Repubblica 8.7.18
Come un romanzo
Così Weimar diventò il ring dei filosofi
Ludwig Wittgenstein, Martin Heidegger, Walter Benjamin, Ernst Cassirer.
di Angelo Bolaffi
Un
saggio ricostruisce in modo appassionante gli anni che in Germania
precedettero il nazismo. Attraverso i confronti e gli scontri fra
quattro “pesi massimi”: Cassirer, Heidegger, Benjamin e Wittgenstein
Ventisei
marzo 1929, ore 10 del mattino: il mondo è alla vigilia della più grave
crisi economica dell’era moderna — qualche mese dopo scoppierà il
Venerdì nero della borsa Wall Street — e la Repubblica di Weimar si sta
avviando verso il suo crollo.
Ma questo, ovviamente, ancora
nessuno lo sa. A Davos, la località delle Alpi svizzere nella quale anni
prima Thomas Mann aveva ambientato La montagna incantata, nell’elegante
e sofisticata atmosfera del Grand Hôtel Belvedere sta per iniziare la
prima sessione della più celebre disputa filosofica del Ventesimo
secolo: protagonisti Ernst Cassirer e Martin Heidegger. Un confronto sul
tema “Che cos’è l’uomo” tra il massimo esponente della scuola
neokantiana, la più importante fra le correnti accademiche della
filosofia tedesca, nonché primo rettore ebreo di una università tedesca e
Martin Heidegger il giovane e ambizioso «monarca segreto della
filosofia tedesca» (Hannah Arendt) che proprio a quella tradizione come
all’intera cultura classica tedesca erede di Goethe e dell’illuminismo
di Kant aveva dichiarato “guerra totale”.
Un duello filosofico che
apparve ai presenti che ovviamente avevano letto il capolavoro manniano
e avevano ben presente il capitolo intitolato Operationes spirituales
come la trasposizione nella realtà della finzione letteraria: Cassirer e
Heidegger, infatti, richiamavano, con una precisione inquietante, le
sagome ideologiche di Ludovico Settembrini e di Leo Naphta. La
ricostruzione dello scontro tra Cassirer e Heidegger costituisce il
capitolo conclusivo di un bellissimo libro — Wolfram Eilenberger, Il
tempo degli stregoni. 1919- 1929. Le vite straordinarie di quattro
filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, Feltrinelli — che
ripercorre la vicenda intellettuale e biografica i cui fili si saldano
attorno alla data fatale dell’anno 1929 di quattro dei maggiori filosofi
e pensatori di lingua tedesca degli anni ’20 del secolo scorso: accanto
a Cassirer e Heidegger gli altri due protagonisti sono Walter Benjamin e
Ludwig Wittgenstein (il titolo dell’edizione italiana molto ben
tradotta e curata forza quello tedesco che parla di Zauberer, di maghi. E
non di Hexenmeister, termine tedesco per “stregone”).
Il lavoro
di Eilenberger è un ottimo esempio di giornalismo filosofico di alto
livello, un genere in Italia purtroppo sconosciuto, dinnanzi al quale
forse storceranno il naso certi filosofi di professione che al pensiero
preferiscono il gergo delle conventicole non capendo che libri come
questo, e come quelli che in passato ci ha regalato Rüdiger Safranski,
sono un vero e proprio spot a favore della filosofia. Uno dei principali
meriti del libro è, infatti, proprio quello di guidare il lettore nel
cuore di una discussione estremamente complessa aiutandolo a percorrere e
a decifrare i passaggi, anche quelli teoreticamente più impervi, del
pensiero dei quattro autori. Come in un avvincente romanzo ambientato
nelle contraddizioni politiche e culturali di un’età, quella dei
“ruggenti anni Venti” con particolare riferimento a quelli della
Repubblica di Weimar, il libro accompagna il percorso filosofico dei
quattro autori attraverso il decennio tra il 1919 e il 1929
movimentandolo con riferimenti spesso molto divertenti (e talvolta
inediti) alle loro vicende personali. Ad esempio a proposito di
Wittgenstein che a differenza degli altri tre visse tra Austria e
Inghilterra, si ricorda non solo l’entusiastico giudizio formulato su di
lui da John Maynard Keynes — in una lettera del 18 gennaio 1929: «Dio è
arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto» — ma
anche che «benché si incontrino spesso a casa di Keynes Wittgenstein e
Virgina Woolf non si parlano» giacché «è soprattutto il rapporto con le
interlocutrici femminili a provocargli evidenti problemi, se non un vero
e proprio disagio».
Mentre invece che per il suo influsso
filosofico Piero Sraffa è l’unico «che riesca a riportare il pensiero di
Wittgenstein al “piano terra” del linguaggio quotidiano».
Poi c’è
Walter Benjamin, dei quattro certamente la figura più tragica,
dilaniato da un insieme di tensioni spirituali, politiche e personali:
«Se c’è un intellettuale la cui situazione biografica riflette in modo
esemplare le tensioni dell’epoca, questo è Walter Benjamin. Benjamin è
l’Uomo-Weimar. La cosa non poteva finire bene». E infatti finì
malissimo: Benjamin temendo di non riuscire a sfuggire ai nazisti si
suicidò nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1940 con una dose di
morfina nella località pirenaica di Portbou. Amante del gioco e delle
donne anche in mènage a trois come con Asja Lacis, eternamente alla
ricerca di denaro e di riconoscimento intellettuale, genio a lungo
incompreso dai suoi contemporanei ma anche eternamente incerto tra
Palestina e comunismo, tra mistica ebraica e aspirazione rivoluzionaria,
Benjamin si ritroverà nella sua critica a Weimar a condividere, come
altri esponenti del pensiero rivoluzionario radicale, alcune delle
posizioni filosofiche di quanti poi diverranno i suoi persecutori:
«Entrambi aspirano tuttavia a una svolta rivoluzionaria, Benjamin come
Heidegger, con tutte le risorse di cui dispongono. Pur di evadere,
evadere dalla strada a senso unico della modernità! Ritornare al bivio,
dove essa ha preso la direzione sbagliata. E sarebbero anche
perfettamente d’accordo nell’indicare le fonti e i riferimenti che si
tratta di evitare ad ogni costo: la cultura borghese, gli ordinamenti
cosiddetti liberali, i principi morali da quattro soldi, l’idealismo
tedesco, come quello dello spirito; la filosofia accademica; Kant,
Goethe, Humboldt ecc.». Quella cultura borghese e quei valori liberali
dell’umanesimo e dell’illuminismo tedesco ai quali Ernst Cassirer,
invece, restò sempre fedele per tutta la vita e tentò disperatamente ma
senza successo di difendere proprio contro Martin Heidegger sul ring
filosofico di Davos. Un incontro-scontro tra i due “pesi massimi” della
filosofia tedesca di Weimar che Eilenberger racconta (in pagine tra le
più efficaci del libro) come potrebbe fare un cronista sportivo dai
bordi del quadrato di un combattimento di boxe. Emmanuel Lévinas e tutti
i giovani filosofi che assistettero alla disputa affascinati da
Heidegger che «annunciava un mondo che stava per essere sconvolto» si
schierarono contro Cassirer. Una scelta questa di cui poi si rammaricò
profondamente: «Mi sono molto pentito durante gli anni hitleriani di
aver preferito Heidegger lì a Davos». Difatti Heidegger sostenne
filosoficamente il “rinnovamento nazionalsocialista”. E Cassirer,
invece, fu costretto all’esilio.
Nelle Lezioni americane Italo
Calvino sostiene che La montagna incantata di Thomas Mann rappresenta la
più completa introduzione alla cultura del ’900 perché da questo
romanzo «si dipartono tutti i fili che saranno svolti dai maître à
penser del secolo: tutti i temi che ancor oggi continuano a nutrire le
discussioni vi sono pronunciati e passati in rassegna». Non possiamo
dire la stessa cosa del confronto-dibattito filosofico tra Cassirer e
Heidegger ? Non è infatti forse vero che oggi proprio come allora i
difensori dei valori della tradizione liberaldemocratica appaiono
costretti sulla difensiva dall’offensiva del populismo xenofobo e
identitario nel segno del sovranismo nazionalista propugnato da Steve
Bannon?
Siamo dunque alla vigilia di un nuovo Tramonto dell’Occidente come quello annunciato nel 1918 da Oswald Spengler?