sabato 30 giugno 2018

Repubblica 30.6.18
La crisi dei democratici
Da dove il pd può ripartire
di Piero Ignazi


Come aveva allegramente dichiarato all’indomani delle elezioni del 4 marzo ora il Pd si trova all’opposizione. Un ruolo che ha già ricoperto nei primi anni della sua esistenza, fino alla fine del 2011. Con una grande differenza, però, visto che allora aveva di fronte l’avversario storico della “ Seconda Repubblica”, un Silvio Berlusconi trionfante. Ora il contesto è del tutto diverso: Berlusconi è ridotto in un angolo e irrilevante, mentre chi comanda il gioco sono due forze nuove un tempo minori della politica italiana. Quindi il Partito democratico si trova di fronte a una nuova, inedita, alleanza di governo dalla quale deve prendere le misure. Ma prima di questo è necessario capire cosa vuole rappresentare, a chi rivolgersi e cosa proporre.
Senza un consenso di massima su queste questioni forse nemmeno il Padreterno potrebbe salvarlo, come ha detto Romani Prodi. Le interpretazioni e le soluzioni invece vanno in molte direzioni diverse. Da un lato Renzi e i suoi pasdaran, semplicemente, non capiscono cosa sia successo. I celebrati mille giorni del governo Renzi — il governo Gentiloni non è nemmeno preso in considerazione ed e già molto che non venga considerato un usurpatore — sono stati così splendenti che è incomprensibile non siano stati premiati dall’elettorato. La caduta di Torino, Roma e della Liguria ancora prima della sconfitta nel referendum istituzionale del dicembre 2016 erano incidenti di percorso irrilevanti. Il semplice fatto che Matteo Renzi non tanto sia rimasto in sella dopo il referendum ma, per di più, sia stato plebiscitato alle primarie della primavera successiva dimostra che gran parte dei sostenitori democrat concordava con quella visione. Questo sentimento di adesione e condivisione attraversa ancora il Pd: una gran parte di militanti rimane legata alla mitologia del 40% e rimuove tutto quello che è successo dopo. Questo nocciolo duro, quasi fideistico, di totale identificazione nell’ex segretario rende problematica una rivisitazione critica di quanto successo. Non per nulla alcuni propongono di andare oltre il Pd per diluire questa resistenza.
D’altro lato, gli interventi, anche stimolanti, che vengono avanzati in questi giorni, come il “ manifesto” proposto da Carlo Calenda, evitano il nocciolo della questione: la svolta “ promarket” e “ antisindacale” ( per riassumere in una parola) della leadership del Pd va abbandonata oppure no? Va conservata perché è espressione di quel “ riformismo” tanto spesso evocato, anche a sinistra? Questo interrogativo si incrocia con il mutato profilo sociale dei votanti del Pd. In particolare, cosa significa la conquista dei bei quartieri delle grandi città? Il ceto medio-alto è stato attratto solo dalle politiche economico-sociali moderate promosse in questi anni o anche e soprattutto da quelle (meritorie) sui diritti civili? Se vale la prima ipotesi allora il Pd ha trovato la sua vocazione, quella di partito neoliberale e non ha molto senso invertire la rotta verso approdi più socialdemocratici come chiede la minoranza interna. Se invece vale la seconda, allora le prospettive sono del tutto diverse perché a quell’elettorato metropolitano, aperto, europeo, si potrà aggiungere un elettorato popolare conquistato da prospettive di giustizia sociale più efficaci e concrete di quelle proposte dai populisti oggi al governo. Un partito che coniuga le libertà del nuovo millennio con diritti sociali equivalenti, cioè non novecenteschi, ha davanti a sé orizzonti molto più ampi.
Questa prospettiva implica una riformulazione delle politiche seguite negli ultimi anni. Per questo provocazioni, manifesti, appelli, sono tutti utili per rimettere mano agli attrezzi della politica senza preoccuparsi di inseguire le “ salvinate” di turno. Anche perché il Pd ha perso il gusto per il confronto, trascinato da una libidine da beauty contest per trovare il leader, come se una politica dipendesse da una persona. Invece di rituffarsi nel rito ormai stanco delle primarie al Pd servono luoghi d’incontro per discutere e per ritrovare una autentica ragione d’essere. Il messaggio vale più del medium (il leader).