Il Fatto 5.6.18
Raffaello e Michelangelo. I geni tornano a parlarsi
Uffizi. Nella nuova sala le opere dei due grandi del Rinascimento sono vicine
di Alessia Grossi
Una
stanza tutta per loro. Raffaello Sanzio e Michelangelo Buonarroti, geni
del Rinascimento, tornano a parlarsi a Firenze come nei primi anni del
500. A indicare la strada circolare verso i due è Fra’ Bartolomeo,
grande dimenticato della scena del tempo, ora con loro nella sala
“Raffaello e Michelangelo”, aperta da oggi al pubblico e ideata dal
direttore delle Gallerie Eike Schmidt. Vi si accede da una porta chiusa
dal 1500. Il percorso è una sorpresa per l’occhio e “un invito a pensare
per il cervello”, spiega il direttore. In una teca posta in
perpendicolare alla parete, Adorazione del bambino e Presentazione al
Tempio di Fra’ Bartolomeo hanno appena catturato lo sguardo, che subito
dietro, alla parete di fondo, la sua Visione di San Bernardo raddoppia
lo stupore, e come in una lente di ingrandimento si rivede il bambino
più piccolo ingrandito e il manto della Madonna più blu: la vista è in
trappola.
È possibile uscirne solo spostandola a sinistra, dove
l’aspetta la Madonna col Cardellino di Raffaello a metterne in mostra
richiami e differenze tra i due autori allora amici. Sorpresa per questo
capolavoro “da corridoio”, dove è rimasto per sei anni, dal 2012 e che
ora si riunisce al Tondo Doni, dipinto da Michelangelo all’incirca nello
stesso periodo. Già, il Tondo, affiancato ora più a sinistra ai due
ritratti di Maddalena e Agnolo di Raffaello, arrivati da Palazzo Pitti.
Cosicché i committenti come in casa loro, ora possono ammirare l’opera
commissionata. Il Tondo, dicevamo, custodito in una teca a cassaforte,
che avvisa il direttore sul cellulare se al suo interno varia anche solo
di poco il microclima, e alla cui destra sta Testa detta di “Alessandro
morente”. Statua questa, che non solo avrebbe ispirato uno dei
personaggi sullo sfondo a destra del Tondo, il Lacoonte, ma anche il San
Giovanni Battista di Raffaello e Bottega che la affianca. Eppure è
assurta per decenni a ruolo di poggia-gomito per turisti nel corridoio
delle Gallerie. “Sventura sua era accanto alla finestra panoramica –
svela il direttore – da cui pare che i visitatori debbano vedere l’Arno –
continua sarcastico Schmidt – e per questo era loro utile come punto
d’appoggio”. La nuova sala è una delle rivoluzioni del tedesco,
criticato fin dal suo insediamento nel 2015, che confessa di aver visto
accelerare il suo programma solo quando ha dichiarato di lasciare nel
2020.
Una rivoluzione “di ispirazione rinascimentale” che vuole
far tornare le opere e gli artisti a parlarsi, ma soprattutto non fatta
solo di numeri. “Che te ne fai di belle cifre se la gente, a parte aver
fatto qualche foto e speso dei soldi per entrare non si porta dietro
niente, oppure ricorda sempre le stesse opere?”, si chiede Schmidt di
ritorno dalla Cina, dove continuano a chiedergli in prestito
Michelangelo, Leonardo e Raffaello, e lui continua a negarglieli. Una
rivoluzione di difficoltà inaspettate come quella della lotta ai
bagarini. “Abbiamo ridotto il 70% i loro affari, ma non è stato facile –
confessa – sono molto protetti, non si capisce come mai”. Non ne fa
neanche una questione di soldi, Schmidt: “Quelli non bastano mai –
spiega – ma è come per i collezionisti, i più ricchi non mettono mai
insieme le collezioni migliori”. Il suo obiettivo è “prendere sul serio i
visitatori, dopo un lungo periodo in cui le opere d’arte venivano
trattate come una collezione di francobolli”. Per ora, nel futuro a
breve termine ci riserva l’inaugurazione della nuova sala Leonardo, che
completerà il lavoro di “dialogo” tra i grandi artisti, e magari
l’acquisto di nuove opere d’arte, altra attività iniziata da Schmidt e
che lui stesso spera “non finisca nei depositi”. Ma il futuro sono anche
tre mostre da aprire nel prossimo mese: dalla retrospettiva su Fritz
Koeing (dal 21 giugno), a “Islam e Firenze” (dal 22 giugno), a “A
cavallo del tempo. L’arte di cavalcare dall’antichità al Medioevo” (26
giugno). Perché chi conosce il “direttore straniero” con il suo accento
impeccabile e la sua cultura di Firenze, l’arte, la città e anche il
campanilismo (“Una volta gli Uffizi erano divisi in scuola senese,
scuola pisana, scuola pratese. La scuola veneziana è tutta nel mio
ufficio”, scherza), sa che ogni mese ne inventa almeno una (di mostra).
Che “da quando c’è lui non ci sono picchi di visitatori, ma solo un
grande picco”, giocano i suoi collaboratori. Ma non tutti sanno che sta
per togliersi un sassolino dalla scarpa: renderà noto l’elenco delle
opere che dagli Uffizi sono finite negli uffici dell’amministrazione
pubblica italiana. “Quella che i magazzini siano pieni di capolavori è
una leggenda”, racconta. “Magari fossi così. Dal 1870, prefetti,
questori, magistrati e politici, fino alle ambasciate decorarono gli
uffici con opere degli Uffizi. Pubblicheremo l’inventario, così tutti
sapranno dove trovarle”. È il microclima che cambia.