Repubblica 8.7.18
Il catalogo delle paure
Dracula, Frankenstein & co. a ogni epoca il suo mostro
di Stefano Massini
Di
cosa abbiamo davvero paura, quando abbiamo paura? Forse la risposta ce
la può dare — per inverso — il pensionamento di certi monumenti gotici
come Dracula, Frankenstein e mister Hyde, oggi del tutto incapaci di
farci tremare. Eppure un tempo erano fonte di autentici sudori freddi.
Accade in fondo per la paura la stessa cosa che contraddistingue il
ridere: i connotati mutano con il mutare dei contesti, e la comicità di
Macario appare ai nostri occhi un’arma spuntata proprio come i ghigni di
Bela Lugosi. Sarà che — a sentire il dottor Freud — ogni paura del
presente si nutre di uno spavento del passato, e se questo vale per
l’individuo possiamo dedurne che anche la società nel suo insieme tragga
i propri mostri da autentiche forme di shock collettivo. Come dire:
ogni epoca ha il suo specifico terrore, figlio delle proprie esperienze.
Per essere precisi, sembra che il vero successo di un’icona horror stia
nel suo intercettare a mezza strada due diversi terrori, il primo
chiuso nell’armadio dell’autore, e il secondo in quello dei lettori.
Prendete
l’esempio del conte Dracula: è noto che Bram Stoker scrisse il romanzo
dopo aver trascorso un’infanzia da allettato, fra medici che scuotevano
la testa e genitori rassegnati al peggio, per cui l’immagine di quel
vampiro rialzatosi dalla bara altro non era che un rivivere il terrore
di quel calvario. Fin qui il trauma dell’autore. Ma poi? Poteva bastare
questo a fare di Vlad III di Valacchia un caposaldo del terrore moderno?
Nossignore. Ciò che rese Dracula uno spauracchio collettivo fu il fatto
che Stoker gli conferì ad arte tutte le caratteristiche dell’ignoto
straniero trapiantato sul suolo britannico: il conte assetato di sangue
venne trasformato in uno slavo antioccidentale, anticristiano,
antitecnologico, antirazionale, ovvero in un formidabile ricettacolo di
tutto ciò che i lettori inglesi potevano concepire come una minaccia
alla loro identità. Si pensi che quando il libro uscì era ancora vivo
Jules Verne, colui che in 80 giorni aveva fatto incontrare il londinese
Phileas Fogg con la più assortita varietà delle razze umane: Stoker
invertiva diabolicamente il meccanismo, portando lo straniero — il
diverso! — direttamente a Trafalgar Square.
Insomma: Dracula eroe
di una xenofobia in stile Belle Époque, nutrita di pregiudizi al pari di
quella che aveva ispirato Ann Radcliffe, autrice di culto del filone
gotico, i cui libri più famosi (“Romanzo siciliano” o “L’italiano”) si
collocano sullo sfondo di un Belpaese sanguinario e truculento. Nessuna
sorpresa: la paura colma le proprie lacune con il pregiudizio, come
insegna Carl Jung, e da Machiavelli in poi l’Italia è terra di losche
trame e di pugnali. Chissà che non abbia influito anche questo sul
successo strepitoso di John Polidori, autore nel 1819 del primo romanzo
con tema vampiresco: per quanto nato a Londra, egli portava pur sempre
nel cognome quel brivido d’italianità torbida che certo non spiaceva ai
lettori. Narra peraltro la leggenda che Polidori inventò la storia del
suo vampiro a casa di Lord Byron, nella famosa congrega gotica in cui
Mary Shelley partorì il suo Frankenstein, su cui è impossibile non
spendere due parole: il romanzo venne scritto dalla giovane autrice dopo
aver subito una tale raffica di lutti da non richiedere alcun Freud per
svelarne l’ispirazione, ma anche in questo caso il mostro si prestava a
divenire simbolo di ben altre paure condivise. Perché è evidente che la
Creatura assemblata dal Prometeo ginevrino era l’immagine squassante di
una scienza ingorda, fuori controllo. Questo è Frankenstein: un
trattato su quel sentimento antiscientifico che dilagava a inizio
Ottocento. Ed è lo stesso parametro che si può applicare a Lo strano
caso del dottor Jekyll e del signor Hyde,
dove lo sdoppiamento di
personalità narrato da Stevenson si colloca proprio mentre Charcot
teneva le sue famose lezioni sull’isteria alla Salpêtrière, sotto lo
sguardo interessato dello stesso Freud. Un caso?
In fondo ogni
paura è davvero figlia del suo tempo: i mostri cruenti di H.P.Lovecraft,
simili a Baal di antiche tribù indigene, traducevano gli spasmi di
un’America profondamente razzista fra le due guerre, esattamente come le
pellicole horror degli anni Cinquanta ( L’invasione degli ultracorpi,
per citare il più noto) trasferivano in macabre ordalie aliene il
terrore del nemico comunista. Quanto a noi, non facciamo certo
eccezione: tremiamo come foglie per un filone horror-tech varato venti
anni fa dal giapponese The Ring e consacrato nella fotografia fintamente
sgranata di
Paranormal activity, come a dire che nell’epoca degli
smartphone e dei microchip non esiste peggior terrore che diventare
schiavi della tecnologia. Altro che Boris Karloff: nel Terzo Millennio
l’icona del brivido potrebbe essere un file, un desktop. O più
probabilmente un’app.
L’incontro con Stefano Massini alla Repubblica delle Idee
Stefano
Massini - scrittore, commediografo, firma prestigiosa del nostro
giornale incontra oggi il pubblico alla Repubblica delle Idee
Appuntamento a piazza Santo Stefano, alle ore 20: il tema è proprio
quello del “Catalogo delle paure”, e a dialogare con Massini, sul palco
del nostro festival, c’è Antonio Gnoli