Repubblica 6.6.18
Homi K. Bhabha “Ibridi e cosmopoliti così sfideremo l’onda populista”
Intervista di Giancarlo Bosetti
Homi
Bhabha, 68 anni, tra le figure intellettuali più note al mondo degli
studi post-coloniali (quella ispirata a Franz Fanon, Edward Said),
indiano di Mumbai, formazione inglese, poi naturalizzato americano, in
cattedra a Harvard; identità “ibrida”, direbbe lui — «non appartengo a
una nazione, ma a una comunità, a molte comunità sovrapposte» — ; di
casa dove c’è poesia, arte, letteratura (tradotto in italiano il suo I
luoghi della cultura, Meltemi, 2001). È un campione riconosciuto di
quelle “élite cosmopolitiche”, additate dai nemici come colpevoli,
perché troppo attente ai diritti delle minoranze e poco, dicono, alle
sofferenze delle maggioranze, bianche e occidentali.
Caro
professor Bhabha, oggi è cosmopolitiche in America e in Europa non è più
un complimento. Il postcolonialismo e con lui la cultura dei campus
americani (la differenza, il politically correct) sono tra i “soliti
sospetti”, quando si cercano le cause dell’onda populista.
«Ah
certo, i “maggioritari” puntano il dito in questo modo, ma quelli che
parlano a nome delle maggioranze religiose (come Modi e il suo partito
in India) o di pelle bianca (come Trump in America e i populisti
europei), sono loro a rappresentare oggi le élite, economiche e
politiche. A chi punta il dito verso di me rispondo che non ci sto. Per
essere più chiaro, dobbiamo dirci che oggi il linguaggio delle élite è
quello di Steve Bannon, è quello di Trump. Ed è il linguaggio della
barbarie».
Ma come spiega che questo estremismo riesca a prevalere?
«Quelli
come Trump prevalgono perché hanno deciso di affrontare fallimenti e
frustrazioni provocate da globalizzazione e iniquità sociali ricorrendo
al “nazionalismo tribale” (parole che prendo da Hannah Arendt), un tipo
di nazionalismo in cui la maggioranza si deve sempre presentare come la
minoranza oppressa. E funziona molto bene. Alla sua domanda risponde
perfettamente lo stesso Bannon, che lo ha spiegato in una intervista
all’Economist: per quanti cambiamenti i politici tradizionali, di
sinistra o di destra, cerchino di fare, con la sanità, il welfare e le
infrastrutture, niente è più potente di questo ultranazionalismo. Per
questo, ha confessato, hanno deciso “to go barbarian”, di diventare
barbarici. La frase è proprio sua».
La politica democratica e liberale aveva dimenticato le maggioranze?
«Davvero
difficile sostenerlo. Le riforme fatte e tentate negli Stati Uniti e
altrove per aiutare le minoranze non hanno in nessun luogo rovesciato i
sistemi economici. Nessuno può dire che la affirmative action in favore
dei neri sia il motore fondamentale del sistema educativo americano,
idem per la sanità.
Ma in una situazione di contesa politica in
cui la democrazia non è più un metodo deliberativo, un confronto sul
bene comune, ma un tit for tat, quel che non è mio è tuo, un gioco a
somma zero, allora si affermano movimenti concentrati su un punto: per
l’antisemitismo erano gli ebrei, per i maggioritari di oggi è
l’emigrazione internazionale».
Da qui i muri. Lei parla di un “labirinto di filo spinato”.
«È
un’altra immagine coniata dalla Arendt per i regimi totalitari. È un
aspetto molto specifico delle migrazioni, quello del linguaggio con cui
migranti e rifugiati parlano della loro esperienza che è allo stesso
tempo di vita e di morte, come uno stare da qualche parte negli
interstizi tra l’una e l’altra. C’è una crisi molto più lunga e profonda
di quella che la parola “migrazioni” indica, c’è un intero mondo vitale
di minoranze senza patria e senza stato, esseri umani denigrati,
discriminati, menomati. Il problema che voglio illustrare è quello di
come trattiamo linguisticamente, filologicamente, eticamente questa
condizione, non la politica».
Ma la questione politica si impone,
perché il problema migrazioni è diventato un fattore determinante che
condiziona le società occidentali.
«In ogni situazione di
integrazione o assimilazione (e comunque la chiamiamo è un processo
relazionale) se non prendiamo sul serio il senso di ansia della
popolazione ospitante, allora siamo politicamente irresponsabili.
Perciò
credo che ogni politica intorno ai migranti e all’accoglienza dei
rifugiati deve affrontare seriamente le paure di popolazioni residenti
che vedono un mondo che gli sta cambiando intorno».
Dunque condivide le preoccupazioni delle maggioranze ospitanti.
«Sì
ma mi chiedo perché in tutte le situazioni di crisi il punto di rottura
avviene intorno a differenze etniche, di colore e razza. Sarebbe
perfettamente ragionevole per la maggioranza dire: non abbiamo lavoro,
il nostro nemico è la disoccupazione. Perché invece ansia e antagonismo
prendono forma discriminatoria e razzista? Qualunque cosa si pensi
dell’epidemia di oppioidi e psicofarmaci in America, messicani e neri
americani stanno peggio dei disoccupati bianchi e non si possono
indicare come la causa del problema».
Un legame di identità
nazionale vale per i mondi colonizzati dei suoi studi, ma anche per le
società occidentali, vale per il West come per il “Rest”. Non è
possibile una versione liberale del nazionalismo?
«A certe
condizioni è certo possibile con riforme, educazione, sanità, con più
equità sociale. Quello che ci servirebbe oggi è un “cosmopolitismo
vernacolare”, capace di tenere insieme migranti e diversità di classe,
di etnia, di lingua, in uno spirito che sappia alzare lo sguardo oltre i
confini. In diversi momenti del XX secolo questo è stato possibile
quando è prevalsa una apertura mentale al fatto che la tua nazione era
inserita in un mondo e che tu non potevi davvero godere della tua
libertà se c’erano altri paesi in cui la libertà era negata. Dobbiamo
rifiutare la visione barbarica e soprattutto l’idea che le differenze di
razza e di genere, che le minoranze, le donne, possano essere viste
come la causa del collasso dell’ordine pubblico».