lunedì 25 giugno 2018

Repubblica 25.6.18
Il buio a sinistra
di Stefano Folli


In una calda domenica d’estate segnata dal disinteresse di circa il 53 per cento degli elettori che hanno preferito andare al mare, il dato politico è uno: la sconfitta del Partito democratico. Si dirà che era attesa dopo il primo turno e tuttavia nella notte ha assunto proporzioni impreviste. In pratica la vecchia tradizione della Toscana “rossa” non esiste più: Pisa, Siena, Massa saranno governate da giunte di destra. E altrove non è meglio, salvo le eccezioni di Ancona, Brindisi, Teramo, del comune litoraneo di Fiumicino, dei municipi romani. Troppo poco per autorizzare anche solo un minimo di ottimismo. È buio pesto per un centrosinistra che non ha mai superato il trauma del 4 marzo e che è palesemente incapace di fronteggiare gli eventi. Sa solo scagliarsi a parole contro il fronte populista, ma senza elaborare una seria analisi circa le ragioni per cui l’Italia, un tempo il paese più europeista del continente, abbia dato una maggioranza schiacciante ai “sovranisti” euro-scettici, creando un laboratorio politico che sfugge a ogni paragone e non ha precedenti. È un fallimento conclamato a cui il gruppo dirigente per ora non sa reagire.
La perdita delle città storiche è persino più grave della disfatta di marzo. Più grave perché intacca il rapporto antico con il territorio, anzi dimostra che una certa relazione sociale e culturale prima ancora che politica non esiste più. Né la destra oggi a guida leghista quasi ovunque (fa eccezione Imperia che si affida a Claudio Scajola e alla sua lista civica), né i Cinque Stelle che tutto sommato reggono la scena tranne che nei municipi della Capitale, vengono da Marte o si qualificano come i nuovi invasori Hyksos. Gli uni e gli altri rappresentano invece il frutto di un drammatico declino del centrosinistra.
Senza dubbio tale declino è parte della sofferenza della sinistra quasi ovunque in Europa, ma sorprende che in Italia non sia mai cominciata una vera riflessione sulle cause, le responsabilità e — se ci sono — sulle vie d’uscita da una crisi che il voto amministrativo di ieri ha illustrato in tutta la sua vastità.
Anche perché la maggioranza giallo-verde è uscita dalle urne senza quello squilibrio a vantaggio della Lega che minerebbe il patto di governo. Nel complesso, come si è detto, sia la destra sovranista sia i Cinque Stelle hanno ottenuto dei successi relativi a macchia di leopardo, da nord a sud. È chiaro che le tensioni nel governo Conte esistono e probabilmente sono destinate ad accentuarsi. Ma il voto di ieri è lungi dal costituire un detonatore. Al tempo stesso la frattura in Europa sull’immigrazione ha creato un fatto nuovo che potrebbe portare al disgregarsi dell’Unione come l’abbiamo conosciuta. Il vertice informale di Bruxelles ha mostrato al mondo le linee di questa rottura incombente. Ovvio che il governo giallo-verde ha tutto l’interesse a procedere compatto in tali frangenti.
Si capisce allora come sia abbastanza fuori dalla realtà la speranza, coltivata da una parte del Pd, di un rovesciamento delle alleanze. Una grande operazione trasformista per cui i Cinque Stelle, o una larga parte di essi, abbandonano il destrorso Salvini per trovare rifugio in una nuova alleanza di governo. Il voto amministrativo non ha certo incoraggiato questa suggestione che sembra figlia di una frustrazione più che di un progetto lucido. Ancora una volta nel Pd, invece di porsi il problema di come ricostruire il centrosinistra, magari accantonando una sigla e dei contenuti ormai logori, si accarezza l’idea di una scorciatoia per tornare al potere grazie a una manovra parlamentare. Ma se il centrosinistra vorrà rientrare in gioco, dovrà prima adattarsi a una lunga marcia in mezzo alle intemperie.

Repubblica 25.6.18
Il commento
La profezia di Hannah Arendt
di Richard J. Bernstein


Nella prefazione alla raccolta di saggi del 1968, L’umanità in tempi bui, Hannah Arendt scrisse: «Anche nei tempi più bui abbiamo diritto di attenderci una qualche illuminazione » . Nei tempi bui di oggi l’opera di Arendt assume nuova importanza proprio perché è fonte di illuminazione. Arendt era dotata di notevole perspicacia nell’analizzare i problemi più gravi, i dubbi più profondi e le tendenze più pericolose della realtà politica moderna, in molti casi presenti ancora oggi. Nell’accenno ai « tempi bui » e nel suo invito a diffidare delle « esortazioni morali o di altro genere che, con il pretesto di confermare antiche verità, degradano ciascuna di queste a insignificante banalità » , leggiamo non solo una critica agli orrori del totalitarismo del XX secolo, ma anche un monito circa alcune forze largamente presenti oggi a livello politico negli Stati Uniti e in Europa.
Arendt fu tra i primi massimi esponenti del pensiero politico a sostenere che la crescita costante del numero di apolidi e profughi avrebbe continuato a essere un problema insormontabile. Uno dei suoi primi saggi, Noi profughi, pubblicato su una rivista nel 1943 e basato sulla sua personale esperienza di apolide, pone questioni fondamentali. Arendt offre una vivida descrizione di cosa significhi perdere casa, lingua e lavoro, e conclude con una riflessione più generale sulle conseguenze politiche del nuovo fenomeno, ossia la “creazione” di masse di persone costrette a lasciare le proprie case e il proprio Paese: «I profughi costretti a muoversi di Paese in Paese rappresentano l’avanguardia dei loro popoli… Il rispetto reciproco dei popoli europei è andato in frantumi quando, e perché, si permise che i membri più deboli fossero esclusi e perseguitati».
Nel momento in cui scriveva tutto questo, Arendt non poteva sapere quanto le sue osservazioni sarebbero state calzanti nel 2018. Negli ultimi cent’anni pressoché tutti gli avvenimenti politici significativi hanno portato al moltiplicarsi di nuove categorie di profughi, un fenomeno apparentemente destinato a ripetersi senza fine. Nel saggio del 1951 dal titolo Le origini del totalitarismo, Arendt scrive riferendosi ai profughi: « La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione, ma nel non appartenere più ad alcuna comunità » . La perdita della comunità comporta l’espulsione dall’umanità stessa. Appellarsi ai diritti umani in astratto non serve in assenza di istituzioni che garantiscano efficacemente tali diritti. Il più fondamentale dei diritti è il “diritto di avere diritti”.
Il saggio Verità e politica, pubblicato nel 1967, potrebbe essere stato scritto ieri. L’analisi che Arendt fa della menzogna sistematica e del pericolo che essa rappresenta per la verità fattuale calza a pennello. Poiché le verità fattuali sono contingenti e di conseguenza il loro opposto è possibile, è fin troppo facile distruggere la verità fattuale sostituendola con “alternative facts”, ossia realtà alternative. In Verità e politica scrive: «La libertà di opinione è una farsa a meno che l’informazione fattuale non venga garantita e i fatti stessi siano sottratti alla disputa » . Purtoppo una delle tecniche più fortunate per sfumare la differenza tra verità e falsità è spacciare qualsiasi verità come una semplice opinione: quello che avviene più o meno quotidianamente a opera dell’amministrazione Trump. Oggi i leader politici seguono con grande successo una prassi eclatante dei regimi totalitari di un tempo, creano cioè un mondo fittizio di realtà alternative.
Arendt individua un rischio ancora peggiore: « Il risultato di una coerente e totale sostituzione di menzogne alla verità non è che ora le menzogne saranno accettate come verità e che la verità sarà denigrata come menzogna, ma che il senso grazie al quale ci orientiamo nel mondo — e la categoria di verità versus falsità è tra i mezzi mentali che servono a tal fine — viene distrutto».
Le possibilità di mentire diventano illimitate e spesso incontrano scarsa resistenza. Molti progressisti restano sconcertati dall’indifferenza del pubblico di fronte alle bugie smascherate in base alla verifica dei fatti. Ma Arendt aveva capito come funziona davvero la propaganda. Le masse « si lasciano convincere non dai fatti, neppure dai fatti inventati, ma soltanto dalla compattezza del sistema che promette di abbracciarle come una sua parte». Gli individui che si sentono negletti e dimenticati anelano a una narrazione — anche fittizia — che dia un senso all’ansia che provano e prometta una sorta di redenzione. I leader autoritari traggono enormi vantaggi sfruttando queste ansie e inventando una storia a cui la gente vuole credere. Una storia inventata che promette di risolvere i problemi di ciascuno ha molta più presa rispetto ai fatti e alle tesi “razionali”.
Arendt non era una Cassandra. Non si è limitata a denunciare i rischi politici, ma ha elaborato un concetto preciso della dignità della politica. Grazie alla nostra capacità di agire, siamo sempre in grado di dare vita a un rinnovamento. Il fulcro del pensiero di Arendt è proprio la necessità di assumersi la responsabilità della nostra vita politica. La sua difesa della dignità della politica rappresenta un metro di giudizio importantissimo per molti di noi a fronte della situazione odierna, che vede diminuite le opportunità di partecipazione, di agire di concerto e di impegnarsi in un dibattito autentico tra pari. Dobbiamo resistere alla tentazione di tirarci fuori dalla politica pensando che non si possa fare nulla contro le brutture, gli inganni e la corruzione di oggi. Per tutta la vita Arendt si è proposta di affrontare e comprendere davvero il buio dei nostri tempi, senza perdere di vista la possibilità di trascendenza e di illuminazione. Noi dovremmo avere lo stesso proposito.
© 2018 The New York Times Traduzione di Emilia Benghi

La Stampa 25.6.18
L’onda legastellata travolge le città
Salvini pigliatutto con i voti del M5S
Addio regioni rosse: cadono le roccaforti toscane. I grillini conquistano Avellino ma perdono Ragusa
di Ugo Magri


Addio regioni «rosse»: in un colpo solo, il centrodestra a trazione leghista si è impossessato di ben quattro roccaforti storiche della sinistra come Massa, Pisa e Siena in Toscana, più in Umbria è riuscito a impadronirsi della città operaia per eccellenza, cioè Terni dove (guarda caso) Matteo Salvini ha voluto chiudere la sua campagna elettorale. Stessa sorte ha subito in Piemonte Ivrea, dove la sinistra mai era riuscita a perdere nell’intero Dopoguerra e ieri è stata la sua prima volta.
Caporetto Pd
A chi interessava capire come si sarebbero schierati nei ballottaggi gli elettori grillini, se con la destra o con il Pd, la risposta dalla Toscana e dall’Umbria è stata forte e chiaranetta: il loro cuore batte per Salvini. Nonostante il leader della Lega se li stia mangiando vivi, anzi felici di essere divorati. Conferma Claudio Borghi, leghista anti-euro, che a notte scrive su Twitter: «Sono convinto che in molti ballottaggi ci sia stata una mano anche dai Cinque Stelle, uniti per battere la sinistra». Il Pd resiste con valore ad Ancona, dove per poco non vinceva già al primo turno con Valeria Mancinelli, e ce la fa pure a Brindisi, strappata da Riccardo Rossi al centrodestra. Ma sorprendentemente i «dem» subiscono ad Avellino (dove sembrava fatta dopo il primo turno) la rimonta del candidato Cinque Stelle, Vincenzo Campi, il quale è riuscito a catalizzare su di sé i voti della destra. E sempre i Cinque Stelle hanno strappato al Pd una città simbolo dell’Emilia Romagna che un tempo era comunistissima, cioè Imola, dove tra l’altro si era tenuta l’anno scorso l’ultima festa nazionale dell’Unità. Pure qui decisivo è stato l’apporto del centrodestra, che compattamente ha sostenuto Manuela Sangiorgi. È il segno che, in questo momento storico, l’onda populista dilaga. Con la sinistra che non sembra più in grado di fare argine.
Come cambia il vento
Nell’insieme, sui 14 capoluoghi di provincia dove ieri si sono tenuti i ballottaggi, il centrodestra ne ha portati a casa 6 (Massa, Pisa, Siena, Sondrio, Terni e Viterbo), che diventano 7 se alla lista si aggiunge Imperia, dove il candidato ufficiale di Lega e Forza Italia, sostenuto dal governatore Giovanni Toti, è stato battuto sul filo di lana da Claudio Scajola, cioè da un berlusconiano oggi in disgrazia ma pur sempre di quella paranza politica. Il centrosinistra ha piantato in tutto tre bandierine: oltre a Brindisi e ad Ancona, pure a Teramo in Abruzzo. Fuori dagli schemi le tre città siciliane ieri al ballottaggio: vittoria dei candidati civici a Siracusa e a Ragusa, addirittura di chi meno ti aspetteresti (Cateno De Luca, esponente dell’Udc) a Messina. È clamoroso come il vento nell’Isola cambi così in fretta: alle Regionali di otto mesi fa si era imposto il candidato del centrodestra, Musumeci; il 4 marzo, nelle Politiche, i grillini avevano fatto piazza pulita conquistando tutti i seggi in Parlamento disponibili; ma adesso, in quattro dei cinque capoluoghi siciliani dove nelle ultime due settimane si è votato, a imporsi sono state le voci della protesta perché da quelle parti, evidentemente, nemmeno i Cinque Stelle soddisfano più.
Affluenza mai così bassa
Merita una segnalazione la percentuale dei votanti: 47,61 per cento. Cioè nemmeno la metà degli aventi diritto si è recata alle urne. Mai così in basso. Rispetto al primo turno, ben 12 punti in meno. Però, a ben vedere, pure nelle amministrative del 2017 lo scarto tra prima votazione e ballottaggio era stata del 12 per cento. E se si risale al 2016, la «forbice» era arrivata addirittura al 13 virgola qualcosa. Inoltre, la partecipazione è stata assai varia: bassissima nelle città dove l’esito appariva scontato in partenza, relativamente alta in quei capoluoghi dove il risultato veniva pronosticato in bilico. Non a caso Pisa, Massa e Siena hanno visto il centrodestra imporsi di un soffio. Ma tanto è bastato per voltare pagina.

La Stampa 25.6.18
Siena, Massa, Pisa
Tre colpi nella notte mandano ko il Pd
di Alessandro Di Matteo


L’onda leghista sommerge anche la Toscana, la speranza del Pd di tenere almeno le roccaforti di una delle due regioni rosse per eccellenza è stata spazzata via scheda dopo scheda, man mano che nella notte procedeva lo scrutinio. Il leader della Lega fa l’en plein, con il centrodestra conquista tutte le città toscane al ballottaggio. Soprattutto, vengono premiati proprio gli uomini scelti dal partito di Matteo Salvini, che ha giocato da protagonista anche nella selezione dei candidati della coalizione.
È stato così a Massa, dove il leghista Francesco Persiani ha vinto con il 56,3% contro il sindaco uscente Fernando Volpi. Stesso copione a Pisa, anche se con un margine più risicato, con la vittoria di Michele Conti, indicato da Lega e Fdi e solo successivamente appoggiato anche da Fi, contro il candidato del centrosinistra Andrea Serfogli: 52,29% contro 47,71%. Più combattuta a Siena, la città di Banca Mps, dove il testa a testa è durato fino all’ultimo ma ha visto prevalere comunque di un soffio il centrodestra con Luigi De Mossi, avvocato, scelto d’intesa da Lega-Fdi e Fi.
E dire che il Pd aveva schierato i suoi pezzi grossi per provare a mobilitare le truppe in vista del ballottaggio. A Pisa, addirittura, sono andati Paolo Gentiloni, Walter Veltroni, il segretario reggente Maurizio Martina, Carlo Calenda. Gentiloni, poi, non ha trascurato nemmeno Massa e Siena, provando a giocare la credibilità conquistata in un anno da presidente del Consiglio.
Tutto inutile, le prime settimane da vice-presidente del Consiglio hanno premiato Salvini, e il leader della Lega non si è limitato a monopolizzare tv, giornali e social network. Salvini ha investito molto sulla Toscana, lo sfondamento in una delle regioni di sinistra per antonomasia non era riuscito nemmeno a Silvio Berlusconi ai tempi d’oro. Il segretario leghista è andato a tenere comizi in tutte le città al voto, chiudendo a Pisa venerdì scorso promettendo «tolleranza zero» nei confronti dei nordafricani protagonisti di una rissa qualche giorno prima. Perché dire «prima gli italiani» funziona anche nei Comuni. Per il Pd, invece, una nuova batosta, dopo che il primo turno aveva fatto sperare che il peggio fosse passato. Un risultato destinato a riaprire lo scontro interno .

La Stampa 25.6.18
La debolezza del populismo senza popolo
di Giovanni De Luna

qui

Repubblica 25.6.18
L’analisi
I due volti del populismo
di Andrea Bonanni


Ormai sta diventando un’abitudine in Europa. Salvini fa la faccia feroce e batte i pugni sul tavolo. Poi passa Conte a raccogliere i cocci e a cercare di rimediare qualche espressione di cortesia. Era già successo con la vicenda dell’Aquarius e le scuse richieste dal governo italiano a Macron, e mai ricevute. Conte è andato lo stesso a Parigi, ottenendo sorrisi e strette di mano, ma i giudizi del presidente francese sull’Italia si sono fatti sempre più duri.
Al vertice informale di ieri a Bruxelles si è visto sostanzialmente lo stesso copione. Dopo che esponenti del governo italiano hanno scambiato parole durissime con i cugini d’Oltralpe e dopo aver minacciato di disertare l’appuntamento, Conte ci è andato lo stesso. Ha presentato un’articolata « proposta » in dieci punti, che erano già quasi tutti acquisiti da tempo (accordi con i Paesi di origine e di transito, screening dei profughi prima che s’imbarchino, finanziamenti per lo sviluppo dell’Africa). L’unica vera novità nel documento italiano era l’idea rivoluzionaria di considerare i migranti economici alla stregua dei rifugiati politici e di redistribuire l’onere della loro accoglienza tra tutti gli Stati membri dell’Ue. Conte è stato ascoltato con attenzione. Ha ottenuto simpatia e promesse d’aiuto. Ma sulla questione principale non ha cavato un ragno dal buco.
Nessuno, in Europa, è disposto ad assumere l’onere di fare quello che l’Italia non vorrebbe più fare: cioè accogliere i profughi e decidere quali possano restare come rifugiati politici e quali vadano rimpatriati. Ma tutti sarebbero disposti ad aiutare l’Italia in questo compito. Francia e Spagna hanno addirittura proposto di creare, da noi, campi di raccolta gestiti e finanziati dall’Ue dove rinchiudere i migranti in attesa di chiarire il loro status. Ma, per ora, il governo italiano non ne vuol sentir parlare.
Il problema è che, pur chiedendo a gran voce la solidarietà europea, l’Italia non è disposta a rinunciare alla piena sovranità sui propri confini. Conte ha perorato l’idea che « chi sbarca in Sicilia sbarca in Europa » . Ma vuole mantenere saldamente il controllo sulla gestione degli sbarchi e sul trattamento dei migranti. Vuole poter continuare a rifiutare l’accesso delle navi umanitarie ai porti italiani. Vuole avere la libertà di lasciar ripartire i migranti verso il resto d’Europa dopo averli registrati. Non intende riprendere indietro quelli che se ne sono già andati. E non ha alcuna intenzione di delegare a Frontex, l’agenzia europea, la gestione dell’emergenza nel Canale di Sicilia. In questa contraddizione si nasconde la debolezza della posizione italiana. Non si può essere europeisti quando si chiede aiuto all’Europa e sovranisti quando si pretende di controllare in prima persona la gestione dell’emergenza migratoria.
Ieri dal vertice straordinario di Bruxelles è emersa chiaramente la disponibilità di molti governi ad aiutare l’Italia. Ma questa disponibilità è condizionata al rispetto di alcune regole e di alcuni principi che sembrano condivisi da tutti. Il primo è che non si possono lasciar morire i naufraghi nel Canale di Sicilia, né si può chiudere i porti alle navi delle Ong. Il secondo è che non si possono lasciar partire i migranti irregolari verso il resto d’Europa, come abbiamo fatto finora. Se il governo italiano veramente crede che «chi sbarca in Sicilia sbarca in Europa», deve cedere all’Europa, insieme agli oneri, anche la sovranità sulla gestione del fenomeno migratorio. Salvini, Di Maio e Conte hanno tempo fino al vertice formale che si terrà a fine settimana per decidere che cosa vogliono veramente.

Corriere 25.6.18
Una diarchia che porta voti al Carroccio
di Massimo Franco


Forse è prematuro parlare di tendenza generale. Ma sembra cominciato lo sfondamento del centrodestra a guida leghista nell’elettorato tradizionale del Pd. La caduta di città identificate per decenni con la sinistra di governo come Siena, Pisa e Massa, oltre a Ivrea e Terni, con il partito di Matteo Salvini ancora in netta ascesa, è un simbolo potente. E per quanto si tratti di risultati sgualciti dall’astensionismo almeno in alcuni dei settantacinque Comuni che hanno votato, i numeri pesano. Confermano uno spostamento a destra dell’elettorato; e una capacità di resistenza del Pd che si esprime soprattutto con la vittoria a Ancona: troppo poco, per velare i contorni dell’ennesima sconfitta. Oltre alla Toscana, bruciano la perdita di Avellino a favore dei Cinque Stelle come a Imola, che dal dopoguerra, per 73 anni era stata governata dalla sinistra. Ma il Movimento di Luigi Di Maio perde Ragusa, che aveva un sindaco grillino, a favore del centrodestra: a conferma che sul piano locale il M5S non è quella macchina «pigliatutto» rivelatasi il 4 marzo; e che i consensi vanno e vengono con grande rapidità. Dai primi dati si ha la sensazione che tra i 2 milioni 800 mila elettori di ieri, la «diarchia» contrattuale tra M5S e Lega abbia cercato una replica anche sul piano locale: seppure con effetti controversi. I due elettorati tendono a sostenersi o comunque a non combattersi. Ma, se si tratta di un patto tacito, va a vantaggio della Lega. Salvini riceve l’ennesima conferma di avere il vento in poppa; e di accentuare un ruolo di traino e di guida rispetto a Forza Italia e Fratelli d’Italia. Forse l’unico segnale in controtendenza arriva da Imperia, dove diventa sindaco l’ex ministro Claudio Scajola, berlusconiano. Più che un attacco a un sistema con ramificazioni ultradecennali, l’affermazione del centrodestra è la prova di una crisi di quel sistema; e della ricerca di nuovi referenti. Il Pd deve fare i conti con un elettorato che ha cambiato pelle; e dunque rovescia gli schieramenti tradizionali e gli interessi che hanno espresso finora.
Per la Lega è una prateria di consensi da contendere al M5S e al resto del centrodestra. Anche perché in generale, il Carroccio non sembra risentire del fatto di essere l’unico partito al governo di quello schieramento. Questo lo avvantaggia oggettivamente. Col suo peso ministeriale, la Lega può ancora di più diventare polo d’attrazione per gli alleati. Sarebbe azzardato collegare i risultati nei 75 Comuni a quanto è successo e sta avvenendo sul piano nazionale. Per intendersi, il conflitto tra Italia e alcune nazioni europee sull’immigrazione, con Salvini protagonista, non avrebbe inciso più di tanto; né la larvata competizione tra i vicepremier Salvini e Di Maio, per ora a favore del primo. Ma colpisce la penetrazione del leghismo e, qua e là, del grillismo in quelle che sembravano roccaforti inespugnabili. L’onda che sta mettendo in crisi la sinistra dovunque, non ha perso la sua forza: probabilmente anche grazie all’immobilismo del vertice del Pd.

Il Fatto 25.6.18
Naufragio: mille migranti affidati a Tripoli
La Guardia costiera italiana ha consegnato i profughi. Altri 300 mila sono in arrivo
di Andrea Palladino


L’ultimo naufragio, in ordine di tempo, tra Italia e Libia ha cifre da brivido: 820 migranti, su sette imbarcazioni di fortuna, con un recupero affidato dalla Guardia costiera italiana – che ha ricevuto il messaggio di richiesta di aiuto – ai militari di Tripoli.
Altri 300 sono da giorni sulla nave umanitaria Lifeline e sul cargo commerciale danese Alexander Maersk, fermi nel canale tra Malta e la Sicilia e davanti al porto di Pozzallo, in attesa di vedersi assegnare un porto per lo sbarco. E dalla Lifeline è partito il twitter di risposta alle provocazioni di Matteo Salvini: “Caro Matteo Salvini, non abbiamo carne a bordo, ma esseri umani. Vi invitiamo cordialmente a convincervi che sono le persone che abbiamo salvato dall’affogare. Vieni qui, sei il benvenuto”. Polemiche anche per il tweet (poi cancellato) del senatore M5S, Elio Lannutti: “Migranti: credo che di questo passo, le Ong finanziate da Soros ed altri ideologhi della sostituzione etnica, oltre ad essere bandite dovranno essere affondate. Tolleranza zero”.
Il passaggio delle consegne dalle autorità italiane a quelle libiche e il blocco dei porti sono ormai un fatto compiuto. Cambio di strategia evidente sulla plancia della nave Ong, Open arms, che aveva dato la disponibilità ad intervenire, anche perché le poche motovedette di Tripoli difficilmente potevano far fronte ad un naufragio così vasto. La risposta è stata secca: allontanatevi. La nave umanitaria ieri sera era in viaggio verso l’area dei sette gommoni, come raccontano fonti della Ong al Fatto. Le imbarcazioni però non erano ancora state individuate, mentre la notte iniziava a rendere tutto più difficile.
La pressione dalla Libia sta crescendo. Secondo fonti autorevoli ci sarebbero circa 300 mila migranti e rifugiati stretti tra il deserto e il mare. Le stesse fonti – che chiedono l’anonimato – parlano anche di una tensione crescente a Tripoli, mentre l’Unhcr riesce al momento ad organizzare l’evacuazione dei soggetti più fragili – in numeri irrisori – quasi esclusivamente verso il Niger, scelto come luogo di transito provvisorio. Risale al 19 giugno scorso l’ultimo viaggio aereo organizzato dall’Onu, con appena 122 richiedenti asilo a bordo. Una goccia nel mare. Per il prossimo luglio è prevista l’apertura di un campo di transito da parte del ministero dell’Interno libico, che potrà accogliere le “vulnerabilità” (donne a rischio violenza, minori e torturati) identificate all’interno dei campi di detenzione per migranti, per mille persone. “Non si tratta, però, di un hotspot”, hanno spiegato fonti dell’Unhcr. Difficile, dunque, trovare vie umanitarie sicure per i rifugiati e i richiedenti asilo.
La soluzione per la nave della Ong di Dresda Lifeline appare intanto lontana. Ieri l’equipaggio dell’imbarcazione – ferma nell’area Sar di Malta – ha ripetuto di aver urgentemente bisogno di un porto per lo sbarco dei 234 migranti, con una situazione di stanchezza e tensione che appariva evidente nei volti dell’equipaggio e dei naufraghi nei video diffusi dall’organizzazione tedesca.

Repubblica 25.6.18
Ahmed Maitig, vicepremier di Tripoli
“Hot-spot in Libia? Impossibile, sarebbero contrari alle nostre leggi”
Intervista al vicepremier alla vigilia della visita di Salvini
di Vincenzo Nigro


TRIPOLI «Il vostro ministro dell’Interno Matteo Salvini è il primo esponente del nuovo governo ad arrivare qui in Libia. Capiamo bene la scelta: la vostra prima emergenza è quella migratoria. È un problema importante anche per noi, Italia e Libia devono affrontarlo insieme, con politiche comuni, condividendo la visione e la soluzione del problema.
Dobbiamo rafforzare la lotta ai trafficanti, che portano i migranti da voi in Italia e che per noi sono bande criminali pericolose, che non permettono alla Libia di fare passi avanti verso una normalizzazione difficile.
Dobbiamo fermare questo traffico ai confini meridionali della Libia, e poi tutta l’Europa deve pensare alle misure strutturali nei paesi africani per fermare i migranti».
Ahmed Maitig, vicepremier di Tripoli e rappresentante della potente città di Misurata, parla alla vigilia dell’arrivo di Salvini.
«Ho visto che il nuovo governo si è impegnato dal primo momento sui migranti. Giusto, siamo interessati a lavorare con Salvini, con il premier Conte e il ministro Di Maio, la collaborazione fra Italia e Libia è decisiva».
Sui migranti è esplosa una crisi fra Italia e Francia.
«Sono preoccupato e dispiaciuto che la questione migranti possa avere innescato lo scontro. Ma Italia e Francia, oltre ad essere due pilastri dell’Ue, sono due paesi strategici per la sicurezza, il benessere della Libi a e del Mediterraneo. Noi libici li consideriamo come vicini decisivi per il futuro della regione.
Dobbiamo lavorare tutti insieme per trovare soluzioni, per la stabilità del mare che ci unisce».
Da anni esiste questo problema, ma per il vostro governo è solo uno dei problemi, non sembra vi stiate dedicando una attenzione decisiva…
«Ma sta scherzando? Non è vero, la Libia si è impegnata sulla questione dei migranti da tempo. Ma il nostro è un paese che ha problemi enormi, li conoscete. Il tema dell’assetto delle forze di sicurezza, del loro rafforzamento, è noto. C’è poi quello degli assetti politici, della capacità di tenere unito il paese.
Nessuno ci può accusare di non occuparci del traffico di migranti».
Come vede il nuovo governo italiano?
«Dice una cosa che noi ripetiamo da anni. Le Ong fanno un lavoro di trasporto, non di vero salvataggio, un’azione che è contro ogni logica di interruzione del traffico dei migranti. L’operazione navale Sofia così come è organizzata non porta aiuto alla Libia per fermare il fenomeno, che ripeto è reso possibile anche dall’azione delle Ong. La migrazione si fermerà migliorando le condizioni delle popolazioni nei paesi d’origine».
Si ma per questo ci vorranno anni: e intanto? È possibile per
esempio immaginare hot-spot per i migranti in Libia?
«Non è possibile, l’identificazione da parte di autorità straniere in Libia è contro la nostra legge. Per noi sono solo migranti illegali. Ma sono sicuro che con il nuovo governo italiano e con la Ue potremo lavorare su soluzioni più efficaci di quelle praticate finora».
Che cosa dice del vertice di Parigi? Sembra che invece di aiutare abbia provocato nuovi problemi nel vostro assetto politico.
«Iniziativa lodevole del presidente Macron: per la prima volta tutti insieme, anche il presidente Mishri con il generale Haftar».
Ma Mishri che è un Fratello musulmano non ha voluto stringere la mano ad Haftar…
«Intanto si sono incontrati, il problema è che il dialogo politico si è disperso, non riesce ad andare avanti efficacemente».
Ce la farete a fare elezioni entro l’anno?
«Ci sono difficoltà, ma dobbiamo far partire il percorso che porta a consolidare le istituzioni libiche.
Dovremo fare una Costituzione e la Costituzione dovrà essere sottoposta a un referendum.
Devono partecipare tutte le componenti della società libica, come Misurata che a Parigi non era presente. Misurata ha avuto un ruolo decisivo in una battaglia che i libici hanno combattuto praticamente da soli, contro l’ISIS a Sirte nel 2016. Abbiamo perso centinaia di uomini, abbiamo migliaia di feriti, e anzi siamo ancora grati all’Italia per averci sostenuto con l’ospedale militare».
Le condizioni economiche del paese sono ancora difficilissime.
«Anche di questo parleremo con i vostri ministri. Con l’Italia abbiamo una partnership economica importante, siamo presenti con nostri investimenti in aziende come Eni, Leonardo, Unicredit, Retelit.
Far girare meglio l’economia libica serve a stabilizzare il paese, a rendere più sicure le istituzioni, ad arginare il traffico dei migranti. Ma vogliamo parlare anche di joint-ventures con aziende italiane, nel settore dell’energia, in altri settori».

Repubblica 25.6.18
Stupore all’Eliseo “Ma dov’è finita l’altra Italia?”
di Anais Ginori


PARIGI È diventata ormai una faccenda personale quella tra Emmanuel Macron e Matteo Salvini. Lo scontro va in scena da giorni, davanti all’Europa intera, e non è chiaro come o quando finirà.
«Non accettiamo lezioni da nessuno», ha detto il presidente francese al suo arrivo a Bruxelles, ancora una volta alludendo al ministro dell’Interno, spalleggiato ormai dal vicepremier Luigi Di Maio.
Macron non è abituato a sottrarsi al conflitto, anzi spesso lo cerca consapevolmente. Parlare di “lebbra” a proposito degli estremismi antieuropei che cavalcano le paure non è qualcosa di azzardato per un giovane politico freddo e calcolatore. Al di là della difesa degli interessi francesi, l’inquilino dell’Eliseo è convinto che non bisogna concedere nulla al discorso della Lega, molto simile a quello di Marine Le Pen, per difendere una certa idea d’Europa. Il duello insomma era atteso.
Quel che stupisce semmai all’Eliseo è l’assenza di un’opposizione forte in Italia, che sia capace di difendere quegli stessi valori europei. «La Lega e i 5 Stelle hanno vinto le elezioni e quindi è normale che abbiano un seguito popolare», osservano nell’entourage del presidente. La domanda semmai è un’altra: «Dov’è la voce dell’altra Italia?».
Accusato di essere «ipocrita», «egoista» o di «bere troppo champagne», Macron non ha trovato quasi nessuna sponda nel nostro Paese. Per il leader francese è quasi la conferma di quel “contagio” rapido e inarrestabile che ha denunciato. Macron, che ha fatto una tesi di dottorato su Macchiavelli, ha letto Italo Svevo e ama la nostra cultura, non ha perso occasione in passato di ricordare la sua passione per il nostro Paese. La salvinizzazione dell’Italia è osservata con preoccupazione dall’Eliseo. Difficile però trovare qualche segno di convergenza con altri interlocutori politici italiani.
Durante gli attacchi quotidiani di Salvini, non si è sentita una difesa da parte di Matteo Renzi, che pure ha incontrato qualche giorno fa il leader di En Marche Christophe Castaner per futuribili e non ancora chiare alleanze. Tace imbarazzato il Pd. Altre voci di europeisti italiani nello scontro frontale tra Salvini e Macron, non pervenute. Tutte cose notate all’Eliseo. Macron arriva domani a Roma per incontrare il Papa. La visita in Vaticano non sarà accompagnata da un incontro bilaterale con Giuseppe Conte. I rapporti diplomatici tra i due Paesi sono ai minimi. Il leader francese incontrerà i rappresentanti di Sant’Egidio, forse l’immagine dell’“altra Italia” a cui vuole rivolgersi l’Eliseo, meno rumorosa di quella al potere ma non per questo inesistente.

Repubblica 25.6.18
Sánchez
“Roma porta avanti un discorso antieuropeo, noi creiamo il fronte europeista”
di Soledad Gallego - Díaz Carlos E. Cué


Presidente Sánchez, il tema dell’immigrazione è quello che più divide l’Ue in questo momento. Tutto indica che le posizioni della Ue si irrigidiranno. La Spagna condivide questo irrigidimento?
«La causa fondamentale della crisi migratoria è una ragione demografica. Dal 2018 al 2050, nell’Ue continueremo ad avere circa 700 milioni di abitanti, ma l’Africa andrà a 2,4 miliardi. Il 60% di quella popolazione avrà meno di 25 anni. Il 40% dei bambini nati nel 2050 nascerà in Africa. Non è una sfida che può essere risolta a breve termine. Nel medio termine, bisogna elaborare un grande piano Marshall per stabilizzare a livello democratico, economico e sociale i paesi di origine. E, a breve termine, l’Ue deve regolare i flussi migratori. È demagogico tanto dire che si chiuderanno ermeticamente le frontiere, in un mondo globale come quello in cui viviamo, quanto dire “porte aperte”. Non ci può essere una risposta unilaterale. Con l’Aquarius abbiamo lanciato un appello alla solidarietà. Ma una cosa è una crisi umanitaria e un’altra è la politica migratoria. E la politica migratoria deve avere una risposta comune, europea».
L’Italia sta già respingendo altre navi. La Spagna ne accoglierà altre?
«Non resteremo insensibili a queste tragedie umanitarie, ma è evidente che la Spagna, da sola, non può dare una risposta».
Questa risposta comune europea può consistere nella creazione di campi al di fuori dei confini dell’Ue?
«Non mi sembra una soluzione che siano i paesi di frontiera quelli che se ne facciano carico in maniera esclusiva. L’eurofobia è la principale minaccia per la Ue. Ci sono governi, come quello l’italiano, che stanno portando avanti un discorso antieuropeo, e in cui si privilegia l’egoismo nazionale. In questo c’entra la precedente mancanza di solidarietà da parte dell’Ue rispetto a un paese che sta accogliendo mezzo milione di esseri umani che vengono dalle coste della Libia. Il miglior modo per combattere l’eurofobia è lo sviluppo di una maggiore integrazione. Siamo un governo europeista e andiamo al Consiglio (del 28 e 29 giugno, l’intervista è stata fatta prima del mini vertice di ieri, ndr) con l’intenzione di dare una risposta comune».
Il suo discorso e quello del presidente francese sono i più europeisti all’interno della Ue.
La Spagna e la Francia sono alleati in questo momento?
«Ho avuto occasione di parlare con Macron e c’è stata un’identità di vedute rispetto agli obiettivi riguardanti l’immigrazione.
Apprezzo l’aiuto che ci ha dato con l’Aquarius e anche la sintonia sulla politica di integrazione economica e monetaria. Sono stati fatti passi significativi nel bilancio della zona euro».
Volete unirvi all’asse Parigi-Berlino, visto che l’Italia ne sta rimanendo fuori?
«È una scelta del governo italiano.
Quello che vogliamo noi è che ci sia un fronte europeista che riduca l’eurofobia».

La Stampa 25.6.18
La Turchia profonda incorona Erdogan
Al presidente un potere senza limiti
di Giordano Stabile


Dalle mura della cittadella di Ankara, a quasi mille metri di altitudine, l’occhio abbraccia all’infinito l’altopiano anatolico. Se c’è un posto da dove Recep Tayyip Erdogan potrà contemplare il suo nuovo potere quasi assoluto è qui, più ancora che sulle sponde del Bosforo. La Turchia profonda, con le sua antiche fortezze e capitali dei primi turchi selgiuchidi, si è confermata ancora una volta la sua sicurezza, compatta dietro il «sultano repubblicano», come cominciano a chiamarlo fra le file dell’opposizione sconfitta e delusa. Le folle di Smirne e Istanbul a favore del grande rivale Muharrem Ince, staccato di quasi venti punti, non sono bastate.
Al quartier generale dell’Akp, il partito del presidente, nei centri stampa gestiti dal governo, però, la suspence si è prolungata fin quasi alla mezzanotte. Come già nel referendum costituzionale dello scorso anno, il vantaggio abissale all’inizio dello spoglio, con Erdogan quasi al 60%, si è man mano ridotto, fino al finale 52,7. Una vittoria, certo, e al primo turno, ma non il plebiscito che forse si aspettava, sperava in cuor suo il reiss. E la stessa parziale delusione è arrivata dalle elezioni parlamentari abbinate, dove l’Akp è rimasto sotto la soglia della maggioranza assoluta e ora dovrà appoggiarsi all’alleato nazionalista Mhp, all’11%, in una coalizione forzata che erode un minimo lo strapotere del leader. Anche così, però, la scommessa del voto anticipato è un successo. «Abbiamo vinto la nostra rivoluzione democratica, è una lezione di democrazia, spero che nessuno metta in dubbio la legittimità della vittoria», è stato il primo commento del vincitore in tv.
Il regime presidenziale entra in vigore un anno e mezzo prima del previsto. Ora Erdogan è presidente e capo del governo. Il premier Binali Yildirim, come aveva già preannunciato lui stesso, sarà l’ultimo della storia della Turchia moderna. Il presidente nominerà e rimuoverà i ministri a suo piacimento, farà e disfarà i governi, scioglierà il Parlamento quando lo riterrà opportuno. Il leader ha già annunciato una riforma che ridurrà il numero dei dicasteri a 16 e i giornali hanno pubblicato il nuovo schema istituzionale: nei grafici sembra il sistema Tolemaico, con il presidente al centro, poi gli altri poteri, compreso quello giudiziario, che ruotano attorno, e infine i ministeri, in un cerchio più esterno. Dai tempi dell’ultimo sultano Mehmed VI, deposto da Ataturk nel 1922, non si vedeva un potere così accentrato.
Piazze piene, urne vuote
Nonostante i comizi oceanici di Ince il risultato finale era nell’aria. Nei seggi allestiti nei vecchi licei all’ombra della Cittadella, nel quartiere di Ulus che era il cuore della capitale appena fondata negli Anni Venti, il clima era depresso. Poco prima delle cinque del pomeriggio, quasi alla chiusura, le urna trasparenti erano mezze vuote, le buste color senape facevano quasi tristezza, anche se alla fine il dato ufficiale dell’affluenza sarà dell’87%. Anche i pochi elettori che alla fine confessavano di aver votato per l’opposizione erano rassegnati: «Alla fine vincerà lui, o lo faranno vincere». Le voci di brogli rimbalzavano sui social e sui telefoni e subito dopo la chiusura dei seggi un cordone impressionate di poliziotti, recinzioni e persino camion inviati dal comune di Ankara circondavano l’isolato nel quartiere centrale di Kizilay dove ha sede il Supremo consiglio elettorale, l’organo deputato ad annunciare i risultati ufficiali. È notte quando Ince accusa: «I dati sono stati manipolati».
Il governo temeva un assalto, dopo le denunce del partito di Ince, il Chp, e quelle dei curdi, furiosi per lo spostamento di molti seggi nel Sud-Est, da zone con maggioranze a favore del partito curdo Hdp ad altre dominate dall’Akp. Un modo per intimidire gli elettori d’opposizione, o poter maneggiare le urne lontani da occhi indiscreti, anche se poi comunque l’Hdp ha superato la soglia di sbarramento del 10 per cento. Ad alimentare la tensione arrivava anche la notizia dell’arresto di “dieci stranieri”, compresi quattro italiani, accusati di voler “manipolare il voto”.
Lo stato d’emergenza
Il trauma del dopo golpe del 15 luglio 2016 è ancora forte. Con 50 mila persone in prigione, 140 mila licenziate, il “sultanato repubblicano” si annuncia avaro di spazi per opposizione e dissidenti. Erdogan ha ribadito ieri notte, parlando dal bus della campagna elettorale, che con la fine della transizione costituzionale «le libertà e i diritti civili saranno migliorati», finirà lo stato di emergenza e, si spera, la repressione a tutto campo. Ora nessuno può contestare il suo potere, almeno fino al 2023, quando la repubblica turca compirà cento anni. Dalle mosse dei prossimi giorni si capirà che eredità vuole lasciare il reiss. Un Paese stretto nella paura e chiuso in se stesso. O la nazione guida di un mondo musulmano conciliato con la modernità, come sogna nei suoi sogni migliori.

La Stampa 25.6.18
“Carisma e grandi opere la sua ricetta vincente”
di Marta Ottaviani


Un leader ancora forte e un Paese destinato a rimanere polarizzato. Soner Cagatpay, analista del Washington Institute, spiega come leggere i risultati turchi.
Quali sono le sue prime impressioni su questo voto?
«La personalità di Recep Tayyip Erdogan rimane la più forte sulla scena. Il risultato delle presidenziali riflette quello del referendum costituzionale dello scorso anno. La Turchia è spaccata in due con una metà che sta con Erdogan. E questa metà è certa di vivere in un Paese dove ha potuto esprimere democraticamente la sua preferenza e di essere guidata da un leader forte eletto dal popolo».
E l’altra?
«La buona notizia è che in queste elezioni sono entrati molti partiti in parlamento. L’Assemblea turca non era così vivace dagli anni Novanta. L’ingresso curdo è un particolare molto importante e visto che nessuno si è voluto alleare con loro adesso giocheranno la loro partita da soli, magari anche alleandosi con Erdogan. Sarà molto importante capire se l’opposizione saprà compattarsi».
Rimane il fatto che Erdogan è di nuovo in parlamento e ha la maggioranza con la sua coalizione. Che farà adesso?
«Erdogan sa di aver vinto dopo una campagna molto sbilanciata e che in altre condizioni il risultato sarebbe stato diverso. Per lui non è il momento di allentare la presa. Mi aspetto una politica ancora più autoritaria».
Perché Erdogan vince?
«Carisma a parte, ha tirato fuori milioni di persone dalla miseria. Nel Paese sono state costruite centinaia di infrastrutture, le città hanno cambiato volto. Erdogan è un leader populista che ha anticipato alcune tendenze presenti oggi in Europa. Si è presentato come leader del popolo, contro le élite».

Repubblica 25.6.18
Esmahan Aykol
“Impossibile batterlo attraverso il voto il suo clan non lo consente”
di M. Ans.


ISTANBUL «Niente da fare. Attraverso il voto è impossibile batterlo.
Erdogan ha vinto anche questa volta, ed è un successo per certi aspetti inatteso. Ma è così. Oggi la gente che gli è contro è ancora scioccata, domani realizzeranno che non riusciranno mai a vincere».
Esmahan Aykol, autrice di gialli pubblicati in Italia da Sellerio (“Divorzio alla turca”, “Appartamento a Istanbul”, “Hotel Bosforo”), ha seguito il voto a Istanbul per tutta la giornata. Prima è andata in una scuola di Cihangir, il quartiere dove vivono molti scrittori, per vedere le operazioni di scrutinio in una scuola. La sera è a cena a casa di amici, dove da un lato guarda la tv che dà i risultati ufficiali, dall’altro compulsa il suo cellulare dove Twitter e i social invitano a protestare contro brogli e osservatori internazionali fermati.
Esmahan Aykol, comunque è un trionfo per il Sultano.
«Ora ci rendiamo conto che non poteva essere altrimenti. Non c’è alcuna possibilità che Erdogan perda il potere legalmente. Se succedesse, verrebbero messi in discussione i suoi 16 anni al vertice e le illegalità di cui è accusato. Una cosa al momento impensabile».
Ma perché ha vinto?
«Erdogan, il suo partito, e la sua gang, non possono perdere, altrimenti devono pagare. Forse ci potrà essere un modo attraverso pressioni internazionali, o una guerra civile, purtroppo. Ma legalmente non c’è alcuna chance di schiodarlo».
Però più del 50 per cento dei turchi lo ha votato: è un sostegno inequivocabile, no?
«È incredibile. Per tutto il giorno il partito repubblicano ha parlato di brogli, ma alla fine credo che il risultato non cambierà».
E Erdogan cambierà dopo questa vittoria?
«Non può cambiare. Ha tante di quelle accuse di illegalità, e lo dico da autrice di ‘crime stories’, che non le sappiamo nemmeno.
Se perdesse, dovrebbe essere portato in tribunale, lui e la sua gang. Ma dalla sua ha la polizia, l’esercito, e vince in ogni caso».
Il partito curdo ancora una volta è riuscito a entrare in Parlamento. Questo aiuterà a calmare le tensioni nel sud est?
«Non penso, ma il loro è un risultato che dà fiducia. Quella settantina di seggi ottenuti sarebbe andata al partito al potere, e invece vanno a chi sostiene i diritti dei curdi, alla gente di sinistra».
Mentre il nuovo Partito Buono della signora Aksener uscita dai Lupi grigi non ha sfondato. Perché?
«Su di lei c’erano molte speranze.
Invece non ha ottenuto nulla. Il partito nazionalista dei Lupi grigi l’ha sopravanzata. Molto strano».
Quanto è grande il disappunto dell’opposizione laica?
«C’era grande speranza in Turchia. Il candidato messo in campo dai repubblicani, Muharrem Ince, è stato una buona scelta. L’altra sera sono andata a un suo comizio a Istanbul, nella zona di Maltepe, e c’erano tanti giovani, sembrava di essere a un concerto rock, ma pure gente anziana, e si respirava la speranza, un desiderio di cambiamento. Tutto questo ora si è dissolto. Devono trovare un’altra strada, attraverso le elezioni è chiaro a tutti che non vinceranno mai».
C’è una grande distanza, però, fra la speranza di ieri e il risultato di oggi.
«In mattinata sono andata in una scuola di Cihangir, zona di intellettuali e artisti: i voti per Erdogan erano 40, quelli per Ince 250».
Ma questa è Istanbul, mentre la Turchia è grande, e la pancia del Paese, l’Anatolia, sta con il leader.
«Sono due Paesi diversi, due gruppi diversi. Ma non credo che si possa tenere a lungo uno Stato in questa situazione. Ora si aprono 6-7 mesi con un grande punto di domanda».
Quale?
«L’economia. Il governo sta dimostrando che non riesce a risolvere la crisi. E il futuro non è brillante per la Turchia».

Il Fatto 25.6.18
Il Sultano si (ri)prende tutto. Erdogan oltre il 50 per cento
Il leader turco vince le presidenziali e ora, in base alla nuova Carta, avrà enormi poteri
di Roberta Zunini


Il Sultano regnerà ancora sulla Turchia per soli 2 punti percentuali (supera il 52%) e, cataclismi a parte, passerà alla storia come il nuovo Ataturk arrivando a eguagliare il primato di Mustafa Kemal. Grazie alla nuova legge elettorale che premia la coalizione, anche il suo partito della Giustizia e Sviluppo ( Akp) continuerà a guidare il parlamento avendo ottenuto assieme ai nazionalisti del Mhp oltre 344 seggi su 600. Ma nè Erdogan nè l’Akp hanno stravinto mentre i partiti opposizione si sono rafforzati, soprattutto il partito filocurdo democraticoo dei popoli che ha raggiunto 11 per cento guadagnando 66 seggi.
L’opposizione pur denunciando brogli e irregolarità, sente di aver ritrovato la rotta, anche se con i nuovi poteri derivati dal cambiamento della costituzione in senso presidenzialista il Sultano potrà interferire nei lavori parlamentari con decreti esecutivi.
Il partito dell’oppositore repubblicano laico Ince, pur essendo calato dal 25 al 20 per cento circa dei voti, può contare sulla alleanza con Il nuovo Partito Buono della signora Meral Aksener che ha raggiunto la soglia di sbarramentoo del 10 per cento necessaria a entrare in Parlamento. Intanto Selahattin Demirtas, il leader dell’Hdp in carcere da un anno e mezzo, tira un sospiro di sollievo per la sopravvivenza del suo partito pesantemente perseguitato dalla magistratura al guinzaglio del Sultano dopo il fallito golpe del 2016. Merita di essere sottolineato che il vecchio e controverso leader dei Lupi Grigi, Devlet Bahceli, aveva visto giusto nel chiedere a Erdogan di anticipare di un anno e mezzo le consultazioni e cambiare la legge elettorale a favore delle coalizioni pre elettorali. Il leader del Mhp le aveva volute per timore di non poter supererare la soglia di sbarramento nel 2019 a causa della nascita del Buon partito della sua ex collega Askener, fuoriuscita dal partito perché in disaccordo con Bahceli data la sua cieca vicinanza al Sultano.
Ma, pur essendo entrato in Parlamento, il Buon partito non è riuscito a saccheggiare i voti del Mhp.
Da domani la Turchia entra in una nuova era. Sarà una democrazia svuotata delle istanze che la rendono tale perché di fatto non ci sarà più la divisione netta tra i poteri dello Stato. Nel frattempo una cittadina italiana, Christina Cartafesta, è stata fermata dalle autorità turche in una provincia curda nel sud est dell’Anatolia. La donna è accusata di essersi spacciata per osservatrice dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, presente in Turchia per verificare la regolarità delle elezioni. Sono stati invece dopo un breve fermo i 3 italiani fermati a Diyarbakir, nel sud-est della Turchia, mentre cercavano di svolgere attività di osservatori per le elezioni presidenziali e parlamentari con alcuni membri del partito filo-curdo Hdp. La polizia ne avrebbe impedito l’ingresso nei seggi perché senza regolare accredito.
Due giorni fa un altro osservatore italiano era stato bloccato all’aeroporto di Istanbul e rispedito indietro. Anche tre francesi sono stati fermati per lo stesso motivo, e poi liberati. Il consolato generale d’Italia a Istanbul e l’ambasciata ad Ankara stanno seguendo la situazione, mentre tutta la Turchia resta con il fiato sospeso per la conta finale dei voti.

Repubblica 25.6.18
Più indigna l’altro Paese, più convince chi lo ha votato
Il feeling di Trump con la sua America record di consensi tra i repubblicani
Il 90 % degli elettori di centrodestra è con il presidente. Lo stesso sostegno che ebbe Bush dopo l’11 settembre
di Federico Rampini


NEW YORK Donald Trump vola nei sondaggi. Nell’ultima indagine demoscopica Gallup sfiora il 90% dei consensi. Tra gli elettori repubblicani, naturalmente. Ma non è un risultato da poco. Per ritrovare un presidente repubblicano così popolare tra i suoi bisogna risalire a George W. Bush nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre 2001, che creò una forte coesione tra il leader e la sua base.
Il sondaggio su Trump è stato fatto subito prima della “ crisi dei bambini al confine”, l’emergenza umanitaria sulle separazioni genitori- figli tra gli immigrati. È probabile però che anche quella abbia effetti diametralmente opposti nelle “due Americhe”. Tra i democratici c’è indignazione per il trattamento dei bambini e l’ostilità verso Trump ne trae nuovo alimento. A destra la narrazione di questa crisi nei notiziari della tv Fox News è molto diversa. Viene sottolineato che sono gli immigrati clandestini ad aver violato le leggi americane esponendo i propri figli ad ogni rischio. È stato anche notato che metodi duri coi minori erano già usati sotto l’Amministrazione Obama, nell’indifferenza dei media. La Fox News ha dato ampio spazio a un infortunio in cui sono incappati diversi siti: la pubblicazione di una foto di bambini “in gabbia”, che risaliva ad anni fa quando alla Casa Bianca c’era Obama. Comunque per la base repubblicana lo slogan della tolleranza zero è la conferma che Trump capisce le loro paure e vuole mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.
Qualcosa di simile è già accaduto con il protezionismo, o la Corea del Nord. I dazi sull’acciaio europeo o sulle tecnologie cinesi sollevano un coro di critiche non solo all’estero ma anche sulla stampa progressista, dal New York Times al Washington Post non passa giorno senza qualche analisi allarmata sugli effetti-boomerang del protezionismo, e la previsione che finirà per danneggiare la stessa economia americana. A queste reazioni negative si uniscono quelle del mondo confindustriale, favorevole al libero scambio. Però chi applaude i dazi è proprio la base operaia che fu decisiva per l’elezione di Trump alla presidenza. Qui tra l’altro le mosse del presidente fanno breccia tra gli operai che votano democratico. Non a caso il capogruppo democratico al Senato, Chuck Schumer, si è affrettato ad elogiare i dazi sul made in China. Sulla Corea del Nord i media liberal hanno ridicolizzato il summit con Kim; quelli di destra si chiedono se avrebbero reagito allo stesso modo di fronte a un incontro tra Obama e il dittatore.
È presto per valutare le ricadute sull’elezione legislativa di mid- term che si terrà a novembre. Gli uni e gli altri stanno giocando sull’elemento cruciale che è l’affluenza al voto. Tradizionalmente nel voto di metà termine c’è un “effetto disillusione” verso il presidente in carica, che fa salire l’assenteismo tra gli elettori del suo partito. I democratici sperano che la propria base voti in massa, per conquistare una maggioranza al Congresso che blocchi questo presidente. Trump si adopera perché i repubblicani facciano quadrato in sua difesa.

Repubblica 25.6.18
Ungheria
Orbán ora prende di mira il musical “Billy Elliott”
di Andrea Tarquini


Berlino, Germania. L’energia creativa del premier ungherese Viktor Orbán è inesauribile, ancor piú dopo il trionfo elettorale dell’8 aprile scorso. Adesso a Budapest sono di mira anche musical tratti da grandi film. Un giornale vicino al capo dell’esecutivo, con una dura campagna contro presunti pericoli di propaganda per l’omosessualità, ha imposto la cancellazione di rappresentazioni del musical “Billy Elliot”. Derivato ovviamente dal celebre film britannico in cui un ragazzo, figlio di minatori moralmente conservatori, convince con sforzi e tenacia il padre e i suoi amici che il suo desiderio di studiare danza è normale, e alla fine persuade persino il gruppo di amici di papà a provare danza classica in tutù in straordinarie scene del film e del musical.
Quando uscì come film, “Billy Elliott” – diretto da Stephan Daldry con il libretto di Lee Hall, e col giovanissimo Jamie Bell come eccezionale interprete dell’undicenne ragazzo figlio di corpulenti, maschilisti operai appassionato di danza – fece scalpore. Vinse il British film award, mietè successi in tutto il mondo, commosse il pubblico.
Ma nell’Ungheria di Orbán, dove nella nuova Costituzione si impone la difesa stretta della più rigorosa morale cristiana, è giudicato eccessivo, pericoloso per la tenuta etica delle famiglie magiare doc. E allora non importa che a Budapest il musical sia già andato in scena decine di volte, applaudito da centomila e oltre spettatori entusiasti. Ogni pericolo alla Weltanschauung sovranista – e ora omofoba come quella del grande amico Putin in Russia – si combatte con ogni mezzo, con la stessa tolleranza zero usata contro i migranti, le Ong che li aiutano e i pochi media critici.
È stato il quotidiano Magyar Idók (tempi ungheresi), vicinissimo al regime, a scatenarsi con una raffica di articoli contro la decisione della Magyar Nemzéti Opéra, la gloriosa Opera nazionale (il cui ambiente e il cui edificio ispirarono “Il Fantasma dell’Opera” tanto tempo fa) per la continuazione delle rappresentazioni di “Billy Elliott” in versione musica. Secondo gli articoli, ispirati dalla Fidesz – il partito del premier, membro dei Popolari europei – quel musical come quel film hanno avvertito ogni genitore che la visione esponeva i loro figli al “rischio” di diventare omosessuali o “promuoveva uno stile di vita deviante”. Le rappresentazioni del musical erano andate in scena 90 volte a Budapest con grande successo di pubblico, adesso anche questo capitolo di libertà tramonta sul Danubio. E come sempre, l’Ue tace. A quando il rogo dei libri di Marcel Proust, Truman Capote o Oscar Wilde? E quali altri sovranisti europei al potere seguiranno l’esempio magiaro di politica culturale istericamente omofoba?

Il Fatto 25.6.18
Spiava operai e sindacalisti per la Fiat. L’addio a 99 anni
L’ex capo della sicurezza degli Agnelli nel 1970 fu condannato per aver schedato i lavoratori. L’indagine era “di un certo” Guariniello. Nel processo la scampò in appello: prescritto
di Massimo Novelli


Il quotidiano livornese Il Tirreno ha dato notizia nei giorni scorsi della morte del generale dell’aeronautica Mario Cellerino, alessandrino di origine, ma residente da tempo a Viareggio. Cellerino, che a novembre avrebbe compiuto cento anni, scrive il giornale di Livorno, “aveva lasciato la divisa subito dopo la Seconda Guerra mondiale nel corso della quale era stato nominato, dopo l’8 settembre, addetto militare dell’Ambasciata italiana a Berlino”. Prima che il conflitto finisse, “fu arrestato e deportato nel campo di concentramento di Buchenwald. A guerra conclusa, Cellerino fu per 18 anni capo del nucleo Sios-Aeronautica a Torino”, cioè il servizio segreto.
Poi, rammenta sempre Il Tirreno, “lasciò l’Aeronautica per passare alla Fiat, braccio destro di Vittorio Valletta”, il potente amministratore delegato, “e destinato alla direzione di quello che all’epoca era nominato Ufficio Servizi generali della celebre casa automobilistica”. L’ex militare, in verità, capeggiava i servizi di sicurezza interni. Proprio per quella mansione venne coinvolto pesantemente nell’inchiesta dell’allora giovane pretore torinese Raffaele Guriniello, nel 1970, sulle schedature illegali delle lavoratrici e dei lavoratori della Fiat, così come di sindacalisti e di militanti della sinistra. Ne furono scoperte oltre 350 mila. Tutto era nato da una causa di lavoro contro la Fiat promossa da Caterino Ceresa, un ex dipendente che, licenziato, aveva rivelato di avere svolto indagini illecite sul personale e su gente da assumere, o che era in relazione, in qualche modo, con le fabbriche degli Agnelli.
Condannato quarant’anni fa, nel febbraio del 1978, in primo grado a Napoli (dove il dibattimento era stato trasferito per motivi di ordine pubblico) a due anni e nove mesi di reclusione, in appello Cellerino la scampò nel 1979, al pari degli altri imputati (i massimi dirigenti del gruppo, in tutto più di 30 processati), per la prescrizione del reato. La Fiat, in quegli anni, non si poteva condannare: era uno Stato privato, se non lo Stato per eccellenza, arroccato nello Stato italiano.
Cellerino non fu il primo, tuttavia, ad avere fatto sorvegliare e schedare gli operai della Fiat. Agli inizi degli Anni 40 del Novecento si distinse, in quelle attività al servizio degli Agnelli, un altro uomo dello spionaggio: il maggiore dei carabinieri Roberto Navale. Già processato con l’accusa di essere stato uno degli organizzatori dell’assassinio dei fratelli antifascisti Carlo e Nello Rosselli – un’accusa da cui sarà assolto per insufficienza di prove nel 1949 – l’ufficiale, che era stato un agente del servizio segreto militare italiano, il Sim, fu assunto nel 1941 nell’azienda torinese da Valletta come capo della sorveglianza di tutti gli stabilimenti del gruppo. E in questa veste, come ricorderanno alcuni operai dopo la Liberazione, aveva denunciato degli operai che criticavano il regine fascista. Uno di loro fu una tuta blu di Mirafiori, che inviò una lettera alla Corte d’Assise Speciale di Roma che giudicava i fascisti.
“Io sottoscritto Macco Felice operaio della Fiat Mirafiori di Torino – scrisse nella missiva – dichiaro d’essere stato denunciato dal maggiore Roberto Navale e il 18 luglio 1943 arrestato dalla Questura di Torino e tradotto alle Carceri Nuove; motivo della denuncia era perché ‘sobillavo gli operai della Fiat’. È a mie mani copia della denuncia redatta dal magg. Navale: essa potrà essere prodotta a richiesta di Vostra Ecc.”.
Navale si rifece una sorta di verginità politica sostenendo, con l’avallo di Valletta e di altri dirigenti, di avere partecipato alla Resistenza. Militò, a quanto pare, in una brigata nell’orbita del servizio segreto americano, l’Oss, e di cui faceva parte anche Walter Navarra, un ex socialista che negli Anni 80 sarebbe ricomparso alla ribalta, e soprattutto nelle cronache giudiziarie, come amico e collaboratore del bancarottiere Michele Sindona.
Cellerino, invece, era entrato in Fiat nel 1965, l’anno in cui Navale, l’uomo processato più volte per il delitto Rosselli, morì a Torino, ricevendo, al funerale, gli onori militari.
Cinque anni dopo, quando Guariniello scoperchiò lo spionaggio Fiat facendo perquisire gli uffici del quartier generale di corso Marconi e di via Giacosa, a Torino, emerse che l’ex generale del Sios-Aeronautica aveva guidato una incredibile rete spionistica negli stabilimenti e non soltanto in quelli.
Al processo di Napoli, come dovette riferire La Stampa, il giornale della Fiat, l’accusa affermò che “Cellerino (e quindi lo staff dirigenziale della Fiat) nell’arco di cinque anni avrebbe discriminato per ragioni politiche ben sessantamila individui. La cifra vien fuori da questo calcolo: per il periodo dal 1967 al 1971, furono compilate 150.000 schede, mentre gli assunti furono 90.000; se ne deduce che 60.000 persone furono escluse per ragioni ideologiche (comunisti o simpatizzanti)”.
Certo è che nel corso del processo di primo grado, come riportò La Stampa, l’azienda torinese cercò di scaricare Cellerino. “In base alla linea di difesa adottata dagli alti dirigenti della Fiat – scrisse il quotidiano – al processo per le ‘schedature’, il capo dei ‘servizi generali’ e incaricato della sicurezza, Mario Cellerino, acquista sempre più il ruolo del personaggio che ha agito in modo autonomo, geloso delle sue prerogative, persino ‘militaresco’ nel comportamento. L’implicita conseguenza, secondo gli imputati, è questa: ammesso che ci sia stato qualcosa di illecito, cioè che si siano pagati pubblici funzionari per avere informazioni riservate, le spiegazioni non devono essere chieste a loro”.
A salvare tutti, in ogni caso, ci pensò la prescrizione del reato.

Repubblica 25.6.18
Michelangelo il genio vero che amava realizzare falsi
di Pietro Citati


Lettere, versi e una nuova biografia ricostruiscono la vita del maestro del Rinascimento e la sua passione per le sculture invecchiate ad arte
Michelangelo Buonarroti nacque, non sappiamo esattamente se nel Casentino o a Chiusi, il 6 marzo 1475, verso le due di mattina. Mercurio e Venere – così si diceva – lo proteggevano dall’alto dei cieli. Insisté sempre, più del giusto, di essere un cittadino di antichissima nobiltà costretto dalla vita a maneggiare scalpelli e pennelli. Ancora bambino venne portato alla scuola di grammatica di Francesco di Giovanni da Urbino: ma «non si poteva tenere da non correre a disegnare». Più volte ripeté con violenza di aver rinunciato alla letteratura (sebbene scrivesse bellissime Rime), per abbracciare con passione soltanto le arti. Non imparò mai il latino: cosa molto singolare per l’epoca. Molto presto lavorò nella bottega di Domenico Ghirlandaio, anche se per tutta la vita detestò le botteghe d’arte e persino l’idea di bottega.
Erano gli ultimi anni di Lorenzo de’ Medici: il quale esercitò un’immensa influenza sull’arte e la vita di quel tempo. « Redeunt Saturnia regna… surget gens aurea mundo », si diceva.
Michelangelo lavorò da giovane nel giardino dei Medici a San Marco, come raccontò nel 1553 Ascanio Condivi nella sua bellissima vita ed ora, in un libro molto ricco e informato, Giulio Busi ( Michelangelo. Mito e solitudine del Rinascimento,
Mondadori). Il giardino era «adornato di varie statue antiche e figure». Lorenzo «accarezzava», accendeva e spronava Michelangelo: lo chiamava molte volte al giorno, mostrandogli le sue pitture, le sue sculture e i suoi cammei, le meduse e le sfingi. Quell’epoca d’oro finì.
Preceduto da un fulmine sulla cupola di Santa Maria del Fiore, nella notte dell’8 aprile 1492, alle quattro di mattina, Lorenzo morì, e ciò fu, per Michelangelo una sciagura personale: «per molti giorni non potette fare cosa alcuna». «Fu denotata questa morte – scrisse Guicciardini – come di momento grandissimo da molti presagi: era apparita poco innanzi la cometa, erasi udito urlare lupi: una donna di Santa Maria Novella infuriata avea gridato che un bue con le corna di fuoco ardeva la città; eransi azzuffati insieme alcuni leoni, e uno bellissimo era stato morto dagli altri».
Michelangelo aveva diciassette anni. Come racconta Ascanio Condivi, «non era tanto alto, da giovane ammalato e cagionevole, la testa un po’ grande, e due occhi piccoli macchiati di scintille gaiette ed azzurre».
Aveva le spalle larghe: ma il resto del corpo e specialmente le labbra, sottili. Secondo gli amici, sino alla fine della vita, anche in anni gravi e difficili, fu un eccellente e divertente conversatore, sebbene non si confidasse volentieri. Come scrisse l’Aretino, amava il mistero e il silenzio. Aveva una memoria tenacissima: tanto – diceva agli amici – che «avendo dipinto tante finzioni, non ne ho fatta mai una che somigliasse ad un’altra».
Amava ogni cosa bella: un bel cavallo, un bell’uomo, una bella montagna; e «le ammirava con meravigliosa attenzione, come l’ape raccoglie il miele da tutti i fiori».
La più antica statua di Michelangelo che ci sia giunta è la Zuffa de’ centauri che gli venne ispirata da Angelo Poliziano.
Studiò l’anatomia come forse nessuno nella sua epoca: scorticava i corpi, per studiare i muscoli e le vene. Come racconta Edgar Wind in un bellissimo libro ( Misteri pagani del Rinascimento, Adelphi) amava i falsi: statue che sembrassero antiche; le tingeva e le invecchiava col fumo, in modo che si credesse che appartenevano all’età classica.
Proprio per questo amava l’incompiuto – l’incompiuto che risveglia in chi vede il senso dell’indefinito e dell’infinito. «Si conosce nell’imperfezzione della bozza – scrive stupendamente il Vasari – la perfezzione dell’opera… Ha avuto l’immaginativa tale e sì perfetta, che le cose propostosi nella idea sono state tali che con le mani, per non poter esprimere sì grandi e terribili concetti, ha spesso abbandonato l’opere sue, così come ne ha guaste molte… io so che innanzi di morire abbruciò gran numero di disegno, acciò nessun vedesse la fatica durata da lui». Forse, per far dimenticare di non essere vittima nemmeno dell’incompiuto, dipinse la famosissima Madonna del Tondo Doni; che Roberto Longhi giudicò “il capolavoro assoluto di Michelangelo”; dove sembra inseguire da vicino l’impossibile perfezione. Quando, nell’agosto 1501 i responsabili dell’Opera di Santa Maria del Fiore gli commissionarono il David, dovette trarre una nuova figura da un blocco di marmo già malamente abbozzato; e cercò, e riuscì, a trovare la perfezione nell’imperfetto e nell’impossibile. «Certo fu miracolo – commentò Vasari – di far risuscitare uno che era morto». Andava a Carrara a scegliere i marmi; e un giorno gli sembrò che doveva scolpire l’intera collina, assoggettando tutta la natura alla forza delle proprie mani. Passava mesi a cercare i marmi che gli si adattavano: Carrara era la sua vera patria. Amava il danaro: amava i papi sopratutto perché erano mecenati generosi: coltivò Giulio II, Clemente VI, che parlava di lui “con un’infinita affezione” e voleva che dipingesse solo per la chiesa; e Paolo III, che veniva a trovarlo mentre dipingeva la Cappella Paolina, arrampicandosi su una scala a pioli. Nel 1513 ebbe una grande visione: «essendo una notte al sereno, ed elevando gli occhi su al cielo, vide apparire in cielo un mirabile segno triangolare fuora dell’ordine e similitudine di ogni cometa consueta: era di un color splendente e rilucente, come una verga d’argento pulitissima o una spada brunita. La coda del segno si estendeva verso Firenze tutta di color di fuoco e nella sommità era biforcata e così lunga da raggiungere Firenze».
Nell’ultimo periodo della vita abitò a Roma, nella casa di Macel de’ Corvi, a piazza Venezia, dove ora sorge il palazzo delle Assicurazioni Generali. «È un caseggiato, con palchi, sale, chamere, terreno, orto, pozzo»: comodo per stiparvi i marmi e dedicarsi a diverse opere contemporaneamente. In quegli anni, Michelangelo lavorò moltissimo, quasi al di sopra delle forze umane: ci sembra impossibile che abbia immaginato e realizzato tanti progetti, come se, da solo, volesse costruire l’intera città di Roma. «Sono tanto ocupato – scriveva al nipote il 25 agosto 1541 ( Rime e lettere, a cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi, Bompiani) – che io non ho’ tempo di badare a voi, e ogni altra piccola cosa m’è grandissimo fastidio». Ora era lento, ora velocissimo. La pittura «non era la sua professione: ma la scultura»: o, meglio, non era mai «pictore né scultore né architetto, ma quel che voi volete»: chissà cosa. In ogni caso «si dipinge col cervello e non con le mani; e chi non può avere il cervello seco si vitupera». La pittura era «la fiamma del fuoco; la quale è più atta al movimento di tutte le cose». Era vecchio, diceva: «ogni ora potrebbe essere l’ultima mia»: «era – scrive Vasari – alle ventiquattro ore, e non nasceva pensiero in lui che non vi fusse sculpita la morte»; affascinato ed atterrito dalla morte. Nell’ottobre 1556 andò pellegrino: si avviò verso Loreto; ma si stancò e tornò a Roma con un compagno. Era solo, si sentiva solo e si lamentava di essere solo, sebbene volesse vivere da solo, nella sola compagnia delle arti.
Spesso era stizzito, irritato, furibondo, non sappiamo mai di che cosa. A volte era stanchissimo: poi, all’improvviso recuperava le forze. Gli pareva impossibile affrontare la grande impresa della Cappella Paolina.
Nel giugno 1544 era malato grave, sebbene dicesse che sperava «di vivere ancora qualche anno». Aveva il male della pietra e beveva moltissima acqua. Non riusciva a dormire.
Era sporco. Come racconta Condivi, portava «di continovo stivali di pelle di cane sopra lo ignudo i mesi interi, che quando li voleva cavare, poi nel tirarli ne veniva spesso la pelle». Come scrive D’Annunzio, «era incurvato, corrugato, col naso rencagnito, col gozzo sotto la barba caprina, e le unghie cresciute fuori dal tomaio degli stivali, con la fronte sudicia di colore». Scolpiva la Pietà Rondanini, una settimana prima di morire. «Fece testamento di tre parole, che lasciava l’anima su nelle mani di Dio, il suo corpo alla terra, e la roba ai parenti più prossimi». Dopo cinque giorni di malattia “due levato al fuoco e tre in letto”, morì mezz’ora prima dell’Ave Maria il 18 febbraio 1564.
Il 10 marzo fu portato a Firenze, «vestito con un robone di damasco nero, e con gli stivali e gli sproni in gambe ed in capo un cappello di seta all’antica col pelo lungo di felpa nera».

Corriere 25.6.18
«Ho visto i fili nascosti del cosmo»
Fabrizio Nicastro guida la missione che ha trovato la materia mancante
«È gassosa, la cercavamo da 20 anni»
di Giovanni Caprara


La chiamavano la «massa mancante» dell’universo. Le teorie dicevano che doveva esistere ma nessuno riusciva a dire dove fosse. «Era uno dei più grandi misteri dell’astrofisica ma ora l’abbiamo vista» ci racconta da Boston Fabrizio Nicastro, astronomo dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Dell’universo noi cogliamo solo il 5 per cento formato da galassie, stelle e pianeti: è la materia visibile «barionica», la stessa di cui anche noi siamo formati. Tutto il resto, materia oscura ed energia oscura, resta ignoto. Però anche della materia visibile i telescopi riuscivano a mostrarci solo la metà di quanto esiste. «Con l’arrivo degli osservatori spaziali Chandra della Nasa e Xmm-Newton dell’Esa siamo riusciti a individuarne le tracce, dimostrando che la massa mancante esiste».
Fabrizio Nicastro insegue con tenacia il mistero da vent’anni e ora è alla guida di un gruppo internazionale di scienziati ognuno specializzato in uno spicchio del mistero. Ci sono le università americane di Princeton, dell’Ohio, del Colorado, di Città del Messico e le università e gli istituti dell’Inaf di Trieste, Bologna e Roma.
«Incominciai vent’anni fa quando ero all’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, a Boston, analizzando i dati raccolti con il satellite Chandra ma la scoperta l’abbiamo ottenuta ora con l’Xmm-Newton grazie ai suoi sensibilissimi spettrografi».
Nicastro ha studiato i raggi X emessi da un quasar, una galassia con un nucleo attivo che lancia fiumi di radiazioni, e distante 5 miliardi di anni luce dalla Terra. Il flusso ha rivelato degli assorbimenti spiegabili solo dalla presenza di atomi presenti in mezzo che si sono rivelati di ossigeno. «Gli atomi formano dei fili sottilissimi, quasi impercettibili, che diventano una ragnatela caldissima con temperature di milioni di gradi riempiendo lo spazio tra le galassie». Fatti i conti, la ragnatela aveva proprio la quantità di massa a lungo cercata, come Nicastro e i colleghi spiegano sulla rivista Nature.
«Il disegno dell’universo visibile è ora completo — dice lo scienziato — e questo garantisce solidità alla teoria che aveva prevista la sua massa ma soprattutto costituisce la base certa per andare oltre e trovare prove degli altri due grandi misteri della materia oscura e dell’energia oscura; le due grandi sfide aperte dell’astrofisica».
L’ultimo tassello è stato raccolto con un’osservazione continua da record durata 18 giorni dalla quale sono emersi i due punti della ragnatela, uno probabilmente anche con idrogeno. Ora si aspetta il lancio del satellite europeo Athena nel 2028 dotato di strumenti ancora più sensibili con i quali si potrà completare il quadro abbozzato.
Fabrizio Nicastro, 52 anni, dopo la laurea e il dottorato alla «Sapienza» di Roma è volato negli Stati all’Harvard- Smithsonian Center for Astrophysics, vicino a Boston. «Dovevo rimanere per poco tempo e invece mi sono fermato dodici anni. Ma nel 2006 ho vinto un concorso all’Inaf e sono felice di essere ritornato anche se mantengo i rapporti con il centro di Boston, un punto di riferimento internazionale per indagare il cielo a raggi X».

Repubblica 25.6.18
“Passato e presente”, omaggio alle donne della Costituente

Alla fine della Seconda guerra mondiale, le italiane — in particolar modo quelle che hanno lottato nella Resistenza — chiedono di partecipare attivamente alla rinascita politica della nazione. Ottengono così il diritto di eleggere e di farsi eleggere, al pari degli uomini. Nel 1946, ventuno donne vengono elette nell’Assemblea Costituente e tra loro anche quattro deputate che entrano a far parte della Commissione dei 75, incaricata di redigere la nuova Costituzione. Un periodo decisivo della storia italiana che la professoressa Patrizia Gabrielli rilegge con Paolo Mieli a Passato e presente, il programma in onda alle 13.15 su Rai3 e alle 20.30 su Rai Storia. Col contributo delle donne presenti all’Assemblea Costituente viene formalmente sancito nella Costituzione il principio di uguaglianza tra i sessi.
Traguardi importanti ma non decisivi, che rappresentano solo la prima tappa di un lungo percorso verso il riconoscimento di una sostanziale parità, tanto nelle istituzioni quanto nella famiglia e nel lavoro. La serata su Rai Storia continua alle 21.10 con la battaglia di Caporetto, una pagina di storia riletta da Apocalypse. La prima guerra mondiale. Sugli altri fronti Inghilterra e Francia celebrano le loro vittorie, mentre la Germania subisce pesanti umiliazioni. Apocalypse è una serie prodotta con oltre 500 ore di materiale d’archivio, tra filmati a colori e testimonianze inedite.