venerdì 8 giugno 2018

Repubblica 8.7.18
Come un romanzo
Così Weimar diventò il ring dei filosofi
 Ludwig Wittgenstein, Martin Heidegger, Walter Benjamin, Ernst Cassirer.
di Angelo Bolaffi


Un saggio ricostruisce in modo appassionante gli anni che in Germania precedettero il nazismo. Attraverso i confronti e gli scontri fra quattro “pesi massimi”: Cassirer, Heidegger, Benjamin e Wittgenstein
Ventisei marzo 1929, ore 10 del mattino: il mondo è alla vigilia della più grave crisi economica dell’era moderna — qualche mese dopo scoppierà il Venerdì nero della borsa Wall Street — e la Repubblica di Weimar si sta avviando verso il suo crollo.
Ma questo, ovviamente, ancora nessuno lo sa. A Davos, la località delle Alpi svizzere nella quale anni prima Thomas Mann aveva ambientato La montagna incantata, nell’elegante e sofisticata atmosfera del Grand Hôtel Belvedere sta per iniziare la prima sessione della più celebre disputa filosofica del Ventesimo secolo: protagonisti Ernst Cassirer e Martin Heidegger. Un confronto sul tema “Che cos’è l’uomo” tra il massimo esponente della scuola neokantiana, la più importante fra le correnti accademiche della filosofia tedesca, nonché primo rettore ebreo di una università tedesca e Martin Heidegger il giovane e ambizioso «monarca segreto della filosofia tedesca» (Hannah Arendt) che proprio a quella tradizione come all’intera cultura classica tedesca erede di Goethe e dell’illuminismo di Kant aveva dichiarato “guerra totale”.
Un duello filosofico che apparve ai presenti che ovviamente avevano letto il capolavoro manniano e avevano ben presente il capitolo intitolato Operationes spirituales come la trasposizione nella realtà della finzione letteraria: Cassirer e Heidegger, infatti, richiamavano, con una precisione inquietante, le sagome ideologiche di Ludovico Settembrini e di Leo Naphta. La ricostruzione dello scontro tra Cassirer e Heidegger costituisce il capitolo conclusivo di un bellissimo libro — Wolfram Eilenberger, Il tempo degli stregoni. 1919- 1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, Feltrinelli — che ripercorre la vicenda intellettuale e biografica i cui fili si saldano attorno alla data fatale dell’anno 1929 di quattro dei maggiori filosofi e pensatori di lingua tedesca degli anni ’20 del secolo scorso: accanto a Cassirer e Heidegger gli altri due protagonisti sono Walter Benjamin e Ludwig Wittgenstein (il titolo dell’edizione italiana molto ben tradotta e curata forza quello tedesco che parla di Zauberer, di maghi. E non di Hexenmeister, termine tedesco per “stregone”).
Il lavoro di Eilenberger è un ottimo esempio di giornalismo filosofico di alto livello, un genere in Italia purtroppo sconosciuto, dinnanzi al quale forse storceranno il naso certi filosofi di professione che al pensiero preferiscono il gergo delle conventicole non capendo che libri come questo, e come quelli che in passato ci ha regalato Rüdiger Safranski, sono un vero e proprio spot a favore della filosofia. Uno dei principali meriti del libro è, infatti, proprio quello di guidare il lettore nel cuore di una discussione estremamente complessa aiutandolo a percorrere e a decifrare i passaggi, anche quelli teoreticamente più impervi, del pensiero dei quattro autori. Come in un avvincente romanzo ambientato nelle contraddizioni politiche e culturali di un’età, quella dei “ruggenti anni Venti” con particolare riferimento a quelli della Repubblica di Weimar, il libro accompagna il percorso filosofico dei quattro autori attraverso il decennio tra il 1919 e il 1929 movimentandolo con riferimenti spesso molto divertenti (e talvolta inediti) alle loro vicende personali. Ad esempio a proposito di Wittgenstein che a differenza degli altri tre visse tra Austria e Inghilterra, si ricorda non solo l’entusiastico giudizio formulato su di lui da John Maynard Keynes — in una lettera del 18 gennaio 1929: «Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto» — ma anche che «benché si incontrino spesso a casa di Keynes Wittgenstein e Virgina Woolf non si parlano» giacché «è soprattutto il rapporto con le interlocutrici femminili a provocargli evidenti problemi, se non un vero e proprio disagio».
Mentre invece che per il suo influsso filosofico Piero Sraffa è l’unico «che riesca a riportare il pensiero di Wittgenstein al “piano terra” del linguaggio quotidiano».
Poi c’è Walter Benjamin, dei quattro certamente la figura più tragica, dilaniato da un insieme di tensioni spirituali, politiche e personali: «Se c’è un intellettuale la cui situazione biografica riflette in modo esemplare le tensioni dell’epoca, questo è Walter Benjamin. Benjamin è l’Uomo-Weimar. La cosa non poteva finire bene». E infatti finì malissimo: Benjamin temendo di non riuscire a sfuggire ai nazisti si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1940 con una dose di morfina nella località pirenaica di Portbou. Amante del gioco e delle donne anche in mènage a trois come con Asja Lacis, eternamente alla ricerca di denaro e di riconoscimento intellettuale, genio a lungo incompreso dai suoi contemporanei ma anche eternamente incerto tra Palestina e comunismo, tra mistica ebraica e aspirazione rivoluzionaria, Benjamin si ritroverà nella sua critica a Weimar a condividere, come altri esponenti del pensiero rivoluzionario radicale, alcune delle posizioni filosofiche di quanti poi diverranno i suoi persecutori: «Entrambi aspirano tuttavia a una svolta rivoluzionaria, Benjamin come Heidegger, con tutte le risorse di cui dispongono. Pur di evadere, evadere dalla strada a senso unico della modernità! Ritornare al bivio, dove essa ha preso la direzione sbagliata. E sarebbero anche perfettamente d’accordo nell’indicare le fonti e i riferimenti che si tratta di evitare ad ogni costo: la cultura borghese, gli ordinamenti cosiddetti liberali, i principi morali da quattro soldi, l’idealismo tedesco, come quello dello spirito; la filosofia accademica; Kant, Goethe, Humboldt ecc.». Quella cultura borghese e quei valori liberali dell’umanesimo e dell’illuminismo tedesco ai quali Ernst Cassirer, invece, restò sempre fedele per tutta la vita e tentò disperatamente ma senza successo di difendere proprio contro Martin Heidegger sul ring filosofico di Davos. Un incontro-scontro tra i due “pesi massimi” della filosofia tedesca di Weimar che Eilenberger racconta (in pagine tra le più efficaci del libro) come potrebbe fare un cronista sportivo dai bordi del quadrato di un combattimento di boxe. Emmanuel Lévinas e tutti i giovani filosofi che assistettero alla disputa affascinati da Heidegger che «annunciava un mondo che stava per essere sconvolto» si schierarono contro Cassirer. Una scelta questa di cui poi si rammaricò profondamente: «Mi sono molto pentito durante gli anni hitleriani di aver preferito Heidegger lì a Davos». Difatti Heidegger sostenne filosoficamente il “rinnovamento nazionalsocialista”. E Cassirer, invece, fu costretto all’esilio.
Nelle Lezioni americane Italo Calvino sostiene che La montagna incantata di Thomas Mann rappresenta la più completa introduzione alla cultura del ’900 perché da questo romanzo «si dipartono tutti i fili che saranno svolti dai maître à penser del secolo: tutti i temi che ancor oggi continuano a nutrire le discussioni vi sono pronunciati e passati in rassegna». Non possiamo dire la stessa cosa del confronto-dibattito filosofico tra Cassirer e Heidegger ? Non è infatti forse vero che oggi proprio come allora i difensori dei valori della tradizione liberaldemocratica appaiono costretti sulla difensiva dall’offensiva del populismo xenofobo e identitario nel segno del sovranismo nazionalista propugnato da Steve Bannon?
Siamo dunque alla vigilia di un nuovo Tramonto dell’Occidente come quello annunciato nel 1918 da Oswald Spengler?

Il Fatto 8.7.18
Lettera a Conte sulla Costituzione
Da chiarire - Crede che il suo accenno a scuole e atenei “in grado di formare eccellenze assolute” sia sufficiente? Il governo continuerà con i tagli all’istruzione pubblica e finanziamenti a quella privata?
di Salvatore Settis


Signor presidente del Consiglio: ho letto con attenzione il Suo discorso al Senato e mi permetto di sottoporLe qualche domanda. Due aspetti del Suo testo mi hanno colpito: le fonti d’ispirazione e la gerarchia delle priorità.
Sulle fonti d’ispirazione: Lei ha citato cinque volte (tutte appropriate) la Costituzione, nove volte (tutte superflue) il cosiddetto “contratto di governo”, un accordo privato fra leader di partito che la Costituzione non prevede. È ben vero che Lei si dichiara “consapevole delle prerogative che l’art. 95 della Costituzione assegna al presidente del Consiglio dei ministri”, ma due righe più sotto interpreta queste prerogative nel senso di “rendersi garante dell’attuazione del Contratto per il governo del cambiamento”. “Garante” è certo molto di più della qualifica di “esecutore” che Le è stata da altri affibbiata; ma Lei è proprio sicuro che “garante del contratto” corrisponda ai doveri costituzionali prescritti dall’art. 95, secondo cui il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile”? Di tale “contratto” Lei, così ha scritto, ha “condiviso i contenuti – pur in via discreta – sin dalla sua elaborazione”. Non ritiene opportuno spiegare ai cittadini che cosa vuol dire “condividere in via discreta”, rispetto ai Suoi doveri costituzionali? E di precisare quando e dove e in che termini, nel Suo discorso, si esplicita la Sua promessa di “anticipare in quale direzione si esplicherà il Suo personale contributo”?
Vengo al secondo aspetto. Forse perché segue la falsariga del cosiddetto “contratto”, il Suo discorso è organizzato per punti, offrendo una sorta di mappatura tematica dei problemi da affrontare, ma non una chiara gerarchia di priorità, ad esempio indicando il rapporto fra misure di riduzione della spesa pubblica (o di maggiore introito fiscale) da un lato, e di incremento della spesa dall’altro. Secondo molte analisi della situazione italiana, il consenso popolare ai partiti che sostengono il Suo governo è largamente dovuto all’insoddisfazione generalizzata per le politiche di austerità e di taglio della spesa sociale imposte dai governi precedenti in nome dell’Europa. Il Suo discorso contiene in merito affermazioni condivisibili, in particolare sul possibile ruolo dell’Italia nel re-indirizzare le politiche europee secondo principi di equità e di giustizia. Non crede che questo punto avrebbe dovuto essere articolato in modo meno generico, e posto alla base del Suo intero progetto di governo indicandolo come assoluta priorità dalla quale tutte le altre politiche dovrebbero discendere?
Tornando alla Costituzione: pur richiamandone in generale i principi altre due volte, Lei ne cita poi solo l’art. 95 che riguarda la figura del presidente del Consiglio, l’art. 1 (la Repubblica fondata sul lavoro), e poi (due volte) l’art. 3 comma 2, che riguarda l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Citazioni tutte lodevoli. Ma poiché Lei assegna al Suo governo “l’obiettivo di dare concreta attuazione ai valori fondanti della Costituzione” non crede che fra questi avrebbe potuto richiamare anche l’art. 9 (promozione della cultura e della ricerca, tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione)? Crede che il Suo vago accenno alle “nostre scuole e università in grado di formare eccellenze assolute” basti per delineare una politica della scuola, dell’università, della ricerca in linea con gli articoli 9, 21, 33 e 34 della Costituzione? Il Suo governo intende proseguire nella politica di tagli alla scuola pubblica e finanziamenti alla scuola privata, che secondo l’art. 33 (comma 3) dovrebbe essere “senza oneri per lo Stato”? Che posizione ha il Suo governo rispetto al drammatico de-finanziamento delle nostre università ed enti di ricerca, che mette l’Italia in coda all’Europa? E’ proprio sicuro che fine della ricerca sia, come nel Suo discorso, “mantenere in Italia le filiere produttive”, o non valeva forse la pena di ricordare il ruolo della ricerca fondamentale? E come si interpreta l’assenza, nel Suo discorso, di ogni accenno al precariato e al sottoimpiego nelle università, un settore che Lei certo conosce personalmente assai bene?
Ci sono nel Suo discorso, Signor presidente, passaggi condivisibili, come quello sulla sanità pubblica, che sembrano presupporre i relativi articoli della Costituzione (nella fattispecie, l’art. 32). Ma allora come mai vi manca non solo la citazione dell’art. 9 Cost., ma ogni pur minimo accenno alla cultura e alla tutela del patrimonio artistico e paesaggistico del nostro Paese? E come Lei intende mettere insieme in modo coerente e conforme a Costituzione le positive affermazioni del Suo discorso relative alla tutela dell’ambiente con la dichiarata intenzione di “ridare slancio agli appalti pubblici”, che negli ultimi decenni sono stati fra le maggiori cause del degrado ambientale e idrogeologico del territorio?
In un importante passaggio al principio del Suo discorso Lei nota che “il ruolo e l’autorevolezza di governo e Parlamento non possono basarsi esclusivamente sugli altissimi compiti che a essi assegna la nostra Carta fondamentale”. Certo. Ma, si è tentati di commentare, tali altissimi compiti non possono e non devono nemmeno essere selezionati o (in taluni casi) messi a tacere sulla base di un documento extra-costituzionale come il “contratto” a cui Lei così spesso ha voluto far riferimento. Non è dai discorsi, ma dai fatti che il Suo governo dovrà essere giudicato dai cittadini. E tutti sappiamo che, nonostante tre mesi di tortuosi negoziati, le mosse decisive per il varo del Suo governo (compreso forse il Suo discorso) sono state compiute all’insegna dell’urgenza e della fretta “che l’onestate ad ogni atto dismaga” (Dante, Purgatorio, III, 11). Se, come è da sperare, le apparenti dimenticanze, incertezze e incongruenze del Suo programma di governo non sono intenzionali, il momento di correggere il tiro è questo.

il manifesto 8.7.18
Un divieto per ogni cosa. I ddl della maggioranza
Parlamento. Stop ai medicanti e carcere per chi ricorre all’estero alla maternità surrogata
di Carlo Lania

Dal divieto di chiedere l’elemosina in maniera «molesta» a quello di indossare il burqa o il niqab. Passando, e non è certo un particolare da poco, a prevedere il carcere per le coppie che si recano all’estero per ricorrere alla gestazione per altri e alla castrazione chimica per gli stupratori. Per non parlare, infine, della richiesta di istituire una commissione parlamentare che indaghi sulle presunte responsabilità del governo Monti (2012) nella vicenda dei due fucilieri della Marina Salvatore Girone e Massimiliano Latorre.
A leggere solo alcuni degli oltre mille disegni di legge depositati da marzo a oggi alla Camera e al Senato, più che all’avvio di una legislatura sembra di assistere all’inizio di una resa dei conti da parte di chi, dopo aver passato qualche anno all’opposizione, una volta al governo in nome della «sicurezza» vorrebbe intervenire su tutto.
Tralasciando la dozzina di disegni di legge che si propongono di allargare la definizione di legittima difesa, ecco una piccola lista dei più significativi.
STOP A MENDICANTI E AMBULANTI Essere poveri non può essere una colpa riconoscono i leghisti, che ricordano però come una sentenza della Consulta abbia stabilito come il reato di accattonaggio «sia compatibile con la Carta costituzionale se chi mendica lo fa simulando infermità, arrecando disturbo o in modo invasivo». Da qui la proposta – primo firmatario Molteni – di introdurre il reato di accattonaggio molesto, un crimine capace di provocare «l’insicurezza dei cittadini e quindi un problema di ordine pubblico». Per i trasgressori, così come per i venditori ambulanti, è previsto quindi l’arresto da tre a sei mesi e un’ammenda da 3.000 euro, destinati a salire fino a un anno di carcere e a 10.000 euro di multa se il fatto «provoca disagio alle persone o intralcio alla circolazione, sia delle macchine che dei pedoni».
MATERNITA’ SURROGATA La legge 40 sulla procreazione assistita prevede già una pena da tre mesi a due anni e una sanzione da 600 mila e un milione di euro per chi «realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità» nel territorio nazionale. Il ddl presentato da Fratelli d’Italia punta ad estendere le stesse pene anche a quelle copie italiane che non potendo avere figli «si avvalgono della tecnica della surrogazione di maternità in un Paese estere in cui la stessa è consentita».
CASTRAZIONE CHIMICA Un solo articolo (primo firmatario il leghista Molteni) che prevede l’introduzione del «trattamento farmacologico di blocco androgenico totale per coloro che commettono reati sessuali, in particolare a danno di minori», considerato una misura «allo stesso tempo deterrente, preventiva e risolutiva». A disporre il trattamento è il giudice che – «previa valutazione della pericolosità sociale e della personalità del reo», indica il metodo da utilizzare e la struttura sanitaria pubblica nella quale eseguirlo. Il trattamento è obbligatorio in caso di recidiva e nel caso le vittime siano dei minori.
NO A BURQA E NIQAB Anche in questo caso la proposta arriva dal Carroccio e mira a introdurre nell’ordinamento giuridico «un divieto esplicito a indossare in luogo pubblico o aperto al pubblico indumenti atti a celare il volto, non soltanto per motivi di ordine pubblico e sicurezza ma anche, come nel caso di burqa e del niqab, in quanto considerati atteggiamenti inconciliabili con i principi fondamentali della Costituzione, primo fra tutti il rispetto della dignità della donna». Coprirsi il volto, anche per motivi religiosi, potrebbe quindi comportare da un’ammenda da 1.000 a 2.000 a alla reclusione – nel caso di chi obbliga una donna a indossare i due indumenti – da uno a a due anni e una multa da 10 mila a 30 mila euro. la pena aumenta della metà se il fatto è commesso «a danno di un minore o una persona disabile».

il manifesto 8.7.18
Carceri, il ministro Bonafede studia la riforma in veste giallo-verde
Giustizia. Al vaglio del neo Guardasigilli le possibilità di riscrivere l’intera legge o il primo decreto attuativo che scade il 3 agosto. Il presidente della Camera Roberto Fico incontra il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma
di Eleonora Martini


Due mesi sono davvero pochi per riscrivere il primo decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario sulla base della delega emessa dal Parlamento il 23 giugno 2017. Ma il governo giallo-verde sembra orientato ad evitare di far decadere del tutto il frutto di un lavoro durato anni, attendendo semplicemente la scadenza del decreto legislativo prevista per il 3 agosto prossimo (a meno che non intervenga una proroga dei termini, con un voto parlamentare), e starebbe esaminando la possibilità di rimaneggiare – in senso restrittivo, naturalmente – il testo che il governo Gentiloni non ha avuto il coraggio di approvare quando ormai bastava solo la firma dell’esecutivo. È uno spiraglio per aprire il quale in molti stanno lavorando, nel mondo della giustizia e perfino dentro il Movimento 5 Stelle, ben consapevoli che l’idea di costruire nuove carceri, per esempio, è vecchia di parecchi decenni ed è già naufragata varie volte, perfettamente inutile se si vuole superare il sovraffollamento ed evitare le condanne della Corte europea dei diritti umani.
E infatti è un’ipotesi riferita anche dal neo ministro pentastellato Alfonso Bonafede in un’intervista rilasciata ieri, appena preso posto negli uffici di via Arenula, al Fatto quotidiano (e a chi sennò?) nella quale conferma la propria lista delle priorità in materia di giustizia, peraltro già preannunciata ancora prima di essere nominato Guardasigilli e approfondita nel «contratto di governo» con un po’ più di accuratezza di quella usata in altri capitoli del testo sottoscritto da Lega e M5S.
Nell’intervista però il ministro Bonafede rimane ancora sul vago quando parla di bloccare l’entrata in vigore del decreto sulle intercettazioni fissata per il 21 luglio (ricevendo il plauso dell’Associazione nazionale magistrati), di una non meglio precisata riforma della prescrizione dei reati o, per quanto riguarda la legittima difesa, di «cancellare» le «zone d’ombra» della legge che «costringono molti cittadini che si sono difesi a essere sottoposti a tre gradi di giudizio» (per esempio limitando la possibilità delle procure di ricorrere in Appello in caso di sentenza di assoluzione in primo grado?).
Meno generica invece è la risposta del Guardasigilli relativa al destino del primo decreto attuativo della riforma penitenziaria, quello che elimina gli automatismi affidando maggiore discrezionalità alla magistratura di sorveglianza sulla possibilità di ricorrere alle pene alternative al carcere nel percorso punitivo/rieducativo di ciascun condannato. È l’unico dei quattro decreti attuativi concernenti l’ordinamento penitenziario (gli altri riguardano i minori, il lavoro e la giustizia riparativa) giunto ad un passo dalla conclusione dell’iter, mancava solo l’ultimo via libera che il governo di centrosinistra non ha voluto dare. Il testo del provvedimento, che per il M5S e la Lega – e per Il Fatto, che ci fa il titolo di prima – ha la funzione di uno «svuota-carceri», secondo il grillino Bonafede va rivisto perché così com’è «mina la certezza della pena». Allo studio dello staff ministeriale ci sarebbero due opzioni: «riscrivere il decreto attuativo», sempre che si possa non incorrere nell’eccesso di delega, «oppure se sarà necessario rifare l’intera legge delega».
Il ministro non entra nei particolari dei punti critici: cita soltanto la norma più nota, quella che amplia il parterre dei reati che possono essere puniti con misure alternative al carcere (innalzando a 4 anni anziché 3 il limite di pena prevista). Ma nel mirino delle file più giustizialiste del M5S e della Lega ci sarebbe anche quella parte della riforma che riscrive l’articolo 148 c.p., prevedendo, tra le altre cose, l’estensione della facoltà di sospendere la pena anche ai detenuti con gravi infermità psichiche.
Intanto però mercoledì il presidente della Camera, Roberto Fico ha ricevuto a Montecitorio il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, per un primo contatto in vista della prossima presentazione della Relazione annuale al Parlamento. Il confronto, giudicato positivo da entrambi, si sarebbe svolto sui temi del carcere e dei migranti: «Si possono avere anche opinioni diverse – è stato il commento di Palma rilasciato alle agenzie a conclusione dell’incontro – ma se si è d’accordo sui principi, si possono anche trovare le soluzioni insieme».

il manifesto 8.7.18
La pena, signor ministro, per i detenuti è certissima
Vecchie ricette. La giustizia secondo il nuovo governo giallo-verde
di Patrizio Gonnella


Più carceri da costruire, più carcere per tutti, più certezza della pena. È stato questo in estrema sintesi il passaggio dedicato al carcere all’interno del discorso in Parlamento del presidente del consiglio, Prof. Giuseppe Conte. Una ricetta generica, nota, costosa, che, se realizzata, produrrà gravi danni umani e sociali. Una ricetta che viene rinforzata dalle dichiarazioni del ministro di Giustizia Alfonso Bonafede il quale ha preannunciato il ridimensionamento del sistema delle misure alternative al carcere. Un grave errore concettuale che consiste nell’identificare la pena con il carcere. La sicurezza si costruisce favorendo il reinserimento sociale e non rinchiudendo i corpi in prigioni da cui un giorno o l’altro usciranno.
«Bisogna aver visto», affermava il grande giurista Pietro Calamandrei nell’invocare nell’immediato secondo dopoguerra una commissione di inchiesta sulle carceri italiane. Insieme a lui c’era l’azionista e radicale Ernesto Rossi. Il carcere va visto, va ascoltata la sofferenza che contiene. Vanno visti i volti e sentite le voci che lo abitano. Per conoscere un carcere bisogna starci ore, giorni. Solo chi lo ha visto sa quanto il carcere sia selettivo, quanto sia di classe.
La certezza della pena non ha nulla di scientifico. È uno slogan. Per i tanti, troppi detenuti reclusi nelle prigioni italiane la pena è più che certa, anzi certissima. Solo andando in carcere e parlando con i detenuti si potrà capire che il problema della giustizia penale non è quello della prescrizione (possiamo mai tenere in eterno una persona prigioniera del processo?) o della legittima difesa (norma già più volte modificata proprio dalla Lega) ma della durezza e selettività sociale della risposta repressiva. In carcere si incontrano persone che stanno espiando 20 di pena per un cumulo di piccoli furti. Si incontrano ragazzini stranieri tristi e soli ignari del motivo del loro imprigionamento. Nei loro confronti la pena è certissima, mentre la giustizia è ingiusta. Il 34% dei detenuti in Italia è dentro seppur presunto innocente. Per loro l’esito del processo è incerto ma la pena è di fatto già in corso.
Il carcere bisogna averlo visto, proprio come fece Henry Brubaker, nell’omonimo film. Lui era direttore di carcere e si finse detenuto per comprendere le tragiche e violente condizioni di vita nelle prigioni dell’Arkansas. Solo chi visita le carceri sa che in esse operano straordinari professionisti – direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi– grazie ai quali la vita penitenziaria è scandita nel pieno rispetto della dignità umana. Alla loro lealtà costituzionale dobbiamo molto. Hanno tenuto in piedi il sistema anche nei momenti bui.
Nel contratto M5S – Lega, allo scopo di assecondare qualche organizzazione sindacale autonoma, si è scritto che deve essere eliminata la sorveglianza dinamica, ossia la possibilità per i detenuti di trascorrere parti della giornata fuori dalla cella, ma pur sempre in galera. In questo modo i detenuti saranno trasformati in persone abbrutite, la violenza aumenterà, i reclusi torneranno a essere chiamati camosci e i poliziotti toneranno a fare i girachiavi. È questo il grande cambiamento di cui si parla?
Infine uno sguardo critico all’evocazione della solita ricetta edilizia. La costruzione di nuove carceri è una proposta non innovativa, ripetuta come un mantra, ma culturalmente, criminologicamente ed economicamente sbagliata. Ci sono pene ben più utili rispetto alla prigione. Ci sono reati che andrebbero depenalizzati. Ma non era il M5S a favore della legalizzazione della cannabis? Un carcere è un’opera pubblica. Costa. Costruire nuove galere significherà imporre nuove tasse ai cittadini.
*Presidente Antigone

Corriere 8.7.18
Carcere e regole, i 5 stelle non si fidano più dei giudici
di Luigi Ferrarella


Il ministro della Giustizia e dirigente del partito che in teoria più appoggia i magistrati sembra non avere molta fiducia nei magistrati. Almeno a giudicare il sottotesto di due annunci (nella prima intervista a Il Fatto Quotidiano ) dell’avvocato civilista neo Guardasigilli, il 5 Stelle Alfonso Bonafede: stop alla riforma dell’ordinamento penitenziario, perché il decreto legislativo sulle misure alternative al carcere «mina alla base il principio della certezza della pena» soprattutto nell’«allargamento della platea con l’estensione della sospensione della pena ai condannati fino a 4 anni di carcere»; e potenziamento della legittima difesa con «la cancellazione delle zone d’ombra che costringono molti cittadini che si sono difesi a essere sottoposti a tre gradi di giudizio».
Sul primo punto, il decreto legislativo sulle misure alternative al carcere (alla vigilia delle elezioni lasciato incompiuto a un passo dall’approvazione definitiva dai governi Renzi e Gentiloni per pavidità politica, poi ugualmente punita dal voto che ha premiato movimenti come 5 Stelle e Lega sempre contrari al lunghissimo iter parlamentare della legge delega) in realtà non avrebbe affatto comportato un «liberi tutti» automatico: avrebbe invece soltanto ampliato la possibilità, anche per i detenuti con condanne definitive o residui di pena sino a 4 anni (invece dei 3 attuali), di domandare ai giudici di sorveglianza l’ammissione a forme di esecuzione della pena alternative al carcere. Cioè a forme, quali l’affidamento in prova ai servizi sociali, che hanno statisticamente dimostrato di saper restituire alla collettività ex detenuti assai meno recidivi di quelli che scontano la loro pena tutta e solo in carcere: basti pensare a quanto poco sia noto che al 31 ottobre 2017 avevano già altre condanne alle spalle 8.441 detenuti stranieri (il 43% del loro totale), e quasi 3 detenuti italiani su 4, 26.781 reclusi, oltre 6.000 addirittura con più di 5 precedenti carcerazioni. Dunque la ragione delle progettate nuove norme non era svuotare le carceri, bensì riempire di maggior sicurezza i cittadini destinati prima o poi a ritrovarsi per strada a fine pena qualunque detenuto (salvo li si voglia invece tutti all’ergastolo per qualunque reato). E neanche c’era alcun automatismo concessivo: anzi, al contrario, la legge ormai abortita, oltre a pretendere dall’affidato in prova condotte volte a riparare le conseguenze del reato commesso (compresa la possibilità di accettare di prestare lavoro di rilievo sociale o di utilità pubblica), avrebbe abrogato la legge del 2010 che — quella sì al solo fine di decongestionare le carceri — ha consentito pressoché automaticamente di espiare a casa le pene sino a 18 mesi.
Ecco dunque che affondare come primo atto di governo in tema di giustizia il decreto sulle misure alternative, a colpi di automatismi preclusivi, equivale a segnalare che «il governo del cambiamento» nutre una sottostante sfiducia nella capacità quotidiana dei magistrati di valutare, distinguere e diversamente trattare le differenti risposte dei detenuti all’esecuzione della pena.
E quando il ministro aggiunge comunque di «credere nella funzione rieducativa della pena, che per noi passa innanzitutto attraverso il lavoro in carcere», viene da pensare che, se così fosse davvero, non butterebbe nel cestino un altro dei decreti già pronti nell’abbandonata riforma penitenziaria: e cioè quello importantissimo proprio sul lavoro, che finalmente sembrava persino aver trovato serie risorse finanziarie. Analoga sfiducia nell’operato quotidiano dei magistrati, singolare proprio perché espressa nei fatti da paladini a parole dei magistrati, emerge nell’annunciato pagamento alla Lega di Salvini della cambiale di una legge-manifesto sulla legittima difesa. Anche qui, infatti, a meno di immaginare una legge che consenta sempre di uccidere a difesa del patrimonio (in palese contrasto con la Costituzione e con l’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani), in qualunque episodio occorrerà sempre un accertamento giudiziario (e quindi per forza una formale iscrizione nel registro degli indagati dell’aggredito proprio per garantirgli le facoltà di legge, ad esempio nelle perizie balistiche tante volte decisive per il suo proscioglimento già in indagini preliminari) per verificare se il pericolo fosse attuale e imminente; se la reazione fosse necessaria e proporzionata all’offesa; se vi sia stato un eccesso doloso (vendetta), o un eccesso colposo (si è sparato solo per spaventare un ladro disarmato e invece lo si è ferito), o un eccesso incolpevole (gli si è sparato alle gambe ma lo si è colpito in un punto vitale), o una legittima difesa putativa (per errore si è creduto che il ladro impugnasse una pistola e invece aveva una lampadina).
L’idea dunque di risolvere «le zone d’ombra» con nuovi pasticciati automatismi (tipo quello al quale anche il Pd si stava adeguando in scia alla Lega pochi mesi fa) equivale a manifestare sfiducia nel modo con il quale i magistrati verificano caso per caso, dinamica per dinamica, i presupposti nei quali la reazione diventa legittima.

La Stampa 8.7.18
Il piano per togliere gli irregolari dalle strade
“Controlli più rapidi e aiuti Ue per i rimpatri”
Il ministro Salvini vuole una stretta sui richiedenti asilo che delinquono e potenziamento dei Centri per l’espulsione
di Francesco Grignetti


Si cominciano a intuire le prossime mosse di Matteo Salvini in tema di immigrazione. Dimenticando le promesse irrealizzabili, un primo concreto passo sarà la velocizzazione nell’esame delle richieste di asilo. Il 19 giugno, il neoministro ha convocato i presidenti delle commissioni prefettizie che esaminano la domanda di chi chiede protezione all’Italia. È la prima volta che un ministro dell’Interno li incontra. Di sicuro darà direttive.
L’occasione non è scelta a caso: il 19 si conclude il corso di formazione per 250 giovani nuovi funzionari, voluti fortemente da Marco Minniti, che andranno a rinforzare le commissioni. Se si considera che attualmente sono meno di 200 i funzionari addetti a questo tipo di lavoro (e neanche a tempo pieno), al Viminale ipotizzano che l’arretrato potrebbe essere dissolto nel giro di un anno e che da quel momento le domande sopravvenienti saranno smaltite velocemente.
Si profilano poi alcuni ritocchi legislativi ad alto impatto pratico. Salvini va dicendo che «i profughi veri sono il 6%, i clandestini il 94%». Lo dice perché un dossier del ministero dell’Interno certifica come il 6% dei richiedenti abbia avuto «asilo politico», il 4% «asilo sussidiario» e il 30% «asilo umanitario». Ecco, l’idea di molti nella Lega è rivedere o addirittura cancellare questa terza tipologia di asilo (specialità italiana, tedesca e britannica; tanto è vero che l’accordo di Schengen non lo contempla).
Nel programma giallo-verde, peraltro, è previsto che se un richiedente asilo delinque, si passa automaticamente all’espulsione. Ne parlerà oggi a Como, dove va a portare solidarietà ad alcuni autisti malmenati. «Novità che stiamo studiando dal punto di vista normativo - le definisce - perché non mi sembra giusto che chi arriva nel mio Paese chiedendo asilo e protezione, poi vada ad aggredire, e poi possa proseguire nel suo iter di richiesta di asilo».
Salvini insiste poi che non vuole vedere «clandestini a spasso». È il secondo corno del problema. Definito chi ha diritto a restare e chi no, il ministro progetta di far funzionare sul serio il sistema dei respingimenti. Nel 2017 sono stati rimpatriati circa 18mila clandestini. Per fare di meglio, occorrono più accordi di riammissione con i Paesi di origine, più soldi per i voli di rimpatrio, più Centri per il rimpatrio (che sostituiscono i vecchi Centri identificazione ed espulsione). Salvini potrebbe però pescare nei fondi dell’accoglienza.
Il ministro leghista inoltre vuole allungare i tempi del trattenimento. Ai tempi di Maroni si arrivò fino a 18 mesi. A sinistra, osservano le sue mosse con preoccupazione. Dice ad esempio Pierluigi Bersani: «Temo che, esaurita la pratica Dublino, si passi all’obiettivo vero e cioè: Cari europei alla Orban, noi facciamo la Turchia dell’Europa, dateci i soldi che allestiamo delle belle strutture dove li teniamo un anno e mezzo».
Un discorso peraltro che a Bruxelles e nelle cancellerie di tutta Europa piacerebbe assai. Nel 2015, per dire, la Commissione insistè molto perché gli hotspot e gli hub, ossia i centri di prima accoglienza, fossero chiusi e non aperti, salvo nei casi di chi palesemente aveva diritto all’asilo come siriani o eritrei. All’epoca il centrosinistra si oppose, ricordando che la nostra Costituzione vieta un trattenimento se non per ordine di un magistrato. Se ci si limita ai Cpr, però, non ci sono problemi costituzionali.

La Stampa 8.7.18
“Giusto reintrodurre il servizio militare ”


Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, conversando con i giornalisti ha lanciato la proposta di ripristinare il servizio militare obbligatorio. «Personalmente sono per reintrodurre il servizio militare», ha detto. Sempre nella giornata di ieri Salvini ha voluto fare una foto di gruppo con Polizia e Carabinieri per sottolineare il rispetto e la fiducia che ripone nelle forze dell’ordine contro la criminalità, ma quando ha twittato i ringraziamenti il vicepremier si è scordato di menzionare i carabinieri generando non poco malumore tra i militari. Salvini ha poi cercato di rimediare su Facebook postando la stessa foto ma facendo un riferimento più generico alle «forze dell’ordine».

Repubblica 8.7.18
Prodi
“Un governo di destra basato su idee inconciliabili L’alternativa? Non la vedo”
intervista di Silvia Bignami


BOLOGNA Romano Prodi tra il “governo di cambiamento” gialloverde e la sinistra tutta da rifare. Tra la crisi dei partiti e quella dell’Europa. Accolto da una ovazione al Teatro Comunale di Bologna per la serata d’apertura della “Repubblica delle Idee”, l’ex premier ha risposto per un’ora e mezzo alle domande del direttore di Repubblica Mario Calabresi e di quello dell’Espresso Marco Damilano.
Professore, lei ha detto l’8 marzo, dopo le politiche, che “non c’è nulla di irrimediabile in politica, che c’è sempre futuro”. Ora però è nato il governo del cambiamento tra Lega e 5 Stelle. Lei crede al cambiamento che promettono?
«Il governo del cambiamento non è il cambiamento del governo, sono due cose distinte. Cambiamento su quale programma, innanzitutto? Il problema è vedere cosa c’è dentro questo cambiamento. Bisogna capire qual è il compromesso reale di questo accordo. Io non condanno mai prima, ma ci sono blocchi di pensiero inconciliabili al governo insieme».
Ecco, partiamo da qui. Lei pensa che sia possibile attuare contestualmente misure come il non aumento dell’Iva, il taglio delle tasse, il reddito di cittadinanza...
«Se ho detto inconciliabile ho detto inconciliabile... Ma il problema vero è un altro.
Ascoltavo il dibattito alla Camera, e mi viene da ripetere quello che ha detto il mio amico Arturo Parisi: “Io vedo una opposizione senza vedere una alternativa”. Ma non si puo fare opposizione senza alternativa, questo è il punto. L’alternativa è parte essenziale del sistema democratico».
Per costruire una alternativa bisogna capire se questo sia un governo di destra o di sinistra. E se destra e sinistra esistano ancora. È di destra questo governo, secondo lei?
«Questa per me è una soluzione di destra. E penso anche che questo discorso che non c’è piu nè sinistra nè destra è un discorso che non ha senso. Ci sono decisioni che in economia e in tutti i campi sono di sinistra oppure di destra. Oggi sono in crisi irreversibile i grandi partiti che rappresentavano sinistra e destra, ma la sinistra e la destra esistono ancora. Lo vedi nelle cose. In quello che fai, nella scuola o nel welfare ad esempio. Perchè dire che non c’è più la destra e la sinistra?
Questo è un problema serio».
Prima di questo esecutivo ha governato l’area che tradizionalmente è di sinistra...
«Ah sì?».
Lei dice di no?
«Io dico che c’è una crisi fortissima dei partiti tradizionali. Non solo della socialdemocrazia. C’è una gara a chi perde piu voti. Qui il problema è proprio ripartire ridiscutendo progetti politici del paese».
Magari partendo da un nuovo laboratorio politico per la sinistra. L’Italia è stata laboratorio per il berlusconismo, e poi per l’Ulivo. Oggi del grilloleghismo. Può aprirsi un nuovo laboratorio per la sinistra?
«Io sono un osservatore non partecipante...».
La sua tenda ora dov’è?
«La tenda è ancora sulle spalle... Però è chiaro che se vuoi offrire una alternativa devi aprire grande dibattito collettivo.
Quello che è mancato è proprio il ‘dibattito collettivo’. Non voglio dar colpa a nuovi mass media che hanno individualizzato tutto, ma se tu non coinvolgi sindacati, Confindustria, imprenditori e non si ricomincia a discutere in modo approfondito del futuro del Paese, questo Paese non riparte. Io non voglio fare il nostalgico dell’Ulivo, ma se facemmo un programma di 200 pagine è perchè avevamo discusso mesi mesi e mesi. La democrazia se perde questo aspetto di discussione e di confronto non è piu attrattiva».
Lei dice che il governo Conte è di destra, ma quale visione ha secondo lei questo governo? Qual è il suo vero collante? Forse la disintermediazione? La fine dei corpi intermedi?
«Sì. Però c’è un momento in cui “l’avvocato” finisce di parlare e arriva il giudice. Bisognerà vedere cosa fa, quali decisioni verranno prese...».
Se quel qualcosa fosse l’uscita dall’euro? Il famoso piano B del ministro Savona... Secondo lei è fattibile?
«Se qualcuno si vuole male esce dall’Europa. Noi di fronte a Stati Uniti e Cina, noi singoli paesi siamo nulla. Se l’Europa non mette insieme le sue idee va in frantumi. Io poi non voglio fare l’anti italiano ma dove lo trovate un paese che inventa un proverbio: ‘Francia o Spagna purché se magna’. È il simbolo di aver subito nel cuore l’umiliazione di questo Paese. Io spero ancora in Macron, ma se la Francia pensa di poter guidare la politica estera, e la Germania risponde ‘allora io sono padrona dell’economia’ allora l’Europa è finita».
L’entusiasmo di quella notte in cui nacque l’euro, quando lei a Vienna fece un bancomat e regalò i fiori a sua moglie, però non c’è più.
«Sì, allora c’era festa nelle strade. Ma è vero che l’euro doveva esser accompagnato da tutta una serie di decisioni economiche. Lo diceva anche Helmut Kohl. Il fatto è che sono cambiati i governi e l’Europa è rimasta un pane mezzo cotto e mezzo crudo: se vogliamo mangiare dobbiamo cuocerlo, altrimenti arriva chi dice che bisogna tirarlo fuori dal forno.
Kohl mi disse che i tedeschi erano contro l’euro ma che lui lo aveva voluto perchè suo fratello morì in guerra. È la visione di un banchiere o una visione per la pace? Altrimenti finiremo col dire, noi italiani, ‘0 America o Cina purché se magna..’”.
Oppure Russia. Questo governo ha aperto alla Russia di Putin. Ha fatto bene?
«Io ritengo che abbiamo alleanze che dobbiamo assolutamente rispettare. Da parte degli Stati Uniti dividere l’Europa dalla Russia non va bene. Le sanzioni per me non sono utili ma noi siamo in un sistema difensivo e il cambiamento deve avvenire in un accordo di questo sistema».
Al di là del tema delle sanzioni però, cresce nelle democrazie occidentali la fascinazione verso l’uomo forte. Putin, ma anche Orban. Perchè accade?
Manca la capacità di decidere alle democrazie europee?
«C’è una grande contraddizione, ci sono tempi diversi di reazione. La forza dell’economia obbliga a decidere in fretta, invece la politica nazionale fa fatica a seguire in tempi brevi. C’è una discrasia, che abbiamo visto anche negli Stati Uniti. Anche lì c’è un desiderio di autorità, per fortuna in un Paese che ha pesi e contrappesi».
È preoccupato da Matteo Salvini ministro dell’Interno?
Teme la sua politica muscolare sull’immigrazione?
«Il problema dell’immigrazione c’era anche prima. Ma io penso che finché non ci sarà pace in Libia, il problema dell’immigrazione sarà molto difficile da risolvere».
E la sinistra intanto rischia di perdersi. In questi anni i governi di sinistra si sono molto dedicati ai diritti civili, ma meno ai diritti sociali. Lo pensa anche lei?
«Perché, sono forse incompatibili?».
Appunto, lei è d’accordo?
«Se avessimo una unità di misura direi che secondo me sì, è così. C’è la sensazione che il concetto stesso di welfare sia in ritirata. Nelle trasmissioni televisive c’è questa accusa al sistema sanitario che sembra quasi dire che è meglio quello privato, benchè quello italiano sia ancora uno dei primi al mondo. E poi c’è la scuola, l’abbiamo lasciata andare. le scuole tecniche sono roba per i figli degli imigrati. Si è interrotto l’ascensore sociale, vuol dire che abbiamo peccato nel trattare i diritti sociali».
L’immagine di Conte tra Di Maio e Salvini ha ricordato a molti la foto di lei, premier, tra D’Alema e Rutelli...
Quanto durerà Conte?
«Il punto è che bisogna durare bene. Non è la durata sono le cose che si fanno. Quella mia foto rappresentava un dualismo tra governo e partito.
E qui è lo stesso. È una gara che bisogna vedere come va a finire. Se i partiti sono suggeritori della politica quotidiana allora abbiamo un premier assolutamente debole. Quel che è certo che il premier è stato costruito sui due partiti.
Vedremo».
Ma intanto lei e i padri nobili del Pd non dovreste dare una mano alla sinistra?
«Il problema è ricominciare a costruire una aggregazione di forze su diritti civili, sociali, difesa dello stato sociale, su questo non c’è alcun dubbio».
Ma lei sarà della partita?
«Io sono totalmente fuori. In politica o si sta fuori o si sta dentro. A stare in mezzo all’uscio si soffre soltanto. Una cosa la devo dire però: il prezzo del rottame in questi anni è molto salito. E questo mi consola».

Il Sole 8.7.18
I feudi Pd a rischio sotto la spinta Lega-M5S
Sfida. Su 170 giunte politiche uscenti i Dem ne hanno 120, ma domenica alle comunali sono in pericolo persino Pisa, Massa, Siena e Ancona
Centro-destra. Carroccio e Fi ancora insieme in 15 capoluoghi su 20 ma Salvini punta a sbaragliare Berlusconi anche nelle città del Sud
di Barbara Fiammeri, Andrea Marini


Roma Le comunali di domenica prossima sono il primo test elettorale dopo la nascita del governo Lega-M5s. Un test nel quale il partito di Matteo Salvini e quello di Luigi Di Maio si confrontano da avversari poiché la Lega in gran parte dei casi marcia con il resto del centrodestra assieme a Fi e FdI. Ad unirli però è il comune nemico, ovvero il Pd che rischia di rimanere stritolato dalla morsa gialloverde e di pagare il prezzo più alto visto che dei 20 capoluoghi di provincia chiamati alle urne, ben 15 sono guidati dal centrosinistra. E tra questi ci sono feudi storici come Siena, Massa, Pisa e Ancona ma anche città come Vicenza, in cui il centrosinistra governa da 10 anni, oltre a Treviso, Brescia, Terni (attualmente in amministrazione straordinaria), Barletta e Catania. Città nelle quali la scelta del sindaco verrà decisa nella stragrande maggioranza dei casi al ballottaggio del 24 giugno. Ed è lì che il centrodestra guidato dalla Lega e il M5s di Luigi Di Maio potrebbero unire le forze per sbaragliare quello che resta, a livello nazionale e in Parlamento, il loro principale avversario, che oggi conta su ben 120 sindaci sui 170 non espressione di liste civiche.
Salvini ne è convinto. Il leader della Lega neppure per un giorno ha mollato la campagna elettorale (unica eccezione il vertice a Roma di giovedì scorso con Di Maio per il via libera al governo Conte). Punta a scippare ai dem città simbolo come Pisa e Massa, dove ha voluto a tutti i costi candidati del Carroccio, ma anche a confermare la leadership leghista sul resto del centrodestra. Non solo riaffermando con i numeri il sorpasso netto su Fi ma anche mettendo in difficoltà il partito di Silvio Berlusconi laddove ancora mantiene il vantaggio sul Carroccio, ovvero al Sud. Ecco allora che a Brindisi e Barletta la Lega decide di andare da sola e lo stesso avviene a Siracusa, Trapani mentre a Ragusa, città grillina, neppure si presenta. A beneficiarne sarà certamente il M5s che alle elezioni del 4 marzo nelle regioni meridionali (soprattutto in Sicilia) ha raggiunto percentuali record. Ma il Carroccio ha presentato un candidato sindaco diverso da quello di Fi anche alle porte di Roma, in una città importante come Fiumicino (80mila abitanti), dove alle politiche a sorpresa si è posizionato come primo partito del centrodestra.
A parti invertire lo stesso avverrà a Siena e Vicenza dove i pentastellati hanno deciso di non presentarsi, accrescendo così le chance di successo del centrodestra. A Vicenza la partita è decisamente più facile. E non solo per l’assenza di un candidato pentastellato. Il centrodestra potrebbe conquistare la guida della città oggi amministrata dal centrosinistra già al primo turno, se dovesse bissare il risultato delle politiche dove ha superato il 48%. Più problematica Siena. Nella città del Monte la “desistenza” grillina, che il 4 marzo arrivò al 20%, potrebbe non essere sufficiente. Anche perchè la scelta di Luigi Mossi, candidato civico ma certo più vicino a Fi che alla Lega, ha creato parecchi malumori nel partito di Salvini (3 su 5 membri del direttivo si dimisero) che aveva conquistato anche lì il primato nella coalizione. Tutto si deciderà al ballottaggio.
Lo stesso vale per altre due importanti città toscane come Pisa e Massa nelle quali Salvini è ormai un ospite costante e nelle quali i candidati provengono dall’asse Lega-Fdi. Il neoministro dell’Interno è convinto di strapparle entrambe al centrosinistra grazie ai risultati già ottenuti alle politiche dove il centrodestra si è aggiudicato il primo posto. Se come è probabile al secondo turno andranno centrodestra e centrosinistra (anche se a Massa il M5s ha superato il Pd) decisivo sarà l’orientamento degli elettori pentastellati che a Massa hanno ottenuto il 29% e a Pisa il 24%. Se il centrodestra dovesse farcela sarebbe per Salvini la conferma che l’asse di governo con il M5s tiene anche a livello locale. Una prospettiva che dovrebbe preoccupare anche il M5s, che rischia di portare acqua al suo azionista di minoranza nel governo che però è anche il suo principale competitor. Se Salvini uscirà come il vincitore di questa tornata amministrativa è inevitabile che, come sempre avviene, il risultato peserà anche sugli equilibri all’interno dell’esecutivo.

Corriere 8.7.18
Italia superata da Atene sui titoli di Stato E a maggio 38 miliardi sono usciti dal Paese
Il rendimento greco a 9 mesi ora è più basso
di Federico Fubini


Ieri a fine giornata, il sorpasso al quale nessuno aveva pensato è avvenuto. Almeno sulle scadenze a breve termine, i titoli di Stato greci hanno iniziato a offrire un rendimento più basso di quelli italiani. Il premio richiesto dagli investitori per il rischio di comprare un Buono ordinario del Tesoro rimborsabile a marzo 2019 era più alto di quello di un governo espulso da anni dal mercato dei capitali come quello di Atene.
Almeno in questo, e almeno per ora, l’Italia è scivolata in ultima posizione nell’area euro. Ieri sera i Bot a nove mesi rendevano lo 0,79% annuo e i loro equivalenti ellenici lo 0,75%. È un sorpasso impensabile anche solo fino a metà maggio, quando uscì il “contratto” di governo M5S-Lega che prevedeva l’opzione di uscita dall’euro e destabilizzò per la prima volta il mercato del debito italiano. Allora il rendimento di quei titoli era negativo (meno 0,40%), considerato ben oltre un punto più affidabile della Grecia.
Ieri sera questa gerarchia era invertita, un evento dall’impatto psicologicamente potente per chi cerca di valutare la credibilità del governo giallo-verde. Per certi aspetti è tutto perfettamente logico nella meccanica dei mercati: chi compra, cerca sempre degli ancoraggi e oggi per le scadenze più ravvicinate quel riferimento è la Grecia; del resto Atene ha un futuro prossimo meno incerto, perché è inquadrata in un programma europeo di assistenza e i grandi partiti ellenici sono esplicitamente impegnati sul futuro del Paese nell’euro e su uno stretto controllo dei conti.
In Italia mancano entrambi questi elementi. Non può aver aiutato ieri un’intervista a “Market News” del senatore della Lega Claudio Borghi per reclamare interventi incondizionati della Banca centrale europea ad hoc sui titoli di Stato per fermare l’instabilità; eppure Borghi appena due settimane fa aveva detto che quei debiti del governo verso la stessa Bce potevano essere tranquillamente cancellati. Né avrà aiutato che Alberto Bagnai, altro senatore anti-euro della Lega e candidato sottosegretario all’Economia, si sia detto pronto a bloccare le aggregazioni fra Banche di credito cooperativo. Il mercato ha capito che dovranno essere i contribuenti futuri a pagare, tramite il debito pubblico, per salvare decine di quei piccoli istituti in dissesto.
Ma la fiducia verso l’Italia oggi sembra destabilizzata in maniera più complessiva, visti i segnali confusi mandati dal governo. Target2, il sistema di pagamenti della zona euro, ieri ha rivelato che in maggio sono usciti dal Paese 38 miliardi di euro. Lo stesso rendimento dei titoli di Stato a 10 anni ormai paga uno spread “tedesco” di oltre cento punti sul Portogallo, di 157 sulla Spagna ed è semmai più vicino — benché inferiore — a quello greco. Ma è soprattutto il crollo dei prezzi di bond a breve, che si muovo in senso opposto ai rendimenti, a rivelare come i timori maggiori riguardino il futuro immediato.
Non lo si direbbe dal silenzio che accompagna queste convulsioni. Ne parla poco l’opposizione. Tacciono i tanti economisti italiani di solito pronti ad accapigliarsi per questioni ben più futili: gli stessi che non hanno speso una parola per il Quirinale, quando la Lega cercava di imporre un anziano professore anti-euro come ministro dell’Economia.

La Stampa 8.7.18
I presidi bocciano oltre 1200 scuole:
“I loro risultati sono insufficienti”
Gli esiti dell’autovalutazione dei dirigenti inviati al Miur Troppe in difficoltà, ma 757 hanno prestazioni eccellenti
di Raphael Zanotti


Ci sono scuole “facili” e scuole più severe, i cui i risultati scolastici non sempre corrispondono a quelli dei test standardizzati dell’Invalsi. Poi ci sono scuole più attente alla formazione di cittadini e altre che ammirano a distanza i risultati che i loro ex studenti conseguono nelle scuole di ordine superiore. Infine ci sono le scuole che devono affrontare criticità serie: il contesto sociale in cui operano, i soldi che mancano, la dispersione scolastica. Tutte però, alla fine, hanno lo stesso obiettivo: offrire ai loro studenti il meglio, in modo che possano affrontare con gli strumenti più adatti il loro futuro. L’autovalutazione degli istituti è nata con questo obiettivo: individuare con criteri il più oggettivi possibile a che punto di un percorso pluriennale è il proprio istituto. I docenti si auto attribuiscono un voto da 1 a 7 secondo questi criteri e poi lo comunicano al ministero. La tentazione di costruire una classifica sulla base di questi voti dev’essere allontanata subito: non è questo lo scopo. Tuttavia questi risultati possono servire anche a noi per capire, in Italia, quali «buchi» ci sono, come migliorare la situazione, come pretendere che le istituzioni affrontino le situazioni più problematiche. Lo abbiamo fatto confrontando i dati del Miur dell’anno scolastico 2016-2017 ed elaborandoli in una serie di mappe che trovate qui a fianco. Per ogni comune abbiamo calcolato la media dei punteggi delle scuole presenti.
Le criticità
Un dato colpisce subito. Nonostante il sistema concorrenziale introdotto negli ultimi anni spinga le scuole a valutare in modo più magnanimo i propri risultati, in un comune su dieci le scuole denunciano apertamente di avere delle criticità. E ci sono 221 istituti con risultati molto al di sotto degli standard nazionali. Il 9% si trova nel Nord Est, il 43,4% nel Sud. La regione più in affanno è senz’altro la Sardegna: in più di un comune su quattro (il 28% per la precisione) il voto medio delle sue scuole è insufficiente. Un dato confermato anche dal confronto provinciale: sulle prime cinque aree con medie basse, quattro sono dell’isola. Solo l’1% indica le proprie scuole come ottime.
Le eccellenze
Ci sono però anche regioni dove le cose vanno bene. Nell’elenco sono escluse la provincia autonoma di Bolzano, quella di Trento e la Valle d’Aosta, ma è una regione del Nord ad avere la palma dei migliori risultati. In Friuli Venezia Giulia quasi un comune su dieci ha scuole che si sono auto attribuite un punteggio eccellente. E se a questi si aggiungono i comuni che hanno scuole con buoni punteggi, si arriva tranquillamente al 60% dei comuni. Qui all’ombra delle Dolomiti solo il 2,4% dei municipi ha problemi con i suoi istituti scolastici.
Quattro criteri
Ovviamente si tratta di medie, il risultato è molto più articolato e il ministero ha indicato quattro criteri per stabilire la valenza dei percorsi scolastici. Il primo è quello classico dei risultati, i voti che gli studenti prendono dai loro insegnanti. Se dovessimo valutare solo questo risultato, scopriremmo che la provincia con la media peggiore è Carbonia-Iglesias (4,5 su 7) mentre la migliore è Benevento (5,46). Il secondo criterio è quello oggettivo dei test Invalsi, uguali per tutti gli studenti d’Italia. Qui la zona più in difficoltà è Olbia-Tempio (3,5) mentre sorride Sondrio (5,2). Il terzo criterio esce dal perimetro delle materie di studio classiche. Si chiama “competenze chiave europee” e calcola la capacità dei ragazzi di creare rapporti positivi con gli altri, di costruire legalità, di sviluppare un’etica della responsabilità, di ottenere competenze digitali o di mostrare spirito d’iniziativa. Qui la provincia peggiore risulta Rovigo (4,28) mentre la migliore è Isernia (5,53). Infine il criterio dei risultati a distanza, ovvero i successi che gli studenti conseguono nelle scuole di ordine superiore: peggiore è Sassari (4,28), migliore Ascoli Piceno (5,42). Migliorare in uno o più di questi criteri dà il senso del lavoro che tutti gli istituti svolgono per preparare la nuova classe dirigente ma anche la politica può dare una mano.

La Stampa 8.7.18
La foto di classe si fa di spalle contro il divieto della preside
di Antonio Boemo


A differenza di quanto capita ai colleghi di quelle scuole in cui le foto nemmeno si fanno, a Grado i bambini di prima elementare potranno conservare l’immagine che ricorderà loro per sempre l’anno del debutto tra i banchi. Faranno però difficoltà a riconoscersi. Si perché si sono fatti immortalare tutti di schiena. I bambini si sono divertiti. I genitori che hanno assistito alla scena anche. Tutti hanno scattato delle foto ricordo con i telefonini, foto destinate magari a fare il giro dei social. Il motivo? Per l’istituto - e più precisamente per la preside Adriana Schioppa, la dirigente scolastica già agli onori della cronaca per aver obbligato per mesi i genitori a venire a prendere di persona i figli alla fine delle lezioni delle medie di Grado e Ronchi dei Legionari - è più importante la privacy di un bel ricordo. Il risultato è la foto vista dal lato B. Del resto la questione delle foto di classe è aperta già da tempo in molte scuole, proprio a causa dell’applicazione delle norme riguardanti la privacy dei minori. Tra gli insegnanti si è già diffusa una pratica alternativa, cioè fotografare le classi all’esterno delle scuole.
Anche se c’era la liberatoria
Nel caso di Grado, poi, si è trovato un escamotage ancora più originale: foto di spalle per tutti, alunni e maestre. Eppure tutte le famiglie avevano rilasciato la liberatoria d’inizio anno ma la dirigente scolastica ne pretendeva altre, di volta in volta. Ogni scatto, un giro di fogli e di firme. Ma trovare sempre tutti i genitori non è facile. Ecco allora che le insegnanti, pur di poterla fare, la foto ricordo, hanno escogitato la singolare soluzione.
L’occasione è stata quando i bambini delle due classi di prima elementare hanno festeggiato la fine dell’anno scolastico. Il tradizionale gioco dell’oca si è concretizzato in un percorso che ha occupato totalmente piazza Marin con la serie di caselle opportunamente ingrandite a misura di bambino.
I vincitori hanno ricevuto in dono dei libri, gli altri comunque un piccolo ricordo della giornata. Poi tutti a pranzo assieme, in pizzeria: scolari, genitori, insegnanti e collaboratori della biblioteca. Prima, però, la foto ufficiale di fine anno, da rendere pubblica, inviata quindi dalla scuola al quotidiano «Il Piccolo». Fra trent’anni potranno dire: «Probabilmente quella è la schiena del mio ex compagno di banco».

Repubblica 8.7.18
Scuola
Rivolta delle maestre laureate “Il ministro parte male una beffa sanare le diplomate”
di Corrado Zunino


Di che cosa stiamo parlando
Nelle ultime tre stagioni sentenze di Tar e Consiglio di Stato hanno fatto inserire nelle Graduatorie a esaurimento, l’anticamera dell’assunzione dei docenti nella scuola, le diplomate magistrali: 49.119 maestre “dm” senza aver mai passato un concorso hanno scalzato le storiche precarie laureate e 5.665 sono entrate in ruolo. Il 20 dicembre scorso il Consiglio di Stato in adunanza plenaria ha ribaltato tutto: diplomate fuori dalle Gae. Il governo Lega-M5s vuole riportarle in cattedra con una sanatoria.

ROMA Il governo sanerà, a giorni, 50 mila diplomate magistrali. Con un decreto d’urgenza supererà la sentenza del Consiglio di Stato che lo scorso 20 dicembre le aveva richiamate dal ruolo in cattedra e tolte dalle graduatorie pre- ruolo. Il ministro Marco Bussetti conferma l’anticipazione di Repubblica e le storiche precarie, presenti anche da vent’anni nelle Graduatorie a esaurimento, s’infuriano.
Antonella Ermigiotti, supplente a Lodi da undici stagioni, su Facebook scrive: « Partiamo bene. Primo atto una bella sanatoria-condono per le diplomate... Alla faccia di chi ha fatto i concorsi. Le magistrali prenderanno i posti dei vincitori di concorso e dei precari storici? A questo punto sono fessi tutti i docenti che hanno rispettato le procedure di reclutamento».
I gruppi social di riferimento sono carichi di post rabbiosi. Rosalba Olivieri: « Non c’è limite al peggio. Noi in Gae abbiamo affrontato anche il concorso 2016, quando al Sud hanno assunto con il contagocce. Queste qui, senza aver fatto mai nulla, pluribocciate, vengono inserite nelle graduatorie di merito? Entreranno in ruolo prima di noi pluriabilitate e vincitrici di più concorsi » . Peppe Angela Caldarelli, pendolare tra Caserta e Roma, si chiede: « Ma quando finirà questo calvario? Concorso superato, 18 anni di precariato, vita da pendolare, tempo rubato alla famiglia. Vi rendete conto che state giocando con la vita delle persone?».
Raccolta la giornata di reazione contraria delle maestre storiche e laureate, a sera Bussetti fa scrivere una nota: «La situazione dei diplomati magistrali è una delle priorità all’attenzione del ministro dell’Istruzione. In questi giorni il ministro sta verificando le possibili soluzioni che tengano conto delle attese dei diversi portatori di interesse ». Conclude: «Nessuna decisione definitiva è stata ancora presa».
Marco Bussetti lavora al dossier “ maestre precarie” dal giorno dell’insediamento. Come ha raccontato a Valeria Fedeli durante il passaggio di consegne, « conosco la questione da quando sono provveditore di Milano » . L’uomo a cui ha affidato il tentativo di uscire dal ginepraio dell’assunzione delle docenti dell’infanzia e delle elementari — 49.199 sono diplomate magistrali, 4.000 laureate in Scienze della formazione, 23.000 storiche Gae e ogni blocco ha interessi contrapposti — è il vicecapo di gabinetto Rocco Pinneri. La soluzione prospettata — inserimento in coda alla graduatoria di merito — prevede un concorso (fittizio) da svolgere a metà luglio, ma ha una controindicazione: il decreto dovrà essere firmato entro la prossima settimana visto che i provveditorati stanno per nominare le supplenti in tutta Italia. Resta l’ipotesi di sistemare diplomate, laureate in Scienze della formazione e depennate Gae in fondo alle graduatorie, ma il sindacato Anief fa notare che una sentenza del Tar non consente “ posizionamenti a blocchi”.
Scrive a Bussetti il gruppo storico delle maestre precarie (110.000 in tutto): « Una scuola di qualità non può essere calpestata da una sanatoria priva di selezione. Ministro, non deluda noi e il Paese».

La Stampa 8.7.18
Vienna sfida l’Italia: avanti con i passaporti per gli altoatesini
di Francesco Olivo


«Noi andiamo avanti». La questione del passaporto agli altoatesini rimane un progetto molto concreto per il governo austriaco. Lo confermano fonti vicinissime al premier Sebastian Kurz, impegnato in un tour diplomatico sempre più attivo: martedì ha visto Vladimir Putin, mercoledì la visita a Bruxelles e la stretta di mano con Jean Claude Juncker e ieri il congresso dei deputati del Partito Popolare europeo a Monaco di Baviera, del quale il cancelliere austriaco fa parte.
Il piano – emerso in dicembre – di dare la nazionalità austriaca agli abitanti di lingua tedesca dell’Alto Adige aveva subito un rallentamento negli scorsi mesi. Il provvedimento non era stato calendarizzato in Parlamento. Vienna aveva deciso di procedere con l’istituzione di gruppi di lavoro misti, ovvero comprendenti esponenti altoatesini. La ministra degli Esteri Karin Kneissl – siamo in marzo – aveva teso la mano a Roma ribadendo che ogni passo sarebbe stato valutato insieme alla Farnesina. Fonti diplomatiche italiane avevano allora sottolineato come l’istituzione di gruppi di lavoro era l’indicazione che l’Austria voleva prendere tempo e che il passo finale era ben lungi dall’essere vicino.
E infatti ieri ambienti vicini a Kurz facevano capire che la mancanza di una data per la discussione in aula o nelle commissioni parlamentari è solo un rinvio non un accantonamento: «Noi andiamo avanti, non vogliamo giocare una partita unilaterale e cercheremo sempre il dialogo con l’Italia».
Ma in ogni caso l’esecutivo di coalizione, popolari e ultradestra Fpö, sponsor originari dell’iniziativa sposata da Kurz, sente di avere la ragione dalla propria parte: «Voi avete dato il passaporto alla minoranza italiana in Slovenia e Croazia negli Anni 90 e non ci sembra che si sia scandalizzato nessuno». L’esecutivo si riferisce a una modifica alla legge sulla cittadinanza che l’Italia apportò nel 2006, che consentì agli italiani di Istria e Dalmazia di ottenere il nostro passaporto, una misura che provocò malumori nei governi croato e sloveno. E il leader del Fpö Heinz-Christian Strache ha rilanciato: «L’autonomia del Sud Tirolo è giusta, perché non prevedere questa possibilità», ha detto riferendosi alla concessione del doppio passaporto.
A Roma oggi c’è un nuovo governo, con posizioni affini a quello austriaco su alcuni punti, primo fra tutti l’immigrazione. Kurz tra una conferenza e l’altra della riunione dei popolari a Monaco rifiuta ogni legame diretto: «Non conosco nessuno di Lega e Cinque Stelle. Ma sono pronto a confrontarmi». La Lega però i rapporti li ha con gli alleati di Kurz, i nazionalisti dell’Fpö La Lega per ora non prende posizione, ma a livello locale apre: «Per noi le radici storiche sono un valore importante. Comprendiamo quindi i sudtirolesi e le loro istanze» ha spiegato il segretario della Lega Trentino, Mirko Bisesti, al quotidiano Die Presse.

il manifesto 8.7.18
Il primo atto del Psoe: formazione dei giudici in violenza di genere
Martedì al Congresso. È una delle 122 misure previste dal Patto di Stato contro la violenza maschile. La portavoce dei socialisti: la decisione è nella direzione intrapresa dal presidente Pedro Sánchez, che ha appena formato un «governo femminista»
di Marina Turi


Il primo atto che il Psoe, ora partito di governo, porterà al congresso dei deputati la prossima settimana sarà la proposta di legge per fornire ai giudici spagnoli una formazione specifica in materia di violenza di genere. È un disegno di legge che giace nel cassetto socialista da più di un mese, da prima che la tristemente nota sentenza di abuso sessuale, anziché stupro di gruppo, contro una ragazza durante la festa di San Fermín a Pamplona, fosse resa pubblica.
È l’attuale portavoce del Psoe, Adriana Lastra, a darne notizia: la decisione, afferma, è nella direzione intrapresa dal presidente del governo Pedro Sánchez, che – come lei stessa sostiene – ha appena formato un «governo femminista». Si inizia così, tanto per azzittire chi parlava di una bella immagine di marketing e nulla di più, riferendosi alla nomina di 11 ministre su 17 dicasteri. Invece si va un po’ più in là dei bei gesti, perché nella società spagnola sono necessari cambiamenti profondi e politiche femministe. All’amministrazione giudiziaria servono i giusti criteri di interpretazione di genere per comprendere la violenza maschile e poter emettere sentenze giuste. È questa una delle 122 misure previste dal Patto di Stato contro la violenza maschile, che intende estendere il concetto di violenza di genere a quelle situazioni che ancora non rientrano nella legge, quelle violenze che avvengono in un ambito che va oltre quello della coppia, della famiglia, degli ex partner. La legge spagnola, infatti, non riconosce ancora il termine femminicidio per identificare un crimine contro una donna, agito proprio perché è una donna l’oggetto della violenza. Così un omicidio di una prostituta, assassinata dal cliente, non viene considerato un femminicidio, né quello di una donna uccisa da un collega di lavoro, per aver rifiutato una relazione sessuale.
La proposta di legge che il Psoe presenterà martedì, scombinando subito l’agenda parlamentare, intende modificare questo aspetto specifico del potere giudiziario, iniziando a fornire a chi giudica i criteri necessari per valutare quelle volte che una violenza presuppone il carattere specifico di supremazia machista.

il manifesto 8.7.18
Il «consiglio delle ministre», la Spagna si aggiorna
La cerimonia. Nessun Crocifisso ma una laica «promessa» sulla Costituzione, al via il governo Sánchez. Malumori da Podemos: «C’è gente che piace a Ciudadanos e al Pp, ma nessuna figura vicina a noi. In 24 ore si è dimenticato di chi lo ha fatto presidente», commenta Pablo Iglesias
di Jacopo Rosatelli


I simboli, e le parole, in politica contano. Ieri, alla cerimonia di presa di funzione dei membri del nuovo governo spagnolo di Pedro Sánchez, se n’è avuta una positiva dimostrazione. Come già era stato per il premier al suo insediamento il 2 giugno, davanti al Re Felipe VI nessun giuramento corredato da crocifisso e Bibbia, ma una laica «promessa» sulla Costituzione. E, novità assoluta, l’utilizzo dell’espressione «consiglio delle ministre e dei ministri». Pare non fosse previsto, ma l’istantaneo assenso del monarca sorridente ha fatto capire subito che non c’era nulla di formale da eccepire. E così, quasi tutti i componenti del nuovo gabinetto monocolore del Psoe hanno imitato la vicepresidente Carmen Calvo, la prima ad utilizzare la nuova «rivoluzionaria» dicitura per indicare l’esecutivo.
Altre parole importanti, quelle pronunciate dalla neoministra per la politica territoriale e la pubblica amministrazione, Meritxell Batet: «La priorità è recuperare il dialogo con la Catalogna». Proprio a lei, barcellonese doc, è affidato il compito più impegnativo che attende la compagine socialista: uscire dal muro contro muro con gli indipendentisti in cui era inchiodato l’ex premier conservatore Mariano Rajoy. Già solo che si riconosca che c’è da ristabilire un rapporto con una parte del Paese è un enorme passo avanti. Certo, anche il nuovo governo non farà sconti ai seguaci dell’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont: la nomina agli esteri del carismatico Josep Borrell, principale voce del mondo catalano antiseparatista ed ex presidente dell’Europarlamento, lo sta a dimostrare. Eppure, qualcosa si sta muovendo, nella giusta direzione. E da Barcellona, per bocca della portavoce del nuovo governo regionale Elsa Artadi, giungono segnali di apprezzamento.
Dalle parti di Podemos la cautela è massima. Il leader Pablo Iglesias concede al nuovo governo «un paio di settimane di cortesia» prima di emettere giudizi, ma un po’ di disappunto c’è: «Sánchez ha fatto un governo con gente che poteva piacere a Ciudadanos e al Pp e con nessuno che possa risultare una figura vicina a noi», ha dichiarato in un’intervista alla tv pubblica. Nel mirino soprattutto Borrell e il ministro degli interni Fernando Marlaska, giudice che fino a ieri sedeva nel Csm spagnolo in quota Pp. Una nomina, quella del magistrato, che in effetti ha stupito, e che può senz’altro essere interpretata come segno che a Sánchez interessa recuperare consensi al centro, soprattutto ai danni dell’avversario ora più temibile, cioè Ciudadanos.
Sono i liberali di Albert Rivera, infatti, ad essere in questo momento in testa ai sondaggi. E i socialisti sanno che la vera posta in gioco, in un assetto politico ormai compiutamente quadripolare, è riuscire ad essere, anche se di poco, il primo partito. Per poter poi scegliere, dopo le prossime elezioni (la scadenza naturale è nel 2020), se allearsi con i centristi o con la sinistra di Podemos e soci.
In pieno marasma sono i populares orfani di Rajoy, che ha abbandonato la guida del partito e la vita politica. È la prima volta che alla destra manca un leader: in precedenza, il numero uno uscente aveva sempre designato il proprio successore. È tornato a farsi sentire l’ex premier José María Aznar, l’uomo che condusse la Spagna nella criminale guerra in Iraq, che sembra voler riprendere il posto che lasciò a Rajoy. Ma nel partito in pochi sembrano volere il suo ritorno. Chi ambisce al ruolo di leader, ed è molto quotato, è il presidente della Galizia, il cinquantasettenne Alberto Núñez Feijóo.

Il Fatto 8.7.18
Il mondo dei sogni che affama i lavoratori
Disney poverty - Il “senatore rosso” Sanders difende gli impiegati del parco dei divertimenti Usa
Il mondo dei sogni che affama i lavoratori
di Michela A. G. Iaccarino


Nel mondo delle favole è scoppiata la guerra. Mickey Mouse e Minnie hanno fame. Stanno urlando: vogliamo giustizia. California del Sud, nella città-giocattolo della Walt Disney, Anaheim. Il “posto più felice del mondo, dove i sogni diventano realtà”, come promette l’insegna, è l’incubo in technicolor di migliaia di lavoratori. È povertà al gusto pop-corn, indigenza pura allo zucchero filato.
Il Pluto che fa foto ricordo con i bambini ha dato probabilmente i suoi in affido. Sotto quel costume di gomma c’è qualcuno che ha i figli che vivono dai parenti, perché chi lavora alla Disney non guadagna abbastanza per mangiare tre volte al giorno: solo due terzi degli operai ha cibo assicurato quotidianamente. Chi ti allunga un hot dog nella città Disney ha probabilmente fame. Tre quarti di loro non sa come arrivare a fine mese e uno su 10 dei lavoratori dei resort non ha una casa, rivela il report dell’Occidental College.
O forse è uno di quell’11% di lavoratori che, secondo un recente sondaggio tra gli operai dell’azienda, ha sperimentato “cosa significhi essere un senzatetto”. Una di quelle vite che vanno sbiadendosi nelle roulotte o nei motel lungo le highways a stelle e strisce. Destini di uomini e topi. Da quelli di gomma che vendono, a quelli con cui dividono le stanze che riescono a permettersi.
“Voglio sentire qual’è la difesa morale di un’azienda che fa 9 miliardi di profitti l’anno e ha i lavoratori che muoiono di fame”. Rosso di rabbia e di bandiera, Bernie Sanders ha abbracciato questa protesta come Pippo i bambini all’ingresso del parco. Il senatore del Vermont è tornato. Vuole sapere perché una compagnia da 150 miliardi di dollari, con un amministratore delegato con un compenso da 423 milioni, “abbia tre quarti dei suoi dipendenti che non possono pagarsi le spese elementari”.
Dal 2000 al 2017 il salario minimo degli operai Disney è sceso da 15,80 dollari l’ora a 13,36. L’aumento richiesto dai sindacati adesso è di un solo dollaro orario, un intervento urgente dovuto all’aumento del costo della vita e all’inflazione. La compagnia l’ha accordato, ma solo nel 2020. Le lotte per i diritti dei lavoratori non hanno mai trovato un lieto fine da favola sotto le guglie dei castelli di Biancaneve.
All’ombra delle montagne russe vengono organizzate dal 2010 marce per dire “stop the Disney poverty”, mettere fine alla povertà Disney e alcuni lavoratori sono anche entrati in sciopero della fame, dice la sindacalista Ada Briceno, ma è sempre più difficile andar avanti.
Da Minnie a Marx. Sono “vittime di uno spietato sfruttamento, con condizioni di lavoro atroci, la loro lotta è la nostra”. Dopo gli operai delle favole, Sanders con i sanderistas raggiungerà quelli dei docks, le banchine dei porti d’America. Da una costa all’altra, fino alla Casa Bianca: Bernie ha detto che ci proverà di nuovo nel 2020.

Il Fatto 8.7.18
Hamas e il sacrificio palestinese nel venerdì di sangue di Gaza
Israele si prepara all’ennesima manifestazione al confine, mentre la popolazione araba appare sempre meno convinta delle linea intransigente dei suoi leader
di Fabio Scuto

Si prepara l’esercito israeliano schierato attorno alla Striscia di Gaza. I punti deboli della Barriera sono stati sostituiti, le linee sono state rinforzate con altri reparti arrivati di fresco. Elicotteri e caccia sono pronti al decollo nelle basi del sud. Il dispositivo militare per fermare oltre la Barriera che circonda Gaza le masse palestinesi è pronto per l’ultimo venerdì di Ramadan. Dall’altra parte del confine anche Hamas è pronto, i palestinesi si preparano per una nuova Great Return March che oggi assume anche il ricordo per l’anniversario della Naksa, la bruciante sconfitta del 5 giugno 1967 degli eserciti arabi con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania. Si preparano i miliziani mobilitati al massimo per portare anche oggi migliaia di persone a manifestare lungo i 37 chilometri della Barriera di confine con Israele. Si preparano gli “aviatori” di Hamas, i lanciatori degli aquiloni incendiari che hanno bruciato centinaia di ettari di terreni agricoli israeliani intorno alla Striscia. Si preparano i medici e paramedici volontari palestinesi: nelle marce sono finora morte 120 persone e 10.000 sono state ferite, 3.500 da munizioni vere. Cifre impressionanti che potrebbero limitare il numero dei partecipanti alle proteste, dipenderà dalla capacità di Hamas di convincere i disperati della Striscia che la soluzione alle loro emergenze passa attraverso la “Great Return March”.
Ieri mattina l’aviazione israeliana ha lasciato cadere i volantini lungo tutta la Striscia di Gaza, invitando i palestinesi a non prendere parte a violente proteste lungo la Barriera di sicurezza. L’esercito si aspetta che migliaia di residenti di Gaza vadano a protestare, a cercare di abbattere in alcuni punti la Barriera e far sciamare migliaia di manifestanti verso le cittadine e kibbutz che sorgono nelle vicinanze. Un incubo per la sicurezza israeliana. Ieri sera il portavoce dell’Idf ha detto che l’esercito è “pronto e preparato” per una serie di scenari diversi lungo il confine ed è “determinato a proteggere i cittadini di Israele e la sua sovranità”. Ieri mattina, come ulteriore deterrenza, sono stati lanciati volantini dagli aerei per dire agli abitanti di Gaza che Hamas sta cercando di usare loro e i loro figli per i propri obiettivi politici, per creare “l’anarchia”. “Per il tuo bene” – recita il testo – “è meglio per te non prendere parte a manifestazioni violente lungo il confine o attraversarlo. E non lasciare che Hamas ti trasformi in uno strumento per i suoi ristretti interessi”.
Giovedì scorso, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha difeso l’uso da parte israeliana di munizioni vere contro i manifestanti di Gaza e ha detto che Hamas vuole che i palestinesi muoiano. “L’ultima cosa che vogliamo è la violenza o lo scontro”, ha sostenuto il premier. Sull’uso delle munizioni vere – quelle usate durante questa crisi sono “modificate” e hanno un effetto devastante nelle parti colpite – la Corte Suprema israeliana questa settimana ha respinto all’unanimità una petizione di due gruppi per la difesa dei diritti umani che accusavano l’Idf di aver violato la legge usando cecchini e munizioni vere contro manifestanti armati di sassi e molotov.
La “questione Gaza” deve essere affrontata, concordano anche molti ufficiali dell’Idf. Ma come? Le condizioni di vita dentro sono terribili e l’emergenza umanitaria è dietro l’angolo. Israele può combattere contro Hamas che controlla la Striscia, ma non può riconquistare Gaza militarmente, il costo umano – oggi – sarebbe spaventoso. L’Anp di Abu Mazen non è in grado di riprendere politicamente il controllo della Striscia.

La Stampa 8.7.18
I martiri antinazisti della Rosa Bianca, fiore simbolo di amore spirituale
di Anna Peyron


Frau Karl Druschki», creata dal tedesco Peter Lambert nel 1896, e dedicata alla signora Druschki, moglie del presidente della Società tedesca degli Amici delle Rose, figura tra le grandi rose tedesche della fine del XIX° secolo La sua nomea le derivava, sicuramente, dalla bellezza del suo fiore bianco come la neve, dall’abbondanza della sua fioritura, dalla sua ottima rifiorenza. Queste ragioni ne determinarono il successo tra gli amanti delle rose, in patria e non solo. Nei paesi anglosassoni, a causa dell’ondata di germanofobia nata alla fine della Prima Guerra Mondiale, prese il nome di «White American Beauty», in Francia fu anche distribuita come «Reine des Neiges».
È un arbusto forte, dal fogliame chiaro e lucente. I grandi fiori in forma di coppa globosa si aprono solitari o a mazzi. Il colore è uno splendente bianco puro con una sfumatura limone chiaro all’unghia del petalo. Il profumo, a scapito della sua bellezza, ahimè, è quasi totalmente assente.
Gode anche di un’ottima reputazione come genitore. Il n° 3 del giornale «Rosenzeitung», del 1924, pubblica un elenco di quasi tutte le varietà appartenenti alla sola prima generazione di rose ottenute dall’incrocio tra «Frau Karl Druschki», che sia padre o madre, e un’altra varietà. La lista è di 120; molte sono ancora in coltivazione, come «Gruss an Aachen» e «Mrs. Herbert Stevens», per citare le più facilmente reperibili sul mercato. Entrambe sfoggiano il medesimo colore candido della genitrice.
Potrebbe essere stato il candore della diffusissima «Druschki», come tutte le rose bianche simbolo di innocenza, di amore puro e spirituale, a ispirare la scelta del nome «Weisse Rose» al gruppo fondato da alcuni studenti cristiani di Monaco di Baviera che, negli anni ‘42 e ‘43, con la diffusione di volantini, invitavano la popolazione ad ingaggiare una resistenza passiva contro il regime nazista.
Il 18 febbraio del ’43, alla fine delle lezioni, gettarono dall’alto delle scale dell’università e sulla folla nei luoghi più frequentati, volantini inneggianti alla rivolta, per un’Europa federale che aderisse ai principi cristiani di tolleranza e giustizia. Fu l’ultima loro azione. I primi arrestati furono i due fratelli Hans e Sophie Scholl. Interrogati dalla Gestapo, tentarono, per proteggere i loro compagni, di assumersi loro tutte le responsabilità degli scritti. Sophie, torturata per quattro giorni, non fece un solo nome. «Si comportarono con un coraggio fantastico. Tutto il carcere ne fu impressionato» è la testimonianza dei secondini. Il processo seguì immediato e durò cinque ore. La sentenza inappellabile li dichiarò colpevoli, condannati alla ghigliottina. L’esecuzione avvenne in tutta fretta, la sera stessa del pronunciamento.

Repubblica 8.7.18
Il catalogo delle paure
Dracula, Frankenstein & co. a ogni epoca il suo mostro
di Stefano Massini


Di cosa abbiamo davvero paura, quando abbiamo paura? Forse la risposta ce la può dare — per inverso — il pensionamento di certi monumenti gotici come Dracula, Frankenstein e mister Hyde, oggi del tutto incapaci di farci tremare. Eppure un tempo erano fonte di autentici sudori freddi. Accade in fondo per la paura la stessa cosa che contraddistingue il ridere: i connotati mutano con il mutare dei contesti, e la comicità di Macario appare ai nostri occhi un’arma spuntata proprio come i ghigni di Bela Lugosi. Sarà che — a sentire il dottor Freud — ogni paura del presente si nutre di uno spavento del passato, e se questo vale per l’individuo possiamo dedurne che anche la società nel suo insieme tragga i propri mostri da autentiche forme di shock collettivo. Come dire: ogni epoca ha il suo specifico terrore, figlio delle proprie esperienze. Per essere precisi, sembra che il vero successo di un’icona horror stia nel suo intercettare a mezza strada due diversi terrori, il primo chiuso nell’armadio dell’autore, e il secondo in quello dei lettori.
Prendete l’esempio del conte Dracula: è noto che Bram Stoker scrisse il romanzo dopo aver trascorso un’infanzia da allettato, fra medici che scuotevano la testa e genitori rassegnati al peggio, per cui l’immagine di quel vampiro rialzatosi dalla bara altro non era che un rivivere il terrore di quel calvario. Fin qui il trauma dell’autore. Ma poi? Poteva bastare questo a fare di Vlad III di Valacchia un caposaldo del terrore moderno? Nossignore. Ciò che rese Dracula uno spauracchio collettivo fu il fatto che Stoker gli conferì ad arte tutte le caratteristiche dell’ignoto straniero trapiantato sul suolo britannico: il conte assetato di sangue venne trasformato in uno slavo antioccidentale, anticristiano, antitecnologico, antirazionale, ovvero in un formidabile ricettacolo di tutto ciò che i lettori inglesi potevano concepire come una minaccia alla loro identità. Si pensi che quando il libro uscì era ancora vivo Jules Verne, colui che in 80 giorni aveva fatto incontrare il londinese Phileas Fogg con la più assortita varietà delle razze umane: Stoker invertiva diabolicamente il meccanismo, portando lo straniero — il diverso! — direttamente a Trafalgar Square.
Insomma: Dracula eroe di una xenofobia in stile Belle Époque, nutrita di pregiudizi al pari di quella che aveva ispirato Ann Radcliffe, autrice di culto del filone gotico, i cui libri più famosi (“Romanzo siciliano” o “L’italiano”) si collocano sullo sfondo di un Belpaese sanguinario e truculento. Nessuna sorpresa: la paura colma le proprie lacune con il pregiudizio, come insegna Carl Jung, e da Machiavelli in poi l’Italia è terra di losche trame e di pugnali. Chissà che non abbia influito anche questo sul successo strepitoso di John Polidori, autore nel 1819 del primo romanzo con tema vampiresco: per quanto nato a Londra, egli portava pur sempre nel cognome quel brivido d’italianità torbida che certo non spiaceva ai lettori. Narra peraltro la leggenda che Polidori inventò la storia del suo vampiro a casa di Lord Byron, nella famosa congrega gotica in cui Mary Shelley partorì il suo Frankenstein, su cui è impossibile non spendere due parole: il romanzo venne scritto dalla giovane autrice dopo aver subito una tale raffica di lutti da non richiedere alcun Freud per svelarne l’ispirazione, ma anche in questo caso il mostro si prestava a divenire simbolo di ben altre paure condivise. Perché è evidente che la Creatura assemblata dal Prometeo ginevrino era l’immagine squassante di una scienza ingorda, fuori controllo. Questo è Frankenstein: un trattato su quel sentimento antiscientifico che dilagava a inizio Ottocento. Ed è lo stesso parametro che si può applicare a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde,
dove lo sdoppiamento di personalità narrato da Stevenson si colloca proprio mentre Charcot teneva le sue famose lezioni sull’isteria alla Salpêtrière, sotto lo sguardo interessato dello stesso Freud. Un caso?
In fondo ogni paura è davvero figlia del suo tempo: i mostri cruenti di H.P.Lovecraft, simili a Baal di antiche tribù indigene, traducevano gli spasmi di un’America profondamente razzista fra le due guerre, esattamente come le pellicole horror degli anni Cinquanta ( L’invasione degli ultracorpi, per citare il più noto) trasferivano in macabre ordalie aliene il terrore del nemico comunista. Quanto a noi, non facciamo certo eccezione: tremiamo come foglie per un filone horror-tech varato venti anni fa dal giapponese The Ring e consacrato nella fotografia fintamente sgranata di
Paranormal activity, come a dire che nell’epoca degli smartphone e dei microchip non esiste peggior terrore che diventare schiavi della tecnologia. Altro che Boris Karloff: nel Terzo Millennio l’icona del brivido potrebbe essere un file, un desktop. O più probabilmente un’app.
L’incontro con Stefano Massini alla Repubblica delle Idee
Stefano Massini - scrittore, commediografo, firma prestigiosa del nostro giornale incontra oggi il pubblico alla Repubblica delle Idee Appuntamento a piazza Santo Stefano, alle ore 20: il tema è proprio quello del “Catalogo delle paure”, e a dialogare con Massini, sul palco del nostro festival, c’è Antonio Gnoli