martedì 5 giugno 2018

Corriere 5.6.18
1918-2018 Cento anni fa nasceva il grande economista, premio Nobel nel 1985, che fu costretto all’esilio dalle leggi razziali di Mussolini
È viva la lezione di Modigliani
Il primato della lotta alla disoccupazione contro l’arido monetarismo dominante
di Giorgio La Malfa

Franco Modigliani — uno dei maggiori economisti della seconda metà del Novecento, premio Nobel per l’economia nel 1985 — era nato un secolo fa, il 18 giugno 1918. Aveva perciò venti anni nel 1938 e stava per laurearsi in legge a Roma quando vennero promulgate le leggi razziali. Il consiglio di Bruno Calabi, padre della sua futura moglie e proprietario delle Messaggerie Italiane, che vennero in quella circostanza cedute alla Mondadori, fu di lasciare subito e definitivamente l’Italia. Franco e Serena si trasferirono a Parigi, si sposarono e nell’agosto del 1939 si imbarcarono a Le Havre sul Normandie — uno degli ultimi piroscafi a traversare l’Atlantico prima dello scoppio della guerra; giunsero a New York il 28 agosto, quattro giorni prima dell’invasione della Polonia.
Per sopravvivere Modigliani trovò lavoro come venditore di libri importati dall’Italia. Contemporaneamente, grazie a una borsa di studio di Max Ascoli, un antifascista italiano emigrato da tempo negli Stati Uniti, si iscrisse ai corsi serali di economia della New School for Social Research. Negli anni Venti, la New School era stata un’oscura Università per l’educazione degli adulti creata da un miliardario filantropo, ma negli anni Trenta, sotto la protezione di Franklin Delano Roosevelt e soprattutto della moglie Eleanor, divenne uno dei grandi centri universitari che accoglievano docenti e studenti in fuga dall’Europa, tanto da essere soprannominata l’Università in esilio. In quel periodo alla New School Modigliani ebbe due maestri: Jacob Marschak, un economista matematico russo che dopo la rivoluzione di Ottobre si era rifugiato in Germania da dove era dovuto fuggire all’avvento del nazismo, e Abba Lerner, anche lui ebreo, inglese, che aveva fatto i primi passi alla London School of Economics con Friedrich von Hayek, ma si era convertito alle idee di John Maynard Keynes dopo la pubblicazione nel 1936 della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta.
La coincidenza fortunata per Modigliani fu che i suoi anni di apprendistato economico coincisero con «la rivoluzione keynesiana», cioè con la trasformazione radicale dell’impostazione degli studi economici seguita alla pubblicazione nel 1936 del libro di Keynes. La Teoria generale — scrisse Paul Samuelson qualche anno dopo — «colpì la maggior parte degli economisti sotto i trentacinque anni con la virulenza inaspettata di una malattia che attacchi per la prima volta e decimi una tribù isolata dei Mari del Sud». Essa, in effetti, segnò in modo indelebile Modigliani e gli economisti della sua generazione: «Keynes — scrisse Modigliani nella sua autobiografia Avventure di un economista (Laterza) — ci dava la speranza che la malattia misteriosa che aveva originato la tremenda recessione del 1929 fosse qualcosa che poteva essere compresa… Quegli studi ci infiammavano. Capimmo di essere su una linea di frontiera… stavamo combattendo una guerra importante per il futuro». Keynes per l’economia e Roosevelt per la politica sono stati la duplice ispirazione a cui Modigliani è rimasto fedele per tutta la vita.
Il ciclo vitale del risparmio
Nel gennaio del 1944 apparve su «Econometrica», una delle più importanti riviste americane di economia, un articolo di Modigliani, che aveva solo 25 anni, intitolato Liquidity Preference and the Theory of Interest and Money. L’articolo conteneva una fra le prime, se non la prima, formulazione matematica completa della Teoria generale. Modigliani sosteneva che la rigidità dei salari, e cioè il fatto che il salario monetario non si riduca in presenza di disoccupazione, spiega perché i sistemi di mercato non realizzano automaticamente la piena occupazione. Forse, con il senno del poi, si può sostenere che l’articolo contenesse un fraintendimento della Teoria generale, le cui conclusioni non richiedono questa ipotesi sulla rigidità dei salari. Ma l’articolo comunque rafforzava gli argomenti sulla necessità di una politica economica attiva per realizzare e mantenere la piena occupazione.
Oltre a mettere in dubbio le vecchie certezze sulle virtù del mercato, la Teoria generale aperse di colpo nuove promettenti aree di ricerca. Una di queste fu lo studio delle determinanti del risparmio nel breve e nel lungo periodo. Keynes aveva sostenuto che, al crescere del reddito, il consumo tende a crescere, ma non quanto il reddito. Dunque anche il risparmio cresce al crescere del reddito. Ma che cosa determina esattamente la propensione al consumo e al risparmio? Modigliani avanzò l’ipotesi che la propensione al risparmio muti nel corso della vita secondo un ciclo che essenzialmente vede le persone risparmiare da giovani e spendere da vecchie il risparmio accumulato. Su questa ipotesi continuò a lavorare a lungo traendone implicazioni importanti. Nel 1985 la Commissione del Nobel nelle motivazioni del premio si riferì soprattutto a questo filone di ricerca.
I modelli econometrici e il ritorno in Italia
Un secondo sviluppo collegato alla Teoria generale riguardò i cosiddetti modelli econometrici, cioè le stime delle relazioni funzionali fra i vari elementi del sistema economico, così da poterne ricavare delle implicazioni di politica monetaria o di politica fiscale. Modigliani fu al centro di questi sforzi di elaborazione. Collaborò alla preparazione di uno dei primi modelli econometrici dell’economia americana e, dalla metà degli anni Sessanta, fu chiamato da Guido Carli in Banca d’Italia per collaborare alla formulazione del primo modello econometrico dell’economia italiana. Questo creò un legame fra la Banca d’Italia e il Massachusetts Institute of Technology, dove Modigliani era stato chiamato a insegnare nel 1962 e dove soggiornarono e studiarono molti degli economisti della Banca, da Fazio a Padoa Schioppa, da Tarantelli a Mario Draghi.
Contro il monetarismo
Dopo venticinque anni di predominio intellettuale indiscusso, a partire dagli anni Sessanta del Novecento la rivoluzione keynesiana perse forza e smalto. Nel giro di pochi anni, con la stessa rapidità con cui la Teoria generale aveva spodestato la precedente visione economica, il cosiddetto «monetarismo» di Milton Friedman, che era una riproposizione delle idee pre-keynesiane, si impossessò — o meglio si reimpossessò — della scienza economica. Invece dell’attivismo dei governi, si teorizzò che fosse meglio ridurre il perimetro dell’azione pubblica. Nel 1974, parlando come presidente dell’associazione degli economisti americani, Modigliani mise in chiaro le differenze di fondo fra le due concezioni e le implicazioni politiche che ne discendono: «I non monetaristi accettano quello che considero il messaggio pratico fondamentale della Teoria generale e cioè che un’economia privata di mercato… ha bisogno di essere stabilizzata, può essere stabilizzata e quindi deve essere stabilizzata usando appropriate politiche monetarie e fiscali. Per i monetaristi, invece, non vi è alcuna necessità effettiva di stabilizzare l’economia; ed anche se questa necessità vi fosse, non sarebbe possibile farlo, perché le politiche di stabilizzazione probabilmente aumenterebbero e non ridurrebbero l’instabilità… e anche nel caso improbabile che queste politiche potessero essere utili, non è il caso di affidare ai governi queste responsabilità.»
Un ricordo personale
Franco e Serena Modigliani erano persone di straordinario calore umano. Accoglievano i giovani economisti che giungevano dall’Italia nella loro casa di Belmont, nei sobborghi di Boston. Serena li nutriva e li consigliava nei loro problemi personali. Franco, che aveva una curiosità intellettuale insaziabile, si informava delle loro ricerche e spesso proponeva di lavorare insieme su qualche argomento. Io stesso feci questa esperienza a metà degli anni Sessanta. Nelle cattive abitudini dell’Università italiana spesso i giovani scrivono e i «maestri» cofirmano (quando non si appropriano del tutto del lavoro dei loro collaboratori). Con Franco al più giovane era riservata la prima stesura che Franco definiva eccellente, salvo però rimetterci lui stesso le mani modificando progressivamente l’impianto, scavando nelle deduzioni, arricchendo le conclusioni. Era uno spettacolo straordinario vedere una mente di prim’ordine sezionare i problemi, scomporli, analizzarli e ricomporli. Personalmente credo che molto di quello che ho imparato in quegli anni sia venuto dal lavoro in comune con Franco Modigliani. Fu così a metà degli anni Sessanta ed è stato di nuovo così quando, fra il 1998 e il 2000, scrivemmo insieme una serie di articoli sollevando interrogativi sul Trattato di Maastricht e sulla moneta unica, allora in via di definizione.
Quando Modigliani arrivava in Italia, cosa che avvenne spesso a partire dalla fine degli anni Sessanta, scriveva sui giornali italiani, dava interviste, partecipava ai dibattiti. Aveva due nemici: gli sprechi pubblici — non gli investimenti pubblici — e l’inflazione. Con i sindacati discuteva per spiegare che l’inflazione distrugge i posti di lavoro e sottrae il potere di acquisto alle fasce più deboli. Le politiche dei redditi non erano per lui un modo per limitare la capacità dei lavoratori di ottenere una quota più ampia del reddito nazionale, ma lo strumento per difendere le conquiste del lavoro.
Il centro del pensiero economico di Modigliani restava il problema del lavoro, la piena occupazione. Scrive nell’autobiografia: «Sono indignato dell’infamia di una disoccupazione di massa che non viene affrontata con sufficiente energia dai governi… L’inaccettabilità morale di questa situazione va gridata ad alta voce. Forse sarà una voce che grida nel deserto. Ma voglio correre il rischio di essere frainteso, piuttosto che di stare zitto… Non è nemmeno vero che l’obiettivo della piena occupazione affrontato come priorità assoluta avrebbe come conseguenza quella di mettere in soffitta il trattato di Maastricht e la moneta unica. Sono in grado di dimostrare che esiste un modo per rendere la moneta unica compatibile con la piena occupazione».
Come starebbe meglio l’Europa se, invece dell’arida visione contabile che la impronta, l’Unione monetaria europea traesse ispirazione dal testamento di un grande economista che aveva attraversato ed aveva riflettuto sulle tragedie economiche e politiche del Novecento!