Repubblica 22.6.18
Il religioso nell’arte
L’ultimo segreto delle icone russe
Le opere di Rublèv restano custodi del mistero proprio mentre lo esprimono
di Massimo Cacciari
Tra
le vere opere di Elémire Zolla sta certamente quella di averci fatto
scoprire l’opera di Pavel Florenskij, promuovendo prima l’edizione di La
colonna e il fondamento della verità presso Rusconi nel 1974 (prima
traduzione nel mondo) e poi, presso Adelphi nel 1977, di Le porte
regali. Opere fondamentali per il pensiero teologico e filosofico del
Novecento, scaturite dall’irripetibile humus della apocalisse russa a
cavallo della Rivoluzione. Non posso non ricordare con emozione anche il
mio incontro con esse (e l’influenza determinante che ebbero per alcuni
miei lavori, come Icone della legge e L’angelo necessario, precedenti
il largo sviluppo di studi su Florenskij che negli ultimi trent’anni è
maturato soprattutto in Italia, fino al recentissimo e importante volume
collettivo curato da Silvano Tagliagambe, Il pensiero polifonico di
Pavel Florenskij, presso l’University Press della Facoltà teologica
della Sardegna).
La ristampa di Le porte regali, dopo molte
adelphiane, avviene ora a cura e con una post-fazione di Grazia
Marchianò, nell’ambito dell’edizione delle Opere Complete di Zolla,
presso Marsilio. Occasione preziosa per approfondire ancora il valore
epocale di questo saggio. Esso va ben oltre all’illuminare i fondamenti
teologici dell’arte dell’icona russa del XV secolo, e del sommo Andrei
Rublëv in particolare, a partire dai suoi modelli bizantini (chiarendo
cosi, retrospettivamente, anche aspetti decisivi di tutta l’arte
paleocristiana); Le porte regali impongono una drammatica comparazione
tra forme di civiltà, sulla differenza che sembra avere per sempre
deciso la spiritualità dell’Europa orientale da quella occidentale.
Una
comparazione che in Florenskij diviene perentorio giudizio, quasi ad
assumere la forma dell’aut-aut. Da una parte, l’opera che rivela, che
apre il Velo e permette di intuire il Realissimo; dall’altra parte,
l’Occhio sovrano del poietes, dell’artista-poeta, che dispone la sua
materia secondo la sua prospettiva. Da una parte, l’opera che fa
tutt’uno col culto; dall’altra, la creazione che si pretende “libera”, e
che per Florenskij è invece incatenata, come i prigioni della Caverna
platonica, alla rappresentazione delle apparenze, delle ombre del Reale.
L’icona vive sulla soglia, trova il proprio luogo appunto
sull’Iconostasi che distingue lo spazio dei fedeli dal Sacro in sé
inaccessibile. Nel mostrare la abissale differenza tra i Due, l’icona è
segno a un tempo dell’Invisibile stesso. Custode del mistero nel momento
in cui lo esprime. Il mondo della sua immagine è puramente metafisico;
l’immagine dell’icona è mundus imaginalis in sé, non in relazione a
quello dell’esperienza sensibile.
È questo un destino
dell’immagine e dell’immaginare da cui l’Occidente sembra separarsi per
sempre con la grande svolta segnata da San Francesco, Cimabue, Giotto,
Dante: qui la Luce taborica dell’Icona si incarna nella sofferenza, nel
dramma storico delle figure fino a esserne inghiottita. E tuttavia
Florenskij, grande teorico anche dell’arte dell’avanguardia russa, sa
bene quale poderosa nostalgia per l’icona, per il suo pathos
anti-soggettivo, anti-romantico, rinasca proprio nel Novecento!
Le
forme fondamentali in cui una civiltà si esprime difficilmente muoiono,
scompaiono, piuttosto, e altrettanto imprevedibilmente possono in altri
modi risorgere.
Ciò fa di Le porte regali un testo imprescindibile anche per la filosofia dell’arte contemporanea.
Non
si intenderebbe però l’importanza filosofica del grande saggio
florenskijano se non lo si leggesse alla luce dell’idea di Verità svolta
nel suo capolavoro La colonna e il fondamento. Non si conosce vera-
mente se non divenendo uni- sostanziali all’altro, non semplicemente
simili. Non vi è verità nella semplice corrispondenza tra forme
dell’intelletto e l’apparire delle cose. Anzi, l’errore è già contenuto
nel chiamare “cose”, e cosi reificare, gli essenti reali di cui facciamo
esperienza.
Conosciamo vera- mente soltanto il vivente che
amiamo, e di cui, amandolo, vogliamo partecipare in toto. La Verità
integra, eterna, luminosa, sovra-luminosa si rivela soltanto quando,
usciti dalla caverna dell’Io, amiamo il vivente amando Dio che è Amore.
Questa idea di Verità, che ha origini neo-platoniche, e che Zolla pone
giustamente in relazione con le grandi metafisiche dell’Iran, sembra
essersi separata per sempre da quelle dominanti nell’Occidente, tutte,
per Florenskij, nient’altro che rappresentazioni del nostro esserci
storico (e perciò memoria o oblio di eventi temporalmente determinati). E
tuttavia, di nuovo, come intendere nelle sue radici il nostro stesso
destino se non comparandolo al paradigma che Florenskij gli oppone? Due
civiltà, eppure entrambe appartenenti all’Europa o Cristianità. Un agon,
una lotta nello stesso cuore? Questo mi sembra certo: che cessando tale
lotta, cesserà di battere questo cuore. Evento che molti segni
affermano già essersi compiuto.