Corriere 30.6.18
La strada sbagliata del gruppo dirigente Pd
di Giovanni Belardelli
Come
è sotto gli occhi di tutti, il governo Conte può giovarsi non soltanto
del tradizionale periodo di luna di miele di cui gode normalmente ogni
nuovo esecutivo, ma anche della scomparsa di qualunque significativa
opposizione. Una tale assenza appare del tutto naturale sul fronte
destro dello schieramento politico: FdI guarda benevolmente a un governo
nel quale non avrebbe disdegnato di entrare, mentre Forza Italia non
può certo avere un atteggiamento ostile verso chi, la Lega, potrebbe
essere di nuovo suo alleato in una forse non lontana competizione
elettorale. Quel che piuttosto colpisce è la sostanziale latitanza del
Partito democratico, dal quale non sono venute né una riflessione seria
sulle ragioni della sconfitta elettorale né una critica alla politica
del governo che avesse un vero spessore politico. Il reggente del Pd
Maurizio Martina, a un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse del
fatto che la politica del governo verso l’immigrazione gode di un vasto
consenso, ha risposto: «l’umanità viene prima di qualsiasi sondaggio».
Posizione nobile, se si vuole, ma anche profondamente impolitica, che
rinuncia preventivamente a interrogarsi sulle ragioni di quel consenso,
attribuibili magari, più che a un sotterraneo razzismo degli italiani
tutto da dimostrare, a paure, insicurezze, domande di protezione che il
Pd sembra non voler neppure tentare di intercettare (ci aveva provato
l’ex ministro dell’Interno Minniti, proprio per questo non molto amato a
sinistra). Gli esponenti del partito di Martina potrebbero chiedersi,
insomma, se molti di coloro che approvano la politica «muscolare» del
ministro Salvini (spesso ex elettori Pd) lo facciano perché davvero ne
condividono in tutto e per tutto certe (censurabili) dichiarazioni come
quella sul censimento dei rom o non, piuttosto, malgrado quelle
dichiarazioni; se, insomma, approvano quella politica perché almeno
trovano nel leader leghista una risposta a domande alle quali altri non
ha saputo o voluto dare ascolto.
Denunciare il fatto che il
ministro Salvini «cavalca le paure» degli italiani, come hanno fatto più
volte esponenti del Pd è del tutto sterile, se non ci si interroga sul
malessere reale che si intravvede dietro quelle paure. Lo stesso
bistrattatissimo sovranismo potrebbe segnalare non la presenza, in una
parte dell’opinione pubblica, di simpatie per la «democrazia illiberale»
rivendicata da Victor Orbán, bensì la speranza, non del tutto
infondata, che solo il proprio Stato-comunità possa proteggere quanti si
sentono emarginati, sconfitti, esclusi o comunque spaventati dalla
società globalizzata.
Invece di porsi interrogativi del genere,
invece di interpretare certi sentimenti profondi, anche certe pulsioni
molto grezze (come spesso è, però, di tutto ciò che attiene al mondo dei
sentimenti collettivi), il gruppo dirigente del Pd sta battendo
purtroppo un’altra strada. Sta battendo, accompagnato da intellettuali e
giornalisti che si sentono parte di una sempre meno facilmente
definibile «sinistra», la vecchia strada consistente nel rivendicare
quasi orgogliosamente la contrapposizione tra noi, che saremo pure
minoranza ma vivaddio difendiamo «la ribellione morale, l’empatia,
l’appello all’unità dei più deboli», e loro, che sono invece animati da
«cinismo, indifferenza, caccia al consenso fondata sulla paura». Questa
contrapposizione, che qui ho ripreso con le recenti parole che
campeggiavano sull’infelice copertina di un settimanale, non fa che
riproporre l’idea di un conflitto inconciliabile tra due Italie — quella
di chi votava per Berlusconi e di chi invece per il centrosinistra —
che dopo il 1994 caratterizzò per vent’anni il dibattito pubblico
italiano. Ci fu allora chi, a sinistra, arrivò a parlare di una «cortina
di ferro antropologica» che separava i due schieramenti del bipolarismo
italiano. Ma questa idea di un conflitto tra due mondi inconciliabili
risaliva ancora più indietro, all’esaltazione della «diversità»
comunista (una diversità anzitutto morale) sostenuta da Berlinguer. Si
trattò di una posizione che incontrò allora le critiche anche di alcuni
dirigenti del Pci, da Napolitano a Natta (quest’ultimo, nel suo diario,
lamentava «il tono moralistico, settario, nel senso di una superiorità
da eletti, da puri», della posizione berlingueriana); ma diventò
rapidamente egemone. Renzi, che per età e storia personale non
appartiene alla tradizione del post-comunismo, sembrava aver guarito la
sinistra italiana dal «complesso dei migliori» (come lo ha definito in
un suo libro Luca Ricolfi). C’è da sperare che, uscito lui di scena,
quel complesso – e con esso l’illusione di poter dividere l’Italia in
buoni (noi) e in cattivi (loro) – non ritorni di nuovo in auge.