Il Fatto 6.6.18
Bob Kennedy, la faccia morale dell’America finita nel sangue
Le lotte contro la segregazione razziale e le marce per i diritti dei latinos
di Furio Colombo
Quando
cominci a parlare – nel mio caso, a riparlare – di Robert Kennedy, ti
accorgi che qualcosa di diverso, di insolito e anche di difficile da
spiegare, segna il ricordo e la riflessione, rispetto a ogni altro
politico. Per esempio, con Robert Kennedy sei entrato nella segregazione
razziale che conosceva ancora il linciaggio, e sei uscito in un mondo
di diritti ottenuto con una sfida che è stata insieme di popolo e di
governo, di grandi manifestazioni di massa combattute contro una polizia
accanitamente ostile (cani lupo, bastoni e pompe d’acqua), ma con a
fianco un ministro della Giustizia disposto, con le truppe federali, a
tener testa a un governatore che aveva già schierato la sua guardia
nazionale intorno alla sua università segregata. Il governatore Wallace,
a gambe divaricate, davanti al portone da non valicare, ha spiegato:
“Sono stato eletto per questo”. Il ministro della Giustizia, Robert
Kennedy, ha risposto. “Sei stato eletto giurando sulla Costituzione”.
Kennedy ha precisato che un’Alabama fuori dalla Costituzione sarebbe
stato anche fuori dagli Strati Uniti. Quella stessa sera il primo
afroamericano ha fatto il suo ingresso nell’università fino ad allora
segregata.
Questo episodio, come tanti durante la lotta per i
diritti civili, ci dice molto della tenacia e della forza morale di
Robert Kennedy. Ma voglio far notare che ho detto forza morale, non
forza politica. Politicamente Kennedy non era né più grande né più forte
dei suoi elettori democratici al Congresso e nel Paese. Tutti sapevano
tutto dell’esclusione e umiliazione dei neri, e non avevano, fino a quel
momento, mosso un dito. Ma durante la lotta per i diritti civili, che
ha visto il governo americano (in prima fila il ministro della
Giustizia) schierato dalla parte degli umiliati e offesi, è emerso un
aspetto nuovo, unico e breve nella politica americana: la forza morale.
Comincia qui la presenza di un fatto nuovo di cui è rappresentante e
portatore Robert Kennedy. Non è la politica che affronta il problema
della spaccatura razziale del Paese, non saprebbe come e non può perché.
Il
conflitto nasce completamente fuori dalla politica, e – attraverso la
voce di Martin Luther King –, diventa la grande questione morale. Robert
Kennedy la raccoglie e capisce che quella è la strada che va al di là
del razzismo, al di là della vita dei poveri,
al di là delle disuguaglianze mortali. E, poco dopo, al di là e contro la guerra nel Vietnam.
Robert
Kennedy si rende conto di essere entrato (fin dall’uccisione di suo
fratello) nell’area della non convenienza, che dissuade ogni politico,
nell’area del pericolo, perché ti opponi troppo a troppe cose che hanno
un peso (e un costo) troppo grande. La sua immagine, sempre più amata e
seguita da masse di giovani, si contrappone a volti e poteri non
visibili.
Il fenomeno strano, che resta unico nella nostra
memoria, è che “la sua strada sbagliata” (cito il senatore Humphrey,
democratico e amico di famiglia che rimproverava a Robert Kennedy) gli
porta un successo popolare immenso che, subito prima di essere ucciso,
ha travolto l’America.
Ho vissuto giorno per giorno quell’ultimo
periodo di febbre affettuosa ed entusiasta, una febbre sempre più
grande. Ho partecipato, giorno per giorno, all’ultima campagna
elettorale di Robert Kennedy e ricordo, ogni sera, le mani piagate da
decine di migliaia di strette di mano. Ma adesso, mentre ne scrivo nel
giorno dell’anniversario del suo assassinio, non riesco a non ricordare
un altro evento di cui Robert Kennedy è stato protagonista. È accaduto
due anni prima. L’ex ministro della Giustizia si era messo alla testa di
una lunga marcia dei raccoglitori di uva messicani, portati in
California come clandestini, per raccogliere l’uva di immense
coltivazioni per paghe inesistenti. La marcia a piedi partiva da El
Centro e arrivava a Sacramento, e accanto a Robert Kennedy c’era Cesar
Chavez, improvvisato sindacalista dei contadini senza paga, uomo
intelligente e analfabeta, capace di tener testa alle televisioni in
modo da coinvolgere l’intera America in un famoso “sciopero dell’uva”.
Ecco,
ripensando e rivedendo la testa del giovane leader assassinato, mentre
viene scrutata dai flash e dalle telecamere, sul pavimento dell’Hotel
Ambassador, mi ricordo di quella marcia in cui Robert Kennedy e Cesar
Chavez parlavano insieme alla folla, l’uno nello spagnolo dei campi,
l’altro nel suo inglese di Harvard. E mi domando: può esistere una
santità laica? E come mai, adesso, il luogo in cui viviamo (dall’America
di Kennedy all’Italia di Spinelli e Colorni) sia diventato un mondo
carogna, con le frontiere di filo spinato a lama di rasoio, in modo che i
bambini con la faccia sfregiata siano i primi a imparare che le
frontiere non si attraversano?