martedì 5 giugno 2018

Repubblica 5.6.18
L’anniversario
Rossi-Doria e Revelli la voce dei vinti
Nuto Revelli e  Manlio Rossi- Doria
Trent’anni fa moriva l’intellettuale che aveva dedicato i suoi studi alle condizioni del Mezzogiorno, condividendo con l’amico Nuto l’interesse per “gli ultimi”. Pubblichiamo un carteggio inedito tra i due del 1977


CUNEO, 14/1/ 77
Caro Manlio, mi hai sempre accompagnato in questi anni di lavoro.
Mille volte mi sarò detto: «Se ci fosse qui Manlio, chissà che cosa ne penserebbe di questo e di quest’altro problema?». Devo molto al tuo incoraggiamento. Adesso ho finito, l’ho consegnata il 15 dicembre la mia fatica di sette anni. L’introduzione è di 150 pagine, e inquadra la situazione di ieri e di oggi, il mondo dei testimoni. Poi le 450 pagine delle testimonianze. Ti confesso che sento non poca nostalgia del lavoro di ricerca, il lavoro entusiasmante era proprio la ricerca, era quell’entrare in centinaia di case a dialogare, ascoltare, imparare. Pesante invece la traduzione dal dialetto o dal patois, ho dovuto risentire ogni registrazione almeno tre volte prima di realizzare i testi definitivi. Ogni testimonianza parlata ha una durata media di quattro ore. Sono 270 le testimonianze che ho raccolto, un materiale enorme, e a mio giudizio quasi tutto valido. Ma i 2/3 di questo materiale ho dovuto sacrificarlo. Ho salvato 85 racconti di vita contadina.
I temi. C’è la 2° emigrazione verso le Americhe (la più interessante è quella degli Stati Uniti), c’è molto dell’emigrazione verso la Francia, e la 2° Guerra Mondiale, il prefascismo (poco), il “Ventennio”, la 2° Guerra Mondiale, la pagina partigiana, e infine la realtà di ieri e di oggi.
La guerra è proprio “dentro” al mondo contadino, come la tempesta. Mi ero illuso di aver smaltito per sempre il tema “guerra”. Invece l’ho ritrovata come tema dominante: la guerra è la grande esperienza, è la ferita mal cicatrizzata che sanguina non appena la tocchi.
Sette anni di dialogo con la campagna povera del mio Cuneese. E finalmente ho capito quanto sono duri i contraccolpi di un’industrializzazione selvaggia e caotica. Ormai, nella nostra campagna povera, è saltato il tessuto sociale: ormai le forze giovani sono finite tutte in fabbrica. Manlio, quanta gente vorrei che finisse davanti ad un plotone di esecuzione, quanto sarebbe necessario un 25 aprile!
Malgrado tutto continuo a credere. Ho già in testa un altro lavoro di ricerca, non riesco a stare fermo. Adesso vorrei studiare i matrimoni contadini della campagna povera. Dimmi se sono matto o no. I soli matrimoni contadini che si sono realizzati nell’arco di questi ultimi quindici anni sono i matrimoni tra i nostri contadini anziani e le donne del meridione, le cosiddette “calabrotte”.
Nelle Langhe questi matrimoni si contano a centinaia, e il fenomeno si va estendendo alla montagna e alla pianura.
È la realtà sociale delle nostre campagne che sta cambiando, tra l’indifferenza di tutti. Far parlare questa gente, scoprire queste due Italie povere che si incontrano, questo il mio interesse di oggi.
Ho ancora l’azienda, voglio sempre chiuderla, poi rimando, ma giorno dopo giorno la ridimensiono.
Penso proprio che il 1977 sarà l’anno buono.
Nel 1978 scenderò finalmente nel meridione! Manlio, perdonami la lunga chiacchierata.
Un saluto affettuoso a Annie, ai tuoi figli.
A te un abbraccio Nuto
ROMA, 6 MARZO 1977
Caro Nuto, son quasi due mesi che ho la tua lettera, letta e riletta e molto importante e cara. Non vedo l’ora di avere tra le mani il nuovo libro, ma dalla tua lettera ne ho già compresa tutta l’importanza e la bellezza. Purtroppo questo maledetto e benedetto disturbo coronarico — che mi ha fermato da un anno e mezzo o (per meglio dire) mi ha obbligato a mettermi definitivamente su di un piano diverso di vita — è venuto a cadere nel momento nel quale speravo di avviare laggiù in alta Irpinia un lavoro di ricostruzione dal basso con gli emigrati, al quale mi ero preparato. Spero e dispero di poterlo riprendere d’estate, quando i pericoli delle mie coronarie sono minori; spero e dispero di persuadere a portarlo avanti alcuni dei miei giovani collaboratori e amici di Portici. Ma non è facile e forse non siamo ancora pronti e certo le condizioni generali non sono in favore.
Eppure sono sempre più convinto che, per uscire dal fosso dentro il quale da anni camminiamo, uno dei processi essenziali sarà quello di una rivitalizzazione delle nostre campagne attraverso processi di ricostruzione dell’agricoltura contadina nel quadro di un’economia mista decentrata agricolo-industriale. Questa sola può essere capace di far rivivere — in forme e con accenti naturalmente diversi da quelli di un tempo — molti dei valori umani e civili, ai quali non soltanto noi teniamo, ma tengono istintivamente molti altri. Le premesse tecniche ed economiche per rendere possibile questo ritorno prima mancavano. Tale mancanza ha reso inevitabile e precipitosa la fuga e ha fatto «saltare — come dici tu — il tessuto sociale». Oggi — anche se di difficile sviluppo e bisognose di essere sorrette da un vigoroso slancio civile — tali premesse ci sono. Non bisogna, quindi, disperare. C’è nell’aria e nelle cose, e c’è particolarmente in molti giovani, qualcosa che spinge in questa direzione. Fino all’ultimo fiato persone come te e me sono tenute a dare sostanza a questo che a molti appare irrealistico disegno. Il tuo lavoro — sia quello precedente sulla guerra (la grande esperienza dei contadini italiani) sia quello recente sul grande esodo — è e sarà essenziale per dar forza ad altri per lavorare in questa direzione. Bellissimo il nuovo lavoro al quale ti accingi. Mi piacerà molto ragionarne con te ed è questa una delle ragioni per le quali mi auguro che la tua da tempo promessa visita giù sia prossima e non lontana. Se troverai il nome dei poveri di origine delle tue “calabrotte”, si potrebbe insieme e con l’aiuto di alcuni miei amici meridionali visitarli e riscoprire i legami antichi e forse cercarne di nuovi.
È mia convinzione — e oggetto di fantasiose costruzioni mentali — che tra gli esiliati all’estero o nelle grandi città dalla «industrializzazione selvaggia e caotica», la nostalgia oscura di quel che hanno perduto possa — non dico in tutti, ma in molti — trasformarsi in interessamento e fors’anche in partecipazione a razionali processi di riordino, di rimessa e di sviluppo della contrada, nelle quali hanno ancora il cuore e le radici. Mi chiedo, quindi, per il tuo Piemonte — come per la mia Irpinia e Lucania o Calabria — se non si possa andare tra coloro che sono partiti, per rilegarli tra loro in associazioni aperte ai problemi delle valli e degli altopiani dove sono nati. Sarebbe questo lo sbocco operativo del tuo lungo lavoro; forse quello sbocco al quale — anche se non hai voluto confessarlo a te stesso — hai sempre pensato. Questi ed altri sono i pensieri che la tua lettera ha ravvivato in me, con il desiderio di parlare ancora con te, nel ricordo delle bellissime giornate passate da me e dai miei come tuoi ospiti nel Cuneese.
Aspetto il libro e aspetto la tua visita. Voglimi bene come te ne voglio. Ricordaci a tua moglie, ai figlioli.
Ti abbraccio Manlio