La Stampa 7.6.18
Nel villaggio indiano dove il sanscrito
è tornato a essere la lingua del popolo
di Carlo Pizzati
Forse
senza saperlo, tanti di noi hanno sentito pronunciare o cantare qualche
parola in sanscrito. Basta ricordare, ad esempio, la canzone che l’anno
scorso vinse il festival di San Remo, «Occidentali’s Karma». Già
trent’anni fa, la cantante Madonna vinse il premio Emmy cantando il
famoso mantra pacifista «Om shanti» nella sua «Shanti/Ashtangi». E pochi
sanno che qualche parola in sanscrito s’è infilata in uno dei film
della serie di «Guerre Stellari» e di «Indiana Jones», oltre che
nell’opera del compositore Philip Glass, «Satyagraha».
Le origini
Il
sanscrito è una delle lingue più vetuste del mondo, la prima delle
lingue indoeuropee. Nata come dialetto dell’antichissimo indo-ariano,
nel secondo millennio prima di Cristo, il sanscrito vedico dopo il 600
a.C. si sviluppò come lingua franca e letteraria nell’India antica e
medievale, ma piano piano scomparve dall’uso comune, sopravvivendo
solamente come lingua parlata nei templi delle varie religioni orientali
e nella casta più alta dell’induismo, quella dei bramini, a conferma
del significato della parola «sanscrito», cioè «elaborato, raffinato».
Ma
il sanscrito è soprattutto noto per essere la lingua di filosofie
orientali come induismo, sikkhismo, jainismo e buddismo. Quest’idioma è
una divinità in sé e ripetere un mantra in sanscrito, come alcuni fanno
meditando o prima e dopo lo yoga, anche nelle sale gremite di tappetini,
in Occidente, ha delle proprietà benefiche che rasentano il magico,
poiché i famosi mantra nascono proprio in questa antica lingua
indoeuropea, considerata come la lingua degli Dei indiani.
Si dice
che il sanscrito, pur essendo una delle 22 lingue riconosciute
ufficialmente dal governo indiano, sia scomparso come linguaggio
parlato, ma esiste un paesino lungo il fiume Tunga, nel cuore dello
Stato del Karnataka nel Sud dell’India, dove cinquemila abitanti si
salutano ogni mattina in sanscrito dicendo: «Kaatham Ashti?» ovvero,
«come stai?» Oppure augurano a se stessi «Shubham Bhavatu», «speriamo mi
succeda tutto il bene del mondo».
Immaginate un villaggio negli
Appennini italiani dove i ragazzini che vi salutano in latino o ripetono
un frase di Seneca o di Cicerone, questo è l’effetto che può provare
chi arriva nel villaggio di Mattur.
L’iniziativa
Non è che
qui il sanscrito non sia mai scomparso, in realtà dei religiosi induisti
hanno fondato una scuola, la Sanskar Bharati, per insegnare a tutti la
lingua e incoraggiare chi abita nel villaggio a parlarla. Così, grazie a
quest’ondata di revival, è normale trovare una ragazzina con le
treccine che, su invito del maestro, si mette a cantare uno stotram in
sanscrito fuori da un negozio di dolciumi. O leggere graffiti scritti in
sanscrito sui muri delle case a un piano.
In questo villaggio a
pianta quadrata, proprio come quella dei templi induisti, si vive
secondo i dettami delle scritture vediche. Tra palme, pozzanghere,
rickshaw e piantagioni di noci di cocco e di betel, oltre il tempio di
Rama e le acque del Tunga, è tutto un cicaleccio in sanscrito, lingua
dalle vocali aperte, con suoni molto simili all’italiano, anch’esso
idioma di discendenza indoeuropea.
La scuola
«Qui da noi gli
studenti iniziano a studiare i testi sacri dei Veda, in sanscrito,
all’età di dieci anni, e tutti i ragazzini del villaggio devono
impararli a memoria», dice Subraha, un residente di Muttur, descrivendo
il corso quinquennale che inculca questa cosiddetta «lingua morta» nelle
menti dei matturiani.
Il revival del sanscrito sta attecchendo
anche altrove, visto che il governo centrale di Delhi ora offre agli
studenti indiani l’opzione di impararlo in alternativa al tedesco, come
terza lingua da studiare obbligatoriamente nelle scuole pubbliche. E
stanno spuntando altri villaggi, anche al Nord nel subcontinente, dove
la lingua sacra risorge nel parlato. Così ora si comincia a sentir
parlare il sanscrito anche per le strade dei paesini di Jhiri, Ganoda e
Syamsundarpur.
In India, all’ultimo censimento linguistico, più di
17 anni fa, si arrivò a quasi 15 mila persone che lo parlano come
lingua madre, mentre in Nepal nel 2011 erano circa 1700. Cifre che
potrebbero aumentare.
La lingua morta della letteratura e della
filosofia indiana rinasce quindi dalle ceneri e torna a fiorire per le
strade, evocando forse un senso di antichissima unitarietà linguistica,
che risorge da un passato remoto, ma che in realtà, tramite i testi
sacri, i mantra, le canzoni religiose e le preghiere, era sopravvissuto
nella liturgia dei templi per millenni. E nelle canzonette-yoga di
Madonna.