Repubblica 6.6.18
I nuovi profeti di Israele
di Amos Oz
Mi
chiedo spesso perché organizzazioni israeliane quali Breaking the
Silence (Shovrim Shtika, “ Rompere il silenzio”), B’Tselem e Peace Now
suscitino in tante persone sentimenti di paura, rabbia e ostilità. E non
solo tra i simpatizzanti dell’estrema destra, ma anche tra molti che
dicono di collocarsi al centro dello spettro politico. Questa ostilità
non può essere spiegata soltanto sostenendo che chiunque si opponga a
Breaking the Silence è un razzista, né che si stia cercando di far
tacere le nostre voci: la stragrande maggioranza dei nostri avversari
non lo fa. Neppure possiamo dire che tutti i nostri avversari odino gli
arabi, perché, in gran parte, non è così.
Qual è il problema
allora? Gli israeliani vogliono sentirsi in pace con se stessi e
Breaking the Silence impedisce loro di stare bene. Le persone vogliono
che lo Stato di Israele goda di una buona immagine, ma, a loro avviso,
Breaking the Silence e B’Tselem ne promuovono una negativa. È ben
comprensibile che una maggioranza degli israeliani provi disagio davanti
a un’immagine negativa dello Stato di Israele. Essi credono,
sbagliando, che a promuovere l’immagine negativa sia chi denuncia le
distorsioni morali del Paese. Invece, una delle ragioni per cui il
popolo ebraico non è stato sradicato in migliaia di anni è che nella
nazione ebraica da sempre sono stati numerosi i coraggiosi pronti a
denunciare le distorsioni sociali e le ingiustizie.
Tutti quelli
che odiano Breaking the Silence dovrebbero riflettere su una cosa: la
forza morale è necessaria per la sopravvivenza di una nazione. La nostra
grandezza morale non è una sorta di gioiello da tenere in cassaforte e
da brandire con splendore soltanto quando sarà finita la guerra, sarà
ripristinata la normalità o ci saranno stati quarant’anni continuati di
pace.
No. La forza morale, specialmente in tempo di guerra, è
urgente tanto quanto i primi soccorsi su un campo di battaglia. Non
dovremmo svilire chi desidera sentirsi in pace con se stesso. Tuttavia,
forse sarebbe bene fare loro familiarizzare con qualcosa che quasi tutto
il mondo sa: che uno dei pochi motivi per i quali gli israeliani
possono ancora sentirsi in parte in pace con se stessi e davanti agli
altri paesi è proprio che abbiamo organizzazioni quali Breaking the
Silence, B’Tselem e Peace Now, che la lotta per raggiungere la giustizia
sociale non si ferma mai e che continuiamo ad avere una stampa più o
meno libera. Nonostante l’ingiustizia e lo sfruttamento degli
svantaggiati, io continuo ad amare Israele. Amo questo Paese anche nei
momenti in cui non lo sopporto. Lo amo per la sua lunga tradizione di
accesi dibattiti interni e per la sua ricerca della giustizia. Sono
molte le persone che si domandano: « Perché non possiamo risolvere le
nostre differenze in modo discreto?». Ebbene, perché i tempi sono
cambiati e gli “occhi del mondo” non sono più discreti. Sono finiti i
giorni in cui si poteva sussurrare qualcosa in cucina senza che tutti lo
sapessero il giorno dopo. Fa bene aprire le ferite appena possibile
davanti a tutto il mondo, non solo per le vittime, ma anche per il bene
di tutti. Per il bene della società israeliana. Accade qualche volta
nella storia che qualcuno qualificato dalla maggior parte della sua
gente come un traditore finisca per essere considerato un maestro.
È
il caso di chi si schierò con il profeta Geremia, che disse ai figli di
Gerusalemme: «Non dovete credere che il vostro alleato eterno sia
veramente il vostro alleato eterno, perché improvvisamente egli potrebbe
diventare uno di cui non ci si può fidare». I contemporanei di Geremia
li tacciarono di essere «traditori» e di «sinistra» e le autorità li
gettarono in un pozzo. Oggi, tuttavia, il popolo di Israele ricorda con
affetto Geremia, non i suoi accusatori.
La storia dell’avventura
sionista inizia con Benjamin Ze’ev Herzl, il visionario che concepì lo
Stato ebraico, l’uomo onorato persino dal movimento di destra Im Tirtzu.
Forse
scordano che fu proprio Herzl a pensare all’Uganda come alternativa a
Israele per ospitare la patria ebraica. David Ben-Gurion, il fondatore
dello Stato ebraico, fu per qualcuno un traditore. Menahem Begin, che si
ritirò dal Sinai perché ci fosse pace, fu per i membri del suo
movimento un traditore.
Shimon Peres e Yitzhak Rabin, che
strinsero la mano a Yasser Arafat alla ricerca di un accordo che ponesse
fine al conflitto tra Israele e i palestinesi, furono definiti da molti
« traditori » . Da parte sua, anche Anwar el Sadat, che si recò a
Gerusalemme, parlò davanti alla Knesset e firmò la pace con Israele, era
ed è considerato da milioni di arabi un traditore. Ariel Sharon, i cui
bulldozer rasero al suolo gli insediamenti ebraici a Gaza che lui stesso
aveva approvato, fu definito anch’egli un traditore.
È evidente
che i cittadini hanno un debito molto più grande verso chi ha rotto il
silenzio che non verso chi ha taciuto. Rompere il silenzio non è
necessariamente una questione di schieramento di sinistra o di destra.
Al contrario. Anche nella sinistra israeliana continuano a esserci dei
silenzi che dovrebbero essere rotti una volta per tutte. Noi ebrei
abbiamo una lunga tradizione che ci insegna che tutti quanti hanno il
diritto e persino il dovere di censurare il popolo e i suoi leader e
chiunque faccia versare sangue innocente. La nostra tradizione ci
permette persino di insultare Dio. Ci sono accuse contro Dio fin dai
tempi della Bibbia. E dunque? L’Esercito israeliano è il solo a godere
d’immunità eterna e assoluta? Non sto dicendo che un giorno la storia
vedrà gli attivisti di Breaking the Silence come discendenti dei
profeti: forse sì, forse no. Il tempo lo dirà. Quello che invece
possiamo affermare ora è che chi oggi lancia pietre discende da chi
lanciò pietre contro i profeti di Israele.
Traduzione di Guioma Parada