Repubblica 22.6.18
Riscoperte
Caro Aristotele ti traduco per essere felice
di Maurizio Bettini
Il
filosofo greco torna per la terza volta in quarant’anni in una prova di
maturità del liceo classico. E il suo pensiero “flessibile” rivela
un’idea di saggezza a uso e consumo dell’individuo molto adatta ai tempi
Chissà
se chi ha scelto la versione di greco per la maturità classica aveva in
mente la celebre Scuola di Atene delle Stanze Vaticane. Forse sì. Basta
infatti aver osservato questo affresco per aver notato che l’Aristotele
di Raffaello ha in mano proprio L’etica a Nicomaco; mentre Platone (con
il suo famoso “dito” rivolto verso il cielo) regge il
Timeo.
Questa scelta dell’artista possiamo prenderla come un simbolo del fatto
che quest’opera costituisce una presenza fondamentale all’interno della
nostra memoria culturale. Non solo quella del passato più lontano,
perché certo l’Aristotele etico ha ispirato la riflessione dei Romani,
dei cristiani, su su fino al Rinascimento e oltre; ma la sua eredità
continua ad animare anche la filosofia a noi più vicina, fino alla
contemporaneità.
L’opera etica dello Stagirita, infatti, ha
costituito un importante punto di riferimento per il pensiero posteriore
all’Illuminismo, quello tedesco in particolare, da Hegel fino ad
Heidegger. Così come ha goduto di rinnovata fortuna nella filosofia
analitica inglese ispirata dall’opera dell’ultimo Wittgenstein,
interessato non più al linguaggio della scienza, ma a quello ordinario.
Proprio come l’Aristotele dell’etica, che nella sua complessa
ricostruzione, e interpretazione, dell’agire umano, si fondava molto
sulle risorse diciamo spontanee offerte dal lessico greco. Al di là di
questo, però, ciò che dell’etica aristotelica sembra aver maggiormente
attratto i moderni (da Gadamer a Nussbaum) è proprio la sua dimensione
di filosofia “pratica”: con la contestuale rinunzia, cioè, a fondare
l’etica umana sui principi della pura conoscenza. Aristotele è convinto
che il fine ultimo che guida l’agire degli uomini sia la felicità,
l’eudaimonia: una visione, come si vede, molto realistica dell’umanità.
Ma in che cosa consiste la felicità? Non è la stessa per tutti, ciascuno
desidera infatti raggiungerla a modo suo, in base alle condizioni in
cui si trova. Chi è malato pensa che la felicità consista nella salute,
chi è povero pensa che consista nella ricchezza, e così via. Né si deve
pensare che la felicità risieda nel puro piacere, o negli onori, o nella
ricchezza. Questi sono infatti beni esclusivamente esteriori – ma che
tuttavia non debbono essere semplicemente esclusi dal recinto del bene,
alla maniera di Socrate e di Platone. Al contrario, una certa dose di
piaceri, onori, ricchezza è necessaria, perché se essi non sono di per
sé in grado di donare la felicità, la loro assenza può comunque
guastarla. E anche questa costituisce una posizione, come dire, di
grande realismo. La felicità più piena, o meglio quella che è possibile
raggiungere per un essere umano, la si ottiene però solo attraverso la
virtù: intesa come un’attività razionale capace di guidare e costruire
al meglio la nostra esistenza, orientando le nostre scelte verso il
“giusto mezzo”. La virtù consiste in primo luogo nell’evitare il troppo e
il poco, l’eccesso e il difetto – ma chi, o che cosa, può mai guidarci
in questa ininterrotta, responsabile serie di scelte verso una felicità
virtuosa? A questo punto entra in scena l’altra polarità di cui –
accanto alla felicità, la eudaimonia – Aristotele ha fatto dono alla
riflessione etica: la saggezza, la
phronesis. È questa infatti la
facoltà che permette all’uomo di guidare le proprie scelte e di
costruirsi una vita felice. Quando è in gioco il comportamento, la
sophia, la conoscenza, non può svolgere il suo ruolo, tocca alla
phronesis,
la saggezza: perché la vita ci mette di fronte ad eventi diversi,
imprevedibili, e per questo l’etica non può fondarsi su un sistema, su
principi. La saggezza ha valore individuale, è ciò che permette al
saggio di valutare ciò che è bene e utile “per lui”, nelle circostanze
in cui si trova; la saggezza è ciò che gli permette di vivere una vita
buona, in generale. In definitiva la riflessione etica di Aristotele
conserva tanta vitalità proprio in ragione della sua flessibilità,
verrebbe da dire della sua “umanità”. È proprio la visione dell’umano,
così moderata, e insieme così sfaccettata, ciò che rende non solo
moderna, ma soprattutto utile, maneggevole, la riflessione aristotelica.
Anche l’amicizia però – la philia, ossia la virtù discussa nel brano
assegnato ai maturandi – ha un ruolo in questa complessa articolazione
etica di Aristotele. Solo che la sua philia non corrisponde esattamente a
ciò che noi intendiamo per “amicizia”. E qui la cosa si fa più
interessante. Alla philia Aristotele dedica ben due libri dell’Etica
Nicomachea e un intero libro dell’Etica Eudemia. In questo modo egli ha
creato la base per la riflessione filosofica posteriore su questo tema.
Ma come dicevamo, nella philia Aristotele fa rientrare una serie di
relazioni che certo noi non rubricheremmo come “amicizia”: per esempio
l’amore di un genitore verso i figli, o viceversa, o la passione di un
amante verso l’oggetto amato; della philia fa naturalmente parte anche
il rapporto che noi definiremmo “amicizia”, ma insieme a relazioni di
affari o di convenienza. Il fatto è che per Aristotele la philia si
rivolge verso tre oggetti, il bene, l’utile e il piacere – e non credo
che l’opinione corrente, in materia di amicizia, sarebbe disposta ad
accettare una simile tripartizione.
Che cosa ci insegna, dunque,
quest’ultima riflessione? Beh, in primo luogo che tradurre la philia di
Aristotele con “amicizia” non è del tutto giusto – anche se i maturandi
non debbono preoccuparsi, lo si fa comunemente. In secondo luogo che il
pensiero antico non costituisce solo, come si ripete, l’archetipo – la
radice – della nostra cultura. Gli antichi pensavano anche in modo
“diverso” da noi: e riflettere su questa diversità ci aiuta solo a
pensare di più.