Repubblica 30.6.18
La flotta di Tripoli
Le quattro motovedette donate a Gheddafi incapaci di salvare i naufraghi
di Alessandra Ziniti
ROMA
Un altro gommone che affonda nel mare “bruciato”, senza più navi
umanitarie e con la Guardia costiera italiana alla finestra.
Altre
cento vittime che si aggiungono alle 220 degli ultimi giorni facendo
schizzare a 1100 il numero dei morti nel Mediterraneo nell’anno in cui
il calo delle partenze è dell’80 per cento. Un’altra giornata d’inferno
per la Guardia costiera libica, rimasta sola a pattugliare la zona Sar
appena iscritta nel registro dell’organismo internazionale marittimo. Un
naufragio, altri quattro gommoni da soccorrere, il dispositivo di
soccorso nel Mediterraneo dà mostra di tutti i suoi limiti a poche ore
dall’esile intesa raggiunta dai paesi europei che si basa su un assunto
che, almeno in questo momento, ha fondamenta assai esili: e cioè la
capacità di soccorso in mare della Libia.
«Doneremo altre 12
motovedette alla Libia e formeremo gli equipaggi necessari», ha
annunciato due giorni fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che
ieri ha ribadito la chiusura dei porti italiani alle Ong per tutta
l’estate. Ma mentre le navi umanitarie sono già state fatte fuori dal
Mediterraneo e la Guardia costiera italiana ha già ceduto il
coordinamento dei soccorsi a Tripoli, la “flotta” della Guardia costiera
libica è ancora quella: quattro sole motovedette, classe Bigliani,
dismesse dalla Guardia di finanza, donate da Berlusconi a Gheddafi nel
2011, danneggiate durante la guerra, riportate in Italia per riparazioni
e ridonate l’anno scorso, prima due e poi altre due, dal governo
Gentiloni. Mezzi vecchi, con pochissime dotazioni di bordo e un numero
limitato di personale all’altezza del compito formato nei mesi scorsi in
Italia.
Nulla a che fare con gli assetti della Guardia costiera
italiana che nel pattugliamento nel Mediterraneo ha fin qui schierato
due navi, la Diciotti e la Dattilo e sei motovedette d’altura. Un gap
del quale il governo italiano è ben cosciente tanto da aver annunciato
la donazione di nuove motovedette e la formazione di altri uomini.
Ma
non è solo questione di mezzi. I veri nodi sono quelli del porto sicuro
e del centro di coordinamento dei soccorsi. Fino ad ora nessuno ha mai
ritenuto la Libia un porto sicuro, come prevede la Convenzione di
Amburgo che impone che le persone soccorse vengano portate al più presto
nel porto più vicino in cui vengano garantiti i diritti umani. Tanto è
vero che l’Italia, in nessuno dei soccorsi coordinati, ha mai indicato
un porto libico, certamente il più vicino, come meta di sbarco.
Adesso
dovrebbe farlo il centro di coordinamento dei soccorsi di Tripoli.
L’Imo, l’organismo internazionale marittimo, che ha da poco registrato
la zona Sar libica, solo ieri ha riconosciuto l’esistenza di un centro
di coordinamento dei soccorsi a Tripoli il cui numero di telefono era
stato fornito nei giorni scorsi dalla sala operativa di Roma alle navi
che incrociano in zona Sar libica.
Assolutamente inadeguati i
soccorsi in mare e altrettanto inadeguata quella che dovrebbe essere
l’accoglienza in Libia dove non esiste alcun centro protetto.
Quello
che ha visitato Salvini nella sua trasferta a Tripoli la scorsa
settimana con «cliniche, centri sportivi e assistenza psicologica», che
lo ha spinto a parlare di una Libia con «centri d’accoglienza
all’avanguardia dove le torture non esistono» è una struttura ancora in
costruzione che entro luglio dovrebbe ospitare 160 persone per arrivare a
mille entro l’ anno.
Ma in Libia i migranti intercettati vengono
condotti quasi sempre nei due più grossi centri di detenzione di
Tripoli, Trikk al Matar e Trikk al Sikka, dove ci sono 2mila persone a
testa. Altre 3mila sono stipate in altre cinque piccole strutture
ricavate in hangar o fabbriche dismesse.
Christophe Biteau,
capomissione di Msf a Bani Walid, dice: «Da marzo l’80 per cento dei
detenuti in questi centri sono persone intercettate in mare. Sono in
condizioni terribili. Dai 12 anni in su anche i bimbi vengono tenuti
insieme agli uomini. Un bagno ogni 500 persone. E hanno cominciato ad
utilizzare persino lo zoo di Tripoli».