Repubblica 7.6.18
La casa Russia del sergente Rigoni Stern
di Paolo Cognetti
Non
solo Dante o Hemingway. Nella biblioteca dello scrittore (di cui
ricorre il decennale della morte) campeggiavano gli autori che amò dopo
aver combattuto nella steppa. E che gli ricordavano le sue montagne
Il
sergente maggiore Rigoni tornò a baita dalla guerra il 9 maggio 1945.
Ci tornò a piedi, attraversando le montagne per raggiungere il suo
Altipiano.
Con sé non aveva più armi ma una divisa logora, una
cintura di molti buchi più stretta di quando era partito e il cappello
con la penna nera che portava dal primo dicembre 1938, data del suo
arruolamento volontario come «aspirante specializzato sciatore
rocciatore». In sei anni e mezzo da alpino aveva partecipato agli
attacchi contro la Francia, la Grecia, la Russia, era sopravvissuto alla
ritirata nella steppa in cui erano morti tanti suoi compagni, dopo
l’armistizio aveva rifiutato di aderire alla Repubblica di Mussolini e
per questo era stato internato nei campi di prigionia tedeschi, dove
dall’autunno del ’43 aveva combattuto la sua personale Resistenza.
Diventato soldato a diciassette anni, spinto dalla voglia di avventura e
dal patriottismo di un adolescente, smetteva di esserlo a ventitré con
l’aspetto e lo spirito di un reduce: non volendo più saperne di
esercito, rinunciò alla carriera militare e andò in congedo definitivo.
Dunque il sergente maggiore Rigoni tornò a essere Mario Stern, figlio di
Giobatta, montanaro dell’Altipiano, al momento senza lavoro. (…) Dunque
Mario, disoccupato, aspettava. L’uscio è il punto della casa da cui si
può scegliere se partire o restare, e in un’indecisione simile si
trovava anche lui. Veniva l’estate, ma erano troppo presenti i ricordi
per lasciarseli alle spalle e andare avanti. Aveva sofferto la fame e il
freddo, la privazione della libertà, la violenza dei carcerieri.
Questo era niente, aveva ucciso e visto morire: morti, tanti morti.
Chissà
se lo torturavano di più i nemici che aveva ammazzato o gli amici che
non era riuscito a salvare? Di notte si svegliava gridando al pensiero
dei morti.
Quanto aveva camminato e quanta neve! A volte provava a
raccontare, ma aveva già capito che nessuno voleva ascoltare le sue
storie: tutti avevano avuto la propria parte di guerra e non ne potevano
più della guerra degli altri. Così aveva messo via il manoscritto del
lager, le pagine in cui furiosamente, quell’inverno, aveva trascritto i
ricordi della ritirata di due anni prima. Era stata la neve a farglieli
tornare in mente. Forse c’era davvero un libro, dentro quelle memorie
sgualcite che si era portato a lungo in tasca, ma adesso non era ancora
pronto a rimetterci mano.
Pensò che per il momento, dato che tra
la gente non gli andava di stare, poteva andare a far legna per sua
madre. A cavar ceppi, cioè sradicare i resti degli alberi abbattuti,
legna utile e gratuita, però un lavoraccio: si dà di piccone
tutt’intorno al ceppo e si tira finché la terra non lo lascia andare. Ad
avercelo si fa prima con un mulo, e ancora prima, ad avercela, con un
po’ di dinamite.
Ma lavorare era una cosa buona, aiutava a non
pensare troppo e a rimettersi in forma, e poi stare in bosco da solo gli
era sempre piaciuto. Così Mario si alzò dalla soglia, spense la
sigaretta, buttò qualcosa nello zaino e andò in montagna.
Ecco i
giorni ricordati in questo Bosco degli urogalli. Il libro fa parte, in
un modo tutto suo, di una letteratura sul ritorno del soldato di cui
altri grandi ci hanno lasciato testimonianza, e con alcuni di loro
dialoga come gli scrittori dialogano con i propri maestri. Mario era
sempre stato un buon lettore, però negli anni Trenta la sua biblioteca
era limitata: dalla disponibilità economica innanzitutto, ma anche da
ciò che si pubblicava in Italia sotto il fascismo. Era passato da
Stevenson e Conrad, tanto amati in adolescenza da aver tentato, lui
montanaro, di arruolarsi in marina, alla Divina Commedia e all’Orlando
furioso che si era portato in Russia, insieme a un’antologia di poesia
del Trecento intitolata Primavera e fiore della lirica italiana. Troppo
poco per imparare a scrivere. Niente per respirare lo spirito tumultuoso
dei tempi. La sua vera formazione da scrittore cominciò dopo la guerra,
quando divenne tra l’altro bibliotecario: come responsabile della
biblioteca degli ex combattenti di Asiago, poteva ordinare e leggere i
libri che voleva. Nel frattempo la Liberazione liberava anche la
letteratura, in particolare quella americana contemporanea, e un’intera
generazione di italiani si innamorava di Hemingway con vent’anni di
ritardo. Mario lesse Addio alle armi, lesse I quarantanove racconti e
scoprì come si poteva scrivere di guerra nel Novecento. E di bosco,
anche. Trovò giusta quella lingua limpida e spoglia. Si rispecchiò in
quel ragazzo che, partito a diciott’anni per la guerra, tornava ferito
nel corpo e nello spirito e cercava una cura nei boschi della propria
infanzia. Era anche Hemingway un erede: la letteratura americana aveva
già fondato con Thoreau, con Melville, con London il mito della foresta e
del suo richiamo, l’oceano-foresta che accoglie, guarisce, fortifica
chi vi si immerge, ciò che per Mario erano la montagna e il bosco.
Ma
non era a occidente il paese da cui si sentiva attratto come da una
patria elettiva. Strano a dirsi, visto che ci aveva perso una guerra, si
era innamorato della Russia. Forse per tutto quel camminarle dentro,
tutta quella neve: la Russia gli era sembrata un paese che sarebbe
potuto essere il suo. A un certo punto della ritirata aveva addirittura
pensato: io mi fermo qui. Forse nell’isba di Nikolaevka, in quella casa
in cui, invece di sparargli addosso, i russi gli avevano offerto una
scodella di zuppa, era stata sancita una pace separata tra l’alpino
dell’Altipiano e il popolo della steppa, e inaugurata un’amicizia. Mario
avrebbe sempre considerato la betulla il suo albero insieme al larice:
la Russia e le Alpi. E alla letteratura russa si dedicò con fervore nel
dopoguerra. Più Tolstoj che Dostoevskij. E poi Turgenev, ?echov. Di
Tolstoj amò I cosacchi, storia di un ufficiale moscovita che, stanco di
guerra, trova una felicità inaspettata tra i montanari del Caucaso. Di
Turgenev le Memorie di un cacciatore, un duro ritratto delle condizioni
di povertà dei contadini ma anche un’ode alla vita nei boschi. Di ?echov
le lettere dalla Crimea: «Qui ogni albero l’ho piantato io e mi sono
cari. Tra tre, quattrocento anni, tutta la terra si trasformerà in un
bosco fiorito e la vita sarà meravigliosamente leggera e facile…» Questo
legame degli scrittori russi con il paesaggio, con lo scorrere delle
stagioni, con le campagne e la loro gente, Mario lo capiva e lo sentiva
suo, non c’era differenza tra quella patria immensa e la sua patria
piccola, il suo Altipiano. Anche dell’Altipiano si poteva fare
letteratura. Prima uscì il Sergente, nel 1953. Fu un libro letto e amato
da molti, ma da molti anche frainteso: in parte la provenienza
dell’autore, in parte il proliferare di memorie di guerra potevano far
pensare alla mano fortunata di un reduce, più che alla nascita di un
grande scrittore. Altri in quegli anni avevano scritto di guerra e si
erano fermati lì. Mario non ne aveva nessuna intenzione: al premio
Viareggio, che vinse per l’opera prima, incontrò Adriano Olivetti e gli
chiese se non potesse avere uno sconto su una macchina da scrivere,
magari un modello usato. In risposta, Olivetti gli spedì ad Asiago una
Lettera 22 nuova fiammante e un biglietto di stima. Così con i soldi del
premio Mario si comprò un fucile da caccia, l’altra sua passione: la
doppietta Bayard e la Lettera 22 sarebbero state le sue armi per gli
anni a venire.