mercoledì 6 giugno 2018

Repubblica 6.6.18
Perché la poesia ha scelto di non cedere al successo
Riflessioni sull’ultima raccolta di Enrico Testa
di Alberto Asor Rosa


Più volte ho lamentato nel corso degli ultimi anni che la poesia italiana (contemporanea? Più esattamente degli ultimi due-tre decenni), pur essendo in diversi casi di alto o altissimo livello, non gode dei favori del pubblico come meriterebbe.
Come mai? Il fatto è che la poesia, non solo per motivi strutturali, ma anche per deliberata scelta dei suoi autori e delle sue (numerose) autrici, interpone tra la propria ricerca e la propria fortuna mondana una scelta espressiva, che è ancora di élite, insensibile al fascino del successo montano, cui invece la prosa narrativa è decisamente, e sempre più, attenta ed incline. La scelta elitaria per altro, non vuol dire in questo caso parlare soltanto dei propri ristretti casi personali con un pubblico altrettanto intenzionalmente ristretto. Vuol dire parlare di casi generali, anzi spesso generalissimi, ma in maniera tale che non ci sia concessione alcuna ai linguaggi dei media e della massa, cioè della consuetudine e dell’ovvio, come invece, appunto, la prosa narrativa tende sempre di più a fare, perché farlo significa entrare più facilmente nei circuiti del successo. Un caso esemplare di tutto questo, sia dal punto di vista tematico sia dal punto di vista linguistico, è quello di Enrico Testa. Prima di quest’ultima raccolta poetica, Cairn (Einaudi), ricorderò soltanto quella immediatamente precedente, Ablativo (del 2013), e una ricca antologia di poeti italiani del tardo Novecento, Dopo la lirica (del 2005), che è, più o meno esplicitamente, una dichiarazione di poetica per interposte opere o persone. Ligure autentico, - il che nella storia della cultura letteraria italiana significa pure qualcosa, punta a dire cose essenziali, ma senza mai indulgere a un eccesso di confidenza. Come dire: le cose per me stanno così; te le spiego; ma non vedo oltre un possibile confine del dicendum: al di là di questo te la devi cavare da solo, gli elementi per andare avanti io te li ho dati tutti. Testa racconta il disagio contemporaneo: l’esserci, e al tempo stesso il non esserci; il volere, che il più delle volte è il non potere; la manifestazione di un desiderio superstite, che però non approda a conquiste che non siano meramente consolatorie.
Non a caso la raccolta s’intitola Cairn: ossia, «mucchi di pietre come monumenti sepolcrali preistorici, arcaiche tombe»; ma anche, «in epoca moderna, i segnavia sui tragitti montani per indicare la prosecuzione di un sentiero». Residui del passato, situazioni, sentimenti, impressioni radicati nella corteccia umana più profonda – che tuttavia possono ancora fornire una traccia per il presente. La poesia, - le poesie, - di Testa consiste in strofe che cominciano sempre con una lettera minuscola e finiscono senza nessun segno d’interruzione: ognuna di queste poesie, - anzi, di queste strofe - fa parte di un discorso continuo, che va colto nella sua interezza.
Mi ha colpito che questa volta, nel ritmo cadenzato e paracolloquiale di questa poesia, s’imponga cammin facendo un contesto fatto di rovine, seccume e dissoluzione. Le piante, ad esempio: «le ombre lunghe dei larici sul prato»; le «fioccose anime dei pioppi»; «un rigoglioso ciuffo d’ortiche», oppure gli animali, muti testimoni e al tempo stesso involontari partecipi del degrado: «le iene maculate dai denti gialli»: «le piccole volpi meste e diffidenti»; i «neri millepiedi»; oppure gli spettacoli del degrado urbano e ambientale: «il rugginoso ciglio di binari»; «bottiglie di plastica e lattina accartocciate»; la «biglietteria rugginosa». Su questi sfondi di riferimento e al tempo stesso di commento il discorso di Testa procede senza sforzo a intessere la propria tela, soffermandosi e approfondendo con pazienza là dove potrebbe emergere un’esigenza di chiarimento. È un piacere intellettuale, oltre che poetico, seguirlo nella sua inesausta peregrinazione.