Repubblica 23.6.18
Le testimonianze
Le parole che Rodotà direbbe oggi
di Simonetta Fiori
Un
anno fa moriva il grande giurista. Gustavo Zagrebelsky e Gaetano
Azzariti raccontano “la mancanza della sua voce, mentre si assiste alla
frantumazione nazionalistica di quei diritti per cui lui aveva
combattuto”
Che avrebbe detto oggi Stefano Rodotà? Come avrebbe
reagito il giurista che teorizzava il diritto a protezione dei più
deboli in un’Italia che fa la voce grossa con gli ultimi? Quale bussola
morale ci avrebbe indicato al cospetto di un ministro dell’Interno che
respinge i migranti, minaccia censimenti etnici, dileggia esseri umani
devastati da guerre e miseria?
Raramente un anniversario si rivela
nella sua drammatica attualità: a un anno esatto dalla scomparsa,
niente sembra più lontano dall’eredità civile e culturale di Rodotà del
Paese sovranista che maltratta i più fragili.
«La mancanza della
sua voce ci appare ogni giorno più grave e pesante», dice Gustavo
Zagrebelsky, che gli è stato affianco in molte battaglie ideali.
«Rodotà
ha dedicato il suo impegno culturale a valori quali dignità, umanità,
libertà, tolleranza, giustizia, solidarietà: tutti temi provvisti di una
portata universale, che non si prestano a essere declinati per
nazionalità. I diritti umani sono per tutti — italiani, senegalesi, rom —
senza esclusioni. Oggi stiamo assistendo a una frantumazione
nazionalistica di questi valori, che non vengono negati in sé ma
parcellizzati, reclamati da alcuni a danno di altri. Una pretesa
particolaristica che si traduce in compressione dei diritti altrui». È
la fine di un mondo, continua Zagrebelsky, il tramonto di principi
sanciti dalla dichiarazione dei diritti universali, stelle polari
conquistate dalla storia dopo le catastrofi del XX secolo. «Si blindano i
confini esterni e se ne costruiscono di nuovi all’interno, al fine di
separare quelli che stanno con noi ma non sono parte di noi: oggi
migranti e nomadi, domani chissà chi altri». Non si tratta di ignorare i
problemi che possono derivare dalla presenza dei rom nelle grandi
città, «ma il passaggio alle ruspe implica un salto culturale enorme». E
allora bisogna trovare soluzioni «senza violare quei principi che sono
al centro della ricerca intellettuale di Rodotà».
Una sua parola
chiave è “dignità”, il rispetto della persona nella sua integrità,
termine a cui attribuiva maggiore immediatezza rispetto a parole
storiche come “eguaglianza”, “libertà”, “fraternità” proprio perché più
direttamente evocativa dell’umano. «Come tutti i classici, Rodotà ha
anticipato le risposte alle domande ora più urgenti», interviene Gaetano
Azzariti, il costituzionalista che ne è stato allievo. «Un punto
essenziale della sua costruzione teorica è l’antropologia dell’homo
dignus, che considerava il grande lascito della Costituzione. Non è un
caso che i primi articoli della Carta europea, a cui Stefano diede un
contributo essenziale, siano dedicati alla dignità. È una chiave
fondamentale per tutti i problemi di ordine politico, economico e
sociale, inclusa la questione della sicurezza. La dignità non ha prezzo,
come diceva Kant. E non si può barattare con niente. La dignità degli
uomini viene prima di qualsiasi cosa. Questo vale per il lavoro, il
mercato e l’impresa. O l’impresa è degna o non è. O al lavoratore si
garantisce un’esistenza libera e dignitosa — l’articolo 36 della
Costituzione che gli stava tanto a cuore — o quel lavoro non è degno.
Tutte
le grandi questioni si possono risolvere solo sulla base di principi
quali dignità e solidarietà perché l’egoismo, ammoniva Rodotà, non può
fornire la soluzione dei problemi del mondo».
Quello che ci ha
lasciato è un’impalcatura teorica solida, oggi più che mai preziosa per
una sinistra politica smarrita. Una costruzione fondata sul “diritto di
avere diritti” – è il titolo mutuato da Hannah Arendt per un suo lavoro
fondamentale –, sulla tutela dei diritti inviolabili dell’individuo, in
un ampio raggio che spazia dal terreno dell’identità sessuale allo
spazio virtuale. Sterminata era la sua capacità di studio, senza confini
disciplinari. «Oggi Stefano sarebbe capace di comporre in un’unica
cornice tutti gli elementi particolari che ci travolgono ogni giorno»,
dice Zagrebelsky.
«Saprebbe dare un significato generale a episodi
apparentemente lontani: ieri la minaccia di chiudere le frontiere, oggi
l’idea che la scorta di Saviano sia ingiustificata. Le grandi tragedie
storiche nascono dalla sommatoria di tante piccole vicende di abusi,
ingiustizie e pressioni. Io temo il momento in cui questi frammenti
possano raccogliersi in un quadro preciso perché ci troveremo dinnanzi a
una cosa che non vorremmo vedere. Stefano ci avrebbe aiutato a
comprenderla per tempo».
Insieme hanno difeso il diritto dalle intromissioni della politica.
Zagrebelsky
ricorda una fotografia molto affettuosa a un convegno di Libertà e
Giustizia. «Era un uomo tenero e al contempo rigoroso, con una faccia
che sembrava scolpita nella corteccia». La sua serietà scientifica
rifletteva una serietà esistenziale. «Oggi reagirebbe a questo bollire a
fuoco lento della nostra impotente indignazione. Si chiederebbe cosa si
può e si deve fare. Non c’è più lui a mobilitare le coscienze. E molti
di noi si domandano se ci sarà e chi sarà un nuovo Stefano Rodotà».
Sempre
più rare sono le figure intellettuali capaci di coniugare rigore
scientifico e lotta per i diritti, competenze e impegno civile.
«Siamo
in pochi e disgregati», dice Zagrebelsky. «Mi colpisce che di fronte
alle sortite del ministro dell’Interno l’associazione dei
costituzionalisti non abbia detto una parola: come se la nostra
Costituzione non ci indicasse una strada maestra nelle relazioni
sociali».
Per uscire dalla confusione e dalla regressione di oggi,
interviene Azzariti, si dovrebbe tornare al suo pensiero forte e
sistematico.
«È stato l’abbandono di queste bussole a determinare
l’impoverimento della cultura critica e convintamente democratica».
Anche a sinistra, aggiunge l’allievo, Rodotà non è stato sempre
compreso.
È difficile coltivare grandi ideali senza essere intimamente liberi.
Zagrebelsky ne sottolinea un aspetto rimasto finora nell’ombra.
«Stefano non ha mai svolto attività professionale.
Non ha mai messo la sua scienza di civilista al servizio di interessi estranei alla ricerca o all’impegno.
Sicuramente
uno come lui, con la sua dottrina, sarà stato sollecitato molte volte a
prestare consulenza o a fornire pareri pro veritate nei processi i cui
si muovono enormi interessi economici. Non l’ha mai fatto. E anche
questa scelta indica quanto tenesse all’autonomia della sua
professione».