? E ora che si avvicina l’estate questa strana voglia dei maschi italiani di scoprire le gambe non è più cosa riservata alle élites di ragazzacci palestrati&depilati.
Ai primissimi, monsonici caldi sono già riapparsi in giro per le città (al mare - almeno fino al tramonto - è cosa normale) frotte di uomini più o meno giovani in pantaloncini bermuda ormai popolarissima divisa insieme a quelli alla pinocchietto (detti anche alla corsara) indumento ostile a ogni sorta di fisico salvo essere un Matthew McConaughey e soprattutto salvo Brigitte Bardot che li lanciò negli Anni 50 (a fine Anni 90 è stata Prada a riscoprirli in versione sport). Rewind. Nel Dizionario della moda pubblicato anni fa da Baldini&Castoldi Dalai, a cura dell’indimenticabile giornalista Guido Vergani alla voce bermuda è scritto: «Pantaloni corti sopra il ginocchio in cotone di vari pesi... (prendono il nome) dall’arcipelago corallino nell’Atlantico settentrionale divenuto negli anni ‘30-40 meta alla moda per la villeggiatura degli americani...». Stile inglese. In cotone color kaki erano in dotazione alle truppe coloniali britanniche impegnate in zone desertiche e tropicali; nel serial «The Crown» il principe Filippo indossa quelli bianchi da ufficiale della Royal Navy nell’episodi sui mesi che passò in mari lontani dalla Regina; li indossa sempre suo bisnipote, il principino George, come tutti i bambini eleganti. In realtà, a Bermuda territorio britannico d’oltremare, curiosamente furono ideati per consentire alle donne d’aggirare il divieto a mostrare le gambe tutte nude.
Entrati subito nel guardaroba maschile da allora nell’isola i sudditi di sua Maestà li indossano con giacca e cravatta e calze lunghe: una proposta che da alcune stagioni è apparsa sulle passerelle della moda made in Italy per uomo (ovvero, la migliore e più forte al mondo) indossati da tanti, giovani e belli modelli. Tornando alla strada sarà per il cambiamento climatico che evidentemente provoca sudori esiziali nello spazio tra la rotula e il tarso, o sarà per un progressivo declino del senso estetico (vedi uso di borselli, infradito etc etc) l’invasione di mezze gambe nude maschili anche quest’estate è alla porte. Niente di grave, salvo l’occhio.