Corriere 7.6.18
L’evento In mostra da domani al 12 settembre 175 opere
Alberto Giacometti si riprende il Guggenheim
L’omaggio di New York allo scultore svizzero
dal nostro inviato Stefano Bucci
NEW
YORK Per capire tutto il senso e tutto il fascino della mostra su
Alberto Giacometti che si apre domani al pubblico, dopo la preview per
addetti ai lavori di oggi, al Guggenheim di New York (fino al 12
settembre) bisogna guardare le ombre. Quelle ombre che, complice la luce
di un’illuminazione discreta ma efficace, scaturiscono dalla Grande
Femme IV (1960-1961), dai Trois hommes qui marchent (1948) o dalla
drammatica Tête sur tige (1947). Ombre che in qualche modo certificano
come quelle non siano semplici figure, quanto vere e proprie creature,
dotate di vita e sentimenti propri, anche se si tratta di sculture, di
dipinti, di disegni. D’altra parte il fascino, e la forza, che
Giacometti è ancora oggi capace di suscitare non sono certo un mistero.
Lo dicono, venalmente, le quotazioni del mercato (e delle aste): L’Homme
au doigt, incredibile e inquietante bronzo del 1947, è la scultura fino
ad oggi più pagata al mondo con i 141,3 milioni di dollari che un
anonimo collezionista ha sborsato nel 2015, da Christie’s a New York,
per accaparrarsela. Non un caso isolato, comunque: nella lista delle Top
20 di tutti i tempi ci sono ben altre sei sculture di Giacometti, a
cominciare dalla numero 2 della classifica, L’Homme qui marche del 1961
con «solo» 104,3 milioni di dollari (da Sotheby’s Londra nel 2010).
Maestro
di una modernità classica e tormentata, ossessionato per tutta la vita,
spiegano i curatori della mostra, «dal superamento dei limiti oggettivi
dei sensi», Giacometti non è però solo un grande genio dell’arte: in
qualche modo è il prototipo dell’artista-personaggio suo malgrado (lo
conferma anche il fitto elenco delle mostre che gli sono state di
recente dedicate, da Parigi al Québec, dalla Corea al Qatar). E di
un’idea molto pop della creatività, una creatività a 360 gradi,
insondabile e spesso inaspettata. La mostra del Guggenheim, la prima di
queste dimensioni che un museo statunitense dedica all’artista svizzero
(1901-1966) da più di 15 anni, celebra proprio l’estrema contemporaneità
di Giacometti. E la sua incredibile capacità di cogliere il mistero di
persone, forme geometriche, animali sia che si tratti del ritratto in
nero di Annette (1962), con cui inizia una relazione a Ginevra nel 1943 e
che sposerà a Parigi nel 1949, che apre il percorso espositivo, di Le
Cube (1934) o di Le Chien (1951), il cane in bronzo prestato per
l’occasione dallo Smithsonian di Washington, che conclude il viaggio
all’interno della Rotonda progettata da Frank Lloyd Wright, e che si
scopre, con sorpresa, Giacometti aveva pensato come una sorta di
autoritratto.
Giacometti, tormento e estasi, proprio come per
Michelangelo. Solo che per Giacometti è il tormento di un mondo che non è
uscito indenne dalla Seconda guerra mondiale, un mondo costellato di
uomini e donne sottili come fantasmi (impossibile non vedere le
similitudini con l’etrusca Ombra della sera oggi a Volterra o con la
lezione delle sculture africane). Uomini e donne non certo dalla
bellezza classica (arti e piedi enormi, teste piccolissime, gesti
talvolta assolutamente innaturali), ma che, dietro quella loro apparente
mostruosità, celano una (forse) inconsapevole fiducia. Uomini e donne
capaci di mantenersi in piedi, di stare seduti e, spesso, persino di
camminare nonostante quelle loro forme fisicamente improbabili. Simboli,
nemmeno tanto nascosti, di una fiducia nel futuro.
La mostra
(curata da Megan Fontanella del Guggenheim e Catherine Grenier,
direttore della Fondation Giacometti di Parigi con Mathilde
Lecuyer-Maillé e Samanta Small) copre di fatto l’intera carriera
dell’artista, con 175 sculture, dipinti e disegni, alcuni dei quali non
sono mai stati mostrati negli Stati Uniti, oltre a documenti e immagini
d’archivio. Un modo, oltretutto, per sottolineare la relazione storica
tra lo stesso Museo Guggenheim e Giacometti. Nel 1955, in una sede
temporanea, il Guggenheim aveva infatti organizzato la prima
presentazione museale dell’opera di Giacometti, che fu anche la prima
mostra significativa che il Guggenheim dedicò alla scultura moderna
(sotto la guida dell’allora direttore James Johnson Sweeney). Nel 1974,
nella nuova sede, ancora il Guggenheim avrebbe messo poi in cantiere una
retrospettiva postuma dedicata ancora una volta a Giacometti. Mentre a
partire dagli anni Quaranta Peggy Guggenheim, nipote di Solomon, avrebbe
a sua volta iniziato ad ammassare opere di Giacometti, insieme a esempi
di arte surrealista e astratta, opere che avrebbero poi viaggiato con
lei da New York all’Europa e che ancora oggi formano il «nocciolo duro»
della Collezione Peggy Guggenheim a Venezia (oggi inserita nella Salomon
Guggenheim Foundation).
Nel vortice di emozioni e pensieri che
Giacometti sembra ogni volta capace di suscitare convergono, e la mostra
di New York lo dimostra chiaramente, le suggestioni e le lezioni del
cubismo, del surrealismo, dell’arte primitiva (africana, oceanica,
cicladica) e dell’antico Egitto (sorprendente, ad esempio,
l’Autoritratto del 1937 in cui Giacometti riesce addirittura a mettere
insieme il Faraone Sesostris III e Cézanne). Intrecciando frequentemente
forme e dimensioni: le grandi teste del fratello Diego (da quella in
gesso del 1934 a quella in bronzo del 1954) e di Simone de Beauvoir
(1946), simbolo efficacissimo di legami d’affetto e di testa
(strettissimi furono i legami di Giacometti con Jean-Paul Sartre e
Samuel Beckett) che Giacometti intrattenne con il suo tempo (un altro
esempio di queste sue connessioni? L’esposizione Bacon-Giacometti alla
Fondation Beyeker di Basilea fino al 2 settembre). In un costante
tentativo, messo in atto proprio da Giacometti, di catturare l’essenza
stessa dell’umanità, qui ancora di più sottolineato da un allestimento
giocato sulle prospettive e i confronti fra le varie opere (reso
possibile dalla spirale architettonica progettata da Frank Lloyd Wright)
e un «non-allineamento» di piedistalli e pareti.
Tra i pezzi
forti della mostra (oltre a vere e proprie icone come Spoon Woman del
1926 e The Nose del 1949 già nella collezione del Guggenheim) il gruppo
di tre sculture della fine degli anni Cinquanta concepite per un
progetto di Giacometti (rimasto poi irrealizzato) per la Chase Manhattan
Bank Plaza a New York, un grande monumento progettato per uno spazio
pubblico urbano, ora installate nella High Gallery del museo. La sezione
finale della mostra, sulla rampa superiore, riserva poi un’ultima,
ulteriore sorpresa: un docu-film girato nel 1966 da Ernst Scheidegger,
amico di vecchia data dell’artista, che mostra Giacometti al lavoro nel
suo studio: proprio come il recente biopic, uscito quest’anno, che
Stanley Tucci ha realizzato per raccontare 18 giorni nella vita
dell’artista (nel 1964), quelli necessari a realizzare il ritratto dello
scrittore James Lord: 375 mila dollari incassati nelle prime cinque
settimane di programmazione. Ennesima dimostrazione che la
contemporaneità di Alberto Giacometti colpisce ancora.