Repubblica 21.6.18
Quanto corre il populismo social
di Stefano Bartezzaghi
È
tipico del giustizialismo essere senza giustizia, così come
dell’allarmismo diffondersi in assoluta assenza di allarmi; perché non
dovremmo avere, allora, un populismo in assenza di popolo? «Popolo della
Rete» o «Popolo del Web»: così i media tradizionali cercarono di
denominare, rendendolo anche banale, il fenomeno che ha preso una pur
ambigua evidenza con i social network. Venne allora contestata da più
parti, e giustamente, l’esistenza stessa di un simile «popolo». Ma,
nemesi della comunicazione e della politica, se quel popolo non
esisteva, dalla sua inesistenza si sarebbe pure generato il populismo.
Tutta colpa di Facebook?
Umberto Eco lo aveva spiegato per tempo:
«Siccome il popolo in quanto tale non esiste, il populista è colui che
si crea un’immagine virtuale della volontà popolare» (per esempio,
sbandierando sondaggi) e quindi «trasforma in quel popolo che lui ha
inventato una buona porzione di cittadini, affascinati da un’immagine
virtuale in cui finiscono per identificarsi». Si capisce che ciò non può
che avvenire attraverso i mass media e infatti le diverse specie di
populismo sono in relazione con le diverse forme di comunicazione
mediale. Il fascismo è stato un populismo: predominanza del governo sul
Parlamento, disintermediazione, leaderismo fortemente personalizzato,
stile brutale, generazione di sentimenti identitari vittimisti sono tra i
massimi fattori distintivi del populismo, per come li elenca la
recente, e già classica, analisi di Marco Revelli ( Populismo 2.0,
Einaudi 2017). La connessione fra il duce e il suo popolo era assicurata
dal massimo della tecnologia dell’epoca (la radio, il cinegiornale) e
dall’impiego di soluzioni architettoniche e urbanistiche per
l’esposizione del leader e dei suoi messaggi (dal vivo: discorsi e
gesticolazioni da balconi, arenghi e simili; o in effigie: ritratti e
slogan su ampie pareti urbane). Il populismo fascista era controllo
politico sulla comunicazione: dominio, censura, repressione,
amministrazione attenta della propaganda.
Primo in Europa e anzi
in Occidente, il neopopulismo che alla fine del Novecento si è
affacciato a scompigliare la scena politica italiana è stato quello
berlusconiano; il suo medium, ovviamente, era la tv, di cui Silvio
Berlusconi non era soltanto il più virtuoso utilizzatore, ma anche il
dominus. Al contrario di quanto accadde con Mussolini, l’egemonia
politica in Berlusconi è venuta dopo: è stata un effetto, e non una
causa, di quella mediale. Questa è consistita innanzitutto nella
costruzione di frame prepolitici nei programmi del daytime, orientamenti
di gusto e di mentalità che, senza forse diventare mai “opinione”,
hanno sviluppato un senso comune, poi trasportato e installato nel campo
politico (ma più esattamente in quello elettorale), come
un’application.
Il neopopulismo grillino, invece, si è
avvantaggiato dell’almeno apparente “libertà” della Rete, che non ha
proprietari: chiunque può intervenirvi direttamente, partecipare e
decidere. Ma bisogna distinguere due fasi. La prima si imperniava su uno
spazio fortemente marcato dall’identità del leader: il Blog di Beppe
Grillo. Un blog non è però un social network: Facebook ha anzi decretato
il tramonto del blog, come medium egemone sul web, proprio perché si è
posto come aggregatore di quei microblog, pulviscolari e innumerevoli,
che sono i nostri account.
Defilatisi i due comunicatori più
efficaci, Beppe Grillo e Alessandro Di Battista, nella fase attuale il
Movimento 5 Stelle tiene visibili leader perlopiù senza
caratterizzazioni (come il capo politico o come il premier designato in
outsourcing) e lascia all’ombra l’istanza proprietaria della Casaleggio e
quella tecnologica della controversa piattaforma Rousseau. Fra questi
due poli agisce il non-invisibile media manager Rocco Casalino. Si vedrà
se è un ardito tentativo di populismo dell’anonimato o un cambiamento
di strategia, dall’orizzontale al verticale. Certamente, pare di
percepire l’imbarazzo anche comunicativo già notato nel Movimento, dopo
l’ascesa al potere (al Campidoglio, in modo particolarmente vistoso).
Il
neopopulismo da social network è piuttosto rappresentato da Matteo
Salvini. Già Matteo Renzi aveva esibito una disinvolta consuetudine
anche generazionale con le tecnologie della comunicazione. Salvini l’ha
ripresa e rilanciata, aumentandone parecchio il tasso di disinvoltura.
Come le sue felpe distanziavano le maniche di camicia e i giubbotti di
pelle di Renzi, così tweet e dirette Facebook di Salvini sono esenti da
quel po’ di istituzionalità che a Renzi era imposta già dai retaggi del
Pd ancor prima dell’approdo a Palazzo Chigi (comunque avvenuto surfando
sull’hashtag dell’«Enrico stai sereno»). Salvini non si fa alcun
problema: indìce frequentemente sondaggi di puro contatto («Vi ho
convinti?», «Cosa ne pensate?»), esprime gioia («Il regime del pensiero
unico disinforma, la Rete è vita e libertà!»), la spara grossa ogni
volta che può («pacchia », «crociera»), lascia passare errori che
arrivano a essere così marchiani (una foto tra i carabinieri, con
hashtag alla polizia) da apparire casomai come espedienti tanto rozzi
quanto raffinati per moltiplicare i clic.
Brevità, effetto bomba,
effetto valanga, provocazione, vittimismo: i social network sono
funzionali ad alcune delle figure espressive preferite di ogni
populismo. Inoltre ogni comunicazione sui social è sempre corredata da
nome e anche immagine dell’enunciatore: un’altra spinta alla
concentrazione sulla persona del leader. Vi è poi l’immediatezza con cui
il leader, o chi per lui, può rilasciare un post o un tweet, come ben
dimostra l’esempio di Donald Trump. I social garantiscono così maggiore
velocità, maggiore agilità, maggiore penetrazione, maggiore
personalizzazione. Il salto qualitativo, e non solo quantitativo, lo fa
fare invece il loro carattere di tam tam: il fatto, cioè, che non c’è
una posizione dominante dovuta al controllo politico o al controllo
economico e proprietario.
Il dominio è dato dagli stessi utenti,
che leggono, rilanciano, commentano, magari per esprimere indignazione e
disgusto. Ma in quel disgusto per i modi rozzi, il cinismo e la
disonestà intellettuale, ci sarà chi si rispecchierà e riconoscerà nel
politico Salvini il proprio rappresentante contro gli immeritevoli
esponenti delle élite: siano essi una cugina professoressa o il Papa. Il
risultato è che noi non assistiamo alla comunicazione social di Salvini
(come a quella di Renzi o di Di Battista): noi vi collaboriamo.