“Il desiderio di un marxismo umanista che state reprimendo, l’impulso
verso la liberazione individuale, in realtà sono già in Marx e
aspettano solo di essere scoperti. Perciò dipingete quello che volete,
amate chi volete. Al diavolo il partito. Il vero soggetto rivoluzionario
è l’io!”.
internazionale 8.6.18
In copertina
Il messaggio dimenticato di Karl M Marx
A
duecento anni dalla nascita, il filosofo tedesco è ancora studiato in
tutto il mondo. Ma più che per l’analisi dei processi storici, nell’era
dell’automazione il suo pensiero è attuale soprattutto per la
sorprendente fiducia nell’individuo
Di Paul Mason, New Statesman, Regno Unito
La
foto, un po’ sfocata, sembra cogliere Lev Trotskij a metà di una frase.
Siamo a casa di Frida Kahlo nel 1937. A sinistra c’è Natalia Sedova, la
moglie di Trotskij. A destra ci sono Kahlo e, seminascosta dietro di
lei, una giovane donna che ascolta attentamente: è Raja Dunaevskaja, la
segretaria di Trotskij. Non sappiamo quale sia l’argomento della
conversazione, ma non abbiamo dubbi sulle sue premesse: tutte le persone
presenti nella fotografia sono marxiste. Le loro idee sulla politica,
l’economia, l’etica e l’arte sono state influenzate dagli scritti di un
uomo nato in Germania duecento anni fa. Trotskij sarà assassinato nel
1940, e da quel momento Sedova riverserà tutta la sua rabbia contro il
potere sovietico. Kahlo diventerà una delle artiste più straordinarie
del novecento. Ma è Dunaevskaja a costituire il collegamento tra il
marxismo classico e l’unica forma in cui la teoria elaborata dal
filosofo tedesco può avere senso oggi. “Il marxismo”, sosteneva
Dunaevskaja, è una forma di “umanesimo radicale”. Il 5 maggio si è
celebrato il duecentesimo anniversario della nascita di Marx, ma il
dibattito sulle sue idee non accenna a finire. La scorsa estate
l’estrema destra statunitense ha manifestato a Charlottesville, in
Virginia, accusando la città di essere schiava del “marxismo culturale”.
Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, avverte che il
marxismo potrebbe tornare d’attualità a causa della disoccupazione
legata all’automazione e delle disuguaglianze. In Cina, intanto, è stata
risuscitata una forma di marxismo che è diventata la nuova dottrina di
stato. Per capire quello che può e non può sopravvivere del marxismo,
dobbiamo chiederci che senso hanno i suoi insegnamenti nelle condizioni
profondamente diverse di oggi. Oltre l’ortodossia Nel luglio del 1850
Karl Marx era già un teorico della sconfitta. Nel Manifesto del partito
comunista (1848) aveva scritto che la missione della classe operaia era
abolire la proprietà privata e introdurre il comunismo. Ma aveva capito
subito che ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Dopo aver cercato per due
anni di spingere le rivoluzioni democratiche in corso in Francia e
Germania nella direzione della giustizia sociale, aveva ammesso il suo
fallimento e si era rifugiato a Londra. Tuttavia, nella stanza sopra a
un pub di Soho, davanti a una pinta di birra, Marx continuava a
rassicurare il suo compagno d’esilio, Wilhelm Liebknecht, sul fatto che
la speranza non era ancora morta. Aveva appena visto il prototipo di un
treno a trazione elettrica in mostra a Regent street: l’era del vapore
sarebbe finita presto e sarebbe cominciata quella dell’energia
elettrica. Liebknecht scrisse: “Marx, tutto entusiasta e rosso in viso,
mi disse: ‘Adesso il problema è risolto, e le conseguenze sono
imprevedibili. Alla rivoluzione economica deve necessariamente seguire
quella politica, perché la seconda è solo l’espressione della prima”.
Tra i fumi del tabacco, Marx aveva delineato una versione semplificata
della concezione materialistica della storia. A quella ne sarebbe
seguita una più complicata. Nella prefazione al saggio Per la critica
dell’economia politica (1859) Marx spiega che il cambiamento sociale
nasce dal conflitto tra due realtà create dagli esseri umani: le forze
produttive – cioè la tecnologia e le competenze necessarie per usarla – e
i rapporti di produzione, il modello economico necessario per dar vita
alla tecnologia. Insieme, sostiene Marx, la tecnologia e il modello
economico costituiscono la “struttura” su cui in ogni sistema si fondano
le “sovrastrutture”, cioè le leggi, le istituzioni politiche, le
culture e le ideologie. Le rivoluzioni scoppiano quando il sistema
economico ritarda il progresso tecnologico. Dopo il fallimento delle
rivoluzioni del 1848, Marx dedicò la sua vita a due progetti
complementari: la creazione di partiti della classe operaia che
difendessero gli interessi dei lavoratori e li preparassero a
conquistare il potere, e l’analisi delle dinamiche del capitalismo
industriale. Solo una volta, in un quaderno rimasto inedito per più di
cent’anni, Marx azzardò un’ipotesi sulla forma che la rivoluzione
tecno-economica avrebbe potuto assumere. Nel Frammento sulle macchine,
scritto nel 1858, Marx immagina un’epoca in cui le macchine fanno la
maggior parte del lavoro e in cui la conoscenza, diventata “sociale”, si
incarna in quello che il filosofo chiama “intelletto generale”. Dato
che il capitalismo si basa sui profitti generati dai lavoratori, non può
sopravvivere a un livello di progresso tecnologico che elimini la
necessità del lavoro. Il conflitto tra proprietà privata e conoscenza
sociale condivisa, dice Marx, farà “saltare in aria” le fondamenta del
capitalismo. Questa profezia, così palesemente anticipatrice della
nostra epoca di robot e conoscenza condivisa, è rimasta negli archivi
fino agli anni sessanta. Nei cinquant’anni successivi alla morte di
Marx, nel 1883, le sue idee subirono tre reinterpretazioni. All’inizio
il suo collaboratore Friedrich Engels cercò di sistematizzare il
pensiero di Marx in una teoria onnicomprensiva, che non si fermava alla
storia ma teneva insieme perfino la fisica, l’astronomia e l’etnografia.
Questo era il marxismo che studiarono i leader dei primi partiti
socialisti, i quali ne fecero una seconda revisione, sostenendo che le
teorie di Marx conducevano a un socialismo parlamentare pacifico, non
alla rivoluzione. Infine, a partire dal 1899, emerse un marxismo basato
sulla lotta di classe, che metteva la forza di volontà dell’essere umano
e il suo slancio organizzativo al di sopra dell’ineluttabilità dello
sviluppo storico. Questo era il marxismo che Trotskij e Sedova avevano
imparato nei movimenti clandestini in Russia, e che nel 1902 li aveva
costretti all’esilio a Parigi. Secondo questa teoria, la Russia sarebbe
potuta diventare democratica solo sotto la guida della classe operaia.
Per questo bisognava organizzare i lavoratori in partiti agguerriti e
gerarchizzati proprio come gli stati governati dagli zar e dai kaiser
che i lavoratori stessi volevano abbattere. Le loro armi dovevano essere
gli scioperi e le barricate, non le elezioni e l’attivismo culturale.
Ma il marxismo dei primi del novecento conteneva anche una teoria della
classe operaia opposta a quella di Marx. Per il filosofo tedesco le
rivoluzioni del 1848 erano fallite perché il capitalismo non era ancora
maturo per essere abbattuto. Per Lenin, nel 1902, erano i lavoratori a
non essere pronti. E non lo sarebbero mai stati senza la guida di
un’élite, senza l’avanguardia di un partito clandestino che li spingesse
all’azione. Lenin sosteneva che l’intera classe operaia specializzata
del mondo sviluppato ormai era stata comprata dai guadagni
dell’imperialismo: fare la rivoluzione era compito dei lavoratori non
specializzati in occidente e dei popoli dei paesi meno sviluppati. Più o
meno a partire dal 1910 le rivolte nazionaliste e le guerre per la
terra scoppiate in Messico, Cina, Irlanda e infine in Russia sembrarono
confermare questa teoria. Trotskij e Sedova avevano assistito alla
nascita di questo nuovo marxismo rivoluzionario. La generazione di Kahlo
e Dunaevskaja conosceva invece solo questa versione. Dunaevskaja era
nata nel 1910 da genitori ebrei nell’odierna Ucraina ed era emigrata a
Chicago con loro nel 1922. Era entrata nel Partito comunista a 14 anni,
durante uno sciopero scolastico. Avrebbe lasciato il partito quattro
anni dopo, quando fu gettata giù dalle scale per aver criticato
l’espulsione di Trotskij dal Comintern e dal Partito comunista
sovietico. Trotskij era stato uno dei leader della rivoluzione del 1917.
Poi aveva partecipato all’abolizione del controllo delle fabbriche da
parte dei lavoratori e alla repressione delle opposizioni di sinistra.
Ma a partire dal 1923, davanti alla nascita di una nuova élite di
burocrati, aveva lanciato un suo movimento di opposizione. Negli anni
trenta era ormai arrivato alla conclusione che lo stalinismo e il
fascismo erano “gemelli”, separati esclusivamente dalle teorie
economiche su cui si basavano. Nel movimento trotskista Dunaevskaja
aveva il compito di curare, da un ufficio di New York, un giornale in
lingua russa distribuito nell’Unione Sovietica. Era arrivata in Messico
nel luglio del 1937 per lavorare come stenografa e traduttrice di
Trotskij, mentre le grandi purghe cominciavano a decimare le loro reti
clandestine. Kahlo era entrata a far parte del movimento dei giovani
comunisti messicani nel 1928, a 21 anni. “Sono comunista per natura”,
avrebbe scritto in seguito. Per la generazione dei giovani intellettuali
messicani attratti dal comunismo, quest’identità politica implicava non
solo la sperimentazione sessuale e artistica, ma anche un profondo
impegno nei confronti delle culture indigene e un grande entusiasmo per
le rivolte dei contadini guidate da Emiliano Zapata. Le persone ritratte
nella fotografia condividevano una serie di idee di fondo che potremmo
riassumere così: le rivoluzioni di solito scoppiano nei paesi arretrati;
richiedono una guerriglia mobile, l’occupazione di terre e una lotta
spietata contro i ricchi; un partito marxista deve guardarsi dal
conservatorismo della classe operaia occidentale e difendere piuttosto i
popoli indigeni e quelli oppressi; la classe operaia è il “soggetto
rivoluzionario” intrinsecamente nemico del capitalismo, anche se
momentaneamente fuorviato. Erano tutte persone pronte al sacrificio e
disposte a usare la manipolazione e la violenza per raggiungere il loro
obiettivo. Ma ognuna si sforzava, a modo suo, di preservare un marxismo
dal volto umano, di resistere alle menzogne, agli omicidi di massa e
alla repressione della libertà innescata dallo stalinismo. La tragedia è
che nessuno di loro aveva compreso quanto profondamente umanista fosse
il marxismo quando era stato concepito. Solo Dunaevskaja un giorno lo
avrebbe capito. Marx non amava la filosofia: “I filosofi hanno solo
interpretato il mondo, quello che conta è cambiarlo”, scrisse. I
Manoscritti economico-filosofici – scritti nel 1844 a Parigi, ma
pubblicati a Mosca solo nel 1932 – dimostrano come arrivò a quella
conclusione: attraverso una critica alla filosofia dell’illuminismo,
profondamente imbevuta di umanesimo, e che discende direttamente da un
concetto di natura umana riconducibile ad Aristotele attraverso
sant’Agostino e Hegel. Lo scopo degli esseri umani, dice Marx nel 1844, è
liberarsi. Sono schiavi non solo del capitalismo e di uno specifico
tipo di società basata sulle classi, ma di un problema che nasce dalla
loro stessa natura sociale, che li obbliga a lavorare in gruppo e a
collaborare tra loro usando il linguaggio e non solo l’istinto. Quando
noi esseri umani produciamo un oggetto, o scopriamo una nuova idea,
tendiamo
a proiettare il nostro concetto di “io” in quest’oggetto o idea: è il
processo che Marx chiama alienazione, o estraniazione. Poi consentiamo
ai nostri prodotti, mentali e materiali, di esercitare un potere su di
noi, sotto forma di religioni o superstizioni, idolatrando i beni di
consumo o rispettando insensatamente routine e forme di disciplina che
ci siamo imposti da soli. Per superare l’alienazione, Marx sostiene che
l’umanità deve liberarsi di tutte le gerarchie e le divisioni di classe,
il che significa abolire sia la proprietà privata sia lo stato. I
manoscritti del 1844 contengono un’idea che nel marxismo è andata
perduta: il concetto di comunismo come “umanesimo radicale”. Il
comunismo, diceva Marx, non è semplicemente l’abolizione della proprietà
privata, ma la “riappropriazione dell’essenza umana da parte dell’uomo e
per l’uomo… Il totale ritorno dell’uomo a se stesso come essere sociale
(cioè umano)”. Quindi, sostiene Marx, il comunismo non è l’obiettivo
finale della storia umana. È solo la forma che la società assumerà dopo
quarantamila anni di organizzazione gerarchica. Il vero obiettivo della
storia umana è la libertà, la realizzazione personale di ogni singolo
individuo. Nel 1932, quando pubblicarono questi quaderni, gli accademici
sovietici li trattarono come un errore imbarazzante dell’autore.
Accettare quelle idee avrebbe significato ammettere che alla base
dell’intera concezione materialistica della storia – fatta di classi,
rapporti di produzione, tecnologia contrapposta all’economia – c’era un
profondo umanesimo con una serie di implicazioni morali. Dunaevskaja,
che riuscì a mettere le mani su una versione russa dei Manoscritti negli
anni quaranta, passò quasi dieci anni a cercare di venderne la sua
traduzione inglese, fino a quando non decise di pubblicarla da sola a
metà degli anni cinquanta. Aveva capito che i Manoscritti mettevano in
discussione tutte le precedenti interpretazioni di Marx. Per i burocrati
sovietici, il contrasto tra l’idea marxiana di libertà e la loro
squallida e opprimente realtà era evidente. Per il marxismo occidentale,
che ormai era ossessionato dallo studio delle strutture permanenti,
ecco che Marx non parlava più di forze impersonali ma di un concetto
chiaro e quasi aristotelico di natura umana, di autonomia e benessere.
Era forse possibile, si chiedeva Dunaevskaja, che tutte le disgrazie
capitate alla sinistra marxista fossero dovute alle rigide teorie
divulgate da Engels? Era possibile che la spietatezza del bolscevismo,
sempre giustificata dall’obiettivo di dare il potere alla classe
operaia, fosse inconciliabile con il comunismo immaginato da Marx? Era
possibile che, dopotutto, il comunismo non costituisse una rottura con
l’umanesimo filosofico dell’illuminismo, ma ne fosse invece
l’espressione più compiuta? Queste furono le domande che Dunaevskaja si
fece, sulla base delle quali stabilì nuove priorità pratiche. In futuro
la sinistra avrebbe dovuto costruire le sue politiche partendo
dall’esperienza dei singoli esseri umani e dalla loro ricerca della
libertà. Negli Stati Uniti degli anni cinquanta questo significava non
solo appoggiare la lotta degli operai nelle fabbriche, ma anche
sostenere il femminismo, i diritti civili dei neri, i diritti dei popoli
indigeni e le lotte antimperialiste del sud del mondo. E significava
anche sostenere inequivocabilmente le rivolte contro lo stalinismo che
esplosero in Germania nel 1953 e in Ungheria nel 1956. Quando i
ricercatori alla fine degli anni sessanta scoprirono e pubblicarono il
Frammento sulle macchine, Dunaevskaja capì che era l’ultima tessera del
puzzle: non era una teoria sul crollo economico del capitalismo dovuto
al calo dei profitti, ma una teoria della liberazione tecnologica. Marx
aveva previsto che, liberato dal peso del lavoro grazie ai progressi
dell’automazione, il genere umano avrebbe usato le sue energie “per il
libero sviluppo dell’individuo”, non per realizzare un’utopia
collettivistica. Frida Kahlo prese invece una strada diversa. Il suo
ultimo quadro la mostra seduta sotto un ritratto di Stalin. Aveva avuto
una storia d’amore con Trotskij e lo aveva visto mentre veniva ucciso in
casa sua. E aveva praticato un tipo di pittura surrealista che Trotskij
apprezzava ma che Mosca considerava degenerata. Perché aveva deciso di
celebrare l’uomo che aveva ordinato l’uccisione di Trotskij? Anche se
Frida Kahlo non poteva saperlo, il tema centrale della sua arte era
sempre stato il concetto marxista di alienazione. La pittrice
considerava l’io il luogo in cui sarebbe stata raggiunta la liberazione
umana; nei suoi quadri aveva esplorato l’alienazione del suo sesso,
della sessualità, della disabilità e dell’etnicità. Le sue efficaci
rappresentazioni dell’infelicità e dell’isolamento l’hanno fatta
diventare, a partire dagli anni settanta, una specie di santa patrona
del femminismo. Ma è chiaro che l’artista considerava non marxisti e
antipolitici i suoi quadri oggi più famosi. Una volta li definì “piccoli
e poco importanti, pieni di temi personali che interessano solo a me e a
nessun altro”. I veri quadri politici erano quelli di suo marito Diego
Rivera. L’idea che anche il personale è politico non apparteneva alla
sua generazione. Durante la guerra fredda, mentre tutto il mondo si
schierava con l’occidente o con l’Unione Sovietica, Kahlo fece la stessa
scelta di molte altre persone di sinistra: si iscrisse al Partito
comunista messicano e rinnegò Trotskij. Anche i suoi quadri cambiarono.
Cominciò a dipingere grandi allegorie sociali, come Il marxismo guarirà
gli infermi (1954), in cui non comparivano più gli aspetti mistici e
metaforici delle sue prime opere. Non fu una scelta da dilettante della
politica. Nel 1952 aveva scritto sul suo diario: “Non sono mai stata
trotskista. Capisco perfettamente la dialettica materialista di Marx,
Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse. Li amo e li considero i pilastri del
nuovo mondo comunista”. La traiettoria politica di Kahlo è un chiaro
esempio di quello che succede al marxismo quando si allontana
dall’umanesimo. La pittrice doveva tenere il suo interesse artistico per
i traumi psicologici e per la libertà sessuale nettamente separato
dall’ideologia del materialismo dialettico. Il suo accento sull’io
indifeso, sulla bellezza della persona oppressa, sull’ineludibile potere
della natura, era frutto della stessa idea di libertà che Marx aveva
espresso nel 1844. Ma Kahlo non riusciva a conciliarlo con il marxismo
della propaganda sovietica. E alla fine ebbe la meglio la propaganda.
Di fronte al dilemma
Cosa
rimane del marxismo nella nostra era di euforia tecnologica e di
catastrofi ambientali? Di certo non la sua idea di classe: nonostante la
forza lavoro del pianeta sia raddoppiata, gli operai dei paesi in via
di sviluppo sono intrappolati nella società borghese quanto lo erano i
loro colleghi bianchi del novecento. Le agitazioni sul lavoro
continueranno, ma il capitalismo ha imparato a evitare che si
trasformino in rivoluzioni. Tutto questo sembra tragico solo se non si
sono mai letti i Manoscritti economico-filosofici. Il Marx del 1844
teorizzava prima il comunismo e poi il ruolo dei lavoratori nel
realizzarlo. Il comunismo non era il punto finale della storia ma, come
disse una volta usando un’immagine quasi poetica, la fine della
preistoria. Per il Marx di quei primi scritti, i lavoratori avrebbero
realizzato il comunismo grazie al loro desiderio di autoeducarsi e di
formare associazioni cooperative, non comportandosi come automi, spinti
solo dai propri interessi materiali. All’inizio degli anni sessanta il
filosofo francese Louis Althusser “risolse” il problema dei Manoscritti
dichiarandoli antimarxisti. A suo avviso, rappresentavano il “Marx più
lontano da Marx”, una filosofia umanistica che sarebbe dovuta “tornare
nell’ombra”. Eppure Althusser riconobbe che la loro pubblicazione era
stata un “evento importante per la teoria”. In effetti ancora oggi chi
si definisce di sinistra deve farci i conti. Una volta che i Manoscritti
furono portati alla luce, il dilemma apparve chiaro: o il marxismo è
una questione di liberazione dei singoli esseri umani o è una questione
di forze impersonali e di strutture che possono essere studiate ma a cui
raramente si può sfuggire. o esiste una “essenza umana” che possiamo
riscoprire abolendo la proprietà e le classi o siamo solo un mucchietto
di ossa condizionato dall’ambiente che ci circonda e dal nostro dna. o
sono gli esseri umani a fare la storia, come aveva detto Marx, o è la
storia a fare la storia. Negli ultimi cinquant’anni il pensiero
accademico di sinistra ha seguito in buona parte la strada antiumanista
tracciata da Althusser. Dunaevskaja, come gli altri che dopo la guerra e
il genocidio avevano abbracciato l’umanesimo, fu molto apprezzata ma
anche considerata fuori dagli schemi. Tuttavia, il Marx che contribuì a
riscoprire è tutt’altro che irrilevante per il nostro futuro. Se
vogliamo difendere i diritti umani dal populismo autoritario e se
pensiamo che gli esseri umani debbano poter limitare e tenere a freno le
attività delle macchine pensanti, dobbiamo avere un preciso concetto di
umanità da difendere.
Il soggetto rivoluzionario
Se il
Marx del 1844 ha ragione, l’ideale della liberazione umana e del
comunismo può sopravvivere all’atomizzazione e alla dispersione della
classe operaia che avrebbe dovuto realizzarlo. Come hanno dimostrato le
primavere arabe del 2011, le grandi masse umane oggi hanno la stessa
capacità di agire autonomamente, di educarsi e di collaborare che Marx
ammirava nella classe operaia parigina degli anni quaranta
dell’ottocento. Come aveva ben capito Dunaevskaja, a far scattare
l’impulso verso la libertà non è solo lo sfruttamento, ma anche
l’alienazione, la repressione del desiderio, le sistematiche umiliazioni
subite dalle vittime del razzismo, del sessismo e dell’omofobia.
Dovunque persegue obiettivi che calpestano l’umanità delle persone, il
capitalismo suscita rivolte. Lo vediamo ogni giorno intorno a noi. Nel
prossimo secolo, come aveva previsto Marx, è probabile che l’automazione
combinata con la socializzazione della conoscenza ci offra
l’opportunità di liberarci dal lavoro. Questo fenomeno farà “saltare in
aria” il capitalismo. E il sistema economico che lo sostituirà dovrà
avere come obiettivo quello delineato dal filosofo tedesco nel 1844: la
fine dell’alienazione e la liberazione dell’individuo. Se potessi
dialogare con le persone ritratte in quella fotografia del 1937, dopo
essermi congratulato per la loro magnifica vita di resistenza e
sofferenza, gli direi: “Il desiderio di un marxismo umanista che state
reprimendo, l’impulso verso la liberazione individuale, in realtà sono
già in Marx e aspettano solo di essere scoperti. Perciò dipingete quello
che volete, amate chi volete. Al diavolo il partito. Il vero soggetto
rivoluzionario è l’io!”.
Paul Mason è un giornalista britannico esperto di economia. In Italia ha pubblicato Postcapitalismo (Il Saggiatore 2016).