Corriere 20.6.18
Le parole della politica
La (discutibile) distinzione tra rifugiati e migranti
di Donatella Di Cesare
Le
parole non sono indifferenti. Decidono la politica. Soprattutto quando
si tratta della cosiddetta «crisi migratoria». Il tema, si sa, accende
gli animi. Anche per ciò abbondano i luoghi comuni, mentre la
complessità resta sullo sfondo. In nome dell’esigenza di «ridurre gli
sbarchi», si è affermata così la distinzione tra rifugiati e migranti
che in breve è diventata criterio selettivo: i primi possono entrare,
gli ultimi vanno respinti. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi,
da una parte i veri, dall’altra i falsi. Il migrante che tenta di
passare per rifugiato è il «clandestino».
Ma ha davvero senso
questa distinzione? Il «rifugiato» può vantare un passato glorioso.
Viene dalla schiera degli esiliati, apolidi, proscritti che non sono mai
mancati nella storia. Pur tra ambiguità, il rifugiato assume un
significato più preciso tra le due guerre mondiali. Indica lo straniero
che, lasciato il proprio Paese, chiede protezione allo Stato in cui
giunge. Il prototipo del rifugiato è l’esule russo, vittima della
rivoluzione, che trova spazio in tante pagine della letteratura. Questa
figura è destinata a lasciare un’impronta nell’immaginario collettivo.
Ben diversamente vanno le cose per gli italiani che fuggono dal regime
di Mussolini. Accanto all’«esule russo» non nasce la categoria del
«rifugiato italiano». Per non parlare degli ebrei tedeschi che devono
aspettare fino al 1938 per essere riconosciuti come profughi dai Paesi
occidentali.
La svolta è segnata dalla Convenzione di Ginevra che
il 28 luglio 1951 definisce il rifugiato mettendo l’accento sulla
«persecuzione». Sembra così rompere con il passato, perché non parla più
di un gruppo, bensì del singolo che chiede protezione. Eppure ha la
meglio la continuità: il rifugiato non è che il calco del dissidente
sovietico. Con la vittoria del blocco occidentale prevale la difesa dei
diritti civili sulla tutela contro le violenze economiche. Fame e
povertà restano cause perdenti. Ma perché mai i motivi economici
dovrebbero essere meno gravi di quelli politici?
I rifugiati sono i
dissidenti che suscitano simpatia, accendono la solidarietà:
cecoslovacchi, greci, cileni, argentini. Tutto cambia quando compare un
nuovo rifugiato: meno bianco, meno istruito, meno ricco. È il
«migrante», termine che, al contrario di «rifugiato», non corrisponde a
una categoria giuridica. In poco tempo assume contorni negativi e
inquietanti. La governance burocratica lo ferma, gli chiede una «prova»
della sua persecuzione, ne fa tutt’al più un «richiedente asilo».
Le
frontiere si chiudono per quegli stranieri che sono più stranieri di
altri: i poveri. Colpevoli già solo per essersi mossi, non suscitano
alcuna compassione. Anzi! I persecutori potrebbero essere loro, questi
«nemici subdoli».
Eppure i migranti, questi nuovi poveri cui è
stata tolta persino la dignità del povero, hanno mille motivi da far
valere per quella loro scelta sofferta. L’Unhcr parla già da anni di
«flussi misti» per indicare i migranti che fuggono da guerra, violenza,
fame, siccità. Con questa formula già si ammette l’impossibilità di
applicare schemi antiquati. Nel mondo globalizzato la persecuzione ha
molti volti. Come distinguere in un groviglio di motivi che
s’intrecciano?
La distinzione tra rifugiati politici e migranti
economici non regge. Sarebbe come sostenere che l’impoverimento di
interi continenti non abbia cause politiche. Sfruttamento, crisi
finanziarie, catastrofi ecologiche non sono meno rilevanti della
minaccia personale. Questo criterio antistorico non può essere criterio
per una politica della migrazione. Anche da qui si deve ricominciare.