venerdì 8 giugno 2018


internazionale 1.6.18
La settimana
ordine
Di Giovanni De Mauro


Le ragioni per avere dei dubbi sul contratto di governo tra Lega e cinquestelle non mancavano. Provando a elencarne alcune si sarebbe potuto cominciare da proposte di una certa gravità, come l’introduzione del vincolo di mandato per i parlamentari e la creazione di un “comitato di conciliazione” che si sovrappone agli organismi repubblicani. Una misura caratterizzante come la flat tax probabilmente non supererebbe lo scoglio della verifica costituzionale. Molti dei trenta punti del contratto sono di una vaghezza sconcertante (“Il patrimonio culturale italiano rappresenta uno degli aspetti che più ci identificano nel mondo”, “Uomo e ambiente sono facce della stessa medaglia”, “La scuola ha vissuto in questi anni momenti di grave difficoltà”) e su diverse questioni la vaghezza lascerebbe spazio a difficili interpretazioni (che vuol dire “ridiscussione dei trattati dell’Unione europea”?). Poi c’è l’assenza di coperture finanziarie, che secondo diverse stime dovrebbero arrivare a cento miliardi di euro. E inciampi, per esempio la confusione tra “cibersecurity” e “ciberbullismo”. Oppure norme discriminatorie, come quelle sugli asili nido gratuiti solo per gli italiani e quelle sulle moschee. O pericolosamente reazionarie, come quelle sui migranti (espulsione di 500mila persone e creazione di appositi centri di detenzione, uno in ogni regione) o sulla giustizia (inasprimento delle pene, abrogazione delle depenalizzazioni, ampliamento della legittima difesa). Che invece il presidente della repubblica abbia deciso di esercitare una delle sue legittime prerogative istituzionali rifiutandosi di approvare la nomina di un ministro dell’economia perché questo avrebbe rischiato di mandare un messaggio di allarme agli “operatori economici e finanziari” fa capire quale sia, oggi, l’ordine delle priorità.

internazionale 1.6.18
Dear Daddy
Di Claudio Rossi Marcelli
Senza controllo


La maestra di mio figlio manda foto della classe sul nostro gruppo WhatsApp. A me piacciono molto ma per mio marito sono al limite del voyeurismo. Tu che ne pensi? –
Diletta

Mentre scrivo ho accanto il telefono che trilla senza sosta. Mia figlia è partita per il campo scuola e le insegnanti stanno mandando aggiornamenti in diretta ai genitori. E allora c’è chi si preoccupa perché non trova il figlio nelle foto, chi lo becca senza giacca o perfino chi, come me, vedendo la figlia con un’espressione seria conclude: “Ecco, non si sta divertendo”. Le maestre che si prendono la briga di mandare foto ai genitori mostrano una grande tenerezza nei nostri confronti, ma vorrei condividere un post della mia amica Viola che mi ha fatto riflettere: “I bambini sono a una festa al bioparco. Sono affidati a degli animatori dalle 10.30 alle 13. È una formula carina, ho pensato, un momento loro. Verso le 11.30 sono cominciate ad arrivare foto dai vari genitori presenti, e via via sempre più notifiche nella chat di classe. Sono foto carine, certo. Un gruppo di ragazzini scalmanati e sorridenti. E forse sono una guastafeste, ma mi sembra di spiarli, di posare lo sguardo dove non era previsto e non è necessario né gradito. Penso che dovremmo imparare a lasciare loro più spazio, a fidarci del pensiero che stanno bene e si divertono anche senza vederlo. Accontentarci del racconto se ce lo vorranno fare, della risposta laconica, se pure ce la daranno. Lasciare uno spazio misurato, protetto, ma senza controllo. Noi senza di loro e loro senza di noi”. daddy@internazionale.it


Raccogliamo qui una serie di articoli internazionali che parlano della difficile settimana politica italiana

internazionale 1.6.18
Caos italiano
Uniti
La crisi politica a Roma è diventata un problema per tutta l’Europa. A rischio ci sono l’euro e la stabilità dell’economia del continente. E quindi l’intera architettura politica dell’Unione
Di Steven Erlanger, The New York Times, Stati


Durante i difficili negoziati per formare un governo in Italia, dopo le elezioni di marzo da cui non è emerso un chiaro vincitore, i mercati finanziari sono rimasti calmi. L’incertezza sembrava limitata all’Italia, e l’economia dell’Europa ha continuato a crescere. Le cose sono cambiate a ine maggio, quando il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha di fatto impedito a due partiti populisti di formare un governo. Mattarella si è opposto alla nomina di un ministro dell’economia che secondo lui voleva far uscire l’Italia dall’euro, un’ipotesi che non era stata discussa in campagna elettorale dai partiti della maggioranza. Con questa decisione Mattarella ha forse preparato il terreno per nuove elezioni che potrebbero diventare un referendum sull’euro. Per l’Unione europea il voto italiano cadrebbe in un brutto momento. La cancelliera tedesca Angela Merkel, che guida uno dei paesi cardine del blocco europeo, è più debole che in passato. Ha avuto bisogno di sei mesi per formare un governo, dopo elezioni segnate dal rafforzamento dell’estrema destra. Il governo spagnolo dovrebbe affrontare un voto di sfiducia il 1 giugno. L’uscita dell’Italia dall’eurozona è improbabile, ma la semplice prospettiva è molto pericolosa per il futuro dell’Unione europea: più della crisi vissuta dalla Grecia, che ha un’economia molto più piccola di quella italiana, più della decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione europea e più delle preoccupazioni sullo stato di diritto in Ungheria e Polonia. L’Italia è un paese fondatore sia dell’Unione sia della moneta unica, oltre che la quarta economia del blocco europeo. E la psicologia ha un peso. Nel 2011, quando il governo greco annunciò di voler organizzare un referendum sul piano di salvataggio proposto dall’Europa e sull’euro, Bruxelles avvertì Atene che in realtà sarebbe stato un referendum sulla permanenza nell’Unione europea. Bastò questo per spingere la Grecia a fare marcia indietro. Ma la moneta europea ha una serie di problemi. È stata adottata senza che ci fossero le istituzioni economiche per gestirla né una piena integrazione politica. Gli stati membri hanno ceduto la loro sovranità sulla politica monetaria, e questo spesso ha prodotto effetti negativi sulle economie nazionali. Oggi la questione della sovranità non solo non è stata risolta, ma al contrario si ripropone più forte che mai, proprio quando il populismo stava arretrando nei più importanti paesi d’Europa. Dopo il trauma della Brexit, due anni fa, il blocco europeo sembrava sorprendentemente stabile. Da anni l’Italia aveva un governo filoeuropeo. La Spagna e il Portogallo avevano ripreso a crescere. Marine Le Pen, la leader di destra francese, era stata sconfitta. Il primo ministro greco Alexis Tsipras stava rispettando, anche se con riluttanza, gli accordi sulla spesa pubblica. Ma il caos in Italia dimostra che il populismo antieuropeo non è sparito, e che l’euro è in pericolo. Mattarella ha chiesto a Carlo Cottarelli, un ex funzionario del Fondo monetario internazionale, di guidare un governo provvisorio. Ma la prospettiva di nuove elezioni è molto probabile. Matteo Salvini, il leader della Lega, il partito di destra molto radicato nell’Italia settentrionale, ha fatto dell’opposizione a Bruxelles, e in alcuni casi all’euro, uno dei cavalli di battaglia dei suoi discorsi elettorali. Luigi Di Maio, leader del Movimento 5 stelle e alleato della Lega nel governo bocciato da Mattarella, ha recentemente abbandonato l’idea di un referendum sull’euro, ma in passato ha criticato duramente Bruxelles. Il minore dei mali Mattarella, moderato e filoeuropeo, era scettico sulle loro intenzioni, e in nome della stabilità economica ha messo il veto su un ministro dell’economia critico verso l’euro. Così facendo ha offerto agli italiani, in via eccezionale, la stessa possibilità che offre il sistema elettorale francese a due turni: la prima volta si vota con il cuore, la seconda con la testa. In Francia Marine Le Pen ha ottenuto buoni risultati al primo turno delle presidenziali del 2017, ma è stata nettamente battuta al secondo. Mattarella scommette sul fatto che gli italiani facciano lo stesso, nel caso in cui i partiti populisti siano costretti a uscire allo scoperto sull’euro, una questione che hanno evitato di affrontare durante l’ultima campagna elettorale. A novembre un sondaggio della Commissione europea mostrava che quasi il 59 per cento degli italiani era favorevole a un’unione monetaria ed economica con una valuta comune, mentre il 30 per cento era contrario. Finora i rischi legati a un’uscita dall’euro hanno sempre convinto l’Italia a rimanerci. Ma l’euro ha portato anche degli svantaggi, e quindi la domanda è se gli italiani, frustrati da due decenni di stagnazione economica, siano pronti a correre il rischio e a tornare alla lira. La Brexit ha dimostrato che la logica economica non sempre prevale. Come Le Pen, Salvini potrebbe rendersi conto che, nonostante la rabbia contro Bruxelles sull’immigrazione e sull’economia, gli italiani, come i francesi e i greci, sono in realtà spaventati dalla prospettiva di uscire dall’euro. Ma il leader della Lega si è anche dimostrato abile nel cavalcare i sentimenti populisti e ha nuovamente messo al centro della sua politica l’opposizione all’euro e alle “élite” che lo sostengono. Molti commentatori pensano che Salvini otterrebbe buoni risultati se si votasse di nuovo, e alcuni credono che abbia volutamente sabotato il governo con i cinquestelle per andare al voto. È probabile che userà il tentativo di Mattarella di nominare un tecnico come presidente del consiglio per rafforzare il messaggio contro le élite della Lega e per presentarsi come un oppositore dei banchieri e delle forze antidemocratiche alle dipendenze di Bruxelles e Berlino. Per l’Italia le conseguenze di un’uscita dall’euro sarebbero gravi. Tra queste ci sarebbe probabilmente una svalutazione della moneta italiana, che brucerebbe in brevissimo tempo i risparmi degli italiani e aumenterebbe il già enorme peso del debito nazionale. È uno dei motivi per cui Mattarella ha sostenuto che qualsiasi decisione di uscire dall’euro dovrebbe essere presa solo dopo un grande dibattito pubblico e non di nascosto. Poi ci sono gli effetti negativi sull’Europa. Quasi sicuramente l’euro sopravvivrebbe e l’Unione europea riuscirebbe a limitare il contagio economico, ma il danno all’idea stessa di Europa sarebbe grave. Di fronte alla confusione dell’Italia sul suo futuro politico ed economico, e al fatto che il paese ha ricevuto una serie di prestiti difficili da ripagare, la Germania si rifiuterebbe di condividere il debito dell’eurozona e di fornire depositi bancari che facciano da garanzia per l’eurozona. Come ha detto Holger Schmieding, economista capo della banca d’investimento Berenberg, “le dimensioni contano”. L’Italia oggi rappresenta il 15,4 per cento del pil dell’eurozona e il 23,4 del suo debito pubblico. Nel 2009, quando è cominciata la crisi greca, Atene contribuiva appena per il 2,6 per cento al pil della zona euro, e oggi è responsabile solo del 3,3 per cento del debito pubblico dell’area. Inoltre l’Italia ha un debito pubblico del 130 per cento del pil, più del doppio rispetto ai requisiti della zona euro, ed è indicizzato in euro. Ripagare un simile debito con una moneta svalutata sarebbe uno sforzo immane e danneggerebbe gravemente i risparmiatori e gli investitori italiani, che ne detengono buona parte. A questo si aggiungono le preoccupazioni geopolitiche. L’Italia è un paese chiave della Nato e possiede importanti basi navali e aeree usate per le operazioni occidentali in Medio Oriente. “La prospettiva di un governo populista minaccia fondamentali elementi di continuità nella politica italiana, sia nella sfera europea sia in quella transatlantica”, afferma Ian Lesser, vicepresidente per la politica estera del centro studi German Marshall Fund. Anche l’arroganza dell’Unione europea potrebbe giocare un ruolo importante . Il 29 maggio il commissario al bilancio dell’Unione europea, il tedesco Günther H. Oettinger, ha dichiarato che le conseguenze sui mercati avrebbero spinto gli italiani a non votare per i populisti. Può darsi che lo facciano comunque, ma dirlo è una mossa incauta, specialmente da parte di un tedesco che lavora a Bruxelles.

L’opinione
Il presidente ha sbagliato
Di Diogo Queiroz De Andrade, Público, Portogallo

La scelta di Mattarella
Ex democristiano e giudice della corte costituzionale, il presidente della repubblica ha gestito bene i colloqui per cercare di formare il governo, scrive lo Spiegel
Di Hans Jürgen Schlamp, Der Spiegel, Germania


“L’Italia sta sbagliando tutto. Rifiutare un governo con una maggioranza espressa dalla volontà popolare solo perché un ministro dell’economia ha dubbi sul futuro dell’economia nazionale è una decisione così assurda che può solo portare a ulteriori problemi. Le scelte democratiche sono sovrane, non possono esserci interferenze in nome di un bene più grande. Il presidente della repubblica Sergio Mattarella può sostenere di fare un servizio all’Europa, ma in realtà sta solo indebolendo l’idea di democrazia, che è il fondamento principale della costruzione europea. Non si possono cambiare i princìpi della democrazia quando i risultati non ci piacciono”.



Con parole chiare e con il suo consueto tono pacato, Sergio Mattarella ha spiegato il tentativo fallito di formare un governo. Le bandiere dell’Italia e dell’Europa alle sue spalle e lo stemma della repubblica italiana davanti a lui hanno rafforzato il richiamo alla ragione di stato, in nome della quale non avrebbe potuto accettare Paolo Savona, il ministro dell’economia proposto dalla Lega e dal Movimento 5 stelle (M5s). I discorsi antieuropei di Savona avevano già provocato l’aumento dei tassi d’interesse e le perdite in borsa nei giorni precedenti. È dovere del presidente proteggere le imprese e i cittadini italiani da potenziali perdite. Punto. Per questo, esercitando i poteri che gli concede la costituzione, Mattarella ha proposto l’economista Carlo Cottarelli alla guida del paese fino alle prossime elezioni. Una mossa coraggiosa: Lega e M5s insieme hanno una maggioranza netta in parlamento. Com’era ovvio le reazioni non si sono fatte attendere. “Un attacco alla democrazia”, ha tuonato il leader della Lega Matteo Salvini, mentre il leader dei cinquestelle, Luigi Di Maio, ha parlato di una decisione “incomprensibile” di Mattarella. Se a decidere sul governo degli italiani non sono più i cittadini ma le agenzie di rating, ha detto, allora andare a votare non serve a nulla. Coerente e determinato Mattarella è nato a Palermo nel 1941. Il padre, Bernardo, era un politico della Democrazia cristiana (Dc) che fu più volte ministro. Il fratello più grande, Piersanti, presidente della regione Sicilia, fu ucciso dalla maia nel 1980. Sergio Mattarella è cresciuto in un ambiente alto borghese molto politicizzato. I capi di governo frequentavano la casa dei suoi genitori. Ogni tanto a pranzo da loro andava anche Giovanni Battista Montini, prima di diventare papa Paolo VI. Mattarella ha studiato legge, ha insegnato diritto costituzionale all’università di Palermo, poi è entrato in politica, nella Dc come il padre. Era in prima linea quando a metà degli anni novanta gli ex comunisti, una parte della Dc e i centristi si allearono nell’Ulivo. Era in prima linea anche quando, più tardi, fu fondato il Partito democratico. In politica Mattarella è sempre stato pacato, ma coerente. Per esempio nell’opposizione a Silvio Berlusconi: nel 1990 si dimise da ministro per protestare contro una legge che favoriva le sue televisioni. Nel 1994 si dimise da direttore del Popolo, il giornale della Democrazia cristiana, perché l’allora capo del partito Rocco Buttiglione si era alleato con Berlusconi. È stato ministro, vicepresidente del consiglio e parlamentare per sette legislature. Eppure, quando è entrato nel “pensionato per politici di punta”, come alcuni chiamano ironicamente la corte costituzionale, lo conoscevano in pochi. Le cose sono cambiate lentamente, dopo il 31 gennaio 2015, quando il parlamento in seduta comune lo ha eletto presidente della repubblica. Anche in questa veste è fedele a se stesso: riservato, poco appariscente, ma determinato. Ora, come custode della costituzione, è diventato uno dei politici italiani più popolari. Molti giudici della corte costituzionale sono cambiati negli anni in cui servivano il supremo arbitro del paese. “Quello che diciamo è legge”, ha dichiarato una volta in privato uno di loro, “sopra di noi c’è solo il cielo”. È una responsabilità che può anche infondere coraggio. Potrebbe essere questa la forza che ha spinto Mattarella ad agire con tanta determinazione. Una sorta di rispetto profondo per la legge, soprattutto per la costituzione, e un’istintiva inflessibilità. La costituzione italiana, dopotutto, garantisce al presidente un potere enorme. Il capo dello stato indice le elezioni delle nuove camere, autorizza la presentazione alle camere dei disegni di legge di iniziativa del governo, promulga le sue leggi ed emana i decreti che hanno valore di legge e i regolamenti. Può sciogliere una o entrambe le camere dopo aver sentito i loro presidenti, ha il comando delle forze armate, presiede il Consiglio superiore della magistratura, può concedere la grazia e commutare le pene. Piano d’emergenza Il suo compito è controllare che l’azione del governo rispetti le leggi e il diritto. Prima del 27 maggio, Mattarella aveva più volte avvertito che molte misure contenute nel “contratto di governo” tra i due partiti vincenti si sarebbero scontrate con la legge, se effettivamente adottate. Per esempio i regali elettorali da vari miliardi di euro, come la flat tax, il reddito di cittadinanza e l’anticipo sull’età pensionabile. Non c’era la copertura economica necessaria per realizzare queste riforme, come invece stabilisce la legge. Peggio ancora, i leader della Lega e del M5s non si erano neanche posti il problema. Il giudice costituzionale Mattarella non poteva che essere spaventato. Ma sono state le dichiarazioni ostili verso l’Europa e le minacce di uscire dall’euro se non ci fosse stata la possibilità di rinegoziare le regole finanziarie di Bruxelles che, ai suoi occhi, non gli hanno lasciato scelta. Perché i trattati firmati dall’Italia con l’Unione, i paesi membri e i paesi dell’eurozona hanno forza di legge. Non si possono semplicemente cancellare con gli slogan di Di Maio e Salvini, tipo “difenderemo gli interessi degli italiani”, o “gli indicatori come lo spread e il pil per noi non contano”, o addirittura con le minacce di non ripagare i debiti se le cose dovessero mettersi male. Cosa deve fare allora il custode della costituzione? Lasciare il paese nelle mani di potenziali trasgressori della legge senza opporre nessuna resistenza? O fermare tutto, almeno per un attimo, nella speranza che nel frattempo si possano formare nuove coalizioni per scongiurare i mali dell’Italia e quelli dell’Europa? Da questo punto di vista, l’ostinazione della Lega e dei cinquestelle sul nome di Savona potrebbe perfino aver aiutato Mattarella a realizzare il suo piano d’emergenza. Come minimo gli ha fornito un facile pretesto. Per Salvini, per quanto abbia protestato contro la decisione del capo dello stato, il cambio di programma non è affatto spiacevole: ora vede avvicinarsi le nuove elezioni che ha sempre invocato.

Le pressioni dell’Europa
La crisi italiana rivela che all’Unione europea serve più democrazia. I risultati elettorali che non piacciono a Bruxelles devono essere rispettati e affrontati senza paura
Di Joseph Confavreux, Ludovic Lamant, Mediapart, Francia

A che gioco ha giocato il presidente della repubblica italiana Sergio Mattarella? Con il rifiuto di nominare Paolo Savona ministro dell’economia, Mattarella ha immediatamente fatto ripiombare l’Italia nella crisi politica. Il capo dello stato non ha voluto nominare Savona ministro perché in passato aveva criticato l’euro. Il veto opposto da Mattarella, 76 anni, ex esponente della Democrazia cristiana, che tra l’altro è stato ministro della difesa nel governo presieduto da Massimo D’Alema (1999-2001), ha rinfocolato anche le preoccupazioni di quanti temono un nuovo “colpo di stato” dell’Unione europea ai danni di un paese dell’Europa meridionale, a meno di tre anni dalla resa di Syriza a Bruxelles, nell’estate del 2015. Il 27 maggio Luigi Di Maio, leader politico del Movimento 5 stelle, ha detto di voler chiedere la messa in stato d’accusa del presidente della repubblica. “Dopo stasera”, ha dichiarato Di Maio, vincitore delle elezioni del 4 marzo, con il 33 per cento dei voti, “è davvero difficile credere nelle leggi e nelle istituzioni dello stato”. La costituzione italiana prevede la messa in stato di accusa del presidente in due casi: alto tradimento e attentato alla costituzione (Di Maio ha poi ritirato la proposta). Il giorno successivo il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha respinto l’appello per la messa in stato d’accusa di Mattarella: “Ci vuole mente fredda, certe cose non si lanciano sull’onda della rabbia”, ha dichiarato per smarcarsi da Di Maio, che con lui avrebbe dovuto formare il governo. Ma l’amico di Marine Le Pen, la leader del Front national francese, ha già ricominciato a fare campagna elettorale proclamando: “L’Italia non è una colonia” dell’Europa. Se Mattarella indirà nuove elezioni, ammoniva il 27 maggio l’analista politico Francesco Galietti, sul Financial Times, “la campagna elettorale ruoterà attorno a un solo tema: il popolo contro il palazzo”. È lo stesso timore che esprimeva il 28 maggio sul suo blog anche l’ex ministro greco dell’economia Yannis Varoufakis, che la sa lunga in fatto d’intimidazioni da parte dell’Unione europea. Varoufakis se la prende con la “deriva morale” del presidente Mattarella, che “tollera la misantropia su vasta scala della Lega” (e la sua promessa di espellere dall’Italia 500mila migranti), e allo stesso tempo “pone il veto nei confronti di una legittima preoccupazione legata alla capacità dell’eurozona di lasciar respirare l’Italia”. Secondo Varoufakis questo “errore tattico” del presidente italiano – difendere l’euro e le regole di bilancio dell’Unione europea, invece di una politica più umana sull’immigrazione – rischia di costare caro e prepara il terreno a una vittoria della Lega nell’eventualità di nuove elezioni. Tradizione storica Gli appelli alla “responsabilità” dell’Italia, lanciati in questi ultimi giorni da vari governi europei, non hanno certo contribuito a rasserenare il clima politico a Roma. Sono sembrati nel migliore dei casi un modo per condizionare il programma di governo che la Lega e i cinquestelle stavano preparando. Nel peggiore dei casi sono stati interpretati come la volontà degli europei di negare il responso delle urne. Il 20 maggio il ministro francese dell’economia, Bruno Le Maire, aveva infatti dichiarato: “In Italia tutti devono capire che il futuro del loro paese è in Europa e non altrove, e affinché questo futuro sia effettivamente in Europa ci sono regole da rispettare”. E insisteva: “Gli impegni assunti dall’Italia restano validi quale che sia il governo”. Salvini, che è molto bravo ad attizzare il risentimento di una parte degli italiani nei confronti dell’Unione europea, non si è lasciato sfuggire l’occasione di rispondere all’avvertimento di Le Maire: “È l’ennesima, inaccettabile invasione di campo”. Il veto posto da Mattarella a un governo etichettato come “euroscettico”, associato allo spettro di un “governo tecnico” guidato da Carlo Cottarelli – che ha un passato nel Fondo monetario internazionale – s’iscrive in una certa tradizione europea. Fin dallo scoppio della crisi dell’euro, infatti, il carattere tecnocratico dell’Unione europea mal si adatta agli esiti contrari delle consultazioni popolari e provoca forzature antidemocratiche che rendono più fragile l’intero edificio dell’Unione. In un suo saggio del 2013 il professor Antoine Vauchez individuava “la grande precarietà della legittimità democratica nell’Unione europea”, e riassumeva la sua tesi dicendo che tra le pareti delle istituzioni europee “la consultazione del popolo, a quanto pare, è vista come uno spauracchio”. Il gioco dei parallelismi storici è sempre azzardato, ma il “momento romano” del 2018 ne ricorda altri. Per esempio, la bocciatura della costituzione europea in un referendum in Francia e nei Paesi Bassi mise una pietra tombale sopra quel testo ma non impedì ai leader dell’Unione europea di adottare il Trattato di Lisbona, in vigore dal dicembre 2009, che riprendeva il grosso delle disposizioni della stessa costituzione europea. E già nel 1992 i danesi, che in una prima consultazione si erano opposti al Trattato di Maastricht, furono invitati a rimetterlo al voto per “votare meglio”, cioè per approvarlo. E difatti il trattato ottenne il 57 per cento dei consensi. Nel 2011 Mario Monti, ex commissario europeo con un passato alla Goldman Sachs, fu chiamato in soccorso a Roma per formare un “governo tecnico” dopo la caduta dell’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, coronando così il paziente lavoro di disturbo da parte dei leader dell’Unione europea che auspicavano un cambio di governo. Nell’estate del 2011 entrarono nella mischia sia l’allora presidente della Banca centrale europea (Bce), Jean-Claude Trichet, sia il suo futuro successore Mario Draghi: il 5 agosto scrissero a Berlusconi una “lettera segreta” (di cui la stampa italiana svelò l’esistenza molto dopo) in cui elencarono le riforme che il governo avrebbe dovuto varare entro il 30 settembre di quell’anno. Il 19 settembre, visto che il governo di Roma non aveva fatto nulla, la Bce decise di ridurre il volume d’acquisto di titoli del debito pubblico italiano, esasperando così le pressioni dei mercati finanziari e provocando la caduta del governo Berlusconi. In occasione del G20 che si tenne a Cannes il 3 e il 4 novembre del 2011 la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy si espressero apertamente in favore di un cambiamento politico a Roma. Un’idea della loro intensa campagna contro Berlusconi ce la danno le memorie dell’ex segretario del tesoro statunitense Timothy Geithner, che era a Cannes insieme all’allora presidente Barack Obama. “Prima della riunione gli europei ci hanno avvicinato a passi felpati, dicendo in modo indiretto: ‘Essenzialmente, vogliamo che ci aiutiate a mandare a casa Berlusconi’. Più o meno, volevano che ci opponessimo a un’offerta di aiuto all’Italia da parte del Fondo monetario internazionale o di qualsiasi altro organismo, finché Berlusconi fosse rimasto a palazzo Chigi. Io ho detto di no…”. Alla fine, il 16 novembre 2011 s’insediò il governo Monti.
A qualsiasi costo
E si arriva all’ultimo episodio richiamato alla mente dal veto di Mattarella, la crisi greca del 2015. Quell’estate, i dirigenti dell’Unione europea hanno imposto alla Grecia governata da Alexis Tsipras un nuovo piano di “salvataggio” all’insegna di più austerità e più riforme, pudicamente definite “strutturali” (delle pensioni, del mercato del lavoro, eccetera), nonostante nel referendum che si era tenuto pochi giorni prima i greci avessero risposto per il 61 per cento con un forte “no”. In gennaio, subito dopo il responso delle urne che aveva mandato al governo Syriza, il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, aveva spiegato a Le Figaro: “Non ci può essere una scelta democratica contro i trattati europei”. Insomma: poco importa come votano i cittadini, bisogna perseguire il progetto europeo a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo. Sotto questo profilo, la dichiarazione di Bruno Le Maire sugli “impegni” dell’Italia è pressoché identica. Ma a ben vedere, l’incertezza politica a Roma in questo maggio 2018 non somiglia né al referendum francese del 2005 né al “colpo di stato” di Cannes nel 2011 né alla crisi greca del 2015. E il Movimento 5 stelle è imparagonabile da molti punti di vista ai movimenti europei che rivendicano il “populismo di sinistra” . Tuttavia, attaccarsi alle specificità della politica italiana o di quell’ufo che sono i cinquestelle per evitare o trascurare qualsiasi insegnamento si possa trarre da questa situazione sarebbe un comportamento pigro tanto quanto quello degli opinionisti che nel progetto di alleanza tra la Lega e i cinquestelle vedevano la prova che gli estremi finiscono sempre per toccarsi e fondersi allo scopo di rendere fragile la democrazia. Capire la crisi politica italiana significa capire perché e da chi è minacciata, con violenza crescente, la democrazia. È una questione ineludibile non solo per gli pseudosocialdemocratici che credono di potersela cavare accontentandosi di gridare al lupo populista, ma anche per quelle forze progressiste e di sinistra che invece di fare i conti con la loro impotenza accusano i tecnocrati di Bruxelles o le figure autoritarie e demagogiche di intercettare la rabbia del popolo attirandolo in un “tranello”. Che cos’è più insopportabile: l’alleanza tra un partito ultrapragmatico, antisistema, fondato sulla democrazia diretta digitale e ancorato a sinistra da una parte del suo programma con un partito di estrema destra, violentemente ostile agli immigranti e ultraliberista in campo economico? o piuttosto il rifiuto, in nome di criteri definiti dai mercati finanziari e dalle istituzioni dell’Unione europea, di lasciar governare quest’alleanza, che ha la maggioranza dei seggi in parlamento, come meglio crede? A voler fare politica e non solo la morale, il pur legittimo sollievo per aver rimandato l’arrivo al potere di una coalizione che comprende una forza di estrema destra appoggiata da Steve Bannon e Marine Le Pen può essere solo temporaneo o illusorio. Questo rinvio potrebbe benissimo trasformarsi in un vaso di Pandora, tanto sembra controproducente di fronte alla rabbia di una parte della cittadinanza che si sente spogliata della sua sovranità: una rabbia che le accuse di cedere al sovranismo non basteranno a contenere. Il veto che ha posto Mattarella, allora, costringe forse chi vuole ancora promuovere o salvare la democrazia a fare tre gesti paralleli. Il primo è un rifiuto di certi termini ormai diventati offensivi, con cui si cerca di delegittimare i contenuti di un voto sempre più ampio ai partiti che non si riconoscono nel funzionamento della democrazia rappresentativa contemporanea. Il progetto di alleanza di governo tra Lega e cinquestelle non è un’“alleanza antisistema” visto che la Lega è da tempo integrata nel gioco politico italiano e alleata della destra berlusconiana. Usare quella retorica equivale ad avallare l’idea che esista un sistema bloccato su cui si può agire solo rompendo radicalmente con esso, e fornire argomenti a chi pensa che questo sistema sia costituito solo dalle istituzioni politiche. Equivale a correre il rischio di buttar via il bambino della democrazia insieme all’acqua sporca delle disfunzioni della rappresentanza, e insieme non vedere le altre forme di potere (in particolare quello delle entità economiche e finanziarie), che si impongono alle rivendicazioni popolari e che la Lega non pretende di rimettere in discussione. L’altro termine che forse non bisognerebbe usare è populismo, un concetto sempre più inafferrabile sotto il profilo sia filosofico sia politico, visto che ormai serve solo a denunciare tutto ciò che mette in discussione certi meccanismi radicati, oppure a ironizzare sull’affinità tra le forze considerate estremiste. Affibbiare l’etichetta di populismo a qualsiasi cosa metta in discussione l’ordine economico e istituzionale esistente e farne l’unica presenza concreta del “popolo” nella politica europea significa aumentare il rischio di rendere sempre più profondo l’abisso tra le aspirazioni popolari e la realtà delle decisioni prese in Europa da decenni a questa parte. E questo anche se l’appello al popolo “non è necessariamente immune da tentazioni o da tendenze nazionaliste, o da ricorsi alla retorica identitaria”, come osservava di recente il filosofo francese Gérard Bras. Il secondo gesto da compiere è un’analisi concreta di ciò che oggi minaccia la democrazia. La storia dell’estrema destra in Europa, come anche le sue metamorfosi contemporanee che si possono osservare in Ungheria, è abbastanza attuale per capire che le elezioni non bastano a garantirsi contro gli arretramenti della democrazia stessa. Ma contemporaneamente, se le elezioni non sono una condizione sufficiente per la democrazia, ne sono una condizione necessaria, anche quando il responso delle urne può risultare sgradito.
Abbandonati al loro destino
Allora, se non vogliamo limitarci a spaventarci tutte le volte, il giorno prima e il giorno dopo le elezioni, dobbiamo ammettere almeno due cose. Primo: che i centristi possono minacciare la democrazia tanto quanto gli estremisti, se non di più. È la conclusione di un articolo di David Adler, intitolato Centrists are the most hostile to democracy, not extremists (Sono i centristi i più ostili alla democrazia, non gli estremisti), pubblicato sul New York Times, in cui si dimostra che non c’è una correlazione tra la considerazione degli elettori per la democrazia e la posizione che occupano nello spettro politico, anzi è proprio il contrario. Secondo: che sono stati soprattutto i politici di centro, guidati dal Partito democratico (Pd) in Italia e dai democratici negli Stati Uniti, dai socialisti in Francia e dai laburisti blairiani nel Regno Unito, a creare i mostri che oggi minacciano la democrazia, appropriandosi dell’espressione “Non c’è alternativa” di Margaret Thatcher e abbandonando al loro destino la stragrande maggioranza dei cittadini che appartengono ai ceti popolari. E questo comporta, come minimo, ammettere la responsabilità dei numerosi finti socialdemocratici per le rinunce alla democrazia, di cui pure pretendono di essere i custodi. Un’ammissione ancora lontana: Hillary Clinton, nel suo libro What happened, afferma di aver perso le elezioni presidenziali per colpa delle notizie false messe in circolazione dalla Russia e del maschilismo dell’elettorato statunitense; François Hollande attribuisce ai soli “frondisti” la responsabilità di aver cancellato un secolo di socialismo del panorama politico francese. Di fronte alla prospettiva di democrazie occidentali che oscillano tra figure autoritarie e illiberali (come Trump e Orbán) e falangi di tecnocrati usciti dal Fondo monetario internazionale, il presidente francese Emmanuel Macron ritiene di poter incarnare una “terza via”. Ma oltre al fatto che questa terza via somiglia molto ad alcune logore idee politiche che hanno prodotto i vicoli ciechi e i pericoli in cui si dibattono oggi le democrazie, e oltre al fatto che si adatta a meraviglia a una concezione autoritaria della democrazia, la “terza via” è incoerente se, pur in modo minore, mette in moto le politiche del “tanto peggio tanto meglio” che imputa agli estremisti. In altre parole l’Italia delle politiche migratorie di questi ultimi anni non può essere credibile quando denuncia il pericolo rappresentato dalla Lega perché – per esempio nel trattamento riservato ai migranti – siamo di fronte a differenze di grado e non sostanziali. E questo mette a nudo il fatto che i partiti detti populisti sono stigmatizzati non tanto per le loro tendenze autoritarie e antidemocratiche quanto perché minacciano il comune accordo neoliberista. Se si crede ancora alla possibilità di un’Europa democratica e solidale, diventa sempre più incoerente non tenere conto di come le scelte di ogni nazione incidano sui paesi vicini. La Lega e i cinquestelle devono gran parte del loro successo al fatto che gli italiani si sono sentiti abbandonati di fronte agli sconvolgimenti migratori di questi ultimi anni.
Invece di lamentarsi
Su un altro piano – come ha detto Sahra Wagenknecht, dirigente della Linke tedesca, poco prima che il 27 maggio Giuseppe Conte, incaricato dal presidente Mattarella di formare il governo, rimettesse il mandato – “è facile per il governo tedesco lamentarsi del nuovo governo di Roma, quando è la politica europea di Merkel la principale responsabile del successo dei cinquestelle e della Lega. Invece di lamentarsi della situazione elettorale italiana e di far piovere dall’alto consigli a una eventuale coalizione di governo tra Salvini e Di Maio, la Germania farebbe meglio a ridurre i surplus della sua bilancia dei pagamenti smettendola con il dumping salariale e varando invece investimenti pubblici”. Di fronte alla constatazione che la cerchia della presunta ragione democratica non resisterà a lungo per incoerenza, ipocrisia e vigliaccheria, il terzo gesto che la situazione italiana ci obbliga a compiere è fornire qualche indicazione su come rifondare un campo progressista e democratico che non sia più un’araba fenice. Naturalmente, questa rifondazione impone di non liquidare la rabbia di oggi come un difetto autoritario tipico del mondo popolare o, a scelta, come una variazione sul tema del popolo che indirizza la sua collera verso il destinatario sbagliato. In ogni caso, sarà impossibile far passi avanti senza prendere posizione nei confronti di un movimento come i cinquestelle, la cui forma e il cui successo destabilizzano lo schieramento progressista e democratico. Riuscirà quest’ultimo a tener fede ai princìpi che gli impediscono di allearsi con l’estrema destra, e al tempo stesso a restare intransigente sul riorientamento radicale delle nostre democrazie preteso e in parte messo in pratica dal Movimento 5 stelle? Dalla risposta a questa domanda dipende non solo il futuro dell’Italia, ma anche quello delle democrazie occidentali.

internazionale 1.6.18
L’Irlanda ha ascoltato la voce delle donne
Al referendum del 25 maggio più di due terzi dei votanti hanno sostenuto il diritto all’aborto. Un risultato che mette ine a decenni di sofferenza, scrive una giornalista irlandese
Di Ciara Kelly, The Irish Independent, Irlanda


Mi ci è voluto un po’ per capire cosa volevano dire gli exit poll. Molte di noi non osavano neanche sperare di farcela. Il 66 per cento di sì. Poteva essere vero? Lacrime. Avevamo parlato dei risultati per tutto il giorno. Sarebbe andata come con il referendum sul divorzio nel 1995, vinto dai sì per meno di novemila voti? Di sicuro non sarebbe stato un trionfo come il referendum sul matrimonio gay del 2015. Stavolta convincere gli elettori sarebbe stato molto più difficile, ci avevano ripetuto. La campagna per il sì aveva sbagliato tutto, dicevano. “Siete troppo isteriche”. Isteriche, la parola usata per descrivere e sminuire le donne arrabbiate dalla notte dei tempi. “È una campagna troppo conflittuale, nessuno si azzarderà a sostenerla”. “State allontanando la gente, il vostro tono è completamente sbagliato”. E alla fine: “È troppo estremo, gli irlandesi non vogliono l’aborto su ordinazione”. Ma a dire queste cose erano i politici, gli opinionisti e i reazionari, e per fortuna non sono loro a decidere. Doveva essere il popolo a scegliere. E il popolo ci ha ascoltato. Il dibattito sull’aborto è stato estenuante. Delle ragazze hanno raccontato che erano state stuprate e non volevano essere costrette a diventare madri per questo. Si sono sentite rispondere che non era colpa del bambino. Delle donne – molte delle quali già madri – hanno raccontato di aver portato in grembo un bambino che non aveva alcuna possibilità di sopravvivere. Sentivano che l’unica scelta possibile era interrompere la gravidanza. Il che ha significato viaggiare verso luoghi in cui sono state trattate con più compassione che nel loro paese. Hanno portato a casa i corpi dei loro neonati nel bagagliaio della macchina, avvolti in confezioni di piselli surgelati. O li hanno dovuti lasciare in un paese straniero. Si sono sentite dire che evidentemente non amavano davvero i loro figli. E che ci sono donne coraggiose e nobili che in casi simili portano a termine la gravidanza e provano una grande gioia per essere state con il loro bambino, anche se per poco tempo. Le donne che hanno abortito all’estero hanno risposto che rispettano la scelta di chi ha voluto andare fino in fondo, ma per loro non era quella giusta. Ma si sono sentite dire con gelida indifferenza che “i casi estremi creano leggi sbagliate”. La verità è che sono state le nostre leggi sbagliate a creare un caso estremo dopo l’altro. Le donne hanno raccontato tutto il dolore delle loro gravidanze difficili alla radio e sui social network. La pagina Facebook In her shoes è diventata un luogo in cui potevano condividere le loro esperienze, anche se questo le esponeva agli insulti e agli attacchi. Le hanno chiamate “assassine di bambini”, come in occasione del referendum sull’ottavo emendamento che nel 1983 ha introdotto il divieto di aborto nella costituzione irlandese. Tutto questo ha alimentato una sofferenza profonda, un tormento emotivo. Raccontare il proprio dolore più profondo e ottenere solo indifferenza. Sentirsi dire “l’aborto non è mai giusto” è come un calcio nello stomaco. Abbiamo raccontato gli abusi, la violenza, i problemi di salute mentale. Ci hanno detto che in questo caso la salute mentale non conta. Abbiamo parlato della nostra salute. Avevamo il cancro, la fibrosi cistica, insufficienze cardiache. Una gravidanza avrebbe potuto ucciderci. Ci hanno risposto che “l’Irlanda ha il miglior sistema sanitario del mondo per le donne incinte”. Abbiamo raccontato la storia di Savita Halappanavar, la donna di 31 anni morta di setticemia nel 2012 perché i medici si sono rifiutati di interrompere la sua gravidanza Il giorno in cui Savita è morta i medici continuavano a controllare il battito cardiaco del bambino, anche se non aveva alcuna possibilità di sopravvivere. Quel battito quasi assente è bastato a negarle l’aborto che le avrebbe salvato la vita. Ci hanno detto che non dovevamo parlare di Savita, perché non c’entrava niente. Votate no e basta. Un ruggito
A dire la verità ci siamo chieste se ci avrebbero mai ascoltato, se qualcuno in Irlanda si sarebbe mai interessato alle donne, come fanno negli altri paesi. Volevamo disperatamente credere che la gente avrebbe capito che eravamo nei guai e che all’Irlanda sarebbe finalmente importato qualcosa di noi. E alla fine è stato così. Anche se i sostenitori del no sono rimasti impassibili davanti alle nostre storie. Anche se abbiamo raccontato in lacrime cosa abbiamo passato e loro hanno risposto solo con lo slogan “amali entrambi”. Gli irlandesi ci hanno ascoltato. Gli irlandesi buoni, gentili, compassionevoli e premurosi ci hanno ascoltato e hanno risposto alla nostra richiesta di aiuto con un sì. Un sì assordante che non è stato un sussurro, ma un ruggito. Una valanga di sostegno per le donne irlandesi quando ci saremmo accontentate di una vittoria risicata. Perché per i sostenitori del sì e per le donne di questo paese in gioco non c’è mai stato solo l’aborto. C’era il modo in cui le donne – noi, le vostre madri, sorelle, mogli, partner, figlie e amiche – vengono trattate dall’Irlanda nel momento in cui sono più vulnerabili. E in passato non siamo state trattate molto bene. Il nostro ruolo nella riproduzione è stato usato come un bastone per picchiarci. Ci hanno emarginate quando siamo rimaste incinte fuori dal matrimonio. Ci hanno emarginate quando abbiamo abortito. Ci hanno negato i contraccettivi, ma una gravidanza indesiderata ci trasformava in paria. Ci hanno chiuse negli istituti e nelle Magdalene laundries, le case di lavoro per “donne disonorate”. Ci hanno detto che le madri nubili non erano adatte a crescere i loro bambini e dovevano affidarli a famiglie migliori, a donne migliori. Hanno chiamati i nostri figli bastardi. Ci hanno coperte di vergogna e ci hanno dato la colpa della nostra sorte. E naturalmente ci hanno giudicato. Nella storia del mondo pochi giudici sono stati così severi con le donne come la società irlandese. Ma a un certo punto qualcosa è cambiato. Le poche voci che dicevano che era sbagliato sono diventate un rumore fortissimo. E anche se ci dicevano di non essere così arrabbiate, di non allontanare la gente, la gente non si è allontanata. Ha ascoltato, ha riflettuto, ha capito e ha votato. Hanno votato in migliaia. Non dimenticherò mai il momento in cui ho visto le centinaia di gioani donne che arrivavano nei nostri aeroporti con indosso le felpe con la scritta repeal (abrogazione) del movimento Home to vote (torna a casa per votare). Lo slogan “noi viaggiamo perché voi non siate costrette a farlo” è stato uno dei più commoventi della campagna. La solidarietà femminile a cui abbiamo assistito spazza via per sempre l’idea secondo cui le donne non aiutano le altre donne. Ma abbiamo avuto alleati anche tra i maschi. Non ce l’avremmo mai fatta senza il 65 per cento di maschi che ha votato per noi. Ci sono tante persone che con il loro duro lavoro ci hanno portate ino a questo giorno, troppe per ringraziarle tutte. Ma una menzione speciale va ad Ailbhe Smyth, che si batte strenuamente per i diritti delle donne da prima del referendum del 1983. Riesco a malapena a esprimere cosa significa questo voto per le donne irlandesi. Fa moltissimo per curare le vecchie ferite. E mi ha dato molta speranza per il futuro di mia figlia e di tutte le nostre figlie. L’ottavo emendamento è stato inserito nella costituzione quando avevo 12 anni e ha governato la mia intera vita riproduttiva. Il giorno del referendum, quando ho visto i fiori davanti al memoriale delle Magdalene laun dries e tutte le persone riunite davanti al murales per Savita che piangevano e si abbracciavano, finalmente ho creduto alle parole “mai più”. MnanahEireann, donne d’Irlanda, questo è il nostro momento da suffragette. Grazie, Irlanda.
Ciara Kelly è una dottoressa e giornalista irlandese. Conduce un programma sulla radio Newstalk e scrive una column sull’Irish Independent.


L’opinione
I meriti del governo
The Irish Times, Irlanda


La vittoria schiacciante del sì al referendum sull’aborto ha dato al governo un chiaro mandato per legiferare sull’interruzione di gravidanza seguendo le linee guida della proposta di legge annunciata all’inizio della campagna referendaria. Uno degli aspetti più notevoli del modo in cui l’esecutivo ha gestito la questione è stato che le conseguenze di un voto a favore del sì sono spiegate in maniera così chiara che gli elettori non avevano dubbi sulla scelta che gli veniva offerta. Un netto contrasto con il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, che il governo britannico ha lanciato senza preparare in alcun modo l’elettorato. Fin dall’inizio la questione è stata affrontata in modo ponderato. Per prima cosa è stata istituita un’assemblea cittadina per ascoltare gli esperti e raccogliere indicazioni. Quando ha preso il potere un anno fa, il premier Leo Varakdar aveva promesso un referendum entro dodici mesi, creando una commissione parlamentare per esaminare le varie possibilità. Il risultato è stato un rapporto favorevole all’introduzione dell’aborto senza limitazioni ino alla dodicesima settimana di gravidanza. Il governo ha quindi preso la decisione formale di seguire quest’indicazione. All’inizio molti politici erano sconcertati, ma Varadkar e il ministro della salute Simon Harris hanno sostenuto la decisione, convincendo i loro colleghi del partito conservatore Fine gael. Il sostegno del leader del partito liberale Fianna fáil, Micheál Martin, ha permesso che la questione non diventasse una disputa elettorale. È difficile prevedere le conseguenze politiche di questo risultato. Il referendum sul matrimonio gay del 2015 non sarebbe mai passato se non fosse stato per il leader laburista Eamon Gilmore, ma alle elezioni del 2016 il suo partito è stato quasi spazzato via. Varadkar esce sicuramente rafforzato dal referendum, ma non è affatto chiaro se questo si tradurrà in un vantaggio a lungo termine per il Fine gael.

internazionale 1.6.18
In Europa
Un’occasione storica
Nei paesi europei dove il diritto all’aborto è limitato, il referendum irlandese ha riacceso il dibattito


“Dopo il referendum irlandese, l’Irlanda del Nord e Malta sono rimasti i paesi con le leggi più restrittive d’Europa sull’interruzione di gravidanza. Ma non per molto, almeno secondo i sostenitori del diritto di scelta”, scrive Suzanne Breen sul Belfast Telegraph. “In Irlanda del Nord l’aborto è regolato dalla legge sulle offese contro la persona del 1861, approvata sessant’anni prima che le donne ottenessero il diritto di voto. Molti pensano che abbia i giorni contati. Ma la leader del Partito unionista democratico (Dup), Arlene Foster, dice che il referendum in Irlanda non avrà nessuna conseguenza sulla legge. In teoria ha ragione. In pratica non potrebbe avere più torto. Quando alle donne per abortire basterà prendere un treno per Dublino o Drogheda invece che un aereo per Londra o Liverpool, tutto cambierà. Per chi ci guarda dall’estero è una situazione ridicola. Paradossalmente, il fatto che il governo britannico dipenda dai voti del Dup potrebbe favorire il cambiamento. Anche per questo i mezzi d’informazione britannici hanno dedicato molta attenzione alla posizione anomala dell’Irlanda del Nord. La pressione sulla premier britannica Theresa May è enorme. Un anno fa la minaccia di una rivolta nel Partito conservatore l’aveva costretta a fare marcia indietro e a permettere che le donne nordirlandesi abortissero a spese del servizio sanitario nazionale per la prima volta da cinquant’anni. È vero che l’aborto è una questione di competenza del governo nordirlandese, ma l’uguaglianza e i diritti umani non lo sono, e spetta al parlamento britannico sanare la situazione. Qualcuno pensa che in realtà il Dup sarebbe sollevato se fosse Londra a occuparsi della questione. La base del partito si è allargata negli ultimi anni e i sondaggi indicano che sull’aborto gli elettori del Dup sono molto più progressisti dei suoi leader. La sospensione dell’autonomia e il referendum in Irlanda potrebbero rappresentare un’occasione storica”. Un cambiamento sembra più difficile a Malta, dove “tutti i partiti politici sono fermamente contrari all’aborto, compresi il Partito democratico e i verdi”, scrive Saviour Balzan su Malta Today. “Il Partito nazionalista accusa il premier Joseph Muscat di voler cambiare le norme sulla scia della legge sulla fecondazione assistita, ma chi lo conosce sa che è contrario alla legalizzazione: è troppo attento ai calcoli elettorali. La situazione è molto diversa per i diritti degli omosessuali, su cui Malta è ai primi posti in Europa. Ma tutti i politici che si sono espressi in favore del diritto all’aborto hanno pagato con la loro carriera. A Malta una presa di posizione simile è come un alto tradimento, un peccato mortale. È ora che cominciamo a parlarne senza paura delle conseguenze. I nostri leader politici vogliono fare finta di niente e lasciare che se ne occupi la prossima generazione. Ma non vedo molti politici o attivisti disposti a sporcarsi le mani, almeno per adesso. Per questo i mezzi d’informazione dovrebbero avere un ruolo molto più grande in questo dibattito”. Rivolta culturale In Polonia, dove l’aborto è già fortemente limitato, il governo ultraconservatore sta cercando di renderlo illegale anche in caso di malattie genetiche del feto. Su Rzeczpospolita il ilosofo cattolico Marek Cichocki, vicino al governo, sostiene che “il risultato del referendum è una rivolta culturale in Irlanda, che fino a pochi anni fa rappresentava un modello di come coniugare tradizione e modernità, fede religiosa e successo economico. La crisi finanziaria del 2009 ha messo fine a questo idillio, distruggendo il lavoro di almeno due generazioni di irlandesi. Gli irlandesi si sono sentiti derubati, per questo hanno chiesto diritti, anche i più deplorevoli, nella speranza di recuperare la loro autodeterminazione. Ma confondono la libertà con il rifiuto di ogni responsabilità. È la morte dell’ordine sociale tradizionale”.

internazionale 1.6.18
La rivolta del Camerun parte da un’università
I leader dei gruppi separatisti nelle regioni anglofone si sono formati all’università di Buea. Il risentimento verso la maggioranza francofona è maturato tra gli studenti
Africa News, Congo


Quando nel 1995 all’università di Buea fu creato un sindacato studentesco, nessuno avrebbe mai pensato che i suoi leader sarebbero diventati i capi della lotta armata nelle regioni anglofone del Camerun. Lucas Cho Ayaba ed Ebenezer Akwanga, oggi comandanti di due milizie attive nell’ovest, avevano creato un sindacato che promuoveva “l’uso della forza” per rivendicare l’indipendenza delle regioni anglofone dal governo di Yaoundé. Dalla più importante università di lingua inglese del Camerun sono passati anche altri esponenti del movimento separatista, che si scontra con l’esercito nelle province del Sudovest e del Nordovest: Mark Bareta, che diffonde propaganda separatista sui social network, e Tapang Ivo Tanku, un giornalista camerunese in esilio negli Stati Uniti. “All’università di Buea discutiamo e ragioniamo”, racconta uno studente che chiede di restare anonimo. Nel Camerun anglofono, dice, “è evidente che ci sono problemi”. Un professore di scienze politiche ne elenca alcuni: il fatto che i francofoni ricoprono tutti gli incarichi di responsabilità, il mancato rispetto del referendum del 1961, che portò all’unificazione del paese, il disprezzo dei francofoni verso i madrelingua inglesi (il 20 per cento della popolazione). Da mesi quella che era una crisi sociale si è trasformata in un conflitto armato. I separatisti, che a ottobre del 2017 hanno proclamato l’indipendenza della loro regione, attaccano i simboli dello stato e uccidono gli agenti delle forze di sicurezza (dalla fine del 2016 ne sono morti almeno 43, oltre a 120 civili). L’esercito reagisce con violenza. Dal 1992, l’anno di fondazione dell’ateneo di Buea, le rivendicazioni degli anglofoni sono sempre state al centro dei dibattiti degli studenti. “Non ne parliamo ai corsi, perché alcuni professori sono di madrelingua francese, ma tra di noi”, spiega uno di loro. Ogni anno dodicimila ragazzi, in gran parte anglofoni, entrano nel campus universitario di Buea. Nel 2006 la creazione della facoltà di medicina causò dei disordini. Il bilancio fu di due morti e vari feriti. Al concorso per accedere alla facoltà erano ammessi solo studenti anglofoni, ma il governo centrale impose che ci fossero anche dei francofoni, scatenando una rivolta. Il vaso di Pandora Nel 2016 alcuni fatti avvenuti all’università sono stati la scintilla della crisi attuale. Alla fine di novembre di quell’anno una manifestazione pacifica per chiedere il versamento di denaro promesso dal presidente Paul Biya e il ripristino di un sindacato studentesco, messo al bando nel 2012, è stata repressa con violenza dalla polizia. “Gli agenti sono entrati nel campus. Alcune studenti sono state stuprate, altre umiliate, molti ragazzi sono stati arrestati nelle loro case”, racconta uno studente di scienze politiche. Le immagini della repressione sono circolate sui social network. Secondo l’International crisis group, la notizia degli abusi della polizia ha contribuito a scoperchiare “il vaso di Pandora del problema anglofono”. Oggi nel campus l’atmosfera sembra tranquilla. “Sono stati gli esaltati come Bareta a difondere le idee separatiste. Hanno manipolato gli studenti”, insorge Blaise, ex compagno di studi di Mark Bareta. “Hanno trasformato i sindacati in piattaforme politiche. L’università di Buea non si occupa della guerra, ma del sapere!”.

Da sapere
Massacro in zona anglofona
Voice of Africa

Il 25 maggio 2018 a Menka, nella provincia del Nordovest, 32 persone, tra cui 5 ostaggi, sono morte negli scontri tra le forze di sicurezza e un gruppo armato che si era asserragliato in un motel. Le autorità camerunesi hanno parlato di un’operazione speciale contro i terroristi separatisti, accusati di omicidi, rapine ed estorsioni. L’opposizione e i difensori dei diritti umani denunciano la presenza di civili tra le vittime.

internazionale 1.6.18
Stati Uniti
Il partito delle donne

“A sei mesi dalle elezioni per rinnovare il congresso e i governatori di vari stati, negli Stati Uniti sta emergendo una tendenza chiara”, scrive New Republic. “Il Partito democratico non ha mai candidato così tante donne, mentre il Partito repubblicano è sempre più il partito degli uomini”. L’ultimo esempio è arrivato il 22 maggio, quando Stacey Abrams (nella foto) ha vinto le primarie democratiche in Georgia e a novembre sfiderà un repubblicano per diventare governatrice dello stato. “A novembre 72 donne si candideranno alla camera, e 62 di loro saranno democratiche”.

internazionale 1.6.18
Stati Uniti
Vietato protestare


I giocatori di football americano che durante l’esecuzione dell’inno nazionale statunitense si inginocchieranno per protestare contro il razzismo saranno multati. Lo hanno detto il 24 maggio i proprietari delle squadre della lega americana di football (Nl). Il primo a inginocchiarsi, nella campagna elettorale del 2016, era stato il giocatore Colin Kaepernick, e molti atleti avevano seguito il suo esempio. Dopo essere diventato presidente, Donald Trump aveva definito questi atleti dei “figli di puttana” e chiesto all’Nl di punirli.

internazionale 1.6.18
La nascita di una lingua tra i sordi in Nicaragua
Negli anni ottanta in una scuola di Managua, gli studenti sordi non potevano parlare a gesti. Ma nonostante il divieto crearono una loro lingua dei segni
Di Dan Rosenheck, 1843, Regno Unito


“Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Sembra che nel 1948 l’allora presidente degli stati uniti Franklin Roosevelt definì così Anastasio Somoza, il dittatore del Nicaragua sostenuto da Washington. I connazionali di Somoza avevano pochi motivi per ringraziare la dinastia di governanti corrotti da lui fondata. Ma Hope Portocarrero, la moglie statunitense del figlio di Somoza, Anastasio Jr., cercava nella beneficenza un rifugio dall’infelicità del suo matrimonio. Tra le varie iniziative nel 1977 aveva fondato a Managua, la capitale del Nicaragua, una scuola per studenti con disabilità che poi prese il nome di Melania Morales, un’insegnante morta in un incidente. Gli eventi politici presto frenarono lo sviluppo della scuola. Nel 1979 i guerriglieri sandinisti rovesciarono il regime dei Somoza, ma il costo umano fu altissimo: la loro rivoluzione uccise un nicaraguense su settanta e ne lasciò uno su cinque senza tetto. Anche i sandinisti si rivelarono a loro modo autoritari, però lanciarono una campagna per superare il grave analfabetismo del paese. Alla Fine della dittatura solo un quinto dei contadini nicaraguensi sapeva leggere e scrivere. I sandinisti puntavano a istituire quattro anni di scuola per tutti e svilupparono l’istruzione per bambini con bisogni speciali. Nel 1984 nella scuola Melania Morales c’erano già quattrocento studenti, e il più piccolo aveva sei anni. Il governo creò anche un istituto di formazione professionale dove gli adulti sordi potevano imparare un mestiere e studiare come falegnami o parrucchieri. Nonostante le buone intenzioni, la Melania Morales fu un fallimento per gli studenti sordi. In Europa le scuole per sordi avevano insegnato con successo la lingua dei segni in dal settecento, ma la pratica era quasi scomparsa dopo il 1880, quando una conferenza di educatori a Milano la vietò sostenendo che i sordi dovessero imparare la lingua parlata per realizzare appieno il loro potenziale. Al posto della lingua dei segni si scelse così un approccio “oralista”: gli studenti dovevano imparare a leggere le labbra e ad articolare suoni anche se non potevano sentirli. Negli anni sessanta nelle scuole degli stati uniti si cominciò a tornare a una combinazione di lingua dei segni e tecniche oraliste. Ma in Nicaragua i sandinisti, in guerra contro una rivolta di destra appoggiata da Washington, erano chiusi a ogni influenza della potenza egemone. Si attenevano alle indicazioni che arrivavano dall’unione sovietica e dalla Germania dell’Est, dove i vecchi dogmi continuavano a essere applicati con rigidità. Alla Melania Morales negli anni ottanta gli studenti sordi ascoltavano in cuffia dei suoni amplificati di tuoni e versi di animali per stimolare l’udito. Copiavano parole scritte dai loro insegnanti alla lavagna e cercavano d’indovinarne la pronuncia. Ma si limitavano a imparare a memoria: quando gli insegnanti li invitavano a formare delle frasi in spagnolo, rimanevano sconcertati. Nelle aule gli unici gesti consentiti erano i segni di un alfabeto manuale usato per indicare le singole lettere, per paura che, con la comunicazione visiva, gli studenti perdessero le tecniche oraliste. Se gli insegnanti vedevano un alunno muovere le mani in altri modi, gli ordinavano di metterle sul banco e di restare con gli occhi fissi sul professore. Anche se in classe si perdeva un mucchio di tempo, la scuola aveva un’influenza profonda sugli studenti. a differenza di tutte le generazioni precedenti di nicaraguensi sordi, gli alunni della Melania Morales erano circondati da altri bambini sordi di tutte le età. E ogni anno circa trenta alunni entravano in prima. Alla fine delle elementari, molti studenti passavano alla scuola professionale. Nei corridoi e negli scuolabus gli insegnanti non potevano impedire ai ragazzi di comunicare come volevano. a metà degli anni ottanta i professori della Melania Morales si accorsero che i bambini muovevano e contorcevano le mani appena suonava la campanella. Molti giovani docenti reclutati per il progetto di educazione speciale dei sandinisti non avevano mai avuto a che fare con ragazzi sordi e non conoscevano i sistemi d’insegnamento in vigore in altri paesi. Perfino chi sapeva che all’estero esistevano le lingue dei segni, liquidava quei gesti come se fossero una semplice mimica, dei movimenti esagerati da pagliaccio.
Enigma irrisolto
Un giorno del 1990 Patricia gutiérrez, un’insegnante di 24 anni che non aveva mai frequentato l’università, vide una studente, Reyna Cruz, fare un gesto dall’aria violenta verso un gruppo di amiche. Reyna si era passata un dito sul collo e poi sull’avambraccio sinistro. Gutiérrez immaginò che la ragazza alludesse al sangue o a un taglio, ed ebbe paura che stesse minacciando le compagne. Poco dopo Cruz lasciò la scuola con due ore di anticipo. Il preside la convocò per farle una lavata di capo. Con grande sorpresa di Gutiérrez, quando si presentò al colloquio Cruz portò con sé tre adulti: un uomo sordo, Javier López, e le sue due sorelle udenti, María e Sandra. Le donne erano delle interpreti, anche se il preside non aveva idea di cosa dovessero interpretare. Ma quando Cruz cominciò a gesticolare, loro tradussero i suoi segni. spiegarono al preside che Cruz era andata via prima perché non aveva capito fino a quando doveva rimanere a scuola. Il gesto di portare il dito alla gola significava “sto dicendo la verità”, mentre il minaccioso movimento del braccio voleva dire “fratello”. I gesti di Cruz non significavano quello che sembravano rappresentare a livello visivo. Erano dei segni, e il loro rapporto con il contenuto era arbitrario proprio come il collegamento tra i suoni delle parole e il loro significato in spagnolo. “Ero stupita”, dice Gutiérrez. “Vedevamo i ragazzi muovere le mani fuori dall’aula, ma non sapevamo cosa facessero. Ora c’erano degli adulti udenti che muovevano le mani nello stesso modo. Era la prima volta che vedevo qualcuno parlare e contemporaneamente segnare”. Dopo la riunione con il preside Cruz non fu punita. Tutti gli insegnanti della scuola erano sconvolti. “Credevo semplicemente che i bambini gesticolassero molto”, dice Amy Ortiz, un’altra maestra di quegli anni. “Mi chiesi se muovevano le mani senza motivo o se stessero dicendo qualcosa. Poteva davvero essere una lingua?”.
Sogni ambiziosi
Di tutte le invenzioni umane, nessuna ha avuto più conseguenze della nascita del linguaggio. Prima del suo sviluppo la conoscenza di ogni individuo era limitata a quello che sperimentava in modo diretto. Dopo, grazie al linguaggio, chiunque poteva condividere con gli altri quello che imparava. tutte le forme di vita comunicano in qualche modo, ma solo l’Homo sapiens ha sviluppato un sistema di simboli abbastanza complesso e flessibile da permettere di accumulare e trasmettere le informazioni da persona a persona e di generazione in generazione. Eppure, malgrado i poteri straordinari che il linguaggio ci ha dato, non abbiamo risolto l’enigma della sua origine. Le lingue parlate non lasciano nessuna traccia materiale, perciò non ci sono prove per dimostrare o smentire le ipotesi che riguardano la loro genesi. Nel 1866 la società di linguistica di Parigi mise al bando ogni dibattito sull’argomento sostenendo che non era suscettibile di analisi scientifica. Perfino nel nostro secolo il titolo di un’antologia di ricerche sull’argomento si chiedeva se non fosse “il problema più difficile della scienza”. Oggi le teorie credibili sulle prime fasi della lingua sono quasi altrettanto numerose degli studiosi che lavorano in questo campo. In linea di massima i linguisti possono essere raggruppati in due schieramenti, che corrispondono grosso modo a natura e cultura. I nativisti o innatisti, associati soprattutto al linguista Noam Chomsky, credono che la capacità della lingua sia programmata nel dna umano. secondo loro le lingue umane, nonostante le differenze, condividono alcune caratteristiche strutturali di base, come la distinzione tra sostantivi e verbi. È davvero improbabile che tante lingue diverse con uno sviluppo autonomo abbiano sviluppato queste somiglianze, a meno che, come sostengono gli innatisti, non discendano dall’architettura del cervello umano. Un altro argomento a loro favore è il fatto che i bambini padroneggiano sempre tutte le sfumature della loro prima lingua, anche se sono esposti direttamente solo a una sua piccola parte. Poiché la loro conoscenza non può derivare solo dall’esperienza, dicono gli innatisti, tutto il resto dev’essere presente in loro fin dalla nascita. Il campo opposto è quello degli empiristi, secondo cui il linguaggio è solo un aspetto dello sviluppo più ampio di una cultura simbolica, privo di un imprinting biologico superiore, diciamo, a quello dell’andare in bicicletta. gli empiristi si divertono a fornire esempi che smentirebbero quella che Chomsky chiama “la grammatica universale”. Per esempio le lingue salish, parlate da alcune tribù indigene del Canada e degli Stati Uniti, fondono sostantivi e verbi in unità composite e flessibili. Il loro ruolo nella frase è determinato dalle parole circostanti. Gli empiristi osservano poi che i bambini apprendono la lingua in modo graduale nel corso di alcuni anni, rigurgitando frammenti a mano a mano che li ascoltano e facendo sempre meno errori di grammatica, una cosa molto diversa da un’abilità innata come camminare, che s’impara in un colpo solo. Quando ha cominciato a venire meno il divieto di studiare le origini della lingua, gli esperti di linguistica evolutiva hanno ideato nuovi metodi per trovare risposte parziali al mistero. Hanno individuato dei geni che sembrano necessari per produrre una vera lingua e hanno analizzato dna antichi per ricercarne la presenza. Poi hanno analizzato il numero di suoni diversi nelle lingue di varie regioni per stabilire dove e quando hanno cominciato a differenziarsi. L’ipotesi migliore è che sia stato nell’africa subsahariana qualche centinaia di migliaia di anni fa. Ma tutto il loro lavoro ha offerto solo sprazzi di comprensione per questa immensa questione. I sogni dei linguisti erano più ambiziosi. Nel 1976 lo studioso britannico
Derek Bickerton propose un esperimento per testare la sua teoria secondo cui il genoma umano contiene un “bioprogramma” linguistico così dettagliato da specificare l’ordine di soggetti, verbi e complementi in una frase. Dopo aver potenziato la sua creatività con della buona marijuana hawaiana, Bickerton propose di prendere sei famiglie che parlavano lingue diverse e metterle insieme su un’isola disabitata per tre anni. Se la sua teoria era giusta, i genitori avrebbero formato un “pidgin”, cioè un idioma basato sulla mescolanza delle diverse lingue originarie, con un vocabolario limitato e concordato ma senza una vera struttura o complessità. I bambini, invece, avrebbero prodotto un “creolo”, cioè una lingua completa con una vera grammatica, corrispondente alle caratteristiche del bioprogramma che lui aveva ipotizzato. L’università della Hawaii approvò l’idea. Ma la National science foundation statunitense annullò il progetto temendo che fosse impossibile assicurarsi il consenso informato delle persone che partecipavano all’esperimento. A meno che i ricercatori non trovassero un gruppo di bambini che non erano stati esposti a nessuna lingua prima di stare insieme, questo fondamentale interrogativo sulla natura umana sarebbe rimasto senza risposta. E visto che non sono mai state scoperte tribù o popolazioni mute, sembrava una fantasia irrealizzabile. Ma all’insaputa di Bickerton, il suo sogno stava diventando realtà in Nicaragua.
Un nuovo dizionario
Negli anni ottanta il Nicaragua, devastato da vent’anni di guerra e disastri naturali, era ben diverso dall’atollo idillico e isolato del Pacifico immaginato da Bickerton per il suo studio. Ma per alcuni versi l’esperimento naturale che stava nascendo nel paese era superiore alla sua proposta. Bickerton aveva immaginato di mettere insieme famiglie che parlavano lingue diverse per vedere se i figli ne avrebbero creata un’altra ancora. ampliando la scuola Melania Morales e fondando la scuola professionale per sordi, i sandinisti avevano fatto di meglio: avevano preso centinaia di sordi che non avevano nessuna lingua e li avevano esposti l’uno all’influenza dell’altro fino all’età adulta. La Melania Morales non era l’unica fonte di creatività linguistica per i sordi del Nicaragua. a Managua c’era anche una casa gialla di un solo piano dietro a un centro commerciale. La chiamavano “la casa dei sordi” ed era gestita da Javier, María e Sandra López, le persone che Reyna Cruz aveva portato alla riunione con il preside. Javier López era nato nel 1961. In famiglia comunicava con segni rudimentali che il padre lo aveva aiutato a sviluppare attraverso i disegni. A scuola gli insegnanti cercavano di fargli pronunciare i suoni spagnoli torcendogli il mento. Da giovane si era guadagnato da vivere montando sedie a rotelle, ma aveva dedicato la maggior parte del suo tempo a un’attività che non richiedeva molti discorsi: l’atletica. Era un buon velocista, correva i cento metri in appena undici secondi, solo un secondo in più del record mondiale. López vide per la prima volta una lingua dei segni nel 1977, in un programma tv statunitense. Durante un viaggio in Venezuela per partecipare a una gara, comprò una guida alla lingua dei segni usata nella Costa Rica e la portò in Nicaragua. Ma nell’istituto professionale l’oralismo era imposto ancora più severamente che alla Melania Morales: gli insegnanti picchiavano sulle mani gli studenti sorpresi a scambiarsi gesti. un giorno gli insegnanti di López gli confiscarono il dizionario. Lui però non si fece intimorire: entrò nella stanza dove i professori avevano lasciato il libro, lo nascose in un costume da ballo popolare e se ne andò. López e alcuni suoi amici sordi cominciarono a riunirsi regolarmente per guardare il dizionario. All’inizio si sforzarono d’imparare i segni della Costa Rica, ma cercare di comunicare usando un manuale straniero era innaturale, perché nessuno di loro aveva mai usato segni del genere con la famiglia o con gli amici. “Non mi riconoscevo in quei gesti”, spiega López. “sentivo che dovevo trovare dei segni che ci appartenessero”. Così cercarono di creare un loro vocabolario. a ogni incontro i partecipanti analizzavano un elenco di concetti, spesso aprendo un giornale e indicando le foto o i fumetti. Poi proponevano dei segni e votavano per quello che avrebbero usato. Infine López, che era diventato un abile disegnatore grazie agli sforzi fatti da bambino per comunicare con il padre, riportava su carta ogni segno uscito vittorioso dalla votazione in modo da creare un archivio delle loro decisioni. Del gruppo facevano parte studenti più grandi e ragazzi appena usciti dalla Melania Morales, quindi i bambini della scuola potevano includere quei segni nella loro lingua nascente. López cominciò a chiedere contributi finanziari ai donatori stranieri e nel 1988 una ricca associazione svedese che aiutava i sordi accettò di comprare la casa gialla. Il gruppo di López, l’associazione nazionale dei sordi del Nicaragua (ansnic), diventò l’ente dei sordi del paese. Dopo l’incontro della famiglia López e di Reyna Cruz con il preside della Morales, il gruppo avviò la formazione del corpo insegnanti della scuola, che abbandonò l’oralismo a favore di quella che oggi è nota come lingua dei segni del Nicaragua (Isn). Per i bambini sordi del paese fu la salvezza. Da piccolo Jordan Cienfuegos, un ragazzo di 25 anni pelle e ossa che si sta specializzando nell’insegnamento ai sordi all’università nazionale del Nicaragua, cominciò a frequentare una scuola per udenti. “Non volevo andarci”, ricorda, “mi sentivo solo”. Così rimase a casa, facendo il possibile per capire la madre leggendole le labbra. Quando aveva otto anni la mamma lo portò alla Melania Morales. “Avevo paura delle persone che facevano segni con le mani, ma mia madre mi spiegò che erano sordi”, dice. “Finalmente capii che non ero l’unico bambino sordo del mondo”. L’Isn è una lingua e anche una risorsa per la vita comunitaria. alla festa dell’ansnic a cui ho partecipato, Jefreey sadrac Mejía danzava davanti a una ragazza seduta che si copriva la bocca con i capelli per nascondere il sorriso. Ballare è la sua passione: non può sentire le vibrazioni della musica, ma osserva gli altri ballerini e “sente la musica nel corpo”. a scuola Sadrac Mejía aveva molti problemi e i genitori, entrambi lavoratori, erano troppo impegnati per aiutarlo. Così cominciò a frequentare la casa gialla: “Mi aiutavano a fare i compiti. Insieme a me c’erano tanti altri bambini sordi”, dice. “I miei voti migliorarono e io ero contento di aver trovato un posto così”.
L’uso dello spazio
La nascita dell’Isn ha dato ai linguisti un’opportunità senza precedenti per assistere al passaggio dall’assenza alla presenza della lingua, un processo simile a quello che dev’essere avvenuto quando il linguaggio verbale è emerso per la prima volta. Il confronto non è perfetto: mentre crescevano i nicaraguensi sordi erano circondati da gente che parlava una lingua, a differenza dei loro antenati nella savana preistorica. Eppure, come disse Noam Chomsky in un’intervista del 1996, “questa è l’analogia più vicina che la natura può fornirci al tipo di esperimento che avremmo fatto se avessimo dato mano libera a Josef Mengele”, medico e criminale nazista. La prima linguista a rendersi conto di quello che stava succedendo fu Judy Kegl, un’ex studente di Chomsky. Nel 1986 l’associazione statunitense Linguisti per il Nicaragua, che sosteneva la campagna di alfabetizzazione dei sandinisti, la mandò a Managua. Visto che Kegl aveva studiato la lingua dei segni americana (asl) al Massachusetts institute of technology (Mit), il ministero dell’istruzione nicaraguense le chiese di lavorare con i sordi. Il suo primo incarico fu all’istituto professionale, dove gli studenti più giovani avevano circa 18 anni. Tutti avevano sviluppato diversi segni per comunicare con le famiglie a casa, e si percepiva. In classe avevano concordato alcuni segni per indicare le parole più importanti del mestiere che stavano imparando. Erano in gran parte descrizioni semplici degli oggetti o delle attività a cui erano collegati. Ma questo vocabolario era limitato a un unico segno per ogni idea o avvenimento, e i segni non venivano combinati in frasi o paragrafi. Di solito i bambini più grandi hanno un linguaggio più elaborato. Ma quando Kegl visitò la Melania Morales scoprì che era vero il contrario. a differenza degli studenti dell’istituto professionale, tutti i bambini avevano un segno particolare per indicare se stessi. Non si conosce nessun sistema gestuale che assegni dei nomi ai suoi utenti. Inoltre, ogni studente dell’istituto professionale formava i segni concordati in modo leggermente diverso, e spesso dovevano provare molti movimenti per far capire all’interlocutore i loro messaggi. Gli alunni delle elementari, invece, si scambiavano gesti fulminei senza avere nessun problema d’incomprensione. Per cercare di decifrare questi segni, nei viaggi successivi Kegl portò con sé delle strisce a fumetti di Mr Koumal, un personaggio cecoslovacco le cui avventure si possono descrivere solo usando molti concetti e tempi verbali. Quando mostrò le strisce ai bambini chiedendogli di raccontare le storie con i segni, distinse nei loro gesti alcuni schemi chiaramente grammaticali che ricordavano da vicino le strutture di lingue dei segni straniere a cui i bambini non erano mai stati esposti. In particolare Kegl fu colpita dalla posizione delle loro mani quando segnavano. Per distinguere tra soggetto e oggetto l’inglese e lo spagnolo si basano soprattutto sull’ordine delle parole, insieme a qualche preposizione o pronome declinato. Il gruppo dell’istituto professionale aveva una tecnica simile e usava una rigida sequenza sostantivoverbosostantivoverbo (per esempio “lui dà, lei riceve”). Invece i bambini della Melania Morales facevano a meno di questa convenzione. Approfittavano di un espediente comunicativo fondamentale presente nel linguaggio manuale, ma assente dalla lingua parlata: l’uso dello spazio. Assegnavano un punto di fronte a sé all’uomo e un altro alla donna, e muovevano la mano da un punto all’altro facendo il segno del verbo “dare”, condensando così in un movimento solo i quattro segni che sarebbero stati necessari seguendo il metodo dell’ordine delle parole. “Nessuno si era ancora accorto che quei bambini sordi avevano una lingua”, racconta Kegl. “Ma con l’occhio della linguista, capii che era tutto lì. riuscivo a cogliere la grammatica, le ripetizioni e le espressioni facciali che avevano una funzione sintattica. a quel punto dissi: ‘aspettate un attimo, cosa sta succedendo?’”. Quando la notizia di quello che avveniva alla Melania Morales raggiunse i dipartimenti di linguistica di tutto il mondo, gli innatisti esultarono. Steven Pinker, uno dei maggiori esponenti di questa teoria, ne fece un caso di studio nel suo libro
L’istinto del linguaggio.
Negli anni successivi nacque una piccola industria specializzata nella ricerca sulla lingua dei segni del Nicaragua. I lavori più rigorosi pubblicati negli ultimi anni non abbracciano l’interpretazione innatista più estrema, secondo cui la lingua è apparsa perfettamente formata dalla sera alla mattina, come Atena dalla testa di Zeus. Però sostengono gli innatisti lasciando intendere che i bambini hanno una facoltà linguistica congenita separata e distinta dall’intelligenza generale degli esseri umani.
Schema ricorrente
Ann Senghas, una professoressa del Barnard college di New York, studia l’Isn dal 1989, concentrandosi soprattutto su come ogni gruppo successivo di studenti cambia il suo modo di comunicare. In uno studio Senghas ha misurato la “modulazione spaziale”, cioè se chi segna attribuisce una posizione coerente e diversa nello spazio a ogni persona o cosa di cui sta parlando in base al suo ruolo in una frase. Senghas ha scoperto che mettere insieme dei bambini piccoli non bastava a produrre questa caratteristica distintiva di una lingua dei segni matura: molte persone del primo gruppo di madrelingua, entrate alla Melania Morales tra il 1977 e il 1983, si affidavano all’ordine delle parole per collegare sostantivi e verbi oppure cambiavano le posizioni da una frase all’altra. Nel secondo gruppo, però, quasi tutti usavano la stessa regola spaziale. Inoltre le persone del secondo gruppo che non usavano la regola spaziale avevano in comune un dato molto significativo. Molti linguisti credono che gli esseri umani imparino come madrelingua solo la lingua a cui sono esposti da piccoli, molto prima dell’inizio della pubertà. Gli innatisti sottolineano questo “periodo critico” a dimostrazione di un istinto biologico: se i bambini sono molto più bravi degli adulti a imparare le lingue, ma meno bravi ad apprendere quasi ogni altra cosa, quest’abilità linguistica dipenderà dal genoma. E in effetti mentre gli abili gesticolatori del secondo gruppo avevano in comune di essere entrati alla Melania Morales prima di compiere sei anni, quelli che non avevano il controllo totale di tutte le sottigliezze della lingua l’avevano imparata da più grandi.
Questo schema – gli esseri umani possono creare una lingua completa solo se sono circondati fin da piccoli da persone più grandi che producono simboli linguistici come suoni o gesti – suggerisce un solo meccanismo plausibile per l’origine della lingua. I primi a usare il precursore dell’Isn, tra cui López e le persone più anziane dell’ansnic, avevano creato un vocabolario limitato senza sviluppare una grammatica per collegare una parola all’altra. Il primo gruppo di madrelingua cominciò a essere esposto a questa serie di segni non collegati tra loro all’età di cinque anni. È il periodo in cui gli esseri umani hanno una predisposizione congenita a individuare e a riprodurre le regolarità linguistiche, una caratteristica emersa forse da una mutazione genetica favorevole in qualche fase della preistoria. “Quando i bambini osservavano qualcosa che sembrava uno schema ricorrente, pensavano sbagliando che fosse una regola”, scrive il marito di Kegl, James, che ha fondato una scuola per sordi sulla costa atlantica del Nicaragua. Le regole appena inventate si diffondevano con rapidità tra i compagni di gioco e di classe. Quando il secondo gruppo cominciò a frequentare la scuola, le regole erano diventate abbastanza comuni da far sì che ogni persona giovane della generazione successiva le riproducesse alla perfezione. “La mente dei bambini trova schemi ovunque”, dice Senghas. “Qualunque cosa diventa grammatica”. Anche tra gli innatisti rimane molta incertezza su quali abilità linguistiche possano essere acquisite a pieno solo dai bambini. Individuare queste abilità sarebbe forse il modo migliore per identificare quali aspetti della lingua hanno una base nella biologia e quali nella cultura. un altro studio di Senghas si è avvicinato come mai in passato a questo difficile obiettivo. La studiosa ha preso dieci persone da tre diversi gruppi che usavano l’Isn e dieci nicaraguensi che parlavano lo spagnolo. Poi gli ha mostrato lo stesso fumetto di un gatto che, dopo aver ingoiato una palla da bowling, rotola giù da una collina. Infine li ha registrati mentre raccontavano quello che avevano visto. tutto quello che dicevano le persone udenti era irrilevante, l’unica cosa importante erano i gesti che accompagnavano le loro parole. Senghas ha concentrato l’attenzione su un aspetto, cioè se i soggetti dell’esperimento spezzavano la “modalità” del movimento (rotolare) e la “direzione” (verso il basso) in gesti diversi, oppure se li lasciavano uniti in un’unica ricostruzione del movimento. Per la comunicazione semplice di quello che è successo, il movimento combinato dà maggiori informazioni: dimostra che il rotolamento e il movimento verso il basso sono avvenuti simultaneamente invece che, per esempio, con un rotolamento orizzontale seguito da una caduta. Però i movimenti separati sono più flessibili: possono essere riadattati per descrivere ogni tipo di rotolamento o qualsiasi movimento verso il basso. I risultati di questo esperimento hanno segnato una linea di demarcazione netta tra le forme più avanzate di comunicazione non linguistica, usate da molte altre specie, e i tipi più rudimentali di linguaggio, che hanno solo gli esseri umani. tutti gli udenti e gran parte delle persone sorde del primo gruppo mimavano il movimento in un unico gesto. La maggioranza delle persone sorde del secondo e terzo gruppo, invece, riproduceva modalità e direzione con segni diversi, e molte ripetevano il primo segno – cioè “rotolarescendererotolare” – per chiarire che i movimenti erano simultanei. Era questa l’essenza di ciò che rende una lingua tale. Solo la comunicazione linguistica, scrive Senghas, è “discreta e combinatoria”: scomponendo le cose in pezzi (parole) e rimontandole in modi nuovi consente a chi parla di produrre “una serie infinita di espressioni con una serie infita di elementi”. “La modalità e la direzione del movimento non sono mai separati nel mondo reale”, dice la studiosa. “Ma noi le smontiamo e le associamo a cose separate in una frase. Un gatto osserva un evento, ma non lo distingue in soggetto dell’azione, azione e oggetto dell’azione. Cosa fa la parte linguistica del cervello? Smonta le cose in pezzi che poi vengono modellati in blocchi di linguaggio”.
Una questione politica
Dalla sua comparsa all’inizio degli anni ottanta fino a oggi l’Isn ha continuato a crescere. In seguito a una vivace campagna di protesta all’inizio degli anni duemila per permettere ai sordi di proseguire gli studi dopo le elementari, due istituti secondari pubblici di Managua hanno cominciato a usare gli interpreti. In una di queste scuole, nel quartiere di Bello Horizonte, tre studenti su cinque nelle classi miste dell’istituto sono sordi. Molti alunni udenti hanno imparato la lingua dei segni per fare amicizia con i compagni e per frequentare le ragazze sorde. L’università pubblica sta formando una nuova generazione di interpreti che per la prima volta offriranno ai sordi l’opportunità di studiare con docenti madrelingua Isn. Nel 2009 il governo ha dichiarato l’Isn una lingua ufficiale. Perciò ora i discorsi ufficiali sono tradotti e i giudici, i sacerdoti e i medici studiano la lingua. Ma se da una parte l’Isn ha contribuito a integrare i sordi nella società nicaraguense, la lingua ha dovuto evolversi per tenere il passo. Negli anni ottanta il vocabolario dell’Isn è cresciuto in modo organico, con nuovi segni che apparivano quando ai sordi mancava una parola per un’idea che volevano comunicare. Ora che la lingua viene usata per insegnare discipline come scienza, storia e matematica, il processo si è rovesciato: affinché gli studenti sordi possano capire un concetto accademico preciso, occorre prima inventare un segno. Anche l’avvento degli smartphone e dei social network ha prodotto un rapido cambiamento. anche se per l’alfabetizzazione non serve l’udito, i sordi hanno difficoltà con la comunicazione scritta, perché non riescono a mettere bene in relazione una lettera con il suono corrispondente. Con gli emoji è diverso, e oggi le persone sorde inviano messaggi pieni di simboli pittografici. un’opzione ancora migliore sono le videochiamate: gli adolescenti sordi del Nicaragua sono bravissimi a segnare con una mano sola mentre tengono il telefono nell’altra. Come per tanti altri aspetti della vita del paese centroamericano, la questione di come cambia l’Isn e di chi ne influenza lo sviluppo ha assunto una forte connotazione politica. Per chi simpatizza con la rivoluzione sandinista, il solo fatto che sia nata la lingua dei segni è un trionfo dell’autodeterminazione nicaraguense. Per decenni i difensori dei sordi negli stati uniti hanno cercato d’incoraggiare la comunità internazionale dei sordi diffondendo la lingua dei segni americana in tutto l’emisfero. Ma nel Nicaragua dei sandinisti gli “imperialisti linguistici” non hanno fatto presa, dando alla lingua dei segni locale la possibilità di mettere radici. Da quando Javier López decise d’ignorare il suo prezioso dizionario dei segni della Costa Rica, lui e l’ansnic hanno lottato per scongiurare ogni “contaminazione” straniera. Il governo si rifà all’associazione sia per produrre il dizionario usato nelle scuole sia per formare e accreditare gli interpreti. “altri paesi centroamericani copiano il dizionario dei segni americano, gli cambiano il nome e lo chiamano per esempio lingua dei segni dell’Honduras”, dice Maria López. “Noi diciamo: ‘Questo è un segno dei gringos e non vogliamo usarlo. Nessuno può inquinare la lingua qui’”. È un atteggiamento molto apprezzato dai linguisti che studiano l’Isn – quasi tutti statunitensi – perché ha contribuito a conservare intatto quest’esperimento naturale per quarant’anni. Ma resta da vedere se tutta questa sorveglianza risponda davvero agli interessi dei sordi del Nicaragua. Nonostante la rapida crescita dell’Isn, in tutto il mondo ci sono forse solo 2.500 persone che parlano la lingua e qualche decina d’interpreti che sono in grado di tradurlo. Invece solo negli stati uniti ci sono almeno 500mila persone che usano perfettamente la lingua dei segni americana, la lingua franca dei sordi in tutta l’America Latina. Proprio come imparare l’inglese può migliorare le prospettive di chi parla spagnolo, la lingua dei segni americana può aprire molte porte alle persone sorde. Secondo Cynthia Fornos, che è sorda perché sua madre aveva contratto la rosolia durante la gravidanza, il protezionismo linguistico dell’ansnic sta rallentando lo sviluppo dell’Isn. “Secondo l’associazione ogni persona sorda deve parlare la versione della lingua dell’ansnic”, dice. Ma il dizionario dell’ansnic contiene solo 1.200 parole e non viene aggiornato da vent’anni. “Quando una parola manca, viene presa in prestito da un’altra lingua”, spiega. “La mia lingua dei segni si è fusa con lo spagnolo e con le lingue dei segni di altri paesi. L’ansnic sostiene di rispettare i nostri segni, ma non è così. Quando parliamo con loro, ripetono sempre: ‘aderite all’associazione, cambiate il vostro modo di parlare’”. Javier López non rinuncerà mai ai suoi sforzi per mantenere puro l’Isn. Ma il suo vero progetto di vita è l’adozione di massa della lingua. I suoi sforzi hanno avuto tanto successo che ora l’Isn ha troppi utenti perché l’ansnic riesca a controllarla. Raggiungendo un numero sempre maggiore di persone, l’Isn continuerà a crescere e ad assimilare prestiti dall’estero. Questo lo renderà meno prezioso per i ricercatori, ma sempre più funzionale per chi lo usa. Al di là del suo valore per i linguisti, l’Isn ha aiutato soprattutto i nicaraguensi sordi, che sono passati dall’isolamento all’inclusione nell’arco di una generazione. “Imparare i segni mi ha aiutato a capire e a conoscere tante cose”, dice Jordan Cienfuegos. “Ora non mi vergogno più di essere sordo, di andare per strada, perché posso usare i segni. Finalmente mi sento una persona come le altre”.


internazionale 1.6.18
Nuovo impero
La Cina sta investendo miliardi per far rinascere la via della seta. Davide Monteleone ne ha seguito un tratto fino al Kazakistan
Di Davide Monteleone


Nel 2013 il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato la Belt and road initiative, un piano per costruire infrastrutture di trasporto e logistica e far rinascere la via della seta. Avviata nel secondo secolo dC dalla dinastia Han, la via della seta era una rete commerciale creata per collegare l’impero cinese con l’impero romano. Il nuovo progetto voluto da Xi costerà più di mille miliardi di dollari e coinvolgerà 65 paesi, che custodiscono i tre quarti delle risorse energetiche del pianeta e rappresentano quasi un terzo del prodotto interno lordo globale. I percorsi terrestri collegheranno la Cina con l’Europa e il Medio Oriente, mentre quelli marittimi arriveranno nel sudest asiatico, in Medio Oriente e in Africa. Nell’autunno del 2017 il fotografo Davide Monteleone ha seguito la rotta dalla Cina al Kazakistan. Ha viaggiato da Yiwu, nella provincia sudorientale di Zhejiang, è passato per Khorgos, al confine tra i due paesi, dove si trova uno dei più grandi interporti del mondo, ed è arrivato ad Aktau, sul mar Caspio (nella cartina a pagina 66).

Davide Monteleone è un fotografo italiano nato nel 1974

internazionale 1.6.18
Il libro
Di Gofredo Foi
Una donna in camicia rossa

 Maria Attanasio
La ragazza di Marsiglia
 Sellerio, 386 pagine, 15 euro

Maria Attanasio è tra i pochi scrittori che hanno seguito l’esempio di Sciascia, di narrazioni di storie vere che si fanno romanzo quasi di per sé, per la loro intensità ed esemplarità. Racconta vita, avventure e morte dell’unica donna che prese parte alla spedizione dei Mille. Si mise su questa strada anche Camilleri ai suoi inizi, con i primi libri che restano i suoi migliori. Attanasio ha scritto Correva l’anno 1698, su una popolana che alla morte del marito muratore si finse uomo per prenderne il posto, e fu processata e assolta dall’Inquisizione, e Il falsario di Caltagirone, sempre da Sellerio, la storia di un pittore anarchico tra Parigi, Buenos Aires e la Sicilia al tempo del fascismo. Rosalie, ardente mazziniana, fu la prima moglie di Francesco Crispi, un odioso voltagabbana ovviamente maschilista (come lo fu Cavour), che la sposò e diventò di fatto bigamo. La biografia di questa donna d’eccezione è percorsa con acume e amore, forse con minor asciuttezza delle altre vite citate, ma con uguale passione. Di libri così, che affrontano la nostra storia a partire dai suoi angoli dimenticati che sono spesso i più rivelatori, ce ne vorrebbero molti, e la scuola dovrebbe saperne profittare. Come dei classici grandi romanzi di Pirandello (I vecchi e i giovani) e De Roberto (L’imperio) sulle immense delusioni del risorgimento e dell’unità.

“In Cina esistono due diverse idee di “copia”. Il fangzhipin e fuzhipin. (…)Il concetto di fuzhipin non ha alcuna connotazione negativa e ha portato a molti fraintendimenti e discussioni tra la Cina e i musei occidentali (…) La stessa idea orientale d’identità è molto ambigua”
internazionale 1.6.18
La copia è l’originale
Di Han Byung-chui


Nel 1956 nel museo delle arti dell’Asia orientale di Parigi, il musée Cernuschi, ci fu una mostra di capolavori dell’arte cinese. A un certo punto si scoprì che i quadri erano dei falsi. Il caso era particolarmente delicato, perché a produrre quei falsi era stato il più famoso pittore cinese del novecento, Chang Dai-chien, le cui opere erano esposte in quei giorni anche al Musée d’art moderne. Chang era considerato il Pablo Picasso cinese: il suo incontro proprio con Picasso, sempre nel 1956, era stato salutato come un vertice tra i maestri dell’arte occidentale e orientale. Quando si scoprì che i capolavori cinesi antichi erano dei falsi e che li aveva realizzati lui, il mondo occidentale liquidò Chang Dai-chien come un semplice truffatore. Dal suo punto di vista, tuttavia, non erano falsi. Quasi tutti quei vecchi quadri infatti non erano semplici copie, ma repliche di dipinti perduti che erano noti solo attraverso descrizioni scritte. In Cina i collezionisti erano spesso pittori. Anche Chang era un appassionato collezionista. Possedeva più di quattromila dipinti. La sua collezione però non era un archivio morto, ma una specie di raduno di vecchi maestri, un luogo pulsante di comunicazione e trasformazione. Lo stesso Chang era un corpo che cambiava sempre forma, un artista della metamorfosi. S’immedesimava senza sforzo nei grandi maestri e creava nuovi originali. Come scrivono Shen Fu e Jan Stuart in Challenging the past: the paintings of Chang Dai-chien: Il genio di Chang è tale che alcuni dei suoi falsi resteranno ignoti ancora a lungo. Riproducendo dipinti “antichi” che corrispondevano fedelmente alle descrizioni verbali riportate sui cataloghi dei dipinti perduti, Chang fu capace di creare falsi che i collezionisti non vedevano l’ora di scoprire. In alcune opere trasformava le immagini in modi totalmente inaspettati; una composizione della dinastia Ming veniva ricreata come se fosse un dipinto della dinastia Song. I quadri di Chang sono originali nel senso che seguono la vera traccia dei vecchi maestri e al tempo stesso ne estendono e ne modificano retrospettivamente l’opera. Solo un’idea pomposa dell’originale come qualcosa d’irripetibile, inviolabile e unico può declassarli a meri falsi. Ma questa pratica della creazione persistente (Fortschöpfung) è concepibile solo in una cultura non incline alla rottura rivoluzionaria e alla discontinuità, che tende invece alla continuità e alla trasformazione paciica; non all’essere e all’essenza, ma al processo e al cambiamento. Nel 2007, dopo aver scoperto che i guerrieri di terracotta fatti arrivare in aereo dalla Cina non erano manufatti di duemila anni fa ma copie, il museo di etnologia di Amburgo decise di annullare la mostra che gli aveva dedicato. Il direttore del museo, sentendosi evidentemente il paladino della verità e dell’autenticità, annunciò: “Siamo giunti alla conclusione che non ci sia altra soluzione che annullare la mostra per tutelare il buon nome del museo”. Offrì addirittura il rimborso del biglietto d’ingresso a tutti i visitatori che avevano già visto la mostra. Fin dall’inizio, la produzione di repliche dei guerrieri di terracotta era andata di pari passo con gli scavi, tanto che sul sito archeologico era stato creato un laboratorio ad hoc. Le copie riprodotte, però, non sono “falsi”. Potremmo dire piuttosto che i cinesi hanno provato a riprendere la produzione, una produzione che in dal principio non era creazione in senso stretto, ma già riproduzione. Anche gli originali, infatti, sono stati realizzati attraverso un processo di produzione seriale che utilizzava moduli o componenti. Un processo che avrebbe potuto essere tranquillamente replicato, se solo fossero stati noti i metodi originali della produzione. In Cina esistono due diverse idee di “copia”. Il fangzhipin è un’imitazione dichiarata, in cui la differenza tra originale e copia è ovvia. Ne sono un esempio i modellini o le statuette che si possono acquistare nei negozi dei musei. L’altro tipo di copia è il fuzhipin. In questo caso si tratta di una riproduzione esatta dell’originale che, per i cinesi, ha lo stesso valore dell’originale. Il concetto di fuzhipin non ha alcuna connotazione negativa e ha portato a molti fraintendimenti e discussioni tra la Cina e i musei occidentali. Spesso i cinesi mandano all’estero delle copie al posto degli originali, nella ferma convinzione che non ci sia una differenza sostanziale. Il conseguente rifiuto che arriva dai musei occidentali è percepito dai cinesi come un insulto. Nonostante la globalizzazione, l’estremo oriente è ancora una grande fonte di sorpresa e confusione, che a volte può essere distruttiva. La stessa idea orientale d’identità è molto ambigua per l’osservatore occidentale. Il grande santuario di Ise, il più importante luogo sacro scintoista del paese, per i milioni di giapponesi che ci vanno in pellegrinaggio tutti gli anni ha 1.300 anni. In realtà, il complesso viene completamente ricostruito ogni vent’anni. Questa pratica religiosa è talmente estranea alla concezione degli storici dell’arte occidentali che dopo accesi dibattiti l’Unesco ha deciso di eliminare Ise dalla lista dei siti considerati patrimonio dell’umanità. Per gli esperti dell’Unesco il santuario ha al massimo vent’anni. Siamo di fronte a un’inversione totale del rapporto tra originale e copia. O meglio, la differenza tra originale e copia scompare. Al suo posto emerge una differenza tra vecchio e nuovo. Potremmo addirittura dire che la copia è più originale dell’originale, o che è più vicina all’originale dell’originale, perché più l’edificio invecchia, più si allontana dallo stato in cui era quando è nato. Una riproduzione lo riporta, per così dire, al suo stato originale, soprattutto perché non è legato a nessun particolare artista. Non solo il santuario di Ise: anche tutti i suoi tesori vengono sostituiti. Al suo interno ci sono sempre due versioni del tesoro. La questione dell’originale e della copia non esiste. Sono due copie che, allo stesso tempo, sono due originali. In passato, quando si creavano i nuovi tesori, quelli vecchi venivano distrutti: si bruciavano le parti infiammabili e si seppellivano quelle in metallo. A partire dall’ultima ricostruzione, invece, i tesori non vengono più distrutti ma esposti in un museo. La nuova prassi è dovuta all’aumento del loro valore espositivo. In realtà, la distruzione dei tesori è parte integrante del loro valore di culto, che però chiaramente sta sempre più scomparendo a favore dell’esposizione. In occidente, quando si restaurano i monumenti spesso si mettono in evidenza le vecchie tracce. Gli elementi originali vengono trattati come rovine. L’estremo oriente non ha dimestichezza con questo culto dell’originale. Gli orientali hanno sviluppato una tecnica di preservazione completamente diversa e forse ancora più efficace della conservazione e del restauro. È un processo che si basa sulla riproduzione continua e che annulla completamente la differenza tra originale e replica. Potremmo anche dire che gli originali si preservano attraverso le copie. Il modello è la natura, dove l’organismo si rinnova attraverso la riproduzione continua delle cellule. Passato un certo tempo, l’organismo diventa una replica di se stesso. Le vecchie cellule vengono semplicemente sostituite da nuova materia cellulare. Anche in questo caso, la questione dell’originale non c’è: il vecchio muore e viene sostituito dal nuovo. Identità e rinnovamento non si escludono a vicenda. In una cultura dove la riproduzione continua diventa una tecnica di conservazione, le repliche sono tutto tranne che semplici copie. La cattedrale di Friburgo, nella parte sudoccidentale della Germania, è avvolta dalle impalcature per buona parte dell’anno. L’arenaria con cui è stata costruita è una pietra molto soffice e porosa, che non è in grado di resistere all’erosione naturale causata dalla pioggia e dal vento: dopo un po’ si sbriciola. La cattedrale, quindi, viene continuamente sottoposta a esami per vedere se ci sono danni, e le pietre consumate vengono via via sostituite. Anche in questo caso c’è un laboratorio apposta in cui vengono continuamente riprodotte le figure di arenaria danneggiate. Ovviamente si cerca di preservare le pietre del medioevo il più a lungo possibile, ma a un certo punto anche quelle vengono rimosse e sostituite con pietre nuove. Fondamentalmente è la stessa operazione del santuario giapponese, solo che in questo caso la produzione della replica avviene molto lentamente e in un arco temporale più lungo. Alla ine, però, il risultato è esattamente lo stesso. Passato un po’ di tempo, di fatto siamo di fronte a una riproduzione. La gente, però, immagina di trovarsi davanti a un originale. Ma cosa avrebbe di originale la cattedrale di Friburgo se l’ultima delle sue vecchie pietre fosse sostituita con una nuova? L’originale è un prodotto dell’immaginazione. In linea di principio, sarebbe possibile costruire una copia esatta della cattedrale di Friburgo, un fuzhipin, in uno dei tanti parchi a tema della Cina. Sarebbe una copia o un originale? Cosa la renderebbe solo una copia? Cosa caratterizza come “originale” la cattedrale di Friburgo? Materialmente, il suo fuzhipin non avrebbe nulla di diverso da quell’originale che, un giorno, potrebbe non contenere più una sola parte antica. Resterebbe solo il valore del luogo e del culto legato alla pratica religiosa a rendere la cattedrale di Friburgo diversa dal suo fuzhipin in un parco cinese. Ma anche qui, se sacrificassimo completamente il valore di culto a favore del valore espositivo, la differenza dal suo doppione scomparirebbe. Anche nel campo dell’arte, storicamente l’idea di un originale indiscutibile si è sviluppata nel mondo occidentale. Nel seicento, le opere d’arte dell’antichità erano trattate molto diversamente da oggi. Non c’era l’abitudine di restaurarle in modo fedele all’originale, ma erano sottoposte a profondi interventi che ne modificavano l’aspetto. Per esempio, Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) aggiunse arbitrariamente un’elsa di spada all’Ares Ludovisi, l’antica statua del dio Marte che a sua volta era la copia romana di un originale greco. Al tempo del Bernini il Colosseo serviva come cava di marmo. Le mura dell’antico anfiteatro venivano smantellate e usate per costruire nuovi palazzi. La salvaguardia dei monumenti storici in senso moderno comincia con la museizzazione del passato e il conseguente aumento del valore espositivo a scapito del valore di culto. È interessante notare che il fenomeno va a braccetto con lo sviluppo del turismo. Il cosiddetto grand tour, il viaggio di formazione dei giovani aristocratici europei che comincia nel rinascimento e raggiunge la sua massima diffusione nel settecento, può essere considerato un precursore del turismo moderno. Il valore espositivo degli edifici e delle opere d’arte dell’antichità, presentati ai turisti come attrazioni, aumentò. Sempre nel settecento furono prese le prime misure per preservare le strutture antiche, la cui salvaguardia veniva ora considerata fondamentale. L’industrializzazione accentuò l’esigenza di conservazione e museizzazione del passato. In aggiunta a tutto ciò, le nuove discipline della storia dell’arte e dell’archeologia scoprirono il valore epistemologico degli edifici e delle opere d’arte del passato, rifiutando qualsiasi tipo d’intervento che potesse modificarli. L’idea di una postulazione preliminare, primordiale, è estranea alla cultura dell’estremo oriente. Forse è per questo che gli asiatici hanno molti meno scrupoli sulla clonazione rispetto agli europei. Nel 2004 il ricercatore sudcoreano buddista Hwang Woo-suk attirò l’attenzione del mondo per i suoi esperimenti sulla clonazione. Mentre i buddisti lo sostennero incondizionatamente, i cristiani invocarono il divieto di clonazione umana. Anche se alla ine si scoprì che Hwang aveva falsificato i risultati dei suoi esperimenti, dal suo punto di vista la loro legittimità si fondava sul fatto che era buddista: “Per me la clonazione non pone alcun problema filosofico. Come sapete, la base del buddismo è che la vita si ricicla attraverso la reincarnazione. In un certo senso, penso che la clonazione terapeutica faccia ripartire la ruota dell’esistenza”. Anche per il santuario di Ise la tecnica di conservazione consiste nel permettere alla ruota dell’esistenza di ripartire ogni volta da capo, preservando la vita non contro la morte ma attraverso e oltre la morte. La morte stessa è insita nel sistema di preservazione. L’essere, quindi, cede il passo al processo ciclico che comprende la morte e il decadimento. Nella ruota infinita dell’esistenza non c’è più nulla di unico, originale, singolare o finale. Esistono solo ripetizioni e riproduzioni. Al centro della concezione buddista del ciclo infinito della vita c’è la decreazione: non creazione ma iterazione; non rivoluzione ma ricorrenza. La tecnologia di produzione cinese non si basa su archetipi, ma su moduli. Come sappiamo, anche gli eserciti di terracotta sono prodotti con moduli o componenti. La produzione in moduli non è coerente con l’idea dell’originale, perché utilizza comunque componenti già pronti. Il concetto più importante della produzione modulare non è l’originalità o l’unicità, ma la riproducibilità. Lo scopo non è la realizzazione di un oggetto unico, ma una produzione di massa che permetta una serie di variazioni. Lo stesso oggetto viene modulato, così da creare delle differenze. La produzione modulare prevede variazioni, dunque dà spazio a una grande varietà. L’unicità è negata per massimizzare l’efficienza della riproduzione. Non è un caso che la stampa sia stata inventata in Cina. Anche la pittura cinese usa la tecnologia modulare. Il trattato cinese di pittura, il Manuale del giardino grande come un granello di senape, contiene una serie infinita di parti ed elementi con cui si può comporre o assemblare un dipinto. La questione della creatività emerge nuovamente alla luce di questo tipo di produzione. Combinare e variare gli elementi diventa più importante. Da questo punto di vista, la tecnologia culturale cinese opera come la natura. Lo spiega lo storico dell’arte tedesco Lothar Ledderose in Ten thousand things: module and mass production in chinese art (2000): Gli artisti cinesi non perdono mai di vista il fatto che anche produrre opere in grande quantità è un esempio di creatività. Confidano che, come nella natura, tra diecimila cose ce ne sarà sempre una da cui nascerà il cambiamento. L’arte cinese ha una relazione funzionale, non mimetica, con la natura. La questione non è rappresentare la natura nel modo più realistico possibile, ma operare esattamente come lei. In natura anche una serie di variazioni successive può produrre qualcosa di nuovo, chiaramente senza alcun tipo di “genio”. Come dice Ledderose: Pittori come Zheng Xie aspirano a emulare la natura sotto due aspetti. Producono una quantità vasta, quasi illimitata di opere attraverso sistemi modulari di composizioni, motivi e pennellate. Ma al tempo stesso permeano ogni singola opera di una forma unica e inimitabile, come fa la natura nella sua prodigiosa invenzione di forme. Una vita dedicata ad affinare la propria sensibilità artistica permette all’artista di avvicinarsi alla forza della natura.

Han Byung-cHui è professore di filosofia e cultural studies all’Universität der Künste Berlin. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Filosofia del buddismo zen (Nottetempo 2018). Questo articolo è tratto dal suo libro Shanzhai: deconstruction in chinese (Mit Press 2017) ed è uscito su Aeon con il titolo The copy is the original.

internazionale 1.6.18
Cortesie tra esseri umani e assistenti digitali
“Alexa, apri il gioco!”, diranno un giorno gli adolescenti. E il dispositivo intelligente eseguirà il comando. Ma è questo il modo giusto per comunicare con le macchine?
Di Ken Gordon, The Atlantic, Stati Uniti


All’inizio degli anni ottanta ero un bambino che programmava in un linguaggio chiamato Basic. Avevo i capelli a caschetto e l’apparecchio, e mi ricordo che battevo sulla tastiera di un vecchio computer: 10 PRINT “[qualunque cosa]” 20 GOTO 10 Dopo aver premuto il tasto “invio” appariva sullo schermo una colonna piena di qualunque cosa avessi inserito tra virgolette: [Qualunque cosa] [Qualunque cosa] [Qualunque cosa] Negli anni le mie competenze informatiche sono migliorate, ma non ho dimenticato quella prima stringa di codice perché mi ha permesso di impartire, per la prima volta, un comando. Non aveva grandi conseguenze, ma mi rendeva felice. Oggi il rapporto di potere è cambiato. Mio figlio Ari, 13 anni, è molto più bravo con i computer di quanto lo fossi io alla sua età e ha accesso a strumenti avanzati. Tutto questo mi fa pensare al futuro dei computer, ora che la tecnologia si allontana da un modello fatto di tastiera e monitor. Pensiamo a Echo, l’altoparlante intelligente di Amazon: nonostante le sue qualità magiche Echo – o Alexa, per usare il nome a cui risponde il dispositivo – è un’interfaccia imperfetta. Alexa spesso ci obbliga a ripeterci, ma la perdoniamo perché l’idea di conversare con un computer è ancora una novità. L’informatica azionata dalla voce è una tecnologia ancora adolescente, come mio figlio Ari. Un giorno Ari potrebbe dire “Alexa, apri il gioco!”, dandole un comando vocale. La cosa mi fa riflettere. Io e mia moglie gli abbiamo insegnato a rivolgersi agli altri con rispetto, ma quando chiede qualcosa ad Alexa può farlo senza alcun riguardo. Non dice mai “per favore” o “grazie”. Queste parole sembrano solo un intralcio. Nessuna empatia Quando programmavo in Basic non esistevano “per favore” o “grazie”, ma il codice che usavo era scritto e silenzioso. Con Alexa, invece, possiamo ascoltare la natura gerarchica dell’informatica fondata sul comando. Il dispositivo vive sul tavolo dove la mia famiglia si riunisce ogni giorno, e le parliamo in continuazione. Gli adolescenti che vivono con Alexa e strumenti simili hanno accesso a un genio digitale. Che conseguenze avrà dare a un bambino una lampada magica che si attiva con la voce ed esaudisce ogni suo desiderio? Gli ordini, come suggerisce lo scrittore Elias Canetti nel suo libro Massa e potere (1960), di solito lasciano una spina in chi li riceve. È una spina che “penetra in profondità nella persona che ha eseguito l’ordine e rimane immutata dentro di lei”. Con Alexa non esistono spine. Mi chiedo se questa Cortesie tra esseri umani e assistenti digitali “Alexa, apri il gioco!”, diranno un giorno gli adolescenti. E il dispositivo intelligente eseguirà il comando. Ma è questo il modo giusto per comunicare con le macchine? Ken Gordon, The Atlantic, Stati Uniti assenza possa creare nelle persone una mancanza totale di empatia. Tradizionalmente i bambini sono troppo sopraffatti dai comandi ricevuti per poterne impartire di propri. Le persone più oppresse dagli ordini sono i bambini, scrive Canetti, ed è un miracolo che non crollino sotto il peso dei comandi impartiti da genitori e insegnanti. A 13 anni Ari è abbastanza maturo da capire la differenza tra un essere umano e un’interfaccia programmata per sembrare una persona, ma vorrei che usasse la voce per creare un vero dialogo, sul genere di quello proposto dal filosofo Martin Buber nel suo libro Io e tu. Secondo Buber, quando le persone parlano usano una delle due relazioni fondamentali: “io-esso” e “io- tu”. Sono due atteggiamenti diversi che una persona può assumere con il linguaggio. Con “io-tu” si crea una relazione più profonda, ma impartire ordini ad Alexa abitua le persone a usare il linguaggio “io-esso”. Può darsi che mi stia preoccupando troppo. Forse parlare ad Alexa è solo un linguaggio di programmazione diverso. È troppo presto per stabilire gli effetti, se mai ci saranno, delle interfacce vocali sui bambini. Ma usare la voce per ottenere qualcosa è diverso da scrivere su una tastiera. Impartire comandi può essere un’azione problematica, se eseguita ripetutamente e senza pensare. E i chatbot e gli assistenti digitali di oggi incoraggiano più la ripetizione che la riflessione.

Ken Gordon lavora per una società di consulenza

l’espresso 3.6.18
«Ho visto le parole d’odio trasformarsi in dittatura. E poi in sterminio. Vorrei non vederle mai più»
La democrazia finisce piano piano
colloquio con Liliana Segre
di Marco Damilano


Lo ricorda bene, quel due giugno 1946, il giorno del referendum istituzionale in cui l’Italia scelse di voltare pagina e di diventare una Repubblica. «Avevo quindici anni e non potevo votare, però ho ancora quella sensazione di gioia collettiva. Qualcosa di nuovo dopo tante tragedie, l’esplosione di felicità per questa Italia ritrovata, in ricostruzione, ottimista, questo mondo intorno a me che festeggiava, anche se io ero personalmente lacerata. Ero una vecchia ragazza che aveva già visto l’indicibile, come lo ha chiamato Primo Levi». Liliana Segre era stata deportata da Milano al campo di concentramento nazista di Auschwitz e Birkenau il 30 gennaio 1944 con il padre, che non rivide più, qualche mese prima dei nonni, anche loro uccisi al loro arrivo. Numero matricola 75190, il 19 gennaio è stata nominata dal presidente Sergio Mattarella senatrice a vita «per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale». Sembra di vederla nel 1946, provo a immaginarla, doveva avere la stessa età della ragazza che compare nella foto simbolo di quel giorno, quella che alza la prima pagina del giornale a titoli cubitali con la notizia più emozionante: è nata la Repubblica italiana. «Per quello che succedeva attorno a me, con quel che restava di me stessa, ero felice. Nella mia casa, prima della tragedia, mio padre e mio zio erano stati ufficiali nella Prima guerra mondiale. Mio zio fascista, mio padre antifascista. Si amavano molto, discutevano moltissimo. Mentre mio padre è finito ad Auschwitz, mio zio si è salvato, ha vissuto a lungo ma per tutta la vita aveva l’incubo di non essere riuscito a portare giù dal treno per il lager suo padre, mio nonno. E lui che era stato ufficiale dell’esercito regio ed era stato a Caporetto, fascista e monarchico, quel giorno votò per la Repubblica e mi disse: mai mi sarei aspettato di votare felicemente per la Repubblica».
Capelli candidi, portamento fiero, giudizi affilati, nei suoi uffici a Palazzo Giustiniani, gli stessi che furono di Gianni Agnelli, la senatrice Segre è ora una signora della Repubblica, mai come in questo anniversario lacerata, strattonata, contesa, sottoposta ad attacchi interni e esterni, con le massime istituzioni sotto assedio, con un imbarbarimento del linguaggio che è il segnale di un venir meno delle ragioni civili dello stare insieme. Gruppi contrapposti convocati a Roma. Il Quirinale, la sede della presidenza, la suprema garanzia costituzionale, assediato dalle critiche (legittime) e dagli insulti (vergognosi). Il capo dello Stato minacciato, offeso perfino nell’affetto più caro, il fratello Piersanti ucciso dalla mafia, con i messaggi ripugnanti apparsi sui social. Il silenzio di partiti, sindacati, intellettuali che in passato sono scesi in piazza per difendere le istituzioni repubblicane e che in questa occasione balbettano. E l’esigenza sempre più urgente di trovare figure che sappiano parlare a tutto il Paese stremato e allibito dal balletto dei politici sulla crisi, simmetrico a quello degli speculatori sui mercati.
 «Oggi sono molto rattristata per la mia Italia, paese amato, alle soglie di qualche sorpresa, di situazioni che mi sarei aspettata di non vedere più», racconta Liliana Segre. «Abbiamo avuto tante crisi politiche in questi decenni, formule di ogni tipo, ma quello che sta accadendo in questi giorni è totalmente inaspettato. La Repubblica è la cosa di tutti, ma oggi rischia di essere strattonata da una parte e dall’altra, lo vediamo tutti, sono preoccupata. C’è una tristezza di fondo, nelle polemiche, nelle speculazioni, anche nei giudizi della stampa internazionale, così lontana dalla bellezza dell’Italia e da un popolo che non si merita questa severità di giudizio».
Sono tanti i motivi di preoccupazione e di amarezza per la senatrice Segre, nominata a Parlamento sciolto, accolta tra gli applausi a Palazzo Madama durante la prima seduta, il 23 marzo.
 «Conosco i miei colleghi senatori a vita, sono stata troppo poco in aula per farmi un giudizio degli altri, non sono una vecchia volpe. Quando sono stata nominata ho detto al presidente Mattarella che sono sempre una bambina: mi hanno chiuso la porta della scuola e ottant’anni dopo mi hanno aperto quella del Senato».
Che pensa degli attacchi contro l’inquilino del Quirinale, compresa la richiesta di impeachment avanzata da Giorgia Meloni e da Luigi Di Maio?
«Impeachment è una parola che non esiste nell’ordinamento italiano, chi l’ha sbandierata poteva almeno informarsi. Quando ho conosciuto Mattarella e abbiamo parlato eravamo tutti e due con i capelli bianchi, alle spalle anche lui ha avuto un dramma che ti segna la vita, ci siamo ritrovati come un fratello e una sorella. È il presidente della Repubblica, ma io lo considero come mio fratello, come una persona che fa parte della mia famiglia. Ho letto anch’io cosa hanno scritto in rete, quando gli hanno augurato la fine di suo fratello mi son venute in mente le minacce contro di me da bambina, rispondevo al telefono e una voce mi chiedeva: perché non muori? Perché non morite? Questi cattivi sentimenti ci sono sempre stati, il web li amplifica, ma non è solo una questione di mezzi di espressione. Ci sono i tempi che consentono a queste persone di comportarsi così. C’è stato un tempo dopo la guerra, dopo l’orrore di milioni di morti, che queste parole e questi comportamenti sono sembrati sparire. Sono arrivate altre esigenze, la gente ha pensato all’arricchirsi, a farsi notare. La bellezza, il consumismo, il successo, essere qualcuno, sono diventati idoli. Poi gli idoli cadono e nel vuoto sono tornate parole antiche».
Tempi cupi. Tempi di divisione che anticipano la futura campagna elettorale, quando verrà. Cosa la preoccupa di più di questi tempi, del ritorno del passato?
«Ho la paura della perdita della democrazia, perché io so cos’è la non democrazia. La democrazia si perde pian piano, nell’indifferenza generale, perché fa comodo non schierarsi, e c’è chi grida più forte e tutti dicono: ci pensa lui».
La democrazia svanisce progressivamente, per slittamenti successivi. Per le parole che non vogliono più dire nulla, che risuonano a vuoto. E per i leader che aizzano anziché placare, dirigenti che non dirigono ma seguono. Una delle parole che ritornano è popolo. Si ripete: il popolo, lo vuole il popolo, ci sono i nemici del popolo, il presidente incaricato Giuseppe Conte si era proposto come avvocato del popolo. Ma che cos’è il popolo, chi può dire parlo a nome del popolo? E si può contrapporre alle leggi, ai limiti della Costituzione?
«Quando il popolo ha votato bisogna rispettare l’esito elettorale, anche se può non piacere», risponde la senatrice Segre. «Poi c’è la coscienza di ognuno. E c’è la Costituzione, un lavoro grandissimo, i padri non erano improvvisati».
Come si reagisce?
«Io ho un’idea issa. Chi entra nel memoriale della Shoah trova scritta una parola: indifferenza. Da senatrice ho depositato un disegno di legge per istituire una commissione parlamentare bicamerale di monitoraggio e di controllo sugli “hate speech”, i discorsi d’odio. Un invito che il Consiglio d’Europa ha fatto ai 47 Stati membri, il nostro sarebbe il primo caso. Le parole d’odio sono l’anticamera della fine della democrazia. L’imbarbarimento del linguaggio è arrivato a livelli intollerabili. In questi giorni si è scritto di un mercato di divise da deportati di Dachau, che parole si possono trovare?»
La Repubblica divide, per molti ha deluso le speranze di settantadue anni fa. Per certi versi comandano ancora i luigini di Carlo Levi in “L’orologio”, le caste degli inamovibili:
«La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano».
È la loro presenza a scatenare la reazione dei populismi?
«Ero molto giovane quando ho subito l’orrore, per ritrovare una speranza di futuro è stato importantissimo l’incontro con mio marito», rilette la senatrice Segre. «Era fiero di aver combattuto per la democrazia che stava nascendo, ma anno dopo anno mi ossessionava con la sua delusione per tutti quelli che erano morti per far nascere questo Stato, per chi aveva dato la vita per un’Italia migliore. Delusioni per gli scandali, le ruberie, il distacco dalle persone».
Oggi in tanti votano più per delusione o per rabbia che per speranza.
«Ha ragione, ma per votare la speranza devono esserci i motivi e tanti, evidentemente, motivi non ne trovano. In democrazia l’elettorato va rispettato e non va mai dimenticato che il mondo è degli indifferenti, sono loro che decidono chi vince e chi perde. La mia speranza è che un giorno possano nascere gli Stati Uniti d’Europa, ora appare un’utopia, lo abbiamo visto sulla questione dei migranti, in cui ogni Stato ha dato spazio al suo egoismo nazionale. Io la speranza ce l’ho, ho sempre scelto la vita, ho conosciuto nella mia vita tanti affetti, un lungo amore».
E amare la Repubblica? Che significa oggi, senatrice Liliana Segre?
«Amare la Repubblica significa attuare la Costituzione».
E difenderla dai fantasmi del passato. Questi tempi nuovi che ci sono dati da vivere, simili a quelli antichi.

Liliana Segre, nata a Milano nel 1930. Incarcerata in quanto ebrea a 14 anni, venne deportata ad Auschwitz-Birkenau. Oggi è senatrice a vita.


l’espresso 3.6.18
La Grande Crisi
Qualcosa di irrimediabile è già avvenuto: la fine del linguaggio proprio del confronto. Siamo tornati a un pensiero infantile, incapace del linguaggio proprio del confronto. incapace di discussione pubblica
Al punto di non ritorno
di Massimo Cacciari


Com’è stato possibile giungere a una crisi istituzionale di queste proporzioni? C’è stato, certo, chi sul fuoco ha soffiato fino a far divampare l’incendio, ma c’è stato anche chi l’ha, magari per ignoranza o incoscienza, appiccato. E chi non è intervenuto in tempo per spegnerlo. Spiegare questa crisi con i Salvini e i Di Maio è peggio che ridicolmente semplice, ci impedisce di vederne la natura strutturale: la catastrofe di un sistema politico incapace da trent’anni di qualsiasi seria riforma. Prevedere come la situazione potrebbe evolversi è pressoché impossibile, stante l’irragionevolezza dei comportamenti di tutti o quasi i protagonisti. Si riformerà la coalizione Salvini-Berlusconi? Assisteremo, bontà anche del Pd, a una definitiva svolta a destra dei 5 Stelle e a un asse con la Lega ino a qualche mese fa impensabile? Come uscirà il Quirinale dallo scontro? Faremo da grande laboratorio alla prima affermazione di una “destra di massa” in Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale? E chi dovrebbe opporvisi saprà frenare i propri impulsi autodistruttivi? Comunque vada a finire o a iniziare, qualcosa di irrimediabile è già avvenuto. Temo si sia ormai giunti a un punto di non ritorno. E questo riguarda il linguaggio stesso della politica, quel linguaggio che è lo strumento essenziale con il quale possiamo comunicare, intenderci e fra-intenderci, quel linguaggio che è l’arma fondamentale della democrazia, poiché essa è tutta pervasa dall’idea che attraverso la parola ci si possa convincere, che il discorso possa argomentare sulla realtà delle cose in forme tali da essere più forte di ogni violenza o prepotenza. Questa crisi minaccia di rappresentare la tomba di ogni sforzo per rendere quanto più possibile ragionevole e responsabile il discorso politico. Si tratta di ben altro che della resa incondizionata alle forme di fumettistica gestualità dei social, che sotto la maschera della semplicità e trasparenza occultano perfettamente finalità e fattori della lotta politica. Si tratta, ancora, di un guasto ben più grave di quello derivante dalla retorica dilagante da decenni su rottamazioni e nuove repubbliche al canto di «Giovinezza, giovinezza…». Si tratta dell’affermarsi di una generale forma mentis infantilmente regressiva, drammatico sintomo di una crescente e generale impotenza della politica a comprendere e governare i processi economici, sociali e culturali del nostro mondo fattosi davvero finalmente e compiutamente Globo. Regressiva è l’idea di “ciascuno padrone a casa propria”. Peccato che neppure Trump sia padrone a casa sua: la Cina detiene metà del debito Usa. E non lo è la Cina, dipendente dagli Stati Uniti che comprano i suoi prodotti. L’idea di un’astratta autonomia, di sovranità astrattamente “libere”, è propria dei bambini, di coloro che per crescere debbono in qualche modo fingerla proprio nel momento in cui massimamente dipendono dagli altri. Conseguente e complementare ad essa è sempre la rivendicazione della propria innocenza. Le cose non vanno perché altri ci sfruttano, ci dominano, fanno i padroni in casa nostra. Reo è sempre l’altro. «Non sono stato io» ad ammassare negli anni questo debito pubblico o a non riuscire a ridurlo. «Io non c’ero» quando ogni disegno di riforma falliva. E l’insicurezza che avvertiamo, reale e profonda, non deriva dal fallimento di ogni politica industriale, occupazionale etc: no, deriva dallo “straniero che ci invade”. Colpevoli tutti, fuorché io: questa la regola che si impone in quel che fu il linguaggio politico. E chi semina vento raccoglie tempesta - vero Renzi? Ma l’aspetto più regressivo che si va imponendo sulla scena politica nostrana (e non solo, purtroppo) riguarda l’idea stessa di democrazia. Ridotta a idolatrico culto della maggioranza. “Contata” la maggioranza tutto è fatto. I bambini non sanno che le democrazie sono tanto più forti quanto più le maggioranze politiche sono bilanciate da funzioni e poteri autonomi e forti. La democrazia è il regime in cui la maggioranza ha la responsabilità di decidere, ma nel pieno riconoscimento della rappresentatività e dell’imprescindibile ruolo delle stesse minoranze. Una maggioranza che ama il “plausus armorum” degli eserciti romani, non è una maggioranza democratica. La maggioranza non diventa il popolo tutto in lotta contro privilegi e palazzi, vindice sovrano dei crimini commessi da minoranze privilegiate. Questo è lo schema che in altre epoche avrebbe portato diritto a soluzioni autoritarie. Il Terzo Stato è tutto - dicevano i rivoluzionari del 1789; il voto altro non fa che mostrare quella che è la volontà generale; una volta che nel voto essa si sia manifestata, tutti devono farla propria! La voce della maggioranza esprime “il vero Io” di ciascuno. Rousseau docet, direbbero Casaleggio e Associati. E invece no, amici: questo è il rovesciamento parodistico del vostro preteso maestro. Consiglio in proposito la lettura di un aureo libretto uscito nel 1927, scritto da un antifascista vero, Edoardo Ruini, e ancora disponibile nella ripubblicazione di Adelphi. Si intitola “Il principio maggioritario”. Si capisce come Rousseau pensasse a un cittadino che partecipa consapevole e informato alle assemblee che deliberano, a un cittadino che ha potuto formare un proprio pensiero critico nella discussione pubblica. Non all’iscritto a “piattaforme” controllate non si sa da chi e non si sa come. Il “citoyen” rousseauiano si è trasformato con l’ideologia 5 Stelle nel più perfetto individuo “bourgeois”, in un navigante solitario in un oceano di chiacchiere, slogan, opinioni, promesse. Perfetta educazione a quei sentimenti di frustrazione, invidia, risentimento che distruggono non solo la democrazia, ma la possibilità stessa di formare una comunità. Ma questo non riguarda soltanto tali miseri, pretesi rousseauiani; l’interpretazione delirante del principio di maggioranza ha riguardato, seppure in forme diverse, tutti gli attori degli ultimi trent’anni di storia patria. I guasti provocati dal regressivo infantilismo del linguaggio politico sono ovunque presenti e hanno ferito a morte le forme della comunicazione e del dialogo tra le forze in campo. E ci vorrà tutta l’intelligenza delle prossime generazioni per cercare di guarirne.


L’Espresso, inchiesta “I conti segreti di Salvini”.
l’espresso 3.6.18
Più Voci, donatori segreti


I soldi ricevuti dall’associazione Più Voci «non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività di carattere politico, come ad esempio la campagna elettorale». Parola di Giulio Centemero, responsabile amministrativo della Lega e rappresentante legale dell’associazione di cui aveva dato conto per la prima volta L’Espresso nell’inchiesta intitolata “I conti segreti di Salvini”. In quell’occasione, due mesi fa, avevamo chiesto al partito un commento sulle notizie scoperte dal nostro giornale, in particolare sui 280 mila euro ricevuti tra il 2015 e il 2016 da Esselunga e dall’immobiliarista romano Luca Parnasi. Denaro incassato e subito dopo girato a Radio Padania, cooperativa leghista, e alla Mc Srl, società controllata direttamente dal partito. Un metodo per finanziare occultamente la Lega, alle prese con i sequestri milionari disposti dal tribunale di Genova dopo la condanna per truffa sui rimborsi elettorali? Contattato attraverso il suo ufficio stampa, Salvini in quell’occasione aveva preferito il silenzio, facendo seguire alla pubblicazione dell’articolo diverse minacce di querela. Questa volta la Lega ha invece deciso di rispondere alle nostre domande e lo ha fatto attraverso Centemero, contattato direttamente in merito alle notizie pubblicate in queste pagine. Il tesoriere ha sottolineato che «l’associazione, come da ragione sociale, stimola il pluralismo dell’informazione, perciò i progetti di sostegno (le donazioni private, ndr) sono stati indirizzati su Radio Padania e su Il Populista (il giornale online edito da Mc Srl, ndr)». Insomma, Centemero sostiene che quei soldi non servivano a finanziare la campagna elettorale della Lega, ma a sostenere l’informazione realizzata dai suoi media. Difficile capire quale sia la differenza sostanziale, visto che Radio Padania e Il Populista sono testate attraverso cui la Lega fa campagna elettorale. E piuttosto complicato risulta anche comprendere perché, se le cose stanno così, Esselunga e Parnasi non sono stati invitati a donare soldi direttamente a Radio Padania e a Il Populista. Il tesoriere Centemero ci ha anche fatto sapere che l’associazione è ancora attiva, e che a partire dalla sua fondazione, nell’ottobre nel 2015, «ha raccolto qualche centinaia di migliaia di euro da aziende e privati». Può elencare i nomi dei donatori con le relative cifre?, gli abbiamo chiesto. Il commercialista preferito da Salvini ha scelto il riserbo: «La normativa delle associazioni e la riservatezza dei dati richiesti mi impediscono di rivelare i nominativi dei contribuenti e i relativi importi».

l’espresso 3.6.18
Le tre parole che non contano più
Di Bruno Manfellotto

Le parole e le cose, verrebbe da dire. Questa, lo abbiamo capito, non è una crisi come le altre, ma la tempesta perfetta: è allo stesso tempo politica (tre mesi senza governo), finanziaria (spread sotto tiro) e pure istituzionale (in Italia: dopo la minaccia di impeachment, quella di un voto-referendum pro o contro Mattarella e ciò che rappresenta; e fuori: il mondo ci giudica). Crisi che segna però anche un cambio di passo, un salto di stagione che si manifesta non solo nell’imporsi di forze comunemente definite “populiste”, ma perfino nel diffondersi di un nuovo linguaggio. Fenomeno che qui sintetizziamo segnalando la scomparsa – o forse la rivisitazione – di tre vocaboli fondanti del lessico politico fino a oggi conosciuto. Le parole e le cose, appunto. La coerenza che non c’è. La rapidità con la quale Luigi Di Maio, con la stessa giacca e cravatta, riesce a saltare dal bon ton istituzionale alla marcia su Roma e di nuovo al dialogo, ha davvero del sorprendente. È talmente drastico il “vado di qua-vado di là” da far pensare che dal vocabolario grillino sia stata espunta per sempre la parola “coerenza”. Sembra anzi, per paradosso, che ilo conduttore dell’azione politica sia quello di avere mani libere per zompare da un credo all’altro senza vergogna né preoccupazioni di sorta. E l’elettorato segue, sembra anzi trovare cemento e alimento proprio nella totale indifferenza agli strappi di incoerenza. Forse si fa strada la convinzione che per cambiare le cose non ci si debba opporre all’andazzo confuso, piuttosto assecondarlo per vedere l’effetto che fa. Evidentemente quella che per molti è inaffidabilità, per i 5S è libertà di azione, quasi che più dei contenuti pesino i modi di manifestare di volta in volta rabbia e dissenso. Contro gli stantii profeti della coerenza. Con queste premesse, non deve stupire la teoria delle alleanze variabili, o con il Pd o con la Lega, comunque con chiunque condivida il programma a cinque stelle: si può dichiarare fedeltà alla Nato e amicizia a Putin, conciliare l’europeismo dichiarato e la moneta parallela dei minibot, il reddito di cittadinanza e la flat tax, Palazzo Chigi e la piazza, “al governo al governo” e “al voto al voto”. In verità una forma di coerenza c’è, ed è quella di individuare il nemico nei “poteri forti”, nell’establishment, nelle nomenklature, eccetto quelle che essi stessi scelgono per la realizzazione del loro programmacontratto. E in questo l’identità con la Lega di Matteo Salvini è totale. Responsabilità l’è morta Se c’era un richiamo a cui nessuno poteva dire di no era quello alla “responsabilità”, già prima che questa diventasse la motivazione stessa della nascita di un governo, e pure dopo, come testimoniano l’avvento di Mario Monti e il Napolitano bis (nel primo caso B. chinò il capo denunciando però un complotto internazionale dei poteri forti, e la teoria ha fatto scuola; adesso smentisce Lega e 5S che lo evocano a proposito di Savona). Responsabilità era stata chiesta al Pd perché accettasse il dialogo con i cinque stelle; di responsabilità s’era ammantato Di Maio nel suo periodo istituzionale e di intesa con Mattarella, che in lui confidava, e in nome di quella si è battuto per convincere Salvini perché ne dimostrasse un po’, salvo poi buttarla a mare lui stesso in nome della piazza, dell’impeachment e del iato sul collo di Alessandro Di Battista, e poi ripensarci ancora (vedi alla voce “coerenza”). E responsabilità è certamente mancata al leader della Lega che alla stretta finale ha preferito rinunciare alla possibilità di occuparsi per i suoi elettori di flat tax, sicurezza, immigrazione, legge Fornero e privare il paese di un governo ino alle elezioni bis pur di tenere il punto su Paolo Savona. La voglia di andare a votare è stata più forte. Un po’ di responsabilità, infine, avrebbe forse consigliato di non avviare la campagna elettorale con l’accusa infamante al presidente della Repubblica di complottare con potenze straniere… Solo la conquista del Palazzo, ora a portata di mano, può far mutare lo schema. Ragionevoli mai. Gli appelli ai comportamenti di cui sopra, eterno corollario di ogni mediazione politica, cadono nel nulla. La stagione che ci tocca vivere sembra infatti caratterizzarsi con il diniego pregiudiziale di ogni forma di ragionevolezza; perfino il buon senso, compagno di strada della concretezza, va riempiendo i fossi, come si dice delle buone intenzioni. Sembra quasi che le virtù di cui qui si ragiona - coerenza, responsabilità, ragionevolezza - siano viste come bagaglio culturale di una nomenklatura, casta, classe politica, intellighenzia, chiamatela come vi pare, che va rigettata per principio, e che con essa vadano cassati quei principi perché giudicati forieri di trappole, ricatti, ingerenze, condizionamenti. Ora, è evidente che dietro tale rifiuto si nascondano amare realtà e che sarebbe ora di cambiare codici e riferimenti, rovesciare la partita e ricominciare da qualche altra parte. Si spererebbe, però, che ciò avvenisse non al buio e comunque salvaguardando quelle tutele che garantiscono il buon funzionamento di ogni democrazia. A questo punto verrò accusato di eccesso di coerenza, ragionevolezza, responsabilità…

l’espresso 3.6.18
Giustizia per ricchi
Prescrizione per i reati economici, privatizzazione dei processi, costi legali inarrivabili. Così in Italia i vip restano impuniti
di Paolo Biondani


Più sicurezza, più carcere, più armi contro la criminalità. Più diritti, più tutele, più risarcimenti per le vittime della crisi. In un’Italia sprofondata in una campagna elettorale permanente, le questioni giudiziarie sono al centro della propaganda politica. E i cittadini si vedono tempestare di promesse. Nuove leggi miracolose. Progetti di riforma a costo zero. Soluzioni facili e immediate per problemi complicati. Slogan e comizi fanno leva quasi sempre sulle emozioni scatenate da un singolo caso di violenza spettacolarizzato dai media: l’omicidio impressionante, la rapina nella casa di famiglia, l’attentato terroristico tra la folla. Di giustizia civile, che secondo tutti gli esperti è la vera e cronica emergenza italiana, nell’arena elettorale si parla pochissimo. Ma anche sul fronte della lotta al crimine, raramente si confrontano le promesse, e le paure dei cittadini, con la realtà del nostro sistema giudiziario. Tutti parlano di legalità e sicurezza, ma i dati oggettivi sembrano interessare solo a magistrati e professori. Un esempio? La recidiva: è il termine tecnico che descrive la ricaduta nel reato. Fotografa chi torna a delinquere dopo aver finito di scontare una precedente condanna. È un problema enorme: ogni mese dalle carceri italiane, secondo l’ultimo studio statistico del ministero della giustizia, escono dai duemila ai tremila ex detenuti. Tranne i casi eccezionali di ergastolo “ostativo”, ogni pena ha una durata massima: quasi tutti, prima o poi, tornano in libertà, anche i condannati per omicidi, violenze sessuali, maia e altri reati gravissimi. Ma quanti ex detenuti hanno cambiato vita? E quanti invece tornano al crimine? «Più del 70 per cento, purtroppo», risponde Francesco Cascini, pm antimafia a Roma ed ex numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). «Per avere cifre esatte, servono anni di studi statistici, ma trovare un dato generale, a livello nazionale, è semplice: basta interrogare il sistema informatico del Dap e chiedere, per ogni nuovo detenuto, se è già stato in carcere. L’ho fatto molte volte: le risposte affermative variano dal 70 all’80 per cento. Quindi parliamo di decine di migliaia di persone a rischio di recidiva. Questo significa che il nostro sistema penale non realizza la sua funzione di rieducazione, recupero, reinserimento nella vita civile, che sarebbe imposta dalla Costituzione. Dopo i famosi pacchetti sicurezza, abbiamo avuto punte di 70 mila detenuti, con carceri sovraffollate, invivibili; oggi, dopo le ripetute condanne dell’Italia per violazione dei diritti umani e le conseguenti misure legislative, abbiamo comunque più di 50 mila reclusi. Eppure quasi nessuno si chiede che fine fanno gli ex detenuti. Scontata la pena, cosa fa l’assassino? E il rapinatore di banche? E il pedofilo? Il carcere e i processi costano. Ma la recidiva ha costi sociali molto più alti». Il magistrato, dopo anni di antimafia in Calabria e Campania, è stato anche capo del Dipartimento della giustizia minorile, che segue logiche rieducative: la reclusione è un’eccezione per i casi più gravi, la regola è un percorso di formazione, scuola, lavoro, recupero personale e familiare. «Per chi ha meno di 18 anni si parte dal presupposto, accettato, che il tempo della pena serve a ricostruire il futuro. Lo Stato e molti enti locali, ma anche la Chiesa e le associazioni offrono risorse: in media gestiamo circa 20 mila minori in esecuzione esterna, cioè fuori dal carcere. In certe zone d’Italia l’assenza di politiche per i giovani crea un paradosso: l’assistenza sociale arriva solo dopo l’arresto». E nell’umanitaria giustizia minorile qual è il tasso di recidiva? «La metà degli adulti: 30-35 per cento». Il mito della linea dura è incrinato anche dalle statistiche internazionali verificate dall’Istat. Le nazioni con il più alto numero di detenuti in rapporto alla popolazione, cioè le repubbliche baltiche e gran parte dei paesi dell’est, hanno tassi di omicidio molto superiori alla media europea: il rischio di morire ammazzati è da due a nove volte più alto che nell’Italia di oggi. Quindi più carcere non significa più sicurezza. Anzi, le manette facili sembrano aumentare la propensione alla violenza. I pensatori progressisti, da Beccaria a Turati, non avevano bisogno di statistiche per insegnare che un carcere disumano è una scuola di delinquenza. Chi entra spacciatore ne esce narcotrafficante, il ladro diventa rapinatore, il criminale comune è reclutato dalla maia. Oggi l’unico grande penitenziario per adulti dove la rieducazione non è una favola è Milano-Bollate: una struttura moderna, inaugurata nel 2000, con più di mille detenuti inseriti in programmi di formazione e lavoro anche esterno. Un mese fa due autorevoli studiosi, Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, hanno pubblicato la prima ricerca scientifica sui detenuti trasferiti da altre prigioni a Bollate: il risultato più vistoso è che, per ogni anno trascorso in questo carcere più umano, la recidiva crolla del 10 per cento. Questo significa che, in 18 anni di attività, il modello Bollate ha evitato all’Italia migliaia di gravi reati. Meno omicidi, più paure In questi anni molti leader politici hanno parlato di giustizia per attaccare indagini, arresti e sentenze di condanna, se coinvolgono la classe dirigente o personaggi famosi. In realtà proprio nel sistema penale c’è il settore che funziona meglio e ottiene risultati riconosciuti e studiati anche all’estero: la lotta alla criminalità. In Italia i reati più gravi sono in continuo calo (vedi tabelle). Gli omicidi sono al minimo storico: come dimostrano 150 anni di statistiche pubblicate dal professor Marzio Barbagli, dall’unità d’Italia ad oggi il rischio di morire ammazzati non è mai stato così basso. Tra il 1988 e il 1991 si contavano, in media, tre delitti al giorno. Il tasso di omicidi era quattro volte più alto di oggi. Anche le rapine sono in calo. Nell’ultimo decennio si sono quasi dimezzate, soprattutto le più gravi, come gli assalti a banche e uffici postale organizzati da bande armate. Nelle mappe della criminalità diffusa aumentano solo i furti in casa, senza violenza sulle persone (altrimenti diventano rapine), con una crescita continua fino al 2014 e un lieve calo successivo. Non sembra trattarsi di un effetto della crisi e nemmeno degli sbarchi di profughi al sud: i ladri colpiscono soprattutto nelle regioni del nord dove c’è meno disoccupazione, molte seconde case sfitte e abitazioni di famiglia che si svuotano perché tutti vanno a lavorare. Un altro problema che non ha soluzioni semplici è la crescita allarmante delle percentuali di femminicidi e delitti tra familiari e conoscenti. I giudici dei divorzi, a Milano, segnalano un parallelo «aumento impressionante della litigiosità e cattiveria nelle cause tra coniugi, che spesso strumentalizzano i figli». Stando ai dati, insomma, la sicurezza bisognerebbe imporla prima di tutto dentro le case. Fuori, la criminalità cala: magistrati, poliziotti, carabinieri e finanzieri hanno raggiunto risultati storici. A spiegare il crollo sono soprattutto le indagini antimafia. Nel 1990 nel sud dominato da cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta c’erano tassi di omicidio spaventosi: in Sicilia 8,2 delitti ogni centomila abitanti, in Calabria 15,1. La media nazionale oggi è precipitata a 0,66. Le regioni più a rischio restano (nell’ordine) Campania, Puglia, Sardegna e Calabria, ma il dato più negativo oggi è 1,42. Meno di un decimo del record di trent’anni fa. La lotta alla maia ha ridotto anche altri reati, dalle estorsioni ai morti per droga, mentre i sequestri di persona sono quasi scomparsi. Anche gli effetti delle indagini sono diversi. In media vengono arrestati oltre il 90 per cento degli assassini di familiari e il 70-80 per cento dei rapinatori che sparano e uccidono. Negli omicidi di mafia invece il tasso scende al 20 per cento (con punte massime di 30), quindi i killer restano liberi di commettere altri crimini. I maxi-processi alle organizzazioni mafiose, dunque, hanno un effetto moltiplicatore della sicurezza. Nonostante la riduzione oggettiva della criminalità violenta, tra gli italiani cresce da anni la paura, misurata dai sondaggi sulla percezione del rischio. La crescita non è lineare, ma altalenante: i dati dell’Istat fanno ipotizzare che la sensazione di insicurezza aumenti nei periodi di scontro politico, propaganda elettorale e martellamento mediatico. Rovesciando l’esempio, questa ipotesi si rafforza. Nella storia d’Italia, il tasso più allarmante di omicidi (esclusa ovviamente la seconda guerra mondiale) risale agli anni dell’affermazione della dittatura fascista. Oltre a incarcerare gli oppositori e abolire la libertà di pensiero, il regime censurava perfino la cronaca nera, per non smentire la retorica dello Stato forte. Il rischio di morire ammazzati era enormemente più elevato di oggi, ma nessuno poteva farlo percepire al popolo italiano. Il rovescio della medaglia è la prescrizione, che garantisce una sostanziale impunità per tutti i reati dei colletti bianchi: evasioni fiscali, scandali economici, disastri ambientali, morti sul lavoro, illeciti bancari e finanziari, truffe e corruzioni. Prescrizione significa che il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma sono scaduti i termini massimi di punibilità del colpevole, che in Italia sono bassissimi. Quindi per i ricchi e potenti le regole del diritto si rovesciano: chi sbaglia non paga. In media, ogni anno, vengono così annientati circa 130 mila processi penali. E ogni sentenza di prescrizione può cancellare decine di reati. Un privilegio italiano che si è aggravato dopo il 2005 (vedi tabella) con la legge “ex Cirielli” varata dal governo Berlusconi, poi in parte riformata dal centrosinistra con il ministro Orlando. Più di metà delle prescrizioni scattano già alla ine delle indagini: il processo muore prima di iniziare. L’anomalia più assurda (all’estero non esiste) è la prescrizione dichiarata nelle sentenze di tribunale, appello e cassazione: il processo si fa e dura anni, ma non si condanna nessuno. E tra i pochi colpevoli conclamati di reati da ricchi, rischiano il carcere solo i peggiori delinquenti: sotto il limite dei quattro anni di pena, l’ex incensurato resta fuori di galera, o torna subito libero, perché ha diritto di ottenere l’affidamento ai servizi sociali. Tribunali di classe Fra tante polemiche pubbliche sulla giustizia, i cambiamenti più profondi stanno passando sotto silenzio. Tra i 9.543 magistrati italiani, più di metà (5.061) sono donne. Tra i capi degli uffici dominano ancora i maschi, soprattutto ai livelli più alti, ma la quota femminile è in continua crescita. Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano (e prima a Reggio Calabria), evidenzia un altro cambiamento: «L’età media di ingresso nella magistratura, quando feci il concorso, era di 25 anni. Oggi, dopo la laurea, è obbligatoria una lunga formazione: i corsi privati costano, con tutti i problemi e rischi conseguenti, l’età media è salita a 31 anni e continua a crescere. Quindi nelle procure e tribunali non arrivano più i giovani, ma persone sposate, con figli. Questo incide sulla propensione al sacrificio, ad accettare carichi di lavoro straordinari, ma anche sulla composizione sociale della magistratura: quanti genitori di ceto medio-basso possono permettersi di far studiare i figli ino a 30 o 35 anni, in attesa di un concorso difficile, che non dà certezze di trovare lavoro?». Il pericolo di una giustizia classista, con buona pace del principio costituzionale di uguaglianza, è aggravato da altri fattori. Come una privatizzazione strisciante dei processi. Da sempre i ricchi possono pagare i migliori avvocati e consulenti. Ora interi settori legali, come i processi fiscali e le cause minori per valore (ma non per numero), sono affidati a toghe onorarie: giudici privati, non magistrati con garanzie di indipendenza da ogni altro potere. Tempi infiniti, ma al Sud Nella giustizia amministrativa, gli attacchi politici si concentrano sui Tar, i tribunali regionali di primo grado. Un grande esperto come l’avvocato Stefano Nespor non condivide le critiche: «Il sistema dei Tar funziona molto meglio della giustizia ordinaria quasi in tutta Italia. Le cause vengono sempre decise da un collegio e la durata è ridotta: da uno a cinque mesi per le sospensioni cautelari, circa tre anni per le sentenze definitive. E mediamente i giudici dei Tar sono preparati, perché devono superare un concorso di secondo grado: possono farlo solo magistrati o funzionari di grande esperienza, che conoscono bene le regole della pubblica amministrazione». Molto amato dai governi è invece il Consiglio di Stato, che decide in secondo e ultimo grado. Una parte di questi giudici supremi sono nominati dal potere politico. E molti diventano ministri, super-burocrati o consulenti dei governi. Ma anche arbitri di cause private con parcelle milionarie pagate dai colossi degli appalti. Con prevedibili rischi di collusioni e corruzioni: le procure di Roma, Messina e Milano indagano da mesi su sentenze vendute e altri inquinamenti giudiziari. Un disastro notorio è la giustizia civile, che è lentissima, zavorrata da quattro milioni di cause arretrate e avrebbe bisogno di una riforma generale, strutturale, mai tentata da nessun governo. L’inefficienza aggrava il divario economico tra regioni: al sud le cause durano il doppio o il triplo che al nord. Messina ha il primato negativo: 1.806 giorni per ottenere una sentenza di primo grado. L’emergenza più incivile è il recupero crediti: vinto il processo, bisogna farsi pagare. Ma per incassare il ricavato della vendita giudiziaria di un immobile ipotecato, il creditore italiano può aspettare più di otto anni (vedi tabelle). E se il debitore manda la sua società in fallimento, al sud l’attesa supera il decennio. Un paradossale incentivo a ignorare il diritto e applicare la legge del più forte.

“In Italia si lavora il 20 per cento in più rispetto alla Germania (1.725 ore, pro capite contro 1.371), ma si produce il 20 per cento in meno e si guadagna molto meno dei tedeschi”
l’espresso 3.6.18
Il futuro dell’occupazione
Lavorare meno lavorare tutti
Distribuire i posti riducendo gli orari. Di fronte ai cambiamenti tecnologici è l’unica strada. Ma l’Italia fa il contrario
di Gloria Riva


Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo»: è il 1930, John Maynard Keynes si trova a Madrid per esporre il suo trattato sulle “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. I nipoti in questione oggi sono i giovani che entreranno nel mercato del lavoro tra dodici anni, cioè nel 2030, e il problema fondamentale è la disoccupazione, che con l’aumento della tecnologia sta contribuendo a ridurre drasticamente la richiesta di forza lavoro, già massacrata dalle crisi del 2008 e 2013. Basterà una redistribuzione dell’orario per riconquistare l’eden della piena occupazione? Intorno a questo interrogativo ruota l’interesse oggi si molti studiosi. Tra loro anche il sociologo Domenico De Masi, che il 5 giugno esce nelle librerie con “Il lavoro nel XXI secolo”, edito da Giulio Einaudi: un tomo gigantesco e riassuntivo di tutto il pensiero critico dell’ottantenne professore. Ripercorre il significato e il valore del Lavoro da Adamo ai giorni nostri e conclude con una proiezione - non troppo catastrofica - sul futuro. In Italia il tema è di grandissima attualità, perché nonostante la massiccia riforma del Jobs Act, la disoccupazione resta all’11 per cento, così come rimane alta la percezione di instabilità da parte dei cittadini e i salari continuano a restare al palo. E pensare che, alla fine degli anni Novanta, gli italiani avevano redditi allineati con quelli degli inglesi, mentre oggi sono stati superati persino dagli spagnoli che dieci anni fa non erano neppure in gara. E non è un caso se l’idea dei Cinque Stelle di istituire un reddito di cittadinanza ha conquistato gran parte del Sud Italia, dove il lavoro continua a essere l’eterno assente. Nel suo libro, prima di entrare a capofitto nel groviglio italiano, De Masi si sofferma sulla prospettiva di lungo termine: «Siamo presi dal pessimismo perché il progresso tecnologico elimina più manodopera di quanta riusciamo a riassorbirne. Quelli di cui soffriamo sono disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi. In pochissimi anni le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero sono state realizzabili con un quarto di quell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi. E quella curva non si è ancora conclusa, continuerà a crescere molto velocemente, riducendo la domanda di lavoro», spiega il professore, che invita a guardare oltre all’atrocità dell’assenza occupazionale, ben simboleggiata dal caso di un operaio sessantunenne milanese che la settimana scorsa è stato licenziato da un’azienda di Melzo perché è stata acquistata una macchina che svolge automaticamente il lavoro a cui lui, per trent’anni, era stato assegnato. Così dice la lettera di licenziamento. «Per riconquistare l’eden, Keynes sostiene che occorre sostituire la perizia nel lavoro con la perizia nella vita», dice De Masi. «La trasformazione avverrà gradualmente. In una prima tappa, di natura organizzativa, durante la quale il lavoro diminuirà drasticamente senza ancora scomparire del tutto, occorrerà ridistribuirne il residuo in modo che ognuno possa essere occupato sia pure per un tempo minimo». Ma De Masi non è ovviamente l’unico studioso ad approfondire il tema. L’economista Carlo Dell’Aringa ha mandato alle stampe due settimane fa il dossier “L’Esplosione dei lavori temporanei: fattori ciclici o strutturali?” pubblicato da Arel, Agenzia di ricerca e legislazione. Vi si scopre che in Italia in dieci anni si è verificata una riduzione delle ore di lavoro di circa il 15 per cento, ma il numero di persone che risultano occupate è lo stesso. Cos’è successo? Probabilmente nulla di buono: le persone lavorano meno ore non per scelta ma per necessità, perché trovano solo occupazioni non piene, stagionali, “liquide”. Eppure una riduzione della quantità di lavoro pro capite, di per sé, non sarebbe un fattore negativo, se però avvenisse in un quadro di redistribuzione del lavoro controllata, cogestita e sostenuta dal welfare. De Masi ad esempio cita l’accordo fra sindacato e imprenditori tedeschi per consentire ai metalmeccanici con esigenze famigliari di ridurre l’orario a 28 ore settimanali, pur mantenendo i livelli salariali. «Indurre gli uomini, che sono la maggioranza dei metalmeccanici, a occuparsi maggiormente della famiglia è sintomo di intelligenza, serve a equilibrare l’enorme divario tra donne, che si fanno carico di quasi tutto, e uomini». De Masi fa anche notare che in Italia si lavora il 20 per cento in più rispetto alla Germania (1.725 ore, pro capite contro 1.371), ma si produce il 20 per cento in meno e si guadagna molto meno dei tedeschi. Lì sta il problema: «Il sindacato non è stato in grado di guardare lontano, non ha mai chiesto una riduzione dell’orario di lavoro a fronte di un’incapacità decennale di aumentare la produttività che deriva dalla mancanza di tecnologia e scarsa organizzazione del lavoro, provocata dall’assenza di manager e di imprenditoria competente». Ma il modello tedesco sarebbe difficile da applicare in Italia, fa notare Dell’Aringa: «L’esempio della Germania va letto alla luce della flessibilità che è ben gestibile nelle imprese di grandi dimensioni, mentre nelle piccole si rischia di incappare in gravi problemi di direzione. Pensiamo alla tipica impresa italiana, che ha meno di 15 dipendenti: la riduzione d’orario di un dipendente finirebbe sulle spalle dei colleghi, a meno che non vi sia una seria pianificazione dei compiti e una gestione manageriale, che spesso manca». Di più. Da tempo imprenditori e sindacalisti italiani, con il benestare e il finanziamento degli ultimi quattro governi, hanno puntato molto sulla detassazione del lavoro straordinario, rendendolo la normalità, specialmente nel ricco Nord, dove si lavora anche 55 ore la settimana. E così succede che l’impresa, invece di prendere in considerazione una nuova assunzione, chiede ai dipendenti che già ha uno sforzo extra. Che tra l’altro è inversamente proporzionale alla produttività, perché più aumentano le ore di lavoro, minore è l’efficienza. Insomma avviene esattamente il contrario del modello a cui si dovrebbe puntare: chi ha un’occupazione lavora troppo, chi è disoccupato resta fuori. «Se nella grande industria il super utilizzo del lavoro straordinario è arginabile per l’elevata presenza sindacale, il fenomeno è esploso nelle piccole imprese con gravi fenomeni di elusione. Capita che la voce “altri rimborsi” nasconda centinaia di ore passate in officina, per altro non soggette a tassazione», dice Luca Nieri, sindacalista della Fim Cisl di Bergamo. C’è poi un’altra forma di lavoro straordinario tutta italiana: «Il vezzo di manager e quadri di restare in ufficio ben oltre l’orario stabilito, regalando ore agli azionisti. Mai in un paese protestante accadrebbe una cosa simile, mentre da noi si cerca un’espiazione del senso di colpa insito nella cultura cristiana, dimostrando al datore di lavoro l’attaccamento e il concetto del dovere, nonché la disaffezione alla famiglia. Non a caso le donne, che in Italia si fanno carico delle questioni domestiche, lasciano l’ufficio prima dei colleghi maschi e, tendenzialmente, fanno meno carriera», incalza De Masi, che ha calcolato: «Oltre due milioni di persone dedicano due ore extra al giorno all’ufficio. Fanno quattro milioni di ore, sufficienti per creare 500 mila nuovi posti». Eppure spesso lo straordinario è un modo per rispondere al problema dei bassi salari, che è una variabile legata alla scarsa produttività, ferma da vent’anni: «La produttività non cresce, le imprese non riescono a generare ricchezza aggiuntiva e i salari restano invariati», dice Dell’Aringa. «L’Italia, anche per colpa del debito pubblico accumulato, non ha investito. Lo ha fatto solo il 20 per cento dell’industria manifatturiera, che ha compiuto il grande balzo, cogliendo la sida della globalizzazione e dell’export, facendo crescere produttività e salari. Nelle altre imprese, invece, la gente continua a lavorare esattamente come 25 anni fa». Per invertire la tendenza, bisognerebbe proseguire sull’incentivazione di Industria 4.0, puntare sulla formazione di competenze, mettendo più risorse su scuola, università e riformando da capo a piedi la giustizia e la pubblica amministrazione. «Ma non mi pare che queste siano priorità in questo momento», dice l’economista. Il gap salariale secondo De Masi, andrebbe anche affrontato tassando le rendite finanziarie, così da ridurre la forbice sempre più ampia fra ricchi e poveri: «Nel 2007 dieci famiglie possedevano la stessa ricchezza di 3,5 milioni di poveri, oggi quei pochi ricchi hanno la stessa ricchezza di sei milioni di poveri». Usando un altro paragone, «Adriano Olivetti diceva che nessun dirigente doveva prendere più di dieci volte rispetto al salario più basso della sua impresa, mentre oggi ci sono top manager che prendono mille volte di più rispetto ai loro dipendenti». C’è poi un’altra variabile da considerare: la globalizzazione. L’economista ed esponente di Leu Stefano Fassina e il professore di Economia Politica all’Università Tor Vergata Leonardo Becchetti concordano nel sostenere che la direzione di una riduzione dell’orario sarebbe auspicabile, se solo si potesse contrastare il dumping salariale prove niente dalle dinamiche dei mercati globali attuali. Fassina invoca una totale revisione degli accordi europei: «L’eccesso di liberismo, incarnato in questo caso nella direttiva Bolkestein che ha favorito la libera circolazione dei servizi, ha spinto a una corsa al ribasso sui costi. Succede con le delocalizzazioni nei paesi dell’Est dei call center, l’incursione di trasportatori stranieri nei magazzini nostrani e, recentemente, le guide turistiche stanno sul piede di guerra perché subiscono la concorrenza a basso costo degli stranieri, che s’accontentano di tariffe più basse. Serve una revisione delle direttive europee perché la svalutazione del lavoro non è più sostenibile». Becchetti va oltre, sostenendo che la grande sida sia l’inversione alla corsa al ribasso: «Bisogna lavorare dal lato della domanda del consumatore, dello Stato e sulla fiscalità. Creando ad esempio un sistema di rating sociale, simile a quello dell’impronta di carbonio per l’inquinamento ambientale. Un esempio potrebbe essere l’acquisto di un prodotto al supermercato, dove un’indicazione precisa dei livelli di sfruttamento convincerebbe molti ad acquistare quello più socialmente etico. E lo Stato dovrebbe evitare di adottare la politica del massimo ribasso nelle gare d’appalto, ma esigere adeguatezza sociale e salariale dai fornitori; infine istituire una riforma dell’Iva che premia le filiere sostenibili con una tassazione al 10 per cento e punisce le altre, portandola al 30 per cento». Al 2030 non manca molto, ma l’Italia non sembra ancora pronta a governare il cambiamento e pensare a una riduzione delle ore di lavoro. Al contrario, chi ha un lavoro soffre per l’insufficienza del tempo libero, mentre chi non ha un lavoro soffre per assenza di reddito. E, senza un radicale cambiamento, i futuri giovani degli anni ‘30 rischiano di non avere alternative a questa tenaglia.

l’espresso 3.6.18
Le idee
Leonardo d’Arabia
Come un quadro mette in discussione il tabù islamico delle immagini
di Angiola Codacci-Pisanelli


Alcune cose sul mondo arabo le sappiamo tutti. Sappiamo tutti per esempio che l’Islam vieta di riprodurre la figura umana. Ma allora come si spiega che un principe della penisola araba spenda 450 milioni di dollari per comprare un quadro che rappresenta Gesù? Quel Gesù che è anche per l’Islam un profeta importante, anche se meno importante di Maometto, e quindi ancora più protetto dal famoso divieto di rappresentazione? Eppure abbiamo tutti presente le immagini dei Buddha di Bamiyam, in Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001. E conosciamo bene il terribile “effetto farfalla” scatenato dalle vignette danesi su Maometto: nel 2005 a Copenhagen un giornale pubblica delle vignette satiriche, e nei mesi seguenti questo scatena violente manifestazioni in tutto il mondo, finché nel 2006 un sacerdote italiano viene ucciso in Turchia. Qualcuno ricorderà anche “Il mio nome è rosso”, il giallo che lanciò la carriera di Orhan Pamuk, portandolo dalle vette delle classifiche di vendita di tutto il mondo al Premio Nobel per la Letteratura, nel 2006: lo stesso anno delle manifestazioni contro le vignette. La trama di “Il mio nome è rosso” riguarda proprio la proibizione della figura umana. Il libro è ambientato a Istanbul alla fine del Cinquecento, e parte dall’uccisione di un miniaturista per raccontare lo scontro tra la tradizione ottomana – che, appunto, vietava di riprodurre essere viventi – e l’ammirazione per i dipinti dei pittori del Rinascimento veneziano, ricchi di figure umane. Ma come mai non creano problemi le campagne pubblicitarie con fotomodelle, a meno che non siano troppo poco vestite rispetto al “comune senso del pudore” locale – come è successo a Gisele Bündchen qualche anno fa? E se il divieto riguarda soprattutto Allah e i profeti, come si spiega l’investimento record saudita per il “Salvator Mundi”? Dopo pochi giorni di suspense, si è saputo che il misterioso acquirente del quadro attribuito a Leonardo da Vinci era un parente e stretto collaboratore di Salman bin Mohammed Al Saud, il principe ereditario e leader di fatto dell’Arabia Saudita che da qualche mese ha lanciato un percorso di riforme “filo-occidentali”, dalla revoca del divieto di guidare per le donne alla riapertura dei cinema. Le prime reazioni allo spettacolare acquisto sono state maligne: ah vedi, in pubblico le immagini sono vietate, ma se ti appendi un Leonardo in salotto non c’è problema. Come succede per le donne arabe che spesso fuori casa, volenti o nolenti, indossano il velo – hijab, niqab o burqa – ma poi sono (o almeno così si dice in Occidente) grandi acquirenti di vestiti discinti e di biancheria sexy. Questo doppio standard di comportamento, normale per gli arabi, è invece un nervo scoperto nel rapporto tra il mondo islamico e quello cristiano: che è illuminato dall’idea che “Dio ti vede” e che un bravo credente “non ha niente da nascondere”. Niente di più diverso, del resto, tra le mura ininterrotte che custodiscono la privacy della casa araba tradizionale e le grandi finestre senza tende che permettono a ogni passante di curiosare negli appartamenti tipici di molti paesi protestanti. La malignità intorno al quadro comunque ha avuto vita breve: si è saputo presto che era stato comprato per essere esposto nel Louvre di Abu Dhabi, da dove presto farà concorrenza alla Gioconda del Louvre parigino. Ma il dubbio è rimasto: le immagini di esseri viventi nel mondo islamico sono vietate o no? Come succede spesso quando si parla di arabi, la risposta è complessa. E richiede due movimenti paralleli: allargare il campo e ritornare indietro nel tempo. Il punto di partenza è il libro che unisce le tre religioni monoteiste, la Bibbia. Lì il divieto c’è, ed è scritto molto chiaramente. «Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù ne’ cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra», si legge nel libro dell’Esodo. E continua: «Non ti prostrare dinanzi a tali cose». Il divieto biblico è direttamente legato al rischio di idolatria: senza immagini di esseri viventi, non c’è il rischio che qualcuno finisca per venerare il vitello d’oro. Nel mondo ebraico il divieto è ancora rispettato, tra i cristiani, invece, è caduto presto in disuso. E per lungo tempo affreschi e dipinti all’interno delle chiese, con le loro storie di vite dei santi, hanno avuto una funzione di “catechismo per immagini” rivolto a fedeli quasi sempre analfabeti - mentre ebraismo e Islam hanno in comune i luoghi di culto senza immagini e lo studio diretto dei testi sacri. L’iconoclastia, cioè la “crociata” per la distruzione delle immagini, nasce a Costantinopoli nell’VIII secolo proprio in risposta all’Islam, che per colpa delle immagini sacre accusava i cristiani di idolatria. E un’altra forma meno famosa di iconoclastia è nata con la riforma protestante: da Calvino in poi, le chiese di chi rompeva i ponti con Roma erano caratterizzate dall’assenza di figure sacre, scolpite o dipinte: una caratteristica che dura ancora oggi. Ma torniamo all’Islam. Come scrive François Boesplug ne “La caricatura e il sacro” (Vita e Pensiero), «il Corano non vieta esplicitamente le immagini di Dio, né le immagini divieto». È in base a questi testi, meno importanti del Corano, che alcune frange di musulmani considerano proibite le immagini di esseri viventi. E poiché tra i più focosi fautori del divieto ci sono vari gruppi terroristi, l’investimento del principe saudita per il Salvatore leonardesco mostra un chiaro messaggio politico: è un modo per provare la vicinanza ai valori occidentali da parte di un paese, l’Arabia Saudita, che avendo dato i natali a Osama Bin Laden e a 15 dei 19 terroristi morti negli attentati dell’11 settembre ha continuamente bisogno di rassicurare l’Occidente da questo punto di vista. Il divieto è più sentito nell’Islam sunnita che tra gli sciiti. Questo spiega le famose rappresentazioni di Maometto in miniature persiane del XVI secolo e anche l’uso propagandistico delle immagini di capi religiosi che si è diffuso in Iran dopo la rivoluzione khomeinista. Quest’ultimo aspetto ci porta a parlare di fotografie e video. Circa un secolo fa una raccolta di “fatwa” dell’università di Al Ahzar stabilì che foto e video sono ammessi perché derivano da un procedimento meccanico, privo di volontà creatrice: «Le fotografie sono come immagini rilesse in uno specchio e i video sono riproduzioni di “ombre imprigionate”». Di certo, lo scarso uso di figure umane ha portato l’arte islamica a perfezionare magnifici giochi astratti, che si sono sviluppati in parallelo alla matematica e alla geometria. E dalla geometria all’arte astratta il passo è breve. Anche oggi molti famosi artisti contemporanei che vengono da un ambiente islamico giocano con l’astratto e con la figura umana. Pensiamo alla pakistana Shahzia Sikander, nelle sue opere il disegno geometrico e le figure umane si fondono, e prendono nuova vita grazie a tecnologie usate per realizzare cartoni animati e videogame. Si arriva così ad animazioni ipnotiche dove frammenti di figure spiccano il volo seguendo le progressioni matematiche che regolano il disegno degli stormi di uccelli nel cielo o la dispersione di particelle solide nel corso di un fiume. Il risultato sono immagini insieme figurative e astratte, umane e immaginarie. E che affascinano allo stesso modo l’occhio orientale e quello occidentale.

l’espresso 3.6.18
Grandi incontri
Cultura
colloquio con Andrea Camilleri
Quello che vedo
La cecità dà libertà, dice lo scrittore siciliano. Che qui parla di teatro, di affetti, di politica. Del gusto di far risuonare le parole nel buio. Come Tiresia
Di Roberto Andò


Tiresia è una figura che mi ha sempre affascinato e che ho coltivato nel tempo. Ricordo il piacere che ho provato quando ho letto la prima volta “La terra desolata” di Eliot. Fino ad allora di Tiresia avevo un ricordo non proprio glorioso, in teatro lo avevo visto interpretare da Annibale Ninchi, indubbiamente un grande attore, ma la sua recitazione era orientata a sopraffare il personaggio di Edipo, e mi sembrò persino ampollosa. Ricordo che, tornato a casa, presi il testo, lo lessi e fu allora che pensai che il personaggio avrebbe meritato un tono più dimesso. Proprio quello che ha fatto Eliot nel suo poema».
Andrea Camilleri, partiamo dunque da Tiresia. Quando hai incontrato per la prima volta questo personaggio?
«Quando diventa a tutti gli effetti personaggio, cioè leggendo Sofocle, l’Edipo Re».
Perché lo hai scelto come tuo eroe?
«L’idea di raccontare e impersonare Tiresia, a parte la recente parentela di cecità, nasce proprio dalla voglia di pronunziare certe parole nel buio, la voglia di far risuonare il suono delle parole di Tiresia, e anche i versi di Eliot, nel buio della cecità. Nel mio testo c’è un momento in cui cito Borges e dico che le parole di Sofocle ascoltate nel buio della cecità acquistano il suono della verità assoluta. Insomma, ho scelto Tiresia d’impeto. Quando mi è stato chiesto che personaggio avrei voluto fare a Siracusa, me lo sono subito sentito dentro, forse perché al punto in cui sono arrivato mi piacerebbe avere una idea più precisa dell’eternità. A 93 anni, hai certezza del fatto che l’eternità ti stia venendo incontro, qualunque essa sia, e qualunque forma essa abbia».
Com’è cambiata la tua vita da quando non vedi più?
 «Primo Levi dice che riuscì a salvarsi dall’orrenda metamorfosi a non-uomo vissuta ad Auschwitz con la poesia. Io mi sono salvato con la scrittura. Pensavo di non poter più scrivere. Come fa un cieco a scrivere? Avrei potuto dettare, ma l’avrei dovuto fare in una lingua che non è esattamente la mia, cioè l’italiano. E non avrei più potuto scrivere i miei bei Montalbano in vigatese. Fortunatamente è intervenuta Valentina Alferj. I sedici anni vissuti accanto a me hanno fatto sì che potesse aiutarmi. Negli ultimi tempi, padroneggiando perfettamente la mia lingua, Valentina era in grado di correggere le bozze per conto mio e dunque al momento cruciale è stata la mia ancora di salvezza. Certo, la mia vita è mutata perché sto imparando una cosa abbastanza complicata, ma impararla a 93 anni non è così difficile per me, perché nella mia vita io non sono mai stato un uomo superbo, mai. È una colpa che non potrà mai essermi imputata. Da quando sono cieco sto imparando l’umiltà della dipendenza dagli altri. Gli altri erano già importantissimi per me, ma ora hanno acquisito una importanza che non è valutabile. Sono completamente dipendente dalla cortesia e dalla gentilezza di chi mi circonda. Mi sono dovuto abituare a tutto questo. Ma questa lezione di umiltà è stata comunque salutare, e l’ho accettata di buon grado».
Pensi che la cecità abbia influenzato la tua scrittura?
«No, credo di no. Forse mi ha fatto più riflessivo, o leggermente meno impetuoso. Insomma, oggi mi concedo uno spazio maggiore di riflessione». Un illustre critico letterario, Silvano Nigro, sostiene che negli ultimi Montalbano tu cerchi di liberarti del romanzo giallo per approdare al romanzo tout court. Sei d’accordo? «Se questo è vero, è dovuto a un piano. Gli ultimi Montalbano hanno la stessa scrittura dei miei romanzi storici, mentre prima si differenziavano. La scrittura dei Montalbano, sia pure in vigatese, era molto semplificata. Ora sono riuscito a non fare più distinzioni tra un romanzo storico, scritto rigorosamente, e i Montalbano, nei quali concedevo qualcosa anche alla casalinga di Voghera. Non ho più bisogno di questo, i due linguaggi possono essere uno solo». Resta il fatto che tu sei uno scrittore per molti versi inclassificabile. Sei un grandissimo, amatissimo, scrittore di romanzi gialli ma scrivi anche romanzi che hanno un tono completamente diverso. In alcuni sembri metterti in ascolto del male, con risonanze dostoevskiane.
«Sì, ma direi che questo ascolto c’è sempre stato nei miei romanzi, anche in Montalbano. È la cosa che mi interessa di più. Da sempre. Negli altri a cui ti riferisci sondo un male che si può definire assoluto. Io sono stato un appassionato lettore di Bernanos, del suo “Mouchette” ».
Come classificheresti il male in “Mouchette”?
«Ecco, se c’è una influenza che rivendico è Bernanos».
Torniamo a Borges. Nel testo su Tiresia citi una sua frase: “Noi tutti siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo”.
«Sì, è un concetto che aveva già espresso in vario modo Shakespeare. Il mondo è un palcoscenico, il teatro è una metafora della vita».
E il teatro è al centro del tuo ultimo Montalbano, “Il metodo Catalanotti”. Il teatro sembra tornare nella tua scrittura come il luogo in cui rimettere tutto insieme. Questo accade sia nel testo su Tiresia, dove tu confondi ulteriormente le carte assumendo un triplice ruolo, d’attore, di persona e personaggio, sia nell’ultimo Montalbano, il cui sfondo è ambientato nel mondo del teatro d’avanguardia. Come mai?
«È un po’ come quelle fiamme che cerchi in tutti i modi di tenere a bada, ma che all’improvviso, a sorpresa, fanno una gran vampata. Se tu guardi la mia bibliografia, ti rendi conto che tra il primo romanzo e il secondo sono passati otto anni. Sono otto anni di silenzio totale. E sono quelli in cui cerco di dare l’addio al teatro. Perché il teatro è la mia vita. Da quando ho cominciato a fare teatro non sono più stato in grado di scrivere un rigo, neppure una poesia, un miserabile sonetto di quattordici versi. Non ci riuscivo più, il teatro mi aveva completamente permeato. Sono vissuto per il teatro, ho cercato di liberarmene, e ora sembra essere venuto il tempo di tornarci con libertà». Cosa ti piaceva di più del teatro: il rapporto con gli attori? O con il testo?
«Mi piaceva vedere una mia idea di personaggio trasformata in carne e ossa. L’ho provato sommamente quando ho messo in scena “Finale di partita” di Beckett, dove non c’è movimento se non nella parola, è un lavoro sulla parola ridotta all’essenziale. Per me la parola è l’uomo. Spesso quando scrivo romanzi e deve entrare un personaggio nuovo non lo descrivo, lo faccio parlare. Mi chiedo: questo come parla? Una volta individuato il suo modo di parlare, ricavo il suo aspetto fisico dalle parole. Se parla così, non può che avere dei baffetti piccolini alla Hitler e dev’essere anche un pochino claudicante, capito?».
Perfettamente. Mi colpisce che tu citi Beckett e la tua regia di “Finale di partita” perché quando ho letto “Conversazione su Tiresia” l’ho visto un po’ come “L’ultimo nastro di Krapp”, lo stesso rapporto con la memoria, la stessa volontà di raccogliere frammenti di memoria esplosa.
«È vero, ho fatto una sorta di “potage”».
Pensi che la vecchiaia sia anche umiliazione? Vedendo te non lo si penserebbe mai, anzi, si penserebbe il contrario.
«È il procedimento con cui se irrighi regolarmente un albero di arance lo preservi dalla morte, ecco, la mia irrigazione vitale è la memoria. Leonardo Sciascia diceva che da vecchi si è condannati alla presbiopia della memoria, cioè ti ricordi di un fatto che è accaduto quando avevi quattro anni e ti dimentichi di quello che hai mangiato il giorno prima. Ebbene, questa presbiopia è diventata vivissima in me. Per esempio, in questi ultimi giorni ho dialogato moltissimo con il mio nonno paterno. E dire che mi ero persino scordato come era fatto. Ora mi è tornato preciso, e mi è tornato anche il gioco che mi faceva fare. Poiché è morto quando io avevo appena compiuto tre anni, questa è una memoria di novant’anni fa. L’immagine è questa. Lui è malato, seduto su una poltrona accanto al letto, di fronte all’armoir con lo specchio. Io sono seduto sulle sue ginocchia, e lui mi dice: «Nenè, taliati ’u specchio». Io rispondo: «Nonno, ci sono». E lui, di colpo, mi butta fuori dallo specchio. «E ora?», chiede. «Non ci sono più, nonno», rispondo. E, di slancio, torno a riflettermi nello specchio. Questo gioco mi è tornato lucidissimo in questi giorni. Ecco, questa irrigazione continua mi tiene vivo, e produce ancora qualche frutto sull’albero».
Ti dispiace descrivermi la tua giornata?
«Posso dirti che per ora è buona. Comincia in bagno, e per tutto quello che sono i lavacri mattutini sono completamente autonomo. Basta che non mi spostino gli oggetti e riesco a farcela da solo. E finalmente respiro, perché mi devi credere, Roberto, ti dico la verità assoluta, io mi sono sempre odiato. Vedere questa faccia da imbecille ogni mattina allo specchio, essere costretto a guardarsi e a fare le smorfie, mi pesava. Io mi sono odiato da sempre, e ora finalmente non mi vedo più. Ah, che meraviglia! Sì, vado un po’ alla cieca, mi faccio qualche taglietto in più, pazienza. Quando sono vestito di tutto punto, me ne vengo qui, allo studio. Prima, quando ancora vedevo, mi mettevo immediatamente a lavorare al computer. Ora è un po’ diverso, resto un po’ da solo a riflettere. Valentina deve accudire alle sue faccende domestiche, poverina, e quindi arriva intorno alle dieci. In quell’ora in cui la aspetto rifletto su quello che dovrò dettarle. Quando arriva lavoriamo sino all’una meno dieci. Poi vado a mangiare, e, dopo, a riposarmi, un’abitudine che in questi ultimi anni è diventata obbligatoria. Mi alzo verso le tre e mezzo, e, nel pomeriggio, viene una ragazza, non sempre è la stessa, che mi fa da lettrice, o mi aiuta a fare le mie ricerche. Con lei lavoro sino alle sei e mezza, a quel punto stacco e sento un po’ di musica alla radio. Alle sette mi trasferisco nell’altro appartamento e con mia moglie guardiamo il telegiornale, poi ceniamo, e verso le undici e mezzo andiamo a letto. Questa è la mia giornata tipo. Ah, dimenticavo di dire che nel pomeriggio mi faccio anche leggere un po’ della posta che arriva. Se qualcuno mi manda un libro di poesie, dico alla ragazza di leggermene qualcuna, e se è il caso le dico di mettermelo da parte, oppure le dico che può toglierlo dai piedi. Aggiungo che nel pomeriggio sono continuamente interrotto da figlie, nipoti e pronipoti. Queste interruzioni non mi dispiacciono, perché io sono stato capace di scrivere al computer avendo due bambini di tre anni sotto il tavolo che mi davano pedate, urlavano e cantavano, e un altro che girettava per la stanza. Ecco, questo casino più che dispiacermi mi piace, perché ho sempre avuto bisogno di sentire la vita attorno a me, non ho mai capito il poeta che si chiude nella turris eburnea. Cosa ci stai a fare nella tomba? Così è accaduto che un giorno mia moglie entrasse nello studio e vedendo un macello di bambini, e io che continuavo tranquillo a scrivere, mi dicesse: «Tu non sei uno scrittore Andre’, sei un corrispondente di guerra!».
Nel testo su Tiresia accenni a certe discussioni avute con Pasolini. Di cosa si trattava?
«È una storia terribile. Ero stato incaricato di mettere in scena il suo “Pilade”. E siccome ero molto amico di Laura Betti, le chiesi di procurami un incontro con Pier Paolo per parlargli della mia idea di regia. Ci incontrammo e ne discutemmo, lui si trovò sostanzialmente d’accordo. Al terzo incontro lui mi chiede: «E gli attori chi sono?». Dico: «Cercherò di prendere dei ragazzi usciti dall’accademia, quelli che sono stati miei allievi». «Eh, no», fa lui. «Non mi fare un Pilade che parla perfettamente italiano». «Perché, tu come l’hai scritto?», gli chiedo. «In italiano», risponde. «Ma le voci educate non mi piacciono, prendi dei ragazzi di strada». «No», dico io, «con i ragazzi di strada questo testo non posso farlo». Insomma, ci accalorammo, tanto che io gli chiesi di rivederci, pensavo che questa cosa tra noi due andasse chiarita. Lui mi rispose che stava per fare un viaggio e che al ritorno mi avrebbe chiamato. Io andai a Bagnolo con mia moglie, e quando una sera accesi il televisore sentii la prima notizia del telegiornale: era l’assassinio di Pier Paolo. Fu tremendo. Dopo, mi rifiutai di mettere in scena Pilade. Non potevo più».
Come ti arriva, ora, il rumore di tutto quello che sta accadendo dal punto di vista politico in Italia? «Purtroppo non mi arriva ovattato. Gradirei che mi arrivasse attutito, invece arriva molto forte. E soprattutto colpisce la mia impotenza, perché in altri tempi avrei scritto degli articoli, ora non posso più, non me la sento. È il motivo per cui intervengo raramente nelle trasmissioni televisive. Non vado mai in studio, non sopporto l’accavallarsi delle voci. Non vedendo, le urla mi confondono». Per te che sei uno scrittore che da sempre dialoga con Pirandello - un Pirandello imparentato a Gogol - dovrebbe essere particolarmente interessante questo momento di finzioni, in cui la politica cerca di purificarsi ma sembra essere allo stesso tempo pura finzione. In Sicilia persino l’antimafia, per fortuna non tutta, è diventata finzione, e in campo nazionale la politica del nuovo spesso nasconde un forte tasso d’impostura. Come la vedi tu?
«Malissimo. Ho sempre pensato che la politica dovrebbe essere uno specchio lucidissimo. Sono stato abituato male, perché tutto si poteva dire degli uomini di Stato con i quali sono nato alla politica - si chiamavano Einaudi, De Gasperi, Togliatti, Sforza - ma pensando a loro oggi mi commuovo. Quando l’Italia nella persona di De Gasperi venne chiamata a Parigi a discolparsi davanti ai vincitori e a dire quale sarebbero stati i propositi dell’Italia democratica, lui sapeva che si sarebbe trovato in quel teatro, da sconfitto, davanti ad americani, inglesi, russi, francesi, neozelandesi. La sera prima, nella sua stanza - questo lo ha raccontato Vittorio Gorresio - c’erano con lui Togliatti, Nenni, Sforza, Parri, tutti a verificare il documento che avrebbe letto e a dire «senti, che dici?, sostituiamo questa parola, scriviamo così», in un clima cioè di totale collaborazione. Ecco, questa è l’Italia. Pensa che al momento di andare sul palco, Sforza disse a De Gasperi «Alcide, cambiati la giacca, questa è un po’ lisa», e lui rispose «Ma io non ne ho altre». Allora Sforza gli si mise accanto, vide che erano su per giù della stessa taglia, si levò la giacca, e gliela porse. dicendo: «Mettiti la mia che è più nuova». Questa è l’Italia che ho amato. Quella di oggi, con questi personaggi, mi fa oscillare tra l’orrore e lo spavento».
Ti faccio l’ultima domanda da Tiresia. Se tu dovessi avvertire gli italiani di un pericolo futuro, se dovessi predire il rischio più grosso che attraversa l’Italia come comunità, quale diresti?
«Quello economico, con i suoi rilessi sul sociale. La bilancia è sensibilissima, basta una mezza parola per fare precipitare la situazione. Lo spread che prima si manteneva sino a 150 è salito sino a duecento appena uno di questi due proconsoli ha detto che bisogna ritrattare i contratti con l’Europa. Io temo che questi individui sono capaci nel giro di ventiquattro ore di farci inghiottire dal mercato, di ridurci come Don Falcuccio, con una mano davanti e una di dietro. E provo una gran pena. Mi sono occupato per tutta la vita di politica, da cittadino, e lasciare un’Italia così ai miei pronipoti mi fa pensare di aver fallito tutto».


ALCUNI SETTIMANALI

internazionale 1.6.18
La settimana
ordine
Di Giovanni De Mauro

internazionale 1.6.18
Dear Daddy
Di Claudio Rossi Marcelli
Senza controllo

La maestra di mio figlio manda foto della classe sul nostro gruppo WhatsApp. A me piacciono molto ma per mio marito sono al limite del voyeurismo. Tu che ne pensi? –
Diletta

Raccogliamo qui una serie di articoli internazionali che parlano della difficile settimana politica italiana

internazionale 1.6.18
Caos italiano
Uniti La crisi politica a Roma è diventata un problema per tutta l’Europa. A rischio ci sono l’euro e la stabilità dell’economia del continente. E quindi l’intera architettura politica dell’Unione
Di Steven Erlanger, The New York Times, Stati

L’opinione
Il presidente ha sbagliato
Di Diogo Queiroz De Andrade, Público, Portogallo

La scelta di Mattarella
Ex democristiano e giudice della corte costituzionale, il presidente della repubblica ha gestito bene i colloqui per cercare di formare il governo, scrive lo Spiegel
Di Hans Jürgen Schlamp, Der Spiegel, Germania

Le pressioni dell’Europa
La crisi italiana rivela che all’Unione europea serve più democrazia. I risultati elettorali che non piacciono a Bruxelles devono essere rispettati e affrontati senza paura
Di Joseph Confavreux, Ludovic Lamant, Mediapart, Francia

internazionale 1.6.18
L’Irlanda ha ascoltato la voce delle donne
Al referendum del 25 maggio più di due terzi dei votanti hanno sostenuto il diritto all’aborto. Un risultato che mette ine a decenni di sofferenza, scrive una giornalista irlandese
Di Ciara Kelly, The Irish Independent, Irlanda



L’opinione
I meriti del governo
The Irish Times, Irlanda


internazionale 1.6.18
In Europa
Un’occasione storica
Nei paesi europei dove il diritto all’aborto è limitato, il referendum irlandese ha riacceso il dibattito

internazionale 1.6.18
La rivolta del Camerun parte da un’università
I leader dei gruppi separatisti nelle regioni anglofone si sono formati all’università di Buea. Il risentimento verso la maggioranza francofona è maturato tra gli studenti
Africa News, Congo

Da sapere
Massacro in zona anglofona
Voice of Africa

internazionale 1.6.18
Stati Uniti
Il partito delle donne

internazionale 1.6.18
Stati Uniti
Vietato protestare

internazionale 1.6.18
La nascita di una lingua tra i sordi in Nicaragua
Negli anni ottanta in una scuola di Managua, gli studenti sordi non potevano parlare a gesti. Ma nonostante il divieto crearono una loro lingua dei segni
Di Dan Rosenheck, 1843, Regno Unito

internazionale 1.6.18
Nuovo impero
La Cina sta investendo miliardi per far rinascere la via della seta. Davide Monteleone ne ha seguito un tratto fino al Kazakistan
Di Davide Monteleone

internazionale 1.6.18
Il libro
Di Gofredo Foi
Una donna in camicia rossa

 Maria Attanasio
La ragazza di Marsiglia
 Sellerio, 386 pagine, 15 euro

internazionale 1.6.18
La copia è l’originale
Di Han Byung-chui

internazionale 1.6.18
Cortesie tra esseri umani e assistenti digitali
“Alexa, apri il gioco!”, diranno un giorno gli adolescenti. E il dispositivo intelligente eseguirà il comando. Ma è questo il modo giusto per comunicare con le macchine?
Di Ken Gordon, The Atlantic, Stati Uniti

l’espresso 3.6.18
«Ho visto le parole d’odio trasformarsi in dittatura. E poi in sterminio. Vorrei non vederle mai più»
La democrazia finisce piano piano
colloquio con Liliana Segre
di Marco Damilano


l’espresso 3.6.18
La Grande Crisi
Qualcosa di irrimediabile è già avvenuto: la fine del linguaggio proprio del confronto. Siamo tornati a un pensiero infantile, incapace del linguaggio proprio del confronto. incapace di discussione pubblica
Al punto di non ritorno
di Massimo Cacciari


L’Espresso inchiesta “I conti segreti di Salvini”.
l’espresso 3.6.18
Più Voci, donatori segreti

l’espresso 3.6.18
Le tre parole che non contano più
Di Bruno Manfellotto

l’espresso 3.6.18
Giustizia per ricchi
Prescrizione per i reati economici, privatizzazione dei processi, costi legali inarrivabili. Così in Italia i vip restano impuniti
di Paolo Biondani

l’espresso 3.6.18
Il futuro dell’occupazione
Lavorare meno lavorare tutti Distribuire i posti riducendo gli orari. Di fronte ai cambiamenti tecnologici è l’unica strada. Ma l’Italia fa il contrario
di Gloria Riva

l’espresso 3.6.18
Le idee
Leonardo d’Arabia
Come un quadro mette in discussione il tabù islamico delle immagini
di Angiola Codacci-Pisanelli

l’espresso 3.6.18
Grandi incontri
Cultura
colloquio con Andrea Camilleri
Quello che vedo
La cecità dà libertà, dice lo scrittore siciliano. Che qui parla di teatro, di affetti, di politica. Del gusto di far risuonare le parole nel buio. Come Tiresia
Di Roberto Andò