il manifesto 30.6.18
Bettini: «Il nostro riformismo ha fallito. Senza congresso Pd a rischio»
Democrack/Intervista.
Il padre fondatore dei dem: fra la nostra gente c'è sfiducia e
sfaldamento, ora un confronto politico, al leader pensermo dopo.
Zingaretti? C’è chi mi attribuisce un’influenza sui candidati. Sono
stanco di leggende. Ma ricordo che le candidature a cui ho contribuito
hanno vinto, quelle ufficiali del Pd no
intervista di Daniela Preziosi
«Pronunciamo
in ogni occasione la parola “riformismo”, ma se alla fine di un
ventennio nel quale per lunghi periodi abbiamo governato anche noi, ci
sono in Italia oltre 5 milioni di poveri, di che riformismo parliamo? In
quale misura si verifica se si è riformisti o no?». Fondatore del Pd,
teorico e visionario dell’era delle origini, oggi europarlamentare
molto, molto critico con il suo partito – al punto da mettere in
discussione la sua appartenenza – Goffredo Bettini è il padre ’storico’
della proposta di un nuovo «campo democratico» – così si chiama la sua
associazione fondata anni fa – un’idea di «andare oltre il Pd, ma non a
destra, che oggi, soprattutto dopo la batosta elettorale, è diventata
una necessità e ha trovato nuovi, inaspettati fan.
Sta dicendo che il Pd ha fallito la sua mission riformista?
Le
parole rischiano di non nominare più niente e diventano così maledette.
Le ragioni delle nostre difficoltà sono tante. Ma una le sovrasta
tutte: l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze. Con la
globalizzazione c’è chi è andato in miseria, i ceti medi si sono in
molta parte disgregati, ma si sono accumulate anche enormi ricchezze e
nuovi privilegi. La sinistra ha origine nella difesa di chi sta sotto
nella scala sociale. Ci sarà una ragione se oggi a Roma ci votano ai
Parioli e non a Tor Bella Monaca. Non abbiamo capito la forza e
l’insidia di una globalizzazione guidata da un pensiero mercatista.
Abbiamo pensato di alleviare le punte più aspre. Ma abbiamo accettato il
paradigma avversario.
Il Pd è nato nel 2007, ben dopo gli anni 90
dell’euforia globalista. La rivolta di Seattle è del ’99. L’atto di
nascita del Pd ha inglobato un peccato originale senza possibilità di
redenzione?
L’élite progressista è stata punita e i cittadini si
sono in gran parte buttati tra le braccia di Di Maio e Salvini. Occorre
una ricollocazione politica ideale del nostro movimento.
Il Pd se
l’è cercata. L’attuale gruppo dirigente, con o senza Renzi, non ha avuto
l’autorevolezza e la forza, anche la spregiudicatezza, di provare a
trattare con i 5 stelle. Perché?
Per ragioni interne, di
conservazione di potere, dentro il partito. Oggi in Italia c’è una
destra autoritaria e xenofoba al governo, con il M5s subordinato e in
sofferenza. È la conseguenza di un errore madornale che abbiamo
compiuto, appunto, per ragioni interne. Salvini e Di Maio non sono la
stessa cosa. E i grillini sono un corpo composito e contraddittorio.
Dovevamo aprire un confronto, cercare spazi in mezzo a loro. Abbiamo
regalato a una destra aggressiva, collegata al peggio dell’Europa, una
influenza sul 70% dell’elettorato italiano, che in realtà non ha.
Il Pd è un partito fallito? Non crede nella possibilità «costituente» del prossimo congresso?
Sul
congresso dico una cosa semplice: sarebbe un ulteriore atto di
irresponsabilità pensare di farlo dopo le europee. L’assemblea del 7
luglio deve fissare una data che non vada oltre il febbraio del 2019.
Tra la nostra gente nei territori c’è disorientamento, sfiducia,
sfaldamento. Occorre dare un’ancora certa che la rassicuri. E come dice
bene Andrea Orlando, occorre pensare un percorso diverso. Una prima fase
di confronto politico, una seconda dedicata all’elezione del
segretario. Che non dovrà essere il candidato premier. Se il reggente
Martina si fa promotore di questa visione, lo voto come segretario
subito con pieni poteri.
Al congresso invece si schiererà con Zingaretti, a cui è da sempre molto vicino?
Con
Zingaretti, dato il rapporto che ci lega, voglio avere un certo
distacco e riserbo. Già nel corso degli anni mi è stata attribuita, in
modo esagerato, un’influenza decisiva su leader e sindaci. Sono stanco
di leggende metropolitane che servono solo a nascondere certi
fallimenti. Da qualche parte oggi leggo, senza smentita, che gli ex o
post renziani che hanno portato Roma al disastro chiedono a Nicola di
marcare una discontinuità anche con me. È la solita miserabile solfa. Le
candidature che nel passato ho contribuito a promuovere hanno sempre
vinto. Compreso il defenestrato Marino. E segnalo che anche il successo
di Ciaccheri e Caudo nell’ottavo e terzo municipio è stato possibile
perché non erano le candidature ufficiali del Pd romano. Poi Zingaretti
deciderà da sé, e dalle idee, chi è il passato e chi guarda al futuro.
Io propongo idee, non seguo le “mossette” del momento.