sabato 30 giugno 2018

Repubblica 30.6.18
Chi ha visto questi Caravaggio?
di Francesca Cappelletti


Non c’è solo la “ Natività” rubata a Palermo nel 1969 su cui si è appena riaperta l’inchiesta. Tante sono le opere documentate del pittore scomparse nel nulla. A partire dalle tele di Berlino oggi note esclusivamente in fotografia
Per un Caravaggio rubato, come la Natività trafugata da San Lorenzo a Palermo nel 1969, su cui si è appena riaperta un’inchiesta, ce ne sono altri scomparsi nel nulla.
Dobbiamo essere molto grati a chi decise nel corso dell’Ottocento, al momento di distribuire dipinti seicenteschi italiani nella prima pinacoteca nazionale di Berlino, che l’Incredulità di San Tommaso di Caravaggio, uno dei quadri più significativi della pittura dal naturale, la grande rivoluzione dell’artista lombardo, non fosse all’altezza della situazione.
Proveniente dalla collezione romana del marchese Giustiniani, l’Incredulità venne avviata a una serie di peregrinazioni fra palazzi e castelli, rimanendo dal 1942 in quello di Rheinsberg, salvandosi quindi dai bombardamenti di Berlino. Oggi a Potsdam, nel castello di Sanssouci, si può ancora ammirare il gesto straordinario con cui Tommaso si avventura nella piaga del costato di Cristo e nelle difficoltà di comprendere la resurrezione. Solo alcuni dei quadri della collezione Giustiniani che Federico Guglielmo III di Prussia aveva comprato a Parigi nel 1815 finirono infatti nel museo di Berlino, quello di cui il re aveva sentito la mancanza probabilmente visitando le gallerie del Louvre.
Nell’Ottocento il gusto non era ancora incline a riconoscere nelle opere del Barocco la grande arte italiana e solo alcuni dipinti attribuiti a Caravaggio trovarono posto nelle gallerie ufficiali e anche questi con un intento più documentativo che a causa di un profondo apprezzamento estetico. Già intorno al 1940, dopo l’inizio del conflitto mondiale, insieme a molte altre opere d’arte, furono trasferiti in torri appositamente costruite e considerate un rifugio più sicuro.
Non doveva essere così. Poco dopo i bombardamenti e l’ingresso dell’esercito russo a Berlino nel 1945 una di queste, la Flakturm costruita nel quartiere di Friedrichshain, prese fuoco e, nel crollo dei depositi, scomparvero centinaia di quadri e sculture. Un primo elenco di queste opere fu pubblicato negli anni Cinquanta nel Burlington Magazine: vi figuravano i capolavori di Caravaggio già registrati nell’inventario del 1638 di Vincenzo Giustiniani, insieme ad altri quadri seicenteschi della raccolta, a numerose sculture e a dipinti italiani e fiamminghi di diversa provenienza. Nelle monografie che di lì a poco sarebbero state pubblicate sul pittore, Cristo con i discepoli nell’orto degli ulivi, il San Matteo con l’angelo e il Ritratto di Fillide Melandroni, tre dei capolavori a lui attribuiti dai documenti antichi, cominciarono a comparire con la didascalia che recitava solennemente, dopo il titolo, opera perduta. Qualche studioso, privando i lettori di qualsiasi speranza, scriveva, addirittura, opera distrutta. Più pietose e possibiliste, alcune delle diciture degli ultimi anni si limitano a indicarle già a Berlino, nel 1945. Si apre così un piccolo varco, per ora solo lessicale, al pensiero che in quelle giornate drammatiche dell’incendio qualche opera possa essere stata sottratta alle fiamme, trafugata invece che incenerita e che prima o poi la storia sia in grado di restituirla, forse ammaccata, forse solo in parte, quasi certamente proveniente da luoghi remoti. D’altronde proprio la bellissima e bistrattata Incredulità di San Tommaso
trascorse gli anni fra il 1945 e il 1958 nell’allora Unione Sovietica, prima di essere esposta al pubblico a Potsdam nel 1963.
Durante la preparazione della mostra milanese su Caravaggio del 1951 e per gli anni successivi gli studiosi non erano in grado di giudicarla se non attraverso foto in bianco e nero e, nell’assenza di documenti sulla storia della provenienza, rimanevano addirittura scettici sulla sua attribuzione. Ancora adesso soltanto attraverso una foto in bianco e nero conosciamo Cristo con i discepoli nell’orto degli ulivi,
la grande tela appesa all’inizio del Seicento a Roma, nelle stanze del fratello di Vincenzo, il cardinale Benedetto Giustiniani, figura che gli studi di Silvia Danesi Squarzina hanno consentito di recuperare in tutta la sua complessità. La foto consente comunque di leggervi la spericolata monumentalità delle opere di Caravaggio intorno all’impresa delle storie di San Matteo nella cappella Contarelli.
In primo piano la figura di Pietro ammantato, un vecchio maestoso probabilmente fatto adagiare dal pittore nella posa antica delle statue degli dei fluviali, mostra l’assimilazione peculiare della scultura romana che certamente proprio nelle raccolte dei suoi mecenati Caravaggio poté osservare. Se di un’opera di una bellezza equilibrata e matura come il Cristo nell’orto sentiamo certamente la mancanza, ancora più dolorosa, per alcuni versi, è
l’assenza del San Matteo con l’angelo, anche questo un quadro legato a Vincenzo Giustiniani, che secondo le fonti lo avrebbe ricomprato dopo il rifiuto da parte degli eredi Contarelli o del clero di San Luigi dei Francesi.
Probabilmente non andò così: ma certamente si tratta dello stesso soggetto che oggi vediamo sull’altare della cappella Contarelli nella chiesa dei Francesi, dove però un santo dalla potente eleganza di un filosofo antico è colto durante la scrittura del Vangelo, appena interrotto da un angelo fluttuante. Nella composizione che conosciamo dalla foto, l’angelo e il santo sono invece vicini, si sfiorano e si toccano, anzi l’angelo, con i piedi – almeno uno – ben saldo a terra, sembra guidare la mano di un Matteo dalle gambe accavallate e dall’espressione non troppo acuta, in una scena dalla tensione più domestica che divina.
Considerato al suo apparire a Roma un pittore capace di eseguire le “teste”, Caravaggio si dedicò anche al ritratto e un altro dei quadri oggi noti solo in fotografia ci dovrebbe raccontare il pittore a confronto con la sua modella Fillide Melandroni, celebre cortigiana romana.
Arrivata a Roma alla fine del Cinquecento poco più che ragazzina, con la madre e il fratello, Fillide era entrata nel poco rassicurante entourage di Ranuccio Tomassoni, l’avversario al gioco che Caravaggio doveva uccidere nella sfortunata serata del 1606. In una vita come quella di Fillide, piena di alti e bassi, gli alti coincisero con l’aver incontrato Giulio Strozzi, poeta dai nobili natali, che la famiglia cercò in ogni modo di allontanare da Roma e dalla bella modella.
Giulio aveva fatto però in tempo a commissionarne il ritratto.
Con un mazzetto di fiori in mano, di arancio o di mirto, con una pettinatura severa, anche Fillide ci guarda oggi solo dalla fotografia per fortuna fatta eseguire prima della guerra. Se Caravaggio eseguì almeno una ventina di ritratti, a prendere per buone tutte le testimonianze di fonti e inventari, davvero di questa attività ci è rimasto molto poco. Se del ritratto di Fillide si perdono le tracce a Berlino nel 1945, anche un altro dei più importanti ritratti attribuiti a Caravaggio, pubblicato da Roberto Longhi nel 1963, sembra al momento non più localizzabile. Si tratta del Maffeo Barberini, il cardinale poeta e futuro Urbano VIII. Ai tempi in cui conobbe Caravaggio e il suo amico pittore, mercante e sostenitore Prospero Orsi, Maffeo abitava nella “casa grande” ai Giubbonari.
Nel quadro il cardinale si volge all’improvviso, con un gesto ampio del braccio e uno scarto di tutta la figura: una sorta di ritratto in movimento, che si sottrae alla fissità e alla cura della somiglianza fisionomica richieste al genere.
Il “vero Maffeo” come lo chiamava Longhi nel titolo del suo articolo, è stato pubblicato più volte, come in collezione privata fiorentina.
Da qualche tempo però, nessuno sembra sapere più dove sia.
Insomma occhio a cantine, soffitte, caveaux, chiesette in campagna. Non si sa mai.