Corriere 22.6.18
Giovedi 28 l’incntro a Milano con Remo Bodei e Armando Torno
Nel saggio «Quant’è vero Dio» (Solferino) i nodi dell’etica e del rapporto tra fede e vita
La necessità del sacro nell’età del disincanto
Sergio Givone riflette sull’insopprimibile ricerca del trascendente
Nella visione del filosofo, laico non è chi rivendica la sua indifferenza alla religione ma chi la prende sul serio
di Umberto Curi
«È
più vicino a Dio chi fa professione di ateismo, ma tiene ferma la
verità, di chi nega la verità in nome di Dio». È questa — in estrema
sintesi — la tesi principale che è alla base del libro di Sergio Givone,
appena uscito presso la casa editrice Solferino, Quant’è vero Dio.
Perché non possiamo fare a meno della religione. Un testo strano e
affascinante. Strano per il coraggio, ai limiti della temerarietà, con
il quale argomenta la necessità di Dio, in controtendenza rispetto a una
fase storica caratterizzata dall’abusiva identificazione del disincanto
con l’ateismo. Affascinante per il rigore e la freschezza di un modo di
condurre il ragionamento, insensibile alla moda deteriore che vorrebbe
imporre l’equazione fra oscurità criptica del discorso e profondità del
pensiero. Con un valore aggiunto, tutt’altro che trascurabile,
soprattutto in confronto alla sciatteria di tanta saggistica
pseudofilosofica: una scrittura sapida e limpida al tempo stesso,
evidentemente filtrata dalle non poche felici esperienze narrative
dell’autore, al quale si devono alcuni romanzi rivelativi di un sicuro
talento (Favola delle cose ultime, 1998; Nel nome di un dio barbaro,
2002; Non c’è più tempo, 2008; tutti editi da Einaudi).
Ma queste
pur non pleonastiche annotazioni relative allo «stile» del libro non
devono trarre in inganno. Nelle pagine scritte da Givone non vi è alcun
indugio meramente «letterario», né alcuna concessione a una variante
«debole» dell’interrogazione filosofica, così come è totalmente assente,
d’altra parte, ogni concezione «reazionaria» del rapporto fra la
permanenza del sacro e l’età della secolarizzazione. Piuttosto, l’autore
dimostra — e in maniera particolarmente convincente — che è possibile
aver imparato la lezione di Kierkegaard e Nietzsche, essersi misurati
con la sfida della morte di Dio, aver attraversato il deserto della
trasvalutazione di tutti i valori, non cancellando, ma al contrario
recuperando l’ineliminabilità del sacro, inteso come quell’originario
«sì», che resiste quale fondamento inconcusso all’offensiva concentrica
di agnosticismo, scetticismo e fideismo — di quel «fideismo irreligioso»
che poco o nulla ha a che fare con la laicità autentica.
In
questo quadro generale (qui inevitabilmente ridotto a uno schema
ipersemplificato), si collocano alcune questioni di grande rilievo
strettamente filosofico, che Givone affronta per così dire a viso
aperto, senza alcuna remora puramente tattica, in maniera perfino
imprudente: il rapporto fra legge e giustizia, il confine mobile e
reversibile fra bene e male, i limiti della manipolazione tecnica (e
biotecnologica) della natura, al di fuori di ogni moralismo
ecologistico, il transito apparentemente inesorabile dall’umano al
postumano. Come risulta dai titoli stessi dei capitoli che compongono il
libro (fra gli altri: «Un pensiero di altri mondi», «Tempo intermedio e
Apocalisse», «Potere spirituale e potere temporale»), Givone affronta i
nodi teoretici decisivi per una riflessione sul sacro che, come accade
in questo testo, risponda all’ambizione esplicitamente dichiarata di non
riproporre ipotesi speculative già dissolte dall’irrompere della
modernità, preferendo la strada certamente più arrischiata, ma anche
incomparabilmente più feconda, della ricerca di un vero e proprio «nuovo
inizio».
Impossibile dar conto in termini analitici, come pure
sarebbe necessario, del ricco ordito di problemi sapientemente annodato
da Givone. Ma almeno alcuni spunti, suggeriti senza alcuna arroganza, ma
anche senza alcun preventivo accomodamento diplomatico, meritano di
essere citati: l’impossibilità dell’etica, certamente nella versione
kantiana, ma anche nella variante utilitaristica, in un orizzonte dal
quale Dio sia scomparso, e dunque perda ogni senso l’essere o il non
essere al mondo. Un modo di concepire la laicità secondo il quale laico
non è chi rivendica la sua indifferenza alla religione, ma proprio al
contrario chi prende la religione sul serio, riconoscendo che i
contenuti essenziali con cui è chiamato a fare i conti vengono proprio
dalla religione. Un approccio ai problemi della vita — della nascita e
della fine — affrancato dalle pretese prescrittive della bioetica di
stretta osservanza confessionale, immobile nell’astratta rivendicazione
della sacralità della vita, e ricondotto piuttosto al più maturo
contesto concettuale di una riflessione libera da impacci dottrinari.
Pur trattandosi di temi di indubbio rilievo, le questioni ora
semplicemente accennate (e altre ancora, qui necessariamente espunte),
nel libro di Givone sono riportate all’interrogativo di fondo,
richiamato anche dal titolo. Si incontra Dio, in queste pagine, non come
ciò che residua dalla devastazione indotta da un pensiero refrattario a
ogni idolo, quale è il pensiero contemporaneo, né come conclusione di
un freddo e astratto sillogismo, bensì come approdo e insieme come
presupposto, senza il quale «dovremmo riconoscere che il nulla ha
vinto».