giovedì 21 giugno 2018

Repubblica 21.7.18
Giappone
Il videogioco che scaccia la depressione
di Cristian Martini Grimaldi


Tokyo, Giappone. Un giapponese su 15 soffre di depressione, e solo uno su quattro riceve adeguate cure mediche. Aiko Shimizu, fondatrice di Hikari Lab, ha ideato perciò quella che potrebbe rivelarsi la soluzione adatta a un paese popolato da gheimu otaku ( quei nerd che passano intere giornate ai videogiochi): si tratta di una app di nome Sparx che oltre allo svago “ somministra” un trattamento contro la depressione. La proposta nasce alla fine degli anni 2000 in Nuova Zelanda per contrastare l’alto tasso di suicidi tra gli adolescenti. Sparx non è altro che un videogioco di ruolo ambientato in un mondo fantasy medievale dove gli utenti man mano che affrontano ostacoli e sfide lungo il percorso accumulano forze e poteri che l’app si impegna a convertire in un’iniezione di fiducia in se stessi.
La soluzione ideale per un paese dove ai personaggi di fantasia viene attribuito ogni sorta di superpotere: ci sono mascotte create con la missione di aumentare il traffico di utenti sulle linee di autobus. Qui esiste la convinzione che un eroe immaginario abbia una capacità di persuasione più efficace di una persona reale esperta e qualificata. Ad esempio nel primo livello del gioco agli utenti viene chiesto di compiere profondi respiri: semplice operazione che favorisce il rilassamento fisico e mentale, ma in pochi la mettono in pratica nella vita concreta. Eppure se la prassi viene incorporata come compito del proprio avatar i giocatori, in piena trance ludica, seguono ciecamente le istruzioni.
La strategia del “ terapeuta tascabile” è quella di esternalizzare i sentimenti negativi ( i mostri sono sfere trasparenti da abbattere a classiche pistolettate) e di conseguenza portare il paziente/giocatore a coscienza del fatto che possono anche essere sconfitti. Rispetto alla versione neozelandese quella giapponese produce avatar con occhioni tipici dei personaggi dei manga, ma soprattutto è vietato il keigo, il freddo linguaggio della cortesia nipponica, capace di gelare sul nascere qualunque trasporto empatico. Quella sperimentata da Hikari Lab è una complessa soluzione tecnologica che scaturisce però da una semplice constatazione: per un cittadino del Sol Levante la sala d’aspetto di uno studio di consulenza crea maggiore apprensione di quella di un dentista. Nella terra degli oltre 20mila suicidi l’anno lo psicologo non figura come un alleato ma è piuttosto è il whistleblower che mette a nudo il profondo malessere nazionale.

Repubblica 21.6.18
La guerra segreta dei droni svelati 550 raid Usa in Libia quasi tutti da Sigonella
Esclusivo/ Il lato oscuro della sfida al terrorismo
Il numero degli attacchi supera quelli lanciati nel resto del mondo Nel 2016 Sirte usata come laboratorio delle guerre robotizzate con 300 missioni tra le case
di Gianluca Di Feo


Partono quasi ogni notte, con un sibilo silenzioso. Sagome spettrali confuse nell’oscurità prendono il volo dalla pista di Sigonella, dirette verso le coste dell’Africa. Sono i droni da combattimento americani, diventati i protagonisti più discussi della guerra contemporanea. Ma nessuno finora aveva scoperto che il campo di battaglia principale di questo conflitto tecnologico è la Libia, epicentro delle incursioni teleguidate statunitensi. Adesso un’inchiesta condotta da Repubblica in collaborazione con la testata investigativa The Intercept è in grado di rivelare che dal 2011 i bombardieri robot Usa hanno lanciato almeno 550 attacchi sul suolo libico.

ROMA È un numero altissimo, che apre uno squarcio sul lato più oscuro della sfida globale al terrorismo e mette in discussione la contabilità fornita dalla Casa Bianca di fronte alle richieste dei parlamentari Usa e delle associazioni per i diritti civili di tutto il mondo. Le autorità di Washington infatti non hanno mai presentato dati sulle incursioni dei droni in territorio libico. Ma gli attacchi lanciati in Libia durante la presidenza Obama sono superiori al totale dei raid scagliati nello stesso periodo in Pakistan, Yemen e Somalia. E, secondo le fonti interpellate da Repubblica, la quasi totalità di queste 550 missioni killer è stata realizzata usando la base italiana di Sigonella.
Obiettivo Gheddafi
Proprio nell’installazione siciliana il 25 marzo 2011 è stato attivato il 324th Expeditionary Reconnaissance Squadron, un reparto dell’aviazione statunitense dotato di Predator, i primi velivoli da combattimento senza pilota. Tre settimane dopo, gli Usa hanno dato il via all’offensiva contro Gheddafi e per sei mesi i Predator hanno continuato a distruggere mezzi e postazioni del regime, aprendo la strada ai ribelli fino alla vittoria. Secondo il Pentagono i droni hanno condotto 145 attacchi durante questa operazione. Ma l’ex colonnello Gary Peppers, comandante del reparto di Sigonella impegnato all’epoca nella missione libica, dichiara a the Intercept che i raid furono ben 241. Con un primato bellico: « In quei sei mesi i nostri Predator hanno lanciato 243 missili Hellfire: un quinto di tutti quelli usati nei quattordici anni di impiego di quest’arma » . Per un altro ufficiale Usa, quello dei droni è stato “ un successo fenomenale”. Le incursioni sono partite da Sigonella: l’operazione Unified Protector infatti è stata condotta dalla Nato, dopo una risoluzione delle Nazioni Unite. Ma il personale americano presente nell’aeroporto siciliano li ha pilotati solo durante decolli e atterraggi: la fase d’attacco veniva diretta via satellite dalla base di Creech, nel deserto del Nevada.
La grande battaglia
Dopo la caduta di Gheddafi per circa un anno le missioni armate dei droni sulla Libia sono state interrotte. Solo il 15 settembre 2012, dopo l’assassinio dell’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi, sono ripresi i decolli da Sigonella, con alcune “eliminazioni mirate di terroristi”. Ma negli anni successivi la nuova guerra civile ha fatto peggiorare la situazione e favorito la nascita di una filiale dello Stato Islamico. Così nell’estate 2016, dopo una richiesta formale del governo di Tripoli, l’Amministrazione Obama ha deciso di scacciare l’Isis dalla città di Sirte, scatenando l’operazione Odyssey Lighting. Il contributo americano è stato affidato soprattutto ai droni più avanzati: i potenti Reaper, letteralmente “mietitore”. Lo stormo stanziato in Sicilia ha come simbolo proprio la “ triste mietitrice” che impugna la falce. Complessivamente gli Usa hanno lanciato 495 attacchi tra agosto e dicembre 2016, di questi — come ha spiegato il colonnello Case Cunningham, comandante del 432 Wing basato a Creech in Nevada — il 60 per cento sono stati opera dei Reaper. Si tratta quindi di circa 300 incursioni, durante le quali ciascun drone ha scagliato fino a sei ordigni. Il volume di fuoco dei bombardieri teleguidati è stato enorme: « Abbiamo sparato centinaia di missili Hellfire » , ha dichiarato uno dei piloti. La città di Sirte è stata definita “ zona attiva di ostilità”, abolendo le lunghe procedure per autorizzare i raid: «Non è stata un’eccezione che l’ordine di colpire venisse impartito anche un solo minuto dopo avere scoperto il bersaglio», ha detto il colonnello Cunningham. Una battaglia senza quartiere, casa per casa: alla fine, tra le macerie di Sirte sarebbero stati contati i cadaveri di 900 miliziani del Califfato.
Prove di guerra futura
Quella campagna è stata un momento di svolta nella storia bellica mondiale: per la prima volta infatti i droni alati sono diventati i protagonisti assoluti dei combattimenti. « Nuove tattiche e modalità di attacco sono state sviluppate durante quest’operazione», ha raccontato il capitano Abrham, un pilota del 432th Wing. I Reaper si sono mossi in coppia, coordinandosi l’un l’altro in maniera semi- automatica, scagliando armi diverse e alternandosi negli assalti contro un singolo obiettivo: Sirte è stata il laboratorio degli sciami di guerrieri robotizzati destinati a dominare i campi di battaglia del futuro. Il generale Mark Nowland, vice capo di stato maggiore dell’aviazione Usa, ha descritto l’azione sincronizzata di due Reaper contro i cecchini dell’Isis appostati in diverse stanze di un edificio: è stata usata una testata termobarica, che li ha uccisi provocando un’onda d’urto potentissima.
Il ruolo dell’Italia
Le autorità Usa non hanno mai indicato da quale aeroporto provenissero i droni. Il colonnello Cunningham ha sottolineato che gli attacchi venivano guidati da equipaggi in Nevada, North Dakota e Tennessee. A quanto risulta a Repubblica, la quasi totalità dei Reaper è decollata da Sigonella. Ma gli accordi bilaterali tra Roma e Washington che regolano le azioni dei droni dal nostro Paese sono segreti. La senatrice Roberta Pinotti, ministra della Difesa dal 2014 allo scorso primo giugno, si è limitata a precisare a Repubblica: « Come ho dichiarato in Parlamento, il governo ha autorizzato di volta in volta le richieste americane di usare la base di Sigonella per compiere attacchi con droni contro obiettivi terroristici in Libia e per l’operazione del 2016 contro l’Isis a Sirte. Non sono mai stati segnalati danni collaterali né vittime civili » .
I vertici statunitensi dal 2011 in poi hanno ribadito che lo schieramento di Predator e Reaper contribuiva a limitare i “ danni collaterali”, perché i droni possono colpire con “precisione chirurgica”. Non è mai stato provato che i raid americani abbiano causato la morte di civili. Un dossier diffuso ieri dal centro di monitoraggio inglese Airwars e dal think tank New America sostiene che i bombardamenti in Libia dal 2012 abbiano provocato tra 244 e 398 vittime civili ma questo studio prende in considerazione 2.180 attacchi aerei, condotti dagli stormi Usa, francesi, egiziani, emiratini e dei due governi libici. In merito alle incursioni americane, senza distinguere tra droni e velivoli con pilota, lo studio ritiene che possano avere ucciso da un minimo di dieci a un massimo di venti civili. Anche se una serie di elementi raccolti durante la battaglia di Sirte porta a sospettare che altri 54 “non combattenti” abbiano perso la vita sotto le bombe. Tutte informazioni rimaste prive di riscontri.
L’ultima ondata
Dopo la caduta di Sirte le missioni libiche dei droni sono proseguite. Nella notte del 19 gennaio 2017, poche ore prima che Barack Obama lasciasse la Casa Bianca, due giganteschi bombardieri stealth B-2 hanno devastato un accampamento dell’Isis con 85 ordigni: chi cercava di fuggire è stato eliminato da una coppia di Reaper. Con l’arrivo di Donald Trump la strategia non è cambiata ma le attività sulla Libia sono diventate ancora più misteriose. Per non urtare “le sensibilità diplomatiche”, il Pentagono ha diffuso sempre meno notizie sulle incursioni. Un alto ufficiale ha citato 18 attacchi, mentre Africom — il comando Usa per l’Africa — ne ha riconosciuti solo 11 in cui però sono stati abbattuti più obiettivi. Lo scorso 6 giugno è stata distrutta una camionetta con 4 persone a bordo. Secondo una fondazione libica, solo uno era un miliziano: una ricostruzione smentita dagli americani. Infine il 13 giugno è stato ammazzato un capo di Al Qaeda.
Insomma, i raid non si fermano. Ma come è accaduto in Yemen, in Pakistan o in Somalia, le missioni dei droni non contribuiscono a stabilizzare la situazione, né a sconfiggere il terrorismo: anche in Libia, nonostante 550 attacchi di Predator e Reaper, il caos continua a crescere e nuove cellule fondamentaliste prendono le armi.

Repubblica 21.6.18
La nuova, vecchia Libia
Tripoli città in mano alle milizie Equilibrio politico a rischio
di Vincenzo Nigro


TRIPOLI Il salone arrivi dell’aeroporto di Mitiga, l’unico scalo che funziona a Tripoli, alla periferia della città.
Alle nove di sera, atterrano i voli da Tunisi e dall’Africa, strapieni di famiglie con bimbi che rientrano alla fine del Ramadan.
La sala è stata rinnovata, dal soffitto in cartongesso penzolano ordinate le insegne per indirizzare i passeggeri, per ricordare il divieto di fumo.
All’improvviso all’esterno, alle spalle della lunga fila, sul piazzale risuona un colpo secco, un colpo di kalashnikov. Un colpo singolo.
L’arma è caduta dalle mani del miliziano, era senza sicura, il proiettile è sfilato verso il cielo; dentro il salone chissà perché cade a terra una tabella “divieto di fumo”. La fila sbanda impaurita e nervosa, le guardie urlano fra di loro. È questa la sicurezza di Tripoli, affidata a milizie da brividi. Che sono la vera malattia che infesta la Libia.
«Arriva presto il vostro ministro dell’Interno?», chiede il manager di una compagnia petrolifera straniera che rientra dall’Europa: «Auguri, dovrà fare in fretta a capire quanto conta qui il governo dei politici e quanto contano invece le milizie, dovrà imparare tanti nomi…».
All’aeroporto a fare i controlli c’è una polizia di frontiera in borghese, poi dei soldati in tuta mimetica, poi degli “agenti dell’intelligence” (così li chiamano) in borghese che fanno un ultimo controllo in un piccolo ufficio sporco come un ripostiglio delle scope. Fino a pochi giorni fa dicevano che la sicurezza dell’aeroporto la fa “Rada”, la Special Deterrence Force del giovanissimo capo salafita Abdedl Raouf Kara. La SDF si è specializzata nella polizia giudiziaria, gestisce alcune carceri e soprattutto dà la caccia ai terroristi islamici più pericolosi, innanzitutto quelli dell’ISIS.
Ma adesso qualcosa di strano rende nervosi tutti. Altri gruppi hanno capito che la presenza di Kara all’aeroporto è un vantaggio troppo smaccato. La notte in un aeroporto che ormai è stato inglobato fra le mille case della Tripoli orientale, atterrano di continuo voli misteriosi. Dicono che siano carichi di armi, traffici di ogni genere, che passerebbero da Mitiga così come fino a pochi anni fa passavano da Tripoli International, l’aeroporto fuori città che da posto è stato ristrutturato e presto potrebbe essere utilizzato. «E anche lì ci hanno segnalato che da pochi giorni potrebbero esserci stati dei voli notturni», dice in un hotel del centro un diplomatico arabo. Un aeroporto è strategico. Ecco perché a Mitiga nel frattempo si sono visti spesso gli uomini di un’altra milizia potente, la “Tripoli Revolutionaries Brigade” di Hajtam Tajuri, detto “il capitano”, oppure “il fighetto” da qualche italiano per il suo stile asciutto e raffinato. Tajuri era un semplice poliziotto ai tempi di Gheddafi. Mentre nel 2011 tutti festeggiavano la rivoluzione, lui si impossessò di armi, macchine della polizia, autoblindo, e diede vita alla sua start-up militare: creare un esercito per la sicurezza di Tripoli, vendendo i servizi al governo. Alì Zidan, il debole premier che è durato soltanto pochi mesi, lo promosse capitano da soldato semplice. Gli garantì fondi e stipendi per decine di migliaia di uomini, mentre all’inizio in verità la sua TRB aveva solo poche centinaia di miliziani. Tutte le milizie hanno fatto così, per anni: dichiaravano al Ministero dell’Interno o della Difesa 10.000 soldati mentre ne avevano soltanto 1.000. Ma anche poche decine bastavano a metter paura ai ministri impotenti che quindi versavano (versano) milioni di dinari sui conti correnti dei capimilizia. È così ancora oggi con Fajez Serraj, il primo ministro di un governo riconosciuto dall’Onu che viene protetto da un equilibrio incerto fra le insaziabili milizie di Tripoli.
Un equilibrio che inizia a scricchiolare: «Prima è venuto l’incontro di Parigi», dice un esperto europeo che non vuole essere citato, «i francesi hanno messo allo stesso tavolo tre autorità istituzionali o presunte tali come Serraj, il capo del Parlamento di Tobruk e quello del “senato” di Tripoli ma con loro c’era il generale Haftar, che è un potente capomilizia ma non è riconosciuto come autorità politica». Il solo fatto che Serraj sia andato ancora una volta da Haftar a Parigi ha fatto temere un accordo sottobanco col generale dell’Est: lui, il generale, diventava capo militare di tutto il paese, e il primo ministro riceveva un ruolo politico nella Libia del futuro. I primi a innervosirsi sono i misuratini e a Tripoli gli uomini di Tajuri. Un libico che conosce Roma dice: «Quelli di Tajuri sarebbero come i vigili urbani di Monteverde con auto blindate e qualche carro armato; le milizie di Misurata sono un esercito che ha aviazione e che ha sconfitto l’ISIS a Sirte 2 anni fa…». Tajuri ha agito subito dopo Parigi, ha fatto sloggiare la Guardia presidenziale che controllava i palazzi del potere («per noi libici quella è come i metronotte da voi…», dice il libico) e ha messo Serraj ancora di più con le spalle al muro. Per ora i soldati di Misurata si sono avvicinati alla città e all’aeroporto di Tripoli International. In Libia Salvini troverà il traffico di migranti, ma anche molto altro.
Qualcosa di strano rende i clan nervosi Aeroporti punti di conquista strategici Tutti sospettano di tutti e i vertici in Europa non aiutano

Corriere 21.6.18
Scandalo abusi sessuali
Chiesa, il muro del sospetto
di Massimo Franco


Accuse alla Chiesa per gli scandali sugli abusi sessuali, ultimo caso il Cile. Passa di qui la sfida del Papato di Bergoglio per abbattere il muro dei sospetti sul Vaticano.
C’è qualcosa di allarmante, nel viavai febbrile e anomalo tra la Roma vaticana e il Cile per appurare la verità su abusi sessuali compiuti dai sacerdoti di quella nazione. Lascia indovinare il tormento e la determinazione di Francesco. Il Papa vuole andare fino in fondo e chiudere una vicenda che lo ha sovraesposto in modo imprevisto. Il caso ha mostrato reticenze, sottovalutazioni, bugie, cinismo di pezzi dell’episcopato latinoamericano; e una disinformazione sulla vera portata degli scandali, che non si è fermata nemmeno davanti all’esigenza di proteggere la figura di Jorge Mario Bergoglio.
È vero che il Cile, visto dall’Europa, è quasi più remoto dell’Argentina. Eppure, questa brutta storia latinoamericana rischia di assurgere a simbolo della difficoltà perfino del Papa argentino ad affrontare con efficacia il problema della pedofilia nella Chiesa cattolica. «Questi scandali non finiranno. E quello cileno si sta rivelando la spina più dolorosa del papato...», ammettono persone vicine a Francesco, descrivendone la sofferenza e lo stupore. La «sua» America latina si è dimostrata severa quanto il Nord del mondo nei confronti di sacerdoti che si sono macchiati di crimini così odiosi.
Ma soprattutto, forse per la prima volta Bergoglio ha dovuto fare i conti con le proprie convinzioni; e prendere atto che ecclesiastici ritenuti fidati lo avevano informato pericolosamente male. Lo scandalo ha riflessi vaticani perché ripropone il tema della selezione dei consiglieri papali; e a volte, la tendenza di Francesco a preferire le indicazioni di persone amiche, o presunte tali, rispetto a quelle degli organi istituzionali del Vaticano. Gli inquirenti papali, monsignor Charles Scicluna e don Jordi Bertomeu, in Cile per raccogliere notizie, riferire e decidere che fare, hanno un compito difficile anche per questa ragione.
È come se il Vaticano cercasse di rimediare a un errore di valutazione che a prima vista appare inspiegabile; ma che rischia di incrinare la strategia della «tolleranza zero» contro la pedofilia iniziata da Benedetto XVI e proseguita con vigore proprio da Francesco. Le dimissioni in massa offerte un mese fa al pontefice argentino dai trentaquattro vescovi cileni, sono state un gesto inedito e traumatico: sebbene non si capisca fino in fondo se siano state date per aiutare il pontefice a agire, o quasi come un gesto di sfida di fronte alla delegittimazione dell’episcopato.
Gli avversari di Bergoglio cercano di accreditare maliziosamente la seconda versione. L’unica certezza è che quanto è accaduto è il risultato di una catena di reticenze. Il cardinale Francisco Errázuriz, ritenuto uno dei grandi elettori di Francesco al Conclave del 2013, membro del Consiglio dei 9 chiamato a coordinare le strategie della Chiesa nel mondo, non ha voluto o saputo capire il dramma delle vittime; e quando è scoppiato lo scandalo, è arrivato a sostenere che non rientrava nei suoi compiti informare il Papa su problemi di quel tipo; e questo nonostante risulti che si fosse opposto alla nomina del vescovo di Osorno, Juan Barros, rimosso sotto la pressione dell’opinione pubblica cilena come uno dei principali indiziati di pedofilia.
In più, alcuni siti cattolici hanno sostenuto che dal 2015 molti erano a conoscenza di quanto succedeva in Cile. La stessa Congregazione per la dottrina della fede aveva segnalato ripetutamente con rapporti scritti che qualcosa non andava e dunque erano opportune indagini più approfondite. E negli ultimi giorni è emerso il profilo controverso di un gesuita spagnolo, Germàn Arana, guida spirituale di monsignor Barros. Arana sarebbe un sacerdote ascoltato da Francesco. E ora viene insinuato il dubbio che possa avere fuorviato il Papa su monsignor Barros: almeno fino al 21 gennaio scorso, quando durante il volo di ritorno dal Cile Francesco spiegò che aveva fatto studiare il caso in modo approfondito.
«Realmente non ci sono evidenze di colpevolezza e sembra davvero che non se ne troveranno», disse il pontefice. Aggiungendo con calore che si trattava di «calunnie». Le sue parole provocarono una reazione dura in modo irrituale dell’arcivescovo di Boston, Patrick O’Malley. E poche settimane dopo spinsero Francesco a riaprire l’intera questione. Il resto è cronaca recente. Il Papa ha ricevuto le vittime cilene in Vaticano, chiedendo loro scusa con parole forti e inequivocabili. E nel viaggio in Irlanda che farà in agosto incontrerà quelle degli abusi da parte dell’episcopato irlandese. Eppure, c’è qualcosa di circolare e ripetitivo, in queste dinamiche.
Lo schema sembra immutabile. Accuse delle vittime. Indagini farraginose, difficili, spesso circondate da un alone di imbarazzo e reticenza. Alla fine, scuse della Chiesa. A volte cause milionarie. Il risultato è la messa in mora di fatto delle gerarchie ecclesiastiche, e la sensazione che nemmeno il Papa riesca sempre a sfondare il muro dei silenzi. Succede dal Cile all’Irlanda, all’Australia, agli Usa, dove ieri al cardinale Theodore McCarrick è stata vietata qualunque attività, per una vecchia accusa di pedofilia. Ma colpisce l’assenza di una elaborazione culturale del fenomeno: un’analisi che permetta alla Chiesa cattolica una strategia preventiva in grado di impedire che si ritrovi comunque sul banco degli imputati.
Finora, è riuscita solo a reagire, subendo un’agenda dettata dagli altri. Non è stata in grado di confutare le tesi, in qualche caso strumentali, che proiettano sul Vaticano il sospetto di continuare a proteggere la «cultura del segreto» e i crimini perpetrati nell’ombra. Per questo si teme che quanto sta accadendo in Cile sia solo l’ultima tappa di uno «scandalo infinito». I monsignori che fanno la spola col Cile come virtuosi inquisitori, probabilmente sono i primi a esserne consapevoli.

Repubblica 21.6.18
Si dichiara innocente
Cardinale Usa rimosso per abusi a un adolescente
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO L’accusa risale a 45 anni fa.
L’imputato è colui che allora non era che un giovane prete di New York e che oggi è invece un cardinale emerito. Theodore McCarrick, ex arcivescovo di Washington DC, è stato rimosso dal ministero pubblico dopo l’accusa di aver abusato di un adolescente.
Secondo quanto ha detto il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo nella Grande Mela, è stato il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, a chiedere a McCarrick «di non esercitare più pubblicamente il suo ministero sacerdotale».
Questi, ha detto Dolan, «pur professando la sua innocenza, ha accettato la decisione».
McCarrick, ha continuato il porporato americano, «è stato messo al corrente dell’accusa e, pur professando la sua innocenza, ha collaborato pienamente alle indagini. La Santa Sede è stata allertata e ci ha incoraggiati a continuare il processo». E ancora: «Questa arcidiocesi, sebbene rattristata e scioccata, chiede preghiere a tutti i soggetti coinvolti e rinnova le sue scuse a tutte le vittime abusate dai sacerdoti».
McCarrick ha dichiarato di rendersi conto di come «questo doloroso sviluppo sconvolgerà i miei molti amici, familiari e persone che sono stato onorato di servire nei miei sessant’anni come sacerdote prete». Insieme, ha detto di non avere «assolutamente alcun ricordo di questo abuso segnalato», e di credere nella propria «innocenza».

Repubblica 20.6.18
L’educazione che salva
Grazie a te, mondo sono libera dal Padre
di Massimo Recalcati


Ogni figlio è uno sforzo di poesia: confrontato ad una lingua che non ha generato, ogni figlio ha il compito di rigenerare la sua vita come se fosse una nuova lingua. Di questo sforzo, di questo “nuovo inizio”, parla con grande intensità epica il romanzo autobiografico L’educazione (Feltrinelli) di Tara Westover, qui alla sua prima — decisamente convincente — prova letteraria.
Cresciuta nell’Idaho, in una valle sperduta circondata da alte montagne e fitti boschi, Tara è stata educata secondo i più rigidi canoni mormonici: niente medicine, niente vaccini, niente libri, niente televisione, niente amici, niente patente, niente telefono, nessun certificato di nascita («sapevo di essere nata a fine settembre ed ogni anno sceglievo un giorno per il mio compleanno»), ma, soprattutto, niente scuola. In primo piano — scolpita con struggente forza tragica — la figura di un padre d’altri tempi che crede di prolungare sulla terra la volontà di un Dio collerico e vendicativo. Il suo delirio religioso è al centro della vita della famiglia. Sempre impegnato come un Noè folle a costruire rifugi, ad accumulare e ad inscatolare scorte, fucili e benzina, sacchi di grano e fusti di miele per consentire alla sua famiglia di sopravvivere ad una imminente catastrofe — i “Giorni dell’Abominio” —, questo padre incarna una versione folle della Legge. I “socialisti”, gli “infedeli”, le “spie degli Illuminati” popolano il mondo esterno rendendolo minaccioso. Bisogna dunque barricarsi nella propria casa trasformata in una fortezza. La famiglia è il Bene, il mondo è il Male. Ma la tragica scoperta di Tara è che il diavolo non è fuori, ma dentro, che la barbarie non è del mondo, ma di questo Dio inesistente e del suo portavoce terreno che lancia maledizioni e predice sciagure. Il Male è dentro non fuori. Il fratello Shawn — probabilmente un pericoloso paranoico — le infligge violenze di ogni genere: le torce i polsi, la soffoca, le infila la testa nel water o la schiaccia contro il pavimento, la insulta («puttana, troia!»), la trascina per i capelli, la minaccia con un coltello o — quando la sorella sarà finalmente dall’altra parte del mondo — attraverso mail che assomigliano a proiettili sparati da lontano. Il mondo degli uomini della famiglia sembra polarizzarsi attorno a questi due estremi solo apparenti poiché la devozione paterna per la Legge di Dio e l’esercizio brutale della violenza del fratello, non sono in realtà che due facce della stessa medaglia. Quando, infatti, non si lascia spazio all’eteros, quando non c’è alcun rispetto per l’alterità, la vita diviene un inferno e la Legge il luogo di un caos solo distruttivo.
La madre erborista e levatrice «sentiva l’energia calda che scorreva attraverso i nostri corpi».
La sua visione omeopatica della medicina è il risultato di uno scambio intimo con Dio: attraverso le sue mani e i suoi occhi è Dio che si prende cura delle povere anime alle quali questa donna si dedica. La sua posizione nei confronti del marito è quella di una obbedienza inerme. Lo stesso vale per le violenze scatenate di continuo dal fratello paranoico verso le figlie femmine.
La vita di Tara sembra predestinata. Raccattare, trinciare e saldare rottami, lavorare nella discarica, al fianco del padre e dei fratelli, con gli scarponi dalla punta d’acciaio. Ma una vita non è solo, come credeva Freud, preda passiva della sua infanzia. La narrazione di Tara Westover mostra che le tracce traumatiche del proprio passato possono non smettere di affliggere l’anima e il corpo, ma la vita del figlio ha sempre la possibilità di dare una forma nuova alla propria storia.
Per questo lo sforzo di poesia del figlio necessita di nutrirsi di un altro ossigeno. Accade per Tara con l’incontro con la scuola. Il college prima e l’università poi sono deviazioni impreviste nella sua vita di predestinata; cambi di direzione che rendono possibile un nuovo poema. È stato necessario un lungo e tragico apprendistato per fare esperienza di un’altra lingua rispetto a quella (fondamentalista) della propria famiglia. Grazie alla scuola può finalmente introdursi alla pluralità sconosciuta e affascinante delle altre lingue.
Mentre per il padre la scuola allontanava i bambini da Dio, per Tara è il luogo di una ripartenza vitale. Di fronte al bivio che la separa dalle sue radici, Tara non tentenna, ma assume con forza il proprio desiderio di conoscenza anche se questo è osteggiato in tutti i modi dalla sua famiglia: «Cosa deve fare una persona, mi chiedevo, quando i suoi doveri verso la famiglia si scontrano con altri doveri — verso gli amici, la società, verso se stessi?...Potete chiamare questa presa di coscienza in molti modi.
Chiamatela trasformazione.
Metamorfosi. Slealtà. Tradimento. Io la chiamo educazione».
Nessuna formazione può però avvenire cancellando il passato. Il processo di soggettivazione implica sempre una ripresa in avanti di quello che si è stati. Per questo Tara può riconoscere — al termine del suo tortuoso cammino — che sono state le ore passate sulla scrivania di casa a decifrare «piccoli frammenti di dottrina mormona» a farle acquisire la «pazienza di studiare cose che non riuscivo a capire». Lo sforzo di poesia del figlio lavora sempre sulle macerie, sui resti inceneriti della lingua dei padri.

il manifesto 20.6.18
«Democrazia diretta», da Atene a Berlinguer
Lessico politico. La democrazia consiliarista vuole il controllo continuo e diretto degli elettori sugli eletti, e l’eventuale revoca del delegato «infedele». Oggi anche si parla di mandato imperativo, ma lo si vorrebbe applicare al parlamento di matrice liberaldemocratica, dove vige invece il principio del parlamento specchio del paese, eletto da indistinti «cittadini» (aspetti questi sui quali bisognerà tornare a proposito della «democrazia parlamentare»)
di Guido Liguori


Si fa un gran parlare di democrazia diretta, intendendo spesso la consultazione via internet, una delle maggiori novità introdotte nel panorama politico dal M5s. La democrazia diretta in realtà ha una storia antica.Con tale espressione si è a lungo inteso un tipo di pronunciamento espresso direttamente da soggetti riuniti in assemblea, senza l’intermediazione di rappresentanti.
Sono state forme di democrazia diretta l’assemblea («ecclesia») nella antica Atene, l’assemblea dei cittadini nei comuni medievali, o la democrazia teorizzata da Rousseau a partire dall’esempio (idealizzato) della sua Ginevra. Una variante di crescente successo della democrazia diretta è poi stata quella referendaria, adottata in Svizzera e poi introdotta in numerosi paesi.
In epoca più recente, la democrazia diretta si intreccia con la storia politica del «quarto stato». La Comune di Parigi (1871) è il primo esempio di tentativo di autogoverno esercitato senza l’elezione di parlamentari. Marx e poi Lenin la elevano a forma esemplare del nuovo Stato proletario. I Soviet russi, nati nel 1905 e risorti nel 1917, ne riprendono lo spirito, pur non disdegnando di eleggere dei delegati.
Nella teorizzazione di Antonio Gramsci, il più originale e importante teorico del consiliarismo dell’epoca, sono i gruppi omogenei di operai a eleggono i propri delegati che formano il «consiglio». Ma il principio della delega è qui molto diverso da quello della democrazia parlamentare.
La democrazia consiliarista vuole il controllo continuo e diretto degli elettori sugli eletti, e l’eventuale revoca del delegato «infedele». Oggi anche si parla di mandato imperativo, ma lo si vorrebbe applicare al parlamento di matrice liberaldemocratica, dove vige invece il principio del parlamento specchio del paese, eletto da indistinti «cittadini» (aspetti questi sui quali bisognerà tornare a proposito della «democrazia parlamentare»).
Cosa manca alla democrazia diretta via internet delle antiche e più solide democrazie dirette? In una profetica intervista del 1984 Enrico Berlinguer affermava: «La “democrazia elettronica” limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica… Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone. Ad ogni modo lo ripeto: io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi».
Una convinzione troppo ottimistica? Certo è più facile spingere un bottone seduti dietro il proprio computer che partecipare e un’assemblea o a una riunione. Di cui un forum via internet difficilmente però riesce a riprodurre la ricchezza, lo scambio e l’arricchimento reciproco. Speriamo non sia, quella odierna, una strada senza ritorno.

Il Fatto 21.6.18
Il Sessantotto Neoliberista
Effetti collaterali - Il movimento di studenti e operai si è esaurito, le grandi imprese hanno cavalcato la richiesta di libertà individuale e le spinte anti-autoritarie per imporsi in un mondo “liquido”, a spese di Stati e partiti
L’eredità del ’68
di Colin Crouch


Nel Sessantotto l’atteggiamento diffidente verso ogni autorità e l’insistenza sulla libertà di espressione culturale ebbero l’effetto benefico di rendere più solari le posizioni austere e spesso puritane dei movimenti socialisti e comunisti ufficiali.
Ma lo Zeitgeist di cui il Sessantotto fece parte promosse anche approcci alternativi a queste priorità. Pure i neoliberisti festeggiarono la riduzione del potere dei governi (benché non delle società private) e la libertà di espressione individuale (posto che tale espressione si manifestasse nelle scelte finanziarie). Le imprese capitaliste furono veloci a sfruttare le innovazioni nella moda, nella musica e in altri fenomeni potenzialmente di consumo degli anni Sessanta, imitando e imponendo su di essi una forma merce. Alla fine del Ventesimo secolo, ad esempio, le etichette discografiche preferivano costruire band e gruppi interni anziché rispondere alle energie che provenivano in modo spontaneo dai giovani nella società. Non c’è quasi nulla che le imprese capitaliste non possano imitare, catturare, produrre in serie e alla fine monopolizzare, inclusa la stessa ribellione.
Il fatto che il neoliberismo si appropriasse del declino della deferenza e della richiesta di espressione individuale ha avuto implicazioni molto più importanti della creazione di prodotti culturali. Le politiche della sinistra e della destra sono sempre dipese entrambe dal rispetto per l’autorità statale e dalla volontà di obbedire da parte di soggetti e cittadini. Quando, nel corso del Novecento, i partiti socialdemocratici iniziarono a formare dei governi, diedero spesso per scontato di poter ereditare un consenso generale verso la legittimità dell’autorità statale. Che cosa accadrebbe se la deferenza non potesse più essere data per scontata?
Alla fine degli anni Sessanta, Jürgen Habermas scorse una crisi strutturale di legittimità nell’ordine capitalista e, come molti a sinistra, la interpretò come un fenomeno che avrebbe accelerato il crollo definitivo quell’ordine. Invece toccò allo Stato, e soprattutto allo Stato sociale, essere vittima di una forte delegittimazione. E i principali critici dello Stato non erano degli esponenti della sinistra, ma i sostenitori di un mercato libero e non ostacolato dalla regolamentazione e dalla tassazione. Siccome il mercato opera sulla base della libertà di scelta individuale, i suoi sostenitori poterono appropriarsi degli appelli sessantottini alla libertà individuale.
Non era questo che i sessantottini volevano. Solo certi tipi di scelte possono trovare espressione sul mercato, cioè scelte di consumo materiale, quelle che essi consideravano alienanti. Inoltre, la sostituzione dello Stato con i direttori e i manager delle imprese non rappresentò certo un miglioramento per il ruolo dell’autorità. Tuttavia, l’interpretazione neoliberista dell’emancipazione colpì profondamente un pubblico più ampio, sempre meno legato alle vecchie forme di deferenza e sempre più insofferente verso la regolamentazione e la tassazione, soprattutto in un momento in cui l’economia privata rendeva disponibili così tanti prodotti attraenti. I partiti conservatori e liberali prima e, dagli anni Novanta, socialdemocratici poi abbracciarono la svolta mercatistica.
Ma ciò che è ancora più deprimente per lo spirito del Sessantotto è il fatto che il capitale sia stato più abile dei suoi critici nell’apprendere come operare in un mondo caratterizzato dal declino della deferenza e da strutture postburocratiche, sfruttando l’informalità e la flessibilità prefigurata dai movimenti di protesta tra gli studenti, i lavoratori, le femministe e gli ambientalisti.
Come ha mostrato Zygmunt Bauman nel suo libro Modernità liquida, gli ultimi decenni sono stati segnati da una disillusione diffusa verso le strutture “solide”. Il cambiamento sembra onnipresente, e tanto le istituzioni quanto gli individui devono continuare ad adattarsi a uno stile frenetico di vita “liquido”. Il cambiamento deve essere incessante, benché sia i suoi motivi sia il suo scopo rimangano oscuri. In un simile ambiente, le grandi aziende moderne si trovano nel loro elemento. Possono persino dissolversi e riapparire in un’altra forma, con un nome, un logo, un capitale, dei lavoratori e un’ubicazione geografica differenti, spesso sfruttando cavilli nelle normative fallimentari che permettono di sfuggire ai creditori delle loro precedenti incarnazioni. Gli Stati non possono fare nessuna di queste cose: rimangono solidi, per dirla con Bauman. E così anche i partiti politici, i sindacati e le organizzazioni riconosciute.
Mezzo secolo dopo il Sessantotto, quindi, è l’impresa la forma di organizzazione che si è dimostrata più capace di assimilare le sue lezioni di flessibilità e adattabilità. Per la sinistra, le organizzazioni liquide e in costante mutamento corrispondono a una serie di movimenti in gran parte transitori e collegati solo in via informale. Ognuno di questi movimenti lascia ai suoi successori poche vittorie consolidate o risorse organizzative da cui partire, al di là dell’esperienza di quegli individui che passano da una generazione all’altra finché non diventano disillusi o muoiono.
La ragione principale di questa differenza tra le imprese e le altre organizzazioni è che il capitale, pur essendo la più liquida tra tutte le risorse, è in fondo posseduto da qualcuno, e la sua proprietà è concentrata nelle mani molto solide di un piccolo numero di persone o famiglie molto ricche. Queste ultime vanno e vengono, ma i nuovi arrivati imparano presto a seguire le regole per conservare il capitale e farlo crescere, così che il sistema possa riprodursi.
Un tempo, il potere politico possedeva una forma di “solidità oltre la liquidità”, quando i sovrani medievali conquistavano, conservavano e perdevano grandi fette di territorio in tutta Europa e, nel più recente periodo coloniale, in tutto il mondo. Ma gli Stati moderni lo fanno raramente, dal momento che includono popoli dalle cui lealtà e identità apparenti traggono forza. I partiti, i sindacati e gli altri movimenti di massa hanno un problema analogo, essendo definiti dall’adesione degli iscritti e dalle cerchie più ampie di persone sulla cui lealtà possono contare. Le persone rappresentano la loro risorsa principale, ed essi hanno bisogno che queste persone diano loro i voti, il denaro e l’impegno volontario che determinano la loro forza. Le lezioni organizzative del Sessantotto sono qui di poco aiuto, portano esempi di scoppi straordinari di entusiasmo appassionato che di rado possono essere sostenuti da grandi masse di persone per un periodo di tempo qualsiasi. Il capitale, al contrario, sfrutta la sua ricchezza per comprare temporaneamente i servizi delle persone a cui dà lavoro.
Il Sessantotto produsse una generazione arrabbiata ma sicura di sé, insofferente verso la mancanza di flessibilità delle istituzioni della società. Il 2018, invece, produrrà una generazione arrabbiata ma angosciata, strapazzata da un’insicurezza flessibile. A posteriori, nessuna delle due sarà stata in grado di capire cosa fare.

La Stampa 21.6.18
Amos Oz, elogio dei traditori
Spesso vengono chiamati così gli uomini che sono capaci di cambiare
Amos Oz è nato a Gerusalemme nel 1939 da una famiglia originaria dell’Europa Orientale
di Amos Oz


«E direte loro: così dice il Signore, ecco che riempio di ubriachezza tutti gli abitanti di questa terra e i re che siedono sul trono di Davide e i sacerdoti e i profeti e tutti coloro che dimorano a Gerusalemme» (Geremia 13, 13). Nella cultura d’Israele c’è una costante profonda, anche affascinante, di indignazione spietata, metodica e talora pure violenta nei confronti del potere, dei sovrani. In questo contesto si innestano il profeta Samuele che accusa gravemente re Saul, Nathan che dice a re Davide delle cose molto pesanti, e naturalmente Geremia, ma di fatto a questo proposito non c’è soluzione di continuità: si arriva sino a scrittori ebrei contemporanei quali Bialik, Brenner e Yizhar e da loro all’attualità del nostro presente.
Geremia profetizza distruzione e catastrofi vuoi perché la gente ha costruito case «nell’ingiustizia» e «senza diritto» vuoi anche perché è atterrito alla vista di quella insanità mentale che lui definisce «ubriachezza»: lo spaventa vedere un popolo pacifico e un regno pacifico correre così a sbattere la testa con il muro di Babilonia. «Attenti!» dice il profeta alla sua gente, ai suoi contemporanei. Un popolo piccolo non deve neanche provarci, a comportarsi come se fosse una grande potenza: quando si è a cavallo di una motoretta sull’autostrada della storia, dice Geremia, bisogna evitare di guidare come se si fosse al volante di un Tir. Fate attenzione ad accusare i vostri capi in Babilonia, a far conto sull’Egitto, ad andare contro tutto il mondo. Ai contemporanei di Geremia non piaceva affatto ascoltare queste cose: si imbufalivano moltissimo con lui, i gangli del potere ribollivano di rabbia, gli irriducibili sempre pronti a rinfacciare imprecavano contro quel traditore di Geremia, i prefetti finirono col rinchiuderlo nel cortile della prigione, così che stesse zitto una buona volta, che la piantasse di abbattere l’umore nazionale, di fare il gioco del nemico, quinta colonna che non era altro.
Non di rado coloro che hanno qualcosa da rimproverare al re, ai principi, ai profeti e al popolo vengono definiti «traditori» dalla maggioranza della propria gente e da chi la governa. Data una rapida occhiata a quella categoria lì, di quelli che sono sempre pronti a puntare il dito, nella Gerusalemme di duemila anni fa e più, di coloro che ce l’avevano con il profeta Geremia, mi sono sentito proprio a casa...
«Chi è il traditore?» è una domanda che mi turba sin da quando ero bambino. Sono stato chiamato «traditore» tante di quelle volte, in vita mia. La prima è successo quando avevo appena otto anni, l’ultima spero che debba ancora venire.
«Chi è il traditore?» mi domando.
Non sto parlando del traditore banale, come quello che lavora in una fabbrica e in cambio di denaro vende segreti di produzione a una ditta concorrente. Non sto neanche parlando del traditore adultero, colui o colei che fa le corna alla persona che ama. Sto parlando del terzo tipo di traditore. Perché talvolta, agli occhi di coloro che non cambiano e non sopportano il cambiamento, che non capiscono il cambiamento, che hanno una paura tremenda del cambiamento, che odiano coloro che cambiano, il traditore è semplicemente la persona che cambia, che è capace di cambiare.
Pensate alla storia del popolo ebraico nell’epoca moderna. Benjamin Theodor Herzl, che fu pronto a soppesare la possibilità di fondare lo Stato ebraico in Uganda invece che in Terra d’Israele, almeno temporaneamente, perché la Terra d’Israele gli sembrava irraggiungibile mentre la questione ebraica la considerava improrogabile: allora non pochi convinti sionisti consideravano Herzl un traditore. E David Ben Gurion, quando nell’autunno del 1947 diede parere favorevole alla spartizione della nostra patria in due patrie separate, una per gli ebrei e una per i palestinesi: in molti lo chiamarono traditore. Anche Menachem Begin, quando andò incontro a Sadat e si dichiarò disposto a restituire all’Egitto tutto il Sinai, in cambio dell’accordo di pace. E Itzhak Rabin e Shimon Peres con gli accordi di Oslo: Rabin pagò addirittura con la vita, per il proprio coraggio.
Allora a volte mi domando: quale club è più rispettabile? Quello i cui soci sono coloro che talvolta vengono definiti «traditori» dai propri contemporanei, o quello di coloro che nessuno ha mai chiamato «traditori»? Quello di Geremia o quello dei cosiddetti «profeti menzogneri»? Quello dei populisti che cantano sempre qualcosa che li possa portare in testa al corteo pubblico della politica?
Amore e rabbia, amore e riprovazione, amore e profezia funesta, non sono degli opposti. Ogni tanto, solo ogni tanto, il traditore è colui che ama veramente. «Fedeli sono le ferite di chi vuol bene» (Proverbi 27, 6).

La Stampa 20.6.18
Nomadi e senza patria
Sono i migranti i nuovi proletari del ventunesimo secolo
risponde Domenico Quirico


Caro Quirico,
un fatto isolato, ossia l’aiuto offerto agli oltre 600 profughi della nave Aquarius respinta dai porti italiani, non cambia il rigore «armato» che la polizia spagnola esercita al confine con il Marocco (rigore già espresso dal primo ministro socialista José Luis Rodríguez Zapatero).
Dopo il caso Aquarius Madrid aprirà altri porti? Sembra proprio di no e quindi quello di questi giorni non è stato altro che un bello spot per il presidente Pedro Sánchez e nulla più. Mi sembra un po’ poco. Noi italiani «ex brava gente» dobbiamo essere ospitali con tutti coloro che fuggono da guerre, fame, povertà o anche per scomparire dalla giustizia del proprio Paese? Cattivi italiani , razzisti , xenofobi , egoisti, impauriti di perdere il benessere che c’era un tempo? L’Europa ci ha lasciati soli , anzi solissimi , e allora ci voleva un fatto importante e traumatico per scuotere i simpatici nostri vicini.
Renata Franchi (Torino)

Gentile signora Franchi,
Zapatero? Sanchez? La brava gente era quella che stava sul molo di Valencia, così umile e vera, simile a quella che ha aperto le braccia a Lampedusa dove arrivai naufrago con i migranti nel 2011, a Pozzallo e in tutti gli altri luoghi del nostro tempo migliore che profeti bugiardi hanno imbottito di veleno. «I proletari non hanno patria» diceva Marx. E aveva ragione. Sì: da sempre nomadi, un tempo dalle campagne miserande alle città delle botteghe del Capitale. Oggi il filosofo li riconoscerebbe a prima vista, i suoi: i migranti proletari come noi siamo stati prima di loro, come mai prima d’ora. Attraverso il Mediterraneo, attraverso montagne e deserti, ai confini di frontiere senza pietà, il Texas e i Balcani, Melilla e Lampedusa , i nuovi proletari del ventunesimo secolo sono davanti a noi , in mezzo a noi, zoccolo duro della massa inesistente, composta dagli ultimi arrivati. Costretti a fare tutto, dire e vivere rapidamente, in un respiro. Perché qualcuno può arrivare, per portare tutto verso il nulla. L’ospitalità oggi è ancor più preziosa che ai tempi dei patriarchi e dei greci dell’Iliade: perché non è un rito, è un dono.

il manifesto 20.6.18
Mamma gli zingari! Il cacicco leghista e il mestiere dell’odio
di Moni Ovadia


La ziganofobia è una delle forme più ripugnanti e vili di razzismo, prova di un’imbecillità senza limiti. Quasi nessuno di coloro che agitano lo spettro dei Rom e dei Sinti conosce la loro Storia, né le loro storie.
Questi scervellati non hanno mai avuto l’opportunità di frequentarli, di ascoltarne le ragioni, di percepirne la specificità culturale ed esistenziale, vivono di pregiudizi, di sentito dire, di impressioni esteriori prive di senso.
Gli imprenditori del panico, delle paure irrazionali sanno che elettoralmente rende molto prendersela con gli ultimi, con gli indifesi che risultano “estranei” per l’uomo della strada, figura retorica, inesistente parametro della più sudicia propaganda. dell’odio.
Inoltre bisogna essere davvero infami per prendersela con chi non ha una nazione che lo difenda, che non può mettere in campo forze economico finanziarie per arginare le politiche persecutorie pensate e concepite come perfetta arma di distrazione di massa.
Ma francamente più ancora dell’odio, della brutalità e della violenza colpiscono e offendono la stupidità e la vacuità dell’operazione pensata dal già cacicco padano, ora Gran Vizir nazional-sovranista: censire gli zingari ed espellere i “clandestini”, gli “illegali”.
Un simile censimento nella nostra Repubblica dovrebbe essere anticostituzionale, ma qualora per assurdo si potesse fare, quali ne sarebbero gli esiti concreti? 26 mila Rom espellibili perché non italiani e neppure comunitari.
Il grande problema dell’Italia: 26 mila “alieni” su 60 milioni di autoctoni! Come mi faceva osservare un amico, il giornalista Lorenzo Alvaro, non si tratta neppure di una statistica. Come può dunque essere creduto un ciarlatano la cui proposta politica poggia sul nulla?
Tutto dipende da un vecchio trucco di tutte le demagogie, reiterare una falsità facendo perno su un sentimento diffuso nelle pseudo democrazie, corrotte e indebolite da classi dirigenti indegne che ne hanno eroso i valori per interessi di fazione o di casta.
Le falsità che scatenano panico nei confronti delle marginalità sono le più efficaci, nella fattispecie i Rom e i migranti.
In tempi di crisi e di mancanza di punti di riferimento, avere un nemico su cui scaricare le frustrazioni, causate, sia chiaro solo ed esclusivamente dal malgoverno e sfogare la rabbia sociale sull’eterno “altro” aiuta perversamente a non assumersi responsabilità.
Il cittadino, l’elettore non sono innocenti per definizione, devono anch’essi assumersi il carico di responsabilità altrimenti contribuiscono a distruggere una democrazia.
Ora è mia opinione che noi in Italia si sia ad una svolta.
Il cazzaro verde, per mutuare una felice espressione di Marco Travaglio adesso sta esagerando. Dal fare il mestiere del populista – si! mestiere, perché quello che fa Salvini non è politica ma redditizio mestiere -, si è montato la testa, si comincia a prendere troppo sul serio, agitando come Torquemada il Vangelo. Capita, a certe nullità dall’ego ipertrofico, noi abitanti dello Stivale ne sappiamo qualcosa.
Adesso tutte le persone con un po’ di sale in zucca è tempo che alzino il tiro, a partire dalle comunità ebraiche che si segnalano già per l’inquietudine, ma che dovrebbero fare molto ma molto di più rifiutando radicalmente ogni contatto con certi politici e non mercanteggiando indulgenze con essi in cambio di strumentali benevolenze verso le porcherie perpetrate dal governo di Israele a danno del popolo palestinese.
Un luminoso esempio è venuto proprio da una straordinaria donna ebrea, la senatrice a vita Liliana Segre che ha assunto come priorità non negoziabile la difesa della minoranza Rom e Sinta.
È compito imperativo di ogni persona per bene fare sentire la propria voce per fermare questa deriva, sinistra e ridicola ad un tempo, per ritrovare il senso primo di ogni civiltà del diritto.
E si presenta anche l’occasione di ritornare ai fondamenti della costituzione dell’Europa unita facendo capire a certi governi che è troppo comodo ingozzarsi con contributi comunitari per dare forza a politiche persecutorie nei confronti degli ultimi.

il manifesto 20.2.18
Il sovranismo non difende il popolo e divide la sinistra
Immigrazione. Il punto è che il populismo è pericoloso non solo in sé, ma per quello che implica. Così l’antipolitica dei Cinquestelle, con il rassicurante mantra «né di destra, né di sinistra», ha aperto le porte al sovranismo neofascista della Lega, divenuto dominante
di Donatella Di Cesare


Si sa che il virus del populismo sopravvive al portatore. Immunizzarsi non è facile. Sarebbe un errore non vedere la continuità tra Berlusconi e la coalizione legastellata. La lezione è che i populisti possono tornare, in forme persino più gravi.
Sebbene non si possano trascurare le differenze, i nessi tra leghisti e grillini sono evidenti: antieuropeisti, sovranisti, nazionalisti. Insieme all’Europa, il loro nemico numero uno è l’«immigrazione clandestina». La loro rapida ascesa è dovuta all’abilità con cui, soffiando sulla paura e facendo leva sul rancore, sono ricorsi ad una mobilitazione politica dell’odio indirizzato in alto contro i politici, quelli che sono tutti corrotti, in basso contro i cenciosi stranieri, quelli che rubano casa e lavoro.
Il populista attuale aspira a farsi portavoce del «popolo», inteso come un tutto omogeneo e puro, che vuole difendere dai nemici: da una parte le «caste», le «élites», dall’altra gli immigrati. Se è banale questa concezione, in cui si dimentica che il potere è diffuso e trasversale, grottesco è il modo di semplificare una realtà complessa, come quella della globalizzazione, nella quale il populista non sa districarsi. Il complottismo è la sua visione del mondo; vede trame ovunque, riconduce tutto a un retromondo da cui scaturirebbe il male. Breve è di qui il passo che conduce a parlare dell’immigrazione come «deportazione di massa», se non addirittura di «sostituzione etnica», secondo il mito elaborato dalla nuova destra francese. Sono le parole d’ordine rilanciate ossessivamente da Diego Fusaro.
Il punto è che il populismo è pericoloso non solo in sé, ma per quello che implica. Così l’antipolitica dei Cinquestelle, con il rassicurante mantra «né di destra, né di sinistra», ha aperto le porte al sovranismo neofascista della Lega, divenuto dominante.
Sennonché il sovranismo ha investito anche la sinistra. Ed è questo forse oggi il rischio più grave. Non è una sorpresa che il primato nazionale – «Prima gli Italiani!», «Ognuno a casa propria!» – venga sbandierato dalla sinistra moderata che, un po’ ovunque, ha finito per sposare le sorti del neoliberismo. La novità è invece il ripiegamento sovranista di una parte almeno della sinistra «radicale». Questo fenomeno, che affiora nel contesto italiano come in quello europeo, ha assunto proporzioni inedite. In breve: il sovranismo divide la sinistra. Questa è la nuova frattura.
Il problema è esploso con la migrazione, tema molto dibattuto, ma poco esaminato nella sua profondità. Solo in questo Carlo Freccero avrebbe ragione nella sua analisi (il manifesto, 05.06.2018) per il resto ben poco condivisibile. Quel che non si vede è lo scontro epocale tra lo Stato e i migranti. Agli occhi dello Stato il migrante costituisce un’anomalia intollerabile, una sfida alla sua sovranità. Ecco perché, pur di esercitare il proprio potere, lo Stato lo ferma alla frontiera, che diventa anche la barriera tra i diritti dei cittadini e quelli dei migranti.
È possibile difendere unicamente i cittadini, sovrani indiscussi, liberi di decidere con chi coabitare. Questa è l’ideologia del sovranismo populista che si fonda non solo sull’autodeterminazione, ma anche sul possesso del territorio. Presunti comproprietari, i cittadini sono chiamati a selezionare e a respingere. Qui si materializzano vecchi spettri – anzitutto quello dello ius soli. Così anche il welfare viene limitato ai confini nazionali. Si mettono poveri contro immigrati. Perciò viene tradita la vocazione internazionalista della sinistra.
Riflettere sulla migrazione significa ripensare lo Stato. C’è una sinistra che resterà forse aggrappata sciovinisticamente a questa vecchia forma politica immaginando così di contrastare la «finanza globale». C’è tuttavia un’altra che guarda già oltre lo Stato guidata anche dalla carica sovversiva della migrazione.

Corriere 21.6.18
Il significato delle parole
Il censimento: perché no

Circola una versione minimizzatrice e minimalista che dice: e che sarà mai un censimento in più!di Pierluigi Battista

Se ne sono fatti tanti, uno addirittura nel 1961 nel Regno d’Italia nuovo di zecca, piantiamola con tutto questo chiasso. Versione sbagliata, incongrua, infondata: le parole non sono solo una definizione del vocabolario, sono anche l’accento con cui le pronunciamo, l’intenzione che manifestano, i sottintesi morali e culturali a cui alludono. Se viene censita una popolazione per sapere quanti lavoratori dipendenti essa conta, lo scopo è squisitamente conoscitivo, serve a fotografare una situazione sociale di cui uno Stato deve tenere conto. Se si censisce una porzione della popolazione con intenzioni palesemente ostili, per metterla nel mirino, per minacciarla con provvedimenti severi e punitivi sulla base dei dati acquisiti con il censimento, allora questa parola, «censimento», assume tutto un altro significato. E del resto anche l’avverbio «purtroppo» può avere significati molto diversi. «Purtroppo ho la febbre, non posso partire per le vacanze» esprime rammarico per una circostanza che malauguratamente mi impedisce di fare una cosa gradevole. «Purtroppo i rom italiani ce li dobbiamo tenere», come ha detto non un cittadino qualunque nel peggior bar di un quartiere malfamato, bensì il ministro dell’Interno, esprime invece una ripulsa verso un categoria particolarmente detestata di concittadini, e il rammarico di non poterla prendere a pedate e cacciarla via. Purtroppo è molto diverso. Purtroppo, per noi tutti.
Il censimento dei rom propagandato da Matteo Salvini, del resto, vuole marcare esattamente questa differenza. Chi dice che in fondo qualcuno lo aveva già fatto, che tutti noi italiani che purtroppo non siamo rom (ma anche i rom italiani che purtroppo, secondo il ministro, sono rom e pure italiani) già siamo censiti, che anche amministrazioni non leghiste si sono trovate di fronte allo stesso problema, purtroppo stenta a dare atto a Salvini di aver lui per primo marcato una differenza. Il messaggio di Salvini infatti è: sono il primo a proporre questa cosa, con me l’Italia conosce finalmente un punto di svolta sul tema dei rom. Ed è questa novità il vero pericolo, il messaggio che si vuole sbandierare agitando lo spettro del censimento. La novità è la disposizione aggressiva che il censimento salviniano contiene ed esprime. Un normale censimento rilevato con gli strumenti dell’Istat non aggredisce nessuno, e compone i dati per comporli in un racconto coerente di come è fatta l’Italia e chi la abita, con quali lavori, con quali famiglie, in quali case, con quali consumi. Il censimento paventato dei rom mette nel mirino una categoria considerata pericolosa. Il presidente del Consiglio Conte giustamente sostiene che la schedatura etnica è contraria ai valori e alla lettera della Costituzione. Per questo Salvini usa l’espressione apparentemente più neutra di «censimento». Una parola che da una parte indica una continuità (si è sempre fatto, dicono i minimizzatori), ma dall’altra ammicca a una differenza, suggerisce agli elettori che la «pacchia», anche in questo caso, è finita. Fosse stato un provvedimento da ministro dell’Interno che ha a cuore la sicurezza dei cittadini italiani bastava dire: faremo ispezioni per vedere che a tutti i bambini, compresi i rom, sia garantito il diritto di andare a scuola. Ma non è stato detto questo, è stato detto che i rom devono essere soggetti a un trattamento particolare. È stato detto che i rom sono un pericolo, non perché i bambini non vengono mandati a scuola nell’età in cui tutti i cittadini italiani devono obbedire alle norme dell’obbligo scolastico, ma perché sono rom. Il trattamento speciale viene riservato a una fetta della popolazione a causa di ciò che è, non di ciò che fa. E se si viene indicati, messi nel mirino, presi a bersaglio per ciò che si è e non per ciò che si fa, allora una soglia morale e lessicale è stata superata, significa che il pericolo della discriminazione è nelle cose e nelle parole. E che non è questione di vocabolario, ma di cultura e di memoria storica. E dunque che nessun «censimento» della popolazione rom, motivato da queste premesse, può essere fatto. E che il presidente del Consiglio Conte si deve impegnare di fronte agli italiani, a tutti gli italiani, che il ministro dell’Interno non può fare di testa sua. Purtroppo? Forse no.

Corriere 20.6.18
Le parole della politica
La (discutibile) distinzione tra rifugiati e migranti
di Donatella Di Cesare


Le parole non sono indifferenti. Decidono la politica. Soprattutto quando si tratta della cosiddetta «crisi migratoria». Il tema, si sa, accende gli animi. Anche per ciò abbondano i luoghi comuni, mentre la complessità resta sullo sfondo. In nome dell’esigenza di «ridurre gli sbarchi», si è affermata così la distinzione tra rifugiati e migranti che in breve è diventata criterio selettivo: i primi possono entrare, gli ultimi vanno respinti. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, da una parte i veri, dall’altra i falsi. Il migrante che tenta di passare per rifugiato è il «clandestino».
Ma ha davvero senso questa distinzione? Il «rifugiato» può vantare un passato glorioso. Viene dalla schiera degli esiliati, apolidi, proscritti che non sono mai mancati nella storia. Pur tra ambiguità, il rifugiato assume un significato più preciso tra le due guerre mondiali. Indica lo straniero che, lasciato il proprio Paese, chiede protezione allo Stato in cui giunge. Il prototipo del rifugiato è l’esule russo, vittima della rivoluzione, che trova spazio in tante pagine della letteratura. Questa figura è destinata a lasciare un’impronta nell’immaginario collettivo. Ben diversamente vanno le cose per gli italiani che fuggono dal regime di Mussolini. Accanto all’«esule russo» non nasce la categoria del «rifugiato italiano». Per non parlare degli ebrei tedeschi che devono aspettare fino al 1938 per essere riconosciuti come profughi dai Paesi occidentali.
La svolta è segnata dalla Convenzione di Ginevra che il 28 luglio 1951 definisce il rifugiato mettendo l’accento sulla «persecuzione». Sembra così rompere con il passato, perché non parla più di un gruppo, bensì del singolo che chiede protezione. Eppure ha la meglio la continuità: il rifugiato non è che il calco del dissidente sovietico. Con la vittoria del blocco occidentale prevale la difesa dei diritti civili sulla tutela contro le violenze economiche. Fame e povertà restano cause perdenti. Ma perché mai i motivi economici dovrebbero essere meno gravi di quelli politici?
I rifugiati sono i dissidenti che suscitano simpatia, accendono la solidarietà: cecoslovacchi, greci, cileni, argentini. Tutto cambia quando compare un nuovo rifugiato: meno bianco, meno istruito, meno ricco. È il «migrante», termine che, al contrario di «rifugiato», non corrisponde a una categoria giuridica. In poco tempo assume contorni negativi e inquietanti. La governance burocratica lo ferma, gli chiede una «prova» della sua persecuzione, ne fa tutt’al più un «richiedente asilo».
Le frontiere si chiudono per quegli stranieri che sono più stranieri di altri: i poveri. Colpevoli già solo per essersi mossi, non suscitano alcuna compassione. Anzi! I persecutori potrebbero essere loro, questi «nemici subdoli».
Eppure i migranti, questi nuovi poveri cui è stata tolta persino la dignità del povero, hanno mille motivi da far valere per quella loro scelta sofferta. L’Unhcr parla già da anni di «flussi misti» per indicare i migranti che fuggono da guerra, violenza, fame, siccità. Con questa formula già si ammette l’impossibilità di applicare schemi antiquati. Nel mondo globalizzato la persecuzione ha molti volti. Come distinguere in un groviglio di motivi che s’intrecciano?
La distinzione tra rifugiati politici e migranti economici non regge. Sarebbe come sostenere che l’impoverimento di interi continenti non abbia cause politiche. Sfruttamento, crisi finanziarie, catastrofi ecologiche non sono meno rilevanti della minaccia personale. Questo criterio antistorico non può essere criterio per una politica della migrazione. Anche da qui si deve ricominciare.

Repubblica 21.6.18
Quanto corre il populismo social
di Stefano Bartezzaghi


È tipico del giustizialismo essere senza giustizia, così come dell’allarmismo diffondersi in assoluta assenza di allarmi; perché non dovremmo avere, allora, un populismo in assenza di popolo? «Popolo della Rete» o «Popolo del Web»: così i media tradizionali cercarono di denominare, rendendolo anche banale, il fenomeno che ha preso una pur ambigua evidenza con i social network. Venne allora contestata da più parti, e giustamente, l’esistenza stessa di un simile «popolo». Ma, nemesi della comunicazione e della politica, se quel popolo non esisteva, dalla sua inesistenza si sarebbe pure generato il populismo. Tutta colpa di Facebook?
Umberto Eco lo aveva spiegato per tempo: «Siccome il popolo in quanto tale non esiste, il populista è colui che si crea un’immagine virtuale della volontà popolare» (per esempio, sbandierando sondaggi) e quindi «trasforma in quel popolo che lui ha inventato una buona porzione di cittadini, affascinati da un’immagine virtuale in cui finiscono per identificarsi». Si capisce che ciò non può che avvenire attraverso i mass media e infatti le diverse specie di populismo sono in relazione con le diverse forme di comunicazione mediale. Il fascismo è stato un populismo: predominanza del governo sul Parlamento, disintermediazione, leaderismo fortemente personalizzato, stile brutale, generazione di sentimenti identitari vittimisti sono tra i massimi fattori distintivi del populismo, per come li elenca la recente, e già classica, analisi di Marco Revelli ( Populismo 2.0, Einaudi 2017). La connessione fra il duce e il suo popolo era assicurata dal massimo della tecnologia dell’epoca (la radio, il cinegiornale) e dall’impiego di soluzioni architettoniche e urbanistiche per l’esposizione del leader e dei suoi messaggi (dal vivo: discorsi e gesticolazioni da balconi, arenghi e simili; o in effigie: ritratti e slogan su ampie pareti urbane). Il populismo fascista era controllo politico sulla comunicazione: dominio, censura, repressione, amministrazione attenta della propaganda.
Primo in Europa e anzi in Occidente, il neopopulismo che alla fine del Novecento si è affacciato a scompigliare la scena politica italiana è stato quello berlusconiano; il suo medium, ovviamente, era la tv, di cui Silvio Berlusconi non era soltanto il più virtuoso utilizzatore, ma anche il dominus. Al contrario di quanto accadde con Mussolini, l’egemonia politica in Berlusconi è venuta dopo: è stata un effetto, e non una causa, di quella mediale. Questa è consistita innanzitutto nella costruzione di frame prepolitici nei programmi del daytime, orientamenti di gusto e di mentalità che, senza forse diventare mai “opinione”, hanno sviluppato un senso comune, poi trasportato e installato nel campo politico (ma più esattamente in quello elettorale), come un’application.
Il neopopulismo grillino, invece, si è avvantaggiato dell’almeno apparente “libertà” della Rete, che non ha proprietari: chiunque può intervenirvi direttamente, partecipare e decidere. Ma bisogna distinguere due fasi. La prima si imperniava su uno spazio fortemente marcato dall’identità del leader: il Blog di Beppe Grillo. Un blog non è però un social network: Facebook ha anzi decretato il tramonto del blog, come medium egemone sul web, proprio perché si è posto come aggregatore di quei microblog, pulviscolari e innumerevoli, che sono i nostri account.
Defilatisi i due comunicatori più efficaci, Beppe Grillo e Alessandro Di Battista, nella fase attuale il Movimento 5 Stelle tiene visibili leader perlopiù senza caratterizzazioni (come il capo politico o come il premier designato in outsourcing) e lascia all’ombra l’istanza proprietaria della Casaleggio e quella tecnologica della controversa piattaforma Rousseau. Fra questi due poli agisce il non-invisibile media manager Rocco Casalino. Si vedrà se è un ardito tentativo di populismo dell’anonimato o un cambiamento di strategia, dall’orizzontale al verticale. Certamente, pare di percepire l’imbarazzo anche comunicativo già notato nel Movimento, dopo l’ascesa al potere (al Campidoglio, in modo particolarmente vistoso).
Il neopopulismo da social network è piuttosto rappresentato da Matteo Salvini. Già Matteo Renzi aveva esibito una disinvolta consuetudine anche generazionale con le tecnologie della comunicazione. Salvini l’ha ripresa e rilanciata, aumentandone parecchio il tasso di disinvoltura. Come le sue felpe distanziavano le maniche di camicia e i giubbotti di pelle di Renzi, così tweet e dirette Facebook di Salvini sono esenti da quel po’ di istituzionalità che a Renzi era imposta già dai retaggi del Pd ancor prima dell’approdo a Palazzo Chigi (comunque avvenuto surfando sull’hashtag dell’«Enrico stai sereno»). Salvini non si fa alcun problema: indìce frequentemente sondaggi di puro contatto («Vi ho convinti?», «Cosa ne pensate?»), esprime gioia («Il regime del pensiero unico disinforma, la Rete è vita e libertà!»), la spara grossa ogni volta che può («pacchia », «crociera»), lascia passare errori che arrivano a essere così marchiani (una foto tra i carabinieri, con hashtag alla polizia) da apparire casomai come espedienti tanto rozzi quanto raffinati per moltiplicare i clic.
Brevità, effetto bomba, effetto valanga, provocazione, vittimismo: i social network sono funzionali ad alcune delle figure espressive preferite di ogni populismo. Inoltre ogni comunicazione sui social è sempre corredata da nome e anche immagine dell’enunciatore: un’altra spinta alla concentrazione sulla persona del leader. Vi è poi l’immediatezza con cui il leader, o chi per lui, può rilasciare un post o un tweet, come ben dimostra l’esempio di Donald Trump. I social garantiscono così maggiore velocità, maggiore agilità, maggiore penetrazione, maggiore personalizzazione. Il salto qualitativo, e non solo quantitativo, lo fa fare invece il loro carattere di tam tam: il fatto, cioè, che non c’è una posizione dominante dovuta al controllo politico o al controllo economico e proprietario.
Il dominio è dato dagli stessi utenti, che leggono, rilanciano, commentano, magari per esprimere indignazione e disgusto. Ma in quel disgusto per i modi rozzi, il cinismo e la disonestà intellettuale, ci sarà chi si rispecchierà e riconoscerà nel politico Salvini il proprio rappresentante contro gli immeritevoli esponenti delle élite: siano essi una cugina professoressa o il Papa. Il risultato è che noi non assistiamo alla comunicazione social di Salvini (come a quella di Renzi o di Di Battista): noi vi collaboriamo.

Repubblica 21.6.18
Il fascismo e le lezioni da imparare
risponde Corrado Augias


Caro Augias, Salvini ha superato i 5 Stelle nei sondaggi, quindi rilancia. Lo fa su un nervo scoperto di tutte le grandi città: i rom. Una comunità abbandonata a se stessa, dopo i primi successi di integrazione e scolarizzazione messi in atto da alcune giunte locali di sinistra. Finiti ( o quasi) i pulmini che portavano i ragazzi dai campi alla scuola, molti ragazzini rom sono tornati a borseggiare nei mezzi pubblici. Mentre quelli più grandi rubano cavi elettrici e ne bruciano la plastica esterna per vendere il rame al prezzo dell’argento. Chi vive in queste periferie e ha protestato invano per i fuochi neri, che costringono a vivere con le finestre chiuse e a rilavare i panni stesi, ora saluta Salvini come un salvatore. Tutti fascisti? No, ma esasperati dall’indifferenza delle istituzioni. Uno Stato che non si fa carico della legalità estende l’area dell’odio. La destra leghista lo alimenta fino a creare dipendenza. Il suo popolo ne chiede sempre di più e Salvini aumenta la dose, pur di non perderli. Il fascismo si diffonde, quando la violenza è vista come più efficace della legge. È questo il pericolo che stiamo correndo.
Massimiliano Rizzo

Roma È davvero questo il pericolo che stiamo correndo? O quello del signor Rizzo è un allarmismo eccessivo? Sto leggendo in anteprima il nuovo romanzo di Antonio Scurati che uscirà a settembre. Il primo volume consta di 800 e passa pagine, ne seguiranno altri due ( Bompiani ed.). Lettura appassionante. Titolo: M - il figlio del secolo. Dove M sta ovviamente per Mussolini. È un romanzo, quindi ha tono e andamento narrativi. Ogni personaggio però, ogni gesto, ogni frase, assicura l’autore, prende rigorosamente spunto da documenti e cronache dell’epoca. Lo cito perché il racconto di quanto avvenne nel nostro paese tra la fine della guerra nel 1918 e la famosa Marcia su Roma del 1922 ha qualche punto di contatto con il nostro presente. Tre fattori concorsero allora all’affermazione del fascismo: l’inconcludente debolezza, e le divisioni (!), della sinistra; la complicità del governo; il geniaccio politico di Mussolini che aveva individuato i timori diffusi nell’opinione pubblica e seppe sfruttarli. Troppi confronti sono fuorvianti, meglio fermarsi. Anche perché tutte le altre circostanze sono, un secolo dopo, totalmente diverse e “quel” fascismo non potrà più tornare. Fascismo però non indica solo un regime politico: in senso più generale indica anche lo stato d’animo per cui quando si percepisce o si suppone la lesione di diritti fondamentali quali il proprio “ territorio”, la proprietà, la sicurezza, la reazione è aggressiva e ogni altro principio passa in secondo piano. L’ex ministro Minniti aveva avvertito un anno fa che paure sociali di tale magnitudine possono mettere a rischio la democrazia. Aveva avuto la sua buona porzione di critiche. Martedì scorso parlando a Sarzana è tornato sull’argomento dicendo: «Potevamo ascoltare di più? Sì. Ma abbiamo imparato la lezione ». Meglio tardi che mai, sperando ovviamente che non sia troppo tardi.

La Stampa 21.6.18
Orban mette in costituzione il divieto di accogliere quelli economici
di Letizia Tortello


Se l’Europa è divisa sui migranti, e la cancelliera tedesca Merkel prepara il vertice di domenica a Berlino con sette Stati Ue, il blocco dell’Est invece è granitico. E gioca d’anticipo. I Paesi di Visegrad (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) si incontrano oggi a Budapest, invitati dal primo ministro conservatore Viktor Orban, per riaffermare la loro stretta sull’immigrazione, a partire dalle frontiere chiuse e dall’aperta ostilità verso il sistema di ripartizione dei migranti secondo le quote. È l’Ungheria a dettare la linea, ancora una volta. Anzi, ieri è andata più avanti di tutti gli alleati: Orban ha ottenuto quasi a maggioranza assoluta dal Parlamento l’approvazione di una modifica della Costituzione in vigore dal 2011. Secondo la nuova legge, nessun cittadino straniero può d’ora in poi insediarsi nel Paese, i migranti economici non potranno più chiedere asilo in Ungheria, dove è anche perseguibile con pene fino a un anno di carcere l’aiuto ai migranti da parte delle Ong, considerate «organizzatrici dell’immigrazione illegale».
Alla riunione di Visegrad, oggi, ospite speciale sarà il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che si è fatto promotore di un «asse dei volenterosi» con Baviera e Italia contro l’immigrazione illegale. La presenza di Kurz si motiva con il fatto che Vienna assumerà la presidenza Ue dall’1 luglio. In verità, il cancelliere porta avanti la politica dell’Austria come «nazione-ponte» con i Paesi dell’Est, secondo lo slogan che «solo avendo buoni rapporti di vicinato è possibile un’Europa di pace e più sicura». Quello di Budapest ha comunque l’aria di un contro-vertice rispetto alla riunione di domenica, a cui parteciperanno Germania, Francia, Spagna, Grecia, Italia, Bulgaria, Malta e la stessa Austria. Kurz fa da perno tra Merkel e Orban. Pendendo, però, più a Est: d’altra parte, non ha mai smesso di lodare il premier ungherese per aver chiuso, nel 2016 e insieme a lui, la rotta balcanica dei migranti. Quando l’Europa ancora li criticava come disumani, perché volevano chiudere le frontiere.

il manifesto 21.2.18
Migranti, due vertici contrapposti dividono l’Europa
Lo squalo 2. A Bruxelles e a Budapest. Intanto un documento parla di controlli alle stazioni degli autobus, dei treni e negli aeroporti
di Carlo Lania


Il governo gialloverde italiano può essere soddisfatto. Molto probabilmente dal vertice dei capi di Stato e di governo del 28 giugno non uscirà una sola proposta utile all’Italia per la gestione dei migranti, ma in compenso le esternazioni urlate quotidianamente dal ministro degli Interni Salvini hanno contribuito a spaccare l’Unione europea come mai si era visto in precedenza.
Il segno tangibile della crepa sempre più larga che sta dividendo i 28 sono i due prevertici convocati per domani e domenica da gruppi contrapposti di Paesi, ognuno dei quali è impegnato a elaborare proposte che, almeno sulla carta, dovrebbero rappresentare le nuove politiche europee sull’immigrazione. Al primo summit, fissato per domenica a Bruxelles dal presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker e al quale è prevista la partecipazione di dieci Paesi, si è aggiunto ieri quello deciso da Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia, il gruppo di Visegrad che, con l’Austria, si vedrà oggi a Budapest. Il fronte anti-migranti propone una «rivoluzione copernicana» (copyright del premier austriaco Sebastian Kurz) nella gestione dei migranti. Intanto però, in serata sono uscite nuove anticipazioni di quello che potrebbe essere il documento finale del vertice ufficiale, quello di fine mese, e che oltre alla trasformazione di Frontex in una vera e propria polizia di frontiera, annunciano controlli sui migranti alle stazioni di autobus, treni e aeroporti di tutta Europa allo scopo di individuare e rispedire indietro i profughi che hanno abbandonato il Paese in cui hanno presentato la richiesta di asilo.
Un modo per contrastare i cosiddetti movimenti secondari sui quali in Germania la cancelliera Merkel e il suo ministro degli interni Seehofer litigano fino a rischiare la caduta del governo, e che Bruxelles propone adesso di fermare penalizzando i Paesi di primo arrivo – tra i quali ovviamente l’Italia. E così il premier Giuseppe Conte, che ieri mattina ricevendo il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk a palazzo Chigi gli aveva detto di non voler neanche sentir parlare dei «secondary movements», in serata se li è visti ripiombare pari pari sulla scrivania.
La verità è che non bastano gli attacchi e le minacce di Salvini per aumentare l’autorevolezza dell’Italia in Europa. Anzi, proprio la vicenda dei movimenti secondari dimostra che se i leader europei devono sostenere un governo, la scelta cade su Berlino e non su Roma. Accantonata definitivamente ogni speranza di riformare Dublino, domenica a Bruxelles si discuterà quindi ancora della possibilità di esternalizzare le frontiere dell’Ue. Presenti, oltre all’Italia, anche Belgio, Germania, Olanda, Francia, Spagna, Malta, Grecia e Bulgaria, quest’ultima presidente uscente dell’Ue. L’idea, non nuova, è di creare in Nordafrica campi nei quali raccogliere i migranti dividendoli tra profughi ed economici, per poi raccogliere le richieste di asilo dei primi e rimpatriare i secondi. Un lavoro che dovrebbe svolgersi con il contributo dell’Unhcr e dell’Oim, e accompagnato da programmi per i rimpatri dei migrati irregolari, supporti finanziari e altri incentivi. Ma la cui realizzazione può richiedere tempi anche molto lunghi. Prima occorre infatti individuare i Paesi disponibili a essere trasformati in «piattaforme per gli sbarchi» (la Tunisia, indicata come uno di quelli possibili, ieri ha confermato di non essere disponibile) e poi stipulare gli accordi necessari a far sì che il piano non resti solo sulla carta.
Nel frattempo non è che dall’altra parte, quella dei puri e duri di Visegrad più l’Austria, si brilli per fantasia. Salvo sorprese l’annunciata «rivoluzione copernicana» consisterebbe sempre nell’apertura fuori dall’Ue di campi dove raccogliere i migranti ma questa volta nei Balcani, magari facendo leva sulla voglia di questi Paesi di entrare a far parte dell’Unione. Potrebbe consistere in questo la riforma di Dublino annunciata da Salvini per «proteggere le frontiere esterne, senza dividere il problema tra i Paesi europei ma risolvendolo a monte». Anche in questo caso, però, sembra che i conti siano stati fatti senza l’oste. La Macedonia ha infatti già detto di non volere campi profughi nel proprio territorio.

il manifesto 21.6.18
«Così l’Ue mette a rischio il diritto di chiedere asilo»
di C. L.


ROMA Carlotta Sami, lei è la portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa. Nel piano europeo per realizzare piattaforme per gli sbarchi di migranti in Africa voi e lo Iom svolgete un ruolo fondamentale.
Noi quella proposta non l’abbia mai vista né ricevuta. Per quanto riguarda la condivisione regionale degli sbarchi chiediamo che ci sia un meccanismo pianificato degli arrivi che possa comprendere più Paesi. Alla base devono esserci accordi predeterminati con gli Stati che accoglieranno, accordi che abbiano la finalità di portare le persone salvate al più presto in un porto sicuro. E che non ci siano più gli stalli che abbiamo visto in queste settimane.
Intende dire che prima di dare seguito al piano vanno individuati i Paesi disponibili ad accettare i migranti?
Esatto. Possiamo anche essere d’accordo che non sia solo l’Italia ad accogliere, ovviamente, però il meccanismo deve essere determinato prima e deve assegnare una serie di responsabilità insieme alla disponibilità ad accogliere le persone salvate in più porti. Per quanto riguarda invece la solidarietà tra i Paesi europei, va slegato il momento dello sbarco dalla fase dell’esame delle richieste di asilo e creato un meccanismo semplice e veloce per ricollocare i richiedenti asilo tra tutti gli Stati dell’Unione europea.
La riforma di Dublino approvata dal parlamento europeo prevede quote automatiche ed obbligatorie, ma è proprio questo il meccanismo che viene ostacolato.
É vero, viene ostacolato. Il nostro lavoro invece è cercare di affermarlo a livello europeo. Un altro punto importante riguarda la procedura esterna all’Unione europea delle richieste di asilo. Tutti i Paesi del mondo in questo momento stanno discutendo il global compact sui rifugiati che dovrà essere adottato entro la fine dell’anno a New York. Pensiamo che l’Europa dovrebbero in qualche maniera presentare proposte che possano aiutare a definire questo patto a livello globale. Se l’Europa invece propone una esternalizzazione di questi processi, invece che accogliere e condividere le responsabilità, non va nella giusta direzione. Limitare la responsabilità dei Paesi europei limitando lo spazio dell’asilo europeo è l’opposto di quelli che sono gli obiettivi del patto globale sui rifugiati.
Ma esternalizzare le procedure per la richiesta di asilo non significa modificare sostanzialmente il diritto dei rifugiati a chiedere protezione internazionale?
Certo. Il diritto a chiedere asilo non va confuso con il reinsediamento, che riguarda invece una situazione in cui ci sono persone che sono già state accolte da Paesi extraeuropei e alle quali viene data la possibilità di arrivare in Paesi occidentali sicuri.

La Stampa 21.6.18
Il rischioso ritorno ai passaporti
di Marco Zatterin


Quando la Convenzione di Schengen sarà archiviata nello scaffale dei «bei ricordi», e i cittadini europei avranno perso il dono prezioso della libertà di circolazione, sarà difficile convincere l’opinione pubblica attenta e solidale che tutto questo era inevitabile. Il rischio di tornare a sventolare il passaporto a ogni valico di frontiera continentale si fa più concreto a mano a mano che si allontana una soluzione corale per il problema delle migrazioni, questione che quasi nessuna capitale dell’Ue vuole considerare come «condivisa». Gli Stati dovrebbero giocare insieme per affrontare un fenomeno globale che non si esaurirà presto, per salvare vite e tutelare le conquiste comuni del Dopoguerra. Invece la prospettiva è che nessuno di questi obiettivi possa essere raggiunto a stretto giro.
Le «battaglia sui migranti» in corso fra le cancellerie in vista del vertice europeo del 28-29 giugno non è stata alimentata dalle minacce dell’Italia che «alza la voce perché urlare paga». Il fuoco bruciava da tempo, per motivi differenti, soprattutto nazionali. Germania e Francia hanno occhi solo per le tensioni generate dai «passaggi secondari»: vogliono che chi sbarca in Sicilia non venga lasciato passare oltralpe, vizietto che in Italia s’è coltivato per anni e almeno sino al 2011. La determinazione di Merkel e Macron basta a cancellare l’ipotesi di riforma del Regolamento di Dublino: il principio dell’accoglienza e della gestione degli sbarchi attribuite al Paese di primo sbarco non sarà riscritto. Roma potrà ottenere spicchi di solidarietà, un po’ di fondi e aiuti. Ma nessun premier o presidente giudica venuto il tempo di liberarla dagli oneri della prima linea. Tantomeno quelli che il ministro degli Interni si ostina a definire come «amici».
Solo i francesi, nel 2017, ci hanno riaccompagnato a Ventimiglia 45 mila viaggiatori non autorizzati che erano riusciti a infiltrarsi nell’Esagono. Frau Merkel ha urgenza di arrestare il flusso dei clandestini per salvare il governo federale, così persegue con foga un’intesa sui respingimenti di chi arriva senza permesso. La esige subito. Mentre Macron rinforzerà i pattugliamenti sul fonte alpino, i tedeschi spingeranno verso l’Austria che cercherà di rifarsi con l’Italia, se necessario anche blindando il Brennero.
Alla vigilia del vertice europeo del 28-29 giugno, le fonti diplomatiche prevedono che il dossier Dublino verrà congelato con una formula attendista e che la partita primaria sarà sulla sicurezza franco-tedesca, con ricadute analoghe sull’Austria e i quattro di Visegrad - campioni di muri e solidarietà perduta. Solo in seconda battuta emergerà l’attenzione all’Italia che invoca più attività congiunta nei mari davanti ai porti che, a parole, vorrebbe chiudere. Se va bene, si deciderà di usare subito i denari stanziati dalla Commissione Ue per stringere la vigilanza sulle frontiere esterne e dare più lena a Frontex, l’agenzia che vigila sui confini. Ma la responsabilità di facciata resterà nostra.
Il punto di equilibrio possibile sta nel soddisfare il Nord senza lasciare ancora sola l’Italia. Se non lo si trovasse, gli effetti sui rapporti politici nazionali e bilaterali saranno pesanti. Potrebbero rivoluzionare gli assetti europei e infliggere un colpo mortale alla Convenzione di Schengen, già debole, sospesa da Parigi nel 2015, e da Germania, Austria, Danimarca, Norvegia e Svezia nel 2016. «Temporaneamente», si diceva, ma ormai sempre più «a tempo indeterminato». L’addio a Schengen marcherebbe la fine della libertà di circolazione. Sarebbe un dramma provocato da una classe dirigente afflitta da amnesie storiche, che alza barriere e riporta nel passato gli europei, perché, distratta dal suo ombelico, ha perso la bussola dei valori comuni.

il manifesto 21.6.18
Il filo democratico che lega i temi d’esame
Scuola. Il possesso pieno del sapere è strumento essenziale di uguaglianza e di crescita, dei singoli e del Paese. Gli anticorpi contro la cattiveria, l’arroganza e la violenza
di Alba Sasso


In un momento in cui “pietà l’è morta”, le tracce delle prove d’esame propongono, meritoriamente, una forte attenzione ai temi della democrazia, della non discriminazione, dei diritti, del principio di uguaglianza della Costituzione.
Sembra chiudere in bellezza l’ultimo esame di Stato prima della sua riforma. Dal 2019, su input della ministra Fedeli, non ci sarà il terzo scritto, il «quizzone», e neppure la tesina, sostituita da un colloquio, per accertare «competenze, capacità argomentativa e critica e l’esposizione delle attività svolte in alternanza scuola-lavoro». Sarà previsto l’obbligo di aver partecipato alle prove Invalsi (non influiranno sul voto finale) per essere ammessi.
Gli esami di stato sono, per un Paese abbastanza disinteressato alla sua scuola, un momento in cui si accendono i riflettori. Anzi, questo interesse è cominciato da qualche settimana, a partire dall’idea che l’esame di Stato non serva, visto che non sempre buoni risultati coincidono con quelli delle prove di ammissione all’Università. Questa tesi mi sembra sbagliata. Dal momento che non tutti i diplomati vanno all’università. Ed anche perché questo esame è la conclusione di un percorso, importante verso l’età adulta.
Molto belle le tracce nell’ambito artistico letterario, sui diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura, dove finalmente appare anche Alda Merini.
Nell’analisi del testo letterario viene proposto un brano tratto da Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani, importante, elegante e riservato scrittore ferrarese. E si chiede agli alunni di approfondire il tema dell’antisemitismo, anche con riferimenti a opere di altri autori conosciuti, o di riflettere sul tema più generale della discriminazione e dell’emarginazione.
Interessante, nelll’ambito storico-politico, il tema “Masse e propaganda”, con i brani di Giulio M.Chiodi e di Andrea Baravelli. Nel testo di quest’ultimo si legge: «La figura del nemico ha sempre rappresentato un elemento indispensabile per il buon funzionamento dei sistemi di propaganda (…) E l’esperienza degli ultimi anni pare svolgersi nel segno della continuità (…) Nella società contemporanea l’uso della categoria del nemico rimane indispensabile poiché fornisce una chiave ai fini della ricomposizione di una realtà frammentata e apparentemente incongruente».
E se ci riflettessimo tutti?
Il tema di argomento storico ragiona sul fatto che, nel secondo dopoguerra in Italia, come nel resto d’Europa, emerge una forte esigenza di stabilità politica, della quale furono grandi sostenitori Alcide De Gasperi e Aldo Moro nel discorso alla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (1975): «Occorre immettere, in un processo di necessaria ricostruzione di stabilità politica, al di là delle pur necessarie intese tra governi, l’esaltazione degli ideali di libertà e giustizia, una sempre più efficace tutela dei diritti umani, (…) un arricchimento dei popoli in forza di una migliore conoscenza reciproca,(…) di una sempre più vasta circolazione delle idee e delle informazioni». Principi rispetto ai quali penso che, oggi, nessuno possa e debba fare un passo indietro.
E, infine, la traccia di ordine generale sull’articolo 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge. Senza distinzione di sesso, razza, religione…». Non solo l’enunciazione di un principio, ma, nel secondo comma, il compito della repubblica di rimuovere gli ostacoli per una eguaglianza sostanziale. Quel secondo comma sempre ricordato da Tullio De Mauro, come funzione fondamentale della scuola di tutte e tutti. Perché proprio nel sapere e nella cultura ci sono gli anticorpi contro la cattiveria, l’arroganza, e ogni forma di latente o esplicita violenza.

Repubblica 21.6.18
Segre e l’esame sulle derive razziste
“Quel tema un grido contro l’indifferenza”
Antisemitismo e uguaglianza: le tracce della prima prova
di Paolo G. Brera,


ROMA La diseguaglianza, senatrice Liliana Segre: gira il mondo, ma tra migranti da respingere e censimento dei rom torniamo sempre lì. Ai 509mila studenti che affrontano l’ultimo esame di maturità d’antico conio — dal prossimo anno cambierà tutto — per la prova di italiano ieri il ministero ha puntato sul tema che lei affronta nelle scuole, raccontando quand’era bambina e finì internata ad Auschwitz.
C’erano tracce su solitudine e bioetica, propaganda e creatività; ma ben due erano dedicate alle diseguaglianze e alla tutela delle minoranze, evocate con l’articolo III della Costituzione (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge...) e con il brano della cacciata dalla biblioteca del protagonista de Il giardino dei Finzi- Contini di Giorgio Bassani.
Le piacciono, queste scelte?
«L’attenzione ai Finzi Contini nell’ottantesimo anno dalle leggi razziali mi fa un gran piacere. Solo con un presidente come Mattarella si possono scegliere due titoli come quelli. Mai nessuno aveva visitato le Fosse Ardeatine come primo atto».
Nel brano è un bibliotecario dall’aspetto bonario a ordinare all’io narrante di “sgomberare”.
A volte il male non si esprime con il volto truce. Le è capitato?
«Quando sono stata espulsa dalla scuola, giorni per me drammatici, papà chiamò la maestra che avevo avuto in prima e seconda elementare: venga, per favore, signorina... Abitavamo vicino a scuola. La aspettavo affettuosa, invece è stata pochissimo e ha detto: “Ma cosa c’entro, io? Non le ho fatte mica io le leggi razziali!”. Poi mi ha abbracciata, se n’è andata e non l’ho mai più sentita ne vista.
Non era “cattiva”, era una persona qualunque. Era la banalità del grande male che mi ha fatto.
Si ricorda quando la fecero sentire “diversa”?
«Per andare alla scuola privata di Milano in cui mio padre mi aveva iscritta passavo in via Ruffini, davanti alla elementare in cui studiavo prima. Le bambine che erano state compagne di classe o di scuola mi segnavano: “Quella lì è la Segre, non può più venire qui perché è ebrea”. Ricordo bene il silenzio del nostro telefono, il non essere più invitata, l’esclusione».
Poi c’è chi si volta dall’altra parte, le “cinquanta paia d’occhi” del brano di Bassani.
«Gli indifferenti. I violenti mi hanno tolto tanto, ma gli indifferenti sono stati la massa che non ha visto, che non ha voluto vedere, che ha voltato la faccia. Gli “io non so”, i “io non c’ero” e i “non è colpa mia”».
È una malattia che abbiamo ancora adesso?
«Altroché! Anzi, adesso è più colpevole. Allora non essere indifferenti era una scelta pericolosa contro una dittatura, per questo onoro tantissimo gli antifascisti o gli “Imi”, i militari italiani che hanno scelto di star nei campi quando potevano trovarsi altrove. Oggi che non c’è scelta da fare, in democrazia, essere indifferenti è più grave».
Quando parla ai ragazzi, parla al germe dell’indifferenza?
«Chiedo sempre di mettere la parola “indifferenza” nel titolo. E al memoriale della Shoah, al famoso binario 21 che i milanesi conoscono poco, si pensava di scrivere “mai più”, libertà, le solite parole; mi sono battuta come un’esaltata perché ci si scrivesse a caratteri cubitali indifferenza, e così è stato.
Chiunque entra, la prima domanda che fa alle guide è “perché indifferenza qui dove ci sono le rotaie e i vagoni della deportazione? Perché è per l’indifferenza che ci sono quelle rotaie e quei vagoni».
E non indifferenti ne ricorda?
«La prima è Susanna Aimo, per 47 anni in casa nostra. Era la cameriera, come si usava dire.
Cattolica, cristiana molto religiosa, rischiava tutti i giorni per essere vicina, come è stata fino all’ultimo, ai miei nonni. Quando li hanno deportati, per un miracolo non hanno portato via anche lei, che era abbracciata alla nonna. Susanna è stata uno dei giusti che non sono onorati allo Yad Vashem perché non ha potuto salvare nessuno; ma lei, umile, modesta e meravigliosa, era il ritratto della non indifferente.
È stata una fortuna, conoscerla».
Ha chiesto di non voler ricevere domande “politiche”.
Ma l’attualità è aggressiva con migranti, rom, minoranze...
«L’unica volta che ne ho parlato, in Senato, ho detto chi sono stata io.
Quando uno Stato o la Ue sono indifferenti, se arrivano a puntare il dito contro minoranze che non possono difendersi... beh, allora cosa può pensare una che è stata minoranza, e a cui è capitato tutto quello che è capitato a me?»

Repubblica 21.6.18
A Trento
Alloggio in affitto ma solo a studenti lombardo-veneti
di Enrico Ferro


TRENTO Avolte la soglia massima di tolleranza coincide con il corso del fiume Po, stavolta è addirittura quello dell’Adige. Si parla di affitti agli studenti universitari.
Affitti negati a chi viene dal sud, dal centro, da qualsiasi altra parte d’Italia che non sia il nord. È a Trento che viene eretto questo nuovo muro, anche se i precedenti ormai sono una sfilza.
«Salve, sono interessata alla stanza singola. Sarebbe possibile fissare un appuntamento per visitare la casa?», chiede Marta da Pescara, 21 anni, studentessa al terzo anno di Giurisprudenza all’università di Trento. Il canale di comunicazione è Facebook, attraverso il gruppo “AAA appartamenti studenti Trento”. Risposta: «Assolutamente sì, ma prima gradirei capire di dove sei e cosa studi». Marta candidamente risponde: «Studio Giurisprudenza e sono di Pescara».
A questo punto il proprietario della singola, il “paròn”, interrompe la conversazione: «Scusa tanto ma sto cercando ragazze del Triveneto e della Lombardia. Niente di personale». Marta ci resta di stucco, chiede spiegazioni.
«Esperienze personali», taglia corto lui. La ragazza tenta di recuperare perché quella casa le piace per davvero. «Scusa ma non ho tempo da perdere, ciao», chiude l’uomo, che di nome fa Flavio ed è proprietario di un’agenzia di comunicazione proprio a Trento.
«Non è giusto minimizzare, non è giusto sdrammatizzare, non è giusto chiudere gli occhi. Bisogna chiamare le cose con il loro nome, e le uniche parole da usare in questa situazione sono: pregiudizio e discriminazione», dice Marta a “l’Universitario”, giornale online degli universitari di Trento. «Nel 2018, nella città che io ho scelto come sede dei miei studi e della mia formazione, vivere episodi come questo è davvero una sconfitta».
La stessa risposta, sempre dallo stesso Flavio, l’ha ricevuta pure Ginevra da Roma. Purtroppo i casi sono molteplici, Trento è solo l’ultimo in ordine di tempo.
«Non si affitta a immigrati e meridionali», si è sentito rispondere lo scorso mese di ottobre un padre napoletano in cerca di una sistemazione per la figlia che studia a Padova. «Sei terrona, non si fa niente», è invece la risposta data a un’insegnante calabrese che lavora a Mantova, a novembre dello scorso anno. Sanremo, agosto 2017: «Niente meridionali in casa mia». Vigevano, due anni fa: «No animali, no extracomunitari». È il pericoloso e, pare, inesorabile vento dei tempi nostri.

Il Fatto 21.6.18
“Tracce banali. La solita pedagogia obbligatoria”
di Pietrangelo Buttafuoco


Nell’Italia dei congiuntivi sciancati ecco i temi per l’esame di Maturità scelti dall’ex ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli. Il nuovo governo, con Luigi Di Maio, zoppica d’anacoluti, di fossi e di sarebbi. Ma il vecchio che fu – con l’uscente Fedeli, digiuna di scuole alte – precipita, nella peggiore delle ipotesi, nella botola dei luoghi comune, nella migliore, invece, in quella di Google. E, infatti, ecco la pedagogia obbligatoria. Buona – al più – per Europa, il quotidiano che fu dei dem renziani.
Ed ecco il menu: Costituzione, Alcide De Gasperi, Aldo Moro e clonazione. Capitoli che sembrano ripetere il sentito dire nel pissi pissi della blogosfera mentre la traccia di letteratura – su Giorgio Bassani, Il Giardino dei Finzi Contini – resta solo per lo spunto storico, la memoria delle Leggi Razziali, ma replica quello che, ahinoi, da sempre affligge l’inutilità della scuola italiana: proporre autori le cui pagine difficilmente arrivano (o, arriveranno mai) sui banchi. Già accadde, citiamo a memoria, con Dino Campana e con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, due grandissimi protagonisti della letteratura, neppure più contemporanei, convocati nelle tracce ministeriali per infiocchettare il disbrigo di un tema ma mai e poi mai studiati nei licei. E così accade per tutto quel patrimonio di civiltà e di segno la cui eredità, mai e poi mai, segue i percorsi della didattica. Basti pensare allo sciagurato passaggio di Mariastelluccia Gelmini in viale Trastevere – dove ha sede il ministero – quando nell’Italia del Melodramma e del Rinascimento, giusto per buttarla in teatro e in pittura, fece strame delle cattedre di educazione musicale e arte.
Farina di chissà quale splendido sacco spicca, tra le tracce di ieri, un gioiello di tema. Eccolo: “I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura”. Un percorso che da La vita solitaria di Francesco Petrarca ad Alda Merini, da Salvatore Quasimodo a Luigi Pirandello fino a Emily Dickinson, con le icone di Giovanni Fattori, Edvard Munch e Edward Hopper, offre ai ragazzi la possibilità di uno scavo interiore decisamente coerente con i loro sentimenti, i loro veri interessi e gli entusiasmi propri della giovinezza (quella dove la solitudine è oggetto di una sempre affollata messa in scena). Quella del liceo, nessuno ci fa caso, è la stagione coetanea ai Cecco Angiolieri, il Fedez di oggi, il chissà chi di domani, il poeta qualunque pronto a ruggire in ogni aula magna. Quella del liceo, tutti siamo indifferenti, è l’occasione delle occasioni per inzupparsi d’emozioni e di rabbie. E i diversi volti della solitudine sono spesso maschere.
Molto bello anche il tema sul legame fra le masse e la propaganda, “La creatività e la dote umana dell’immaginazione” e però – considerata la fatica degli eroici insegnanti – è così fuori tema rispetto a ogni tototema da far venire l’acquolina a un giornale, e non a un laboratorio scolastico. Come una scuola che non serve, ahinoi, è la scuola che solo per un giorno – anzi, la vigilia, la notte degli esami – si presenta da protagonista nella comunità. Tutto quello che poi vive di parole, segni e ricerca – quella letteratura, quell’arte e quella scienza con cui si costruisce la giornata sociale d’Italia – abita fuori dal recinto scolastico. Altrimenti non si registrerebbe la vergogna cui si destina il deficit sempre più sfacciato di tutti i saperi.
I temi, comunque. Un tema da dare – una traccia che ci permettiamo di suggerire – è “Contro la scuola”. Giovanni Papini, un altro grandissimo della nostra letteratura, ci fece un libro. Potrebbe essere domani – il prossimo anno, appunto – la proposta di esercitazione per la licenza liceale. Se ne ricaverebbe una miniera di informazioni. Scritto dai ragazzi – l’insieme degli elaborati – sarebbe il grande romanzo di un equivoco sociale e, certo, anche sentimentale. Sarebbe la pietra angolare su cui costruire – grazie ai motivi, agli spunti, alle rabbie – la vera definitiva riforma.

La Stampa 21.6.18
Grillo: stop al doppio lavoro dei medici
di Paolo Russo


Stop al doppio lavoro dei medici se le liste di attesa superano i limiti previsti dalla legge. Ossia 72 ore per le prestazioni urgenti ma differibili, 10 giorni per quelle non procrastinabili, 30 giorni per le visite, 60 per gli accertamenti nei casi meno gravi. «Stiamo pensando di estendere a livello nazionale quanto già fatto da Toscana ed Emilia Romagna», annuncia al termine del suo primo incontro con le Regioni il ministro della Salute pentastellato Giulia Grillo. Anche perché i tempi di attesa si stanno sempre più allungando. Dal 2014 al 2017 secondo l’ultima indagine del Crea sanità e della Cgil si è infatti passati da 61 a 88 giorni per una visita oculistica, da 36 a 56 per un’occhiata dall’ortopedico, mentre per una colonscopia non bastano tre mesi. Privatamente in ospedale per le stesse prestazioni non si aspettano più di 4 o 6 giorni.
Disparità alle quali il neo-ministro vuol porre fine mentre insieme alle Regioni prepara una vera rivoluzione del prontuario farmaceutico, dove a parità di efficacia terapeutica lo Stato rimborserà il medicinale meno costoso. Tecnicamente l’operazione si definisce «riordino per categorie terapeuticamente omogenee» fissando il prezzo di rimborso al livello più basso tra quelli al «4° livello di classificazione Atc». Detta così la capiscono in pochi ma funziona in questo modo: se ad esempio al primo livello ci sono tutti i farmaci per l’apparato digerente, al secondo gli antiacidi, al terzo gli antiulcera, al 4° livello troviamo gli «inibitori della pompa protonica», i diffusissimi medicinali contro il reflusso esofageo. In questa categoria sono in commercio cinque molecole con lo stesso meccanismo di azione ma a prezzi diversi. In futuro lo Stato rimborserà solo quello con il prezzo più basso, a meno che gli altri produttori non si adeguino. Anche se il medico sarà libero di prescrivere come mutuabile il prodotto più costoso, motivando la sua scelta. Un’operazione che secondo stime dell’Aifa potrebbe far risparmiare almeno 2 miliardi l’anno, da reinvestire sui costosissimi farmaci innovativi in arrivo. «Che la riforma vada fatta lo sostengo da tempo e le Regioni sono d’accordo», dichiara Grillo. Che ora dovrà vedersela con le resistenze di medici di famiglia e industriali della pillola.

La Stampa 21.6.18
il malcostume che genera voti
Alla Guardia di Finanza risulta irregolare il 40% degli appalti pubblici controllati, e sono poco meno di 13 mila gli evasori totali che, in 17 mesi, hanno fatto sparire 5,8 miliardi di euro di Iva
di Massimiliano Panarari


Un Moloch corruttivo. Un mostro che si mangia pezzi interi di economia, facendo a brandelli l’etica degli affari e delle professioni. I dati resi noti dalla Guardia di Finanza lanciano un vero allarme sociale, e delineano un quadro che lascia attoniti, dove risulta irregolare il 40% degli appalti pubblici controllati, e sono poco meno di 13 mila gli evasori totali che, in 17 mesi, hanno fatto sparire 5,8 miliardi di euro di Iva. E, si premurano di sottolineare le Fiamme gialle, si tratta assai verosimilmente solo della punta dell’iceberg.
Queste cifre restituiscono l’evidenza di una brutta peculiarità tutta nazionale, che ha continuato, praticamente come niente fosse, a dilagare alla stregua di una metastasi inarrestabile all’indomani di quella Tangentopoli che aveva innescato un «quasi cambio di regime» e travolto il sistema dei partiti della Prima Repubblica. Un elemento talmente specifico e caratteristico della nostra vita pubblica di questi decenni da avere partorito un’ideologia antitetica «curativa» – il giustizialismo – e un fenomeno di spettacolarizzazione e mediatizzazione della cronaca giudiziaria che ha fatto scuola nel resto del mondo.
Una delle (varie) componenti strutturali dell’anomalia italiana consiste, dunque, proprio nel radicamento delle pratiche corruttive e nell’estensione a macchia d’olio dei comportamenti illeciti. Una corruzione tanto generalizzata ed endemica da essersi convertita, da molti punti di vista, in «sistema». Le leggi elettorali cambiano, i leader e i partiti mutano, ma l’illegalità è sempre lì. E come un parassita ineliminabile ha trovato un perfetto – e scellerato – modus vivendi con la capillarità della burocrazia (altro fattore problematico istituzionalizzato del nostro sistema Paese). Si è così saldata una solidissima ragnatela di piccoli e grandi interessi proibiti che si traducono in una spropositata «tassa ingiusta» i cui costi vengono duramente pagati da cittadini e famiglie in termini di demeritocrazia, fuga delle imprese e mancati investimenti esteri e con la riduzione delle prospettive di futuro per le nuove generazioni. I numeri spaventosi, l’atmosfera da Basso impero delle conversazioni intercettate tra i protagonisti e i tentativi troppo timidi (o per niente convinti) di contrastare la corruzione hanno contribuito a consolidare nell’opinione pubblica l’immagine di essa come un tutt’uno con la classe dirigente nel suo complesso, e in particolare quella politica. Vale a dire il «sistema», come viene definito dagli esponenti del populismo, che nacque – e tuttora la conserva come nucleo dottrinario e messaggio comunicativo fondamentale – sulla dicotomia-contrapposizione tra un popolo puro e incontaminato ed élite degeneri e «marce», invocando consenso nel nome della virtù prepolitica dell’onestà assai più che sulla base della praticabilità delle sue proposte programmatiche. Ed è precisamente contro quel «sistema» (mix di scenario corruttivo senza freni e classi dirigenti nella loro totalità) che tanti cittadini-elettori vogliono prendere posizione votando Movimento 5 Stelle e Lega. In quello che appare come un contesto di Antico regime, dove la corruzione è giustappunto l’aria che si respira, la scelta elettorale populista coincide per molti con l’opzione «rivoluzionaria», e il rigetto dell’establishment viene vissuto quale unica modalità per sovvertire un quadro che straripa di malcostume oltre ogni soglia di tollerabilità. Un aspetto che le forze politiche responsabili e che hanno a cuore la salvaguardia degli istituti della democrazia liberal-rappresentativa hanno troppo a lungo sottovalutato (e a cui, come palese, non hanno saputo fornire la risposta adeguata, e doverosa)

La Stampa 21.6.18
il virus delle telefonate perse
Rispondiamo sempre meno al telefono
di Federico Taddia


Tu chiamami. Io non rispondo. O almeno non subito. O forse non a voce. Oppure aspetto. Tanto quello che mi vuoi dire prima o poi me lo fai sapere con un emoticon, un messaggino vocale o un post sulla mia bacheca Facebook. La nuova tendenza, forse non ancora statisticamente analizzata ma già ben percepita, arriva dagli Stati Uniti. Ma basta dare un’occhiata di sfuggita alla propria cronologia delle chiamate «perse» per confermare quella che sta diventando una consuetudine sempre più diffusa: si risponde sempre meno al telefono. Su «The Atlantic», Alexic C. Madrigal, ha cercato di spiegare il fenomeno, partendo da quel «Ahoy-hoy!» con cui l’inventore scozzese Alexander Graham Bell desiderava che si cominciassero le conversazioni, per comprendere come mai lo squillo del telefono da imperativo morale e sociale – «Presto, corri, bisogna rispondere» – sia diventato un qualcosa di tranquillamente e serenamente ignorabile. L’evoluzione, anzi la rivoluzione tecnologica, è ovviamente alla base di tutto: prima non si sapeva chi ci fosse dall’altra parte della linea, non c’era modo di conoscere l’interlocutore. Una telefonata persa era persa, non dava seconde possibilità. Ci si buttava sulla cornetta con curiosità. Con un misto di apprensione e ansia, aspettative ed emozioni. E poi scattava il miracolo della comunicazione a distanza: due voci, lontane, che si incontravano e intrecciavano, nella stessa unità di tempo. Nel giro di pochi anni, che il digitale fa apparire anni luce per quanto vorticose e impattanti siano state le innovazioni, tutto è diventato altro. I cellulari ci hanno resi reperibili sempre e ovunque. I cellulari ci dicono chi ci sta cercando. I cellulari lasciano traccia di chi non ci ha trovato. I cellulari – nella loro mutazione in smartphone – sono diventati la porta verso la rete e i social network, l’aggeggio con cui messaggiare, postare, linkare, mettere foto, gif animate o like. Per comunicare, anche nel qui ed ora, non serve necessariamente la voce. Per dialogare si va oltre la chiamata: si è perennemente connessi, con il privilegio di poter dirsi le cose fuori sincro: tu mi mandi un WhatsApp, io ti rispondo con un messaggio vocale, tu lo ascolti quando vuoi e quando puoi e mi replichi con una faccina colorata. Parli con me, ma senza parlare. Mentre – probabilmente – parli con altri. E mentre – ancora più probabilmente – fai anche altro. Tu chiamami. Io ti rispondo. A modo mio. Libero di scegliermi i miei tempi e i miei modi. A volte quasi per difesa – scelgo come filtrare parole ed emozioni -, a volte per convenienza – investo meno energie –, altre volte ancora forse per sfuggire all’idea di dovermi dedicare per un attimo solo ad una persona e solo ad un’azione. E poi si risponde meno anche per evitare le scocciature: call center di qualsiasi specie che bombardano con offerte, promozioni, sondaggi e prodotti. Voci umane e voci automatizzate che s’insinuano nella nostra quotidianità, senza bussare e senza chiedere permesso. E se è vero che negli Stati Uniti, come scrive Madrigal nel suo pezzo, nel solo mese di aprile, sono partite 3,4 miliardi di chiamate robotizzate, l’unica risposta possibile diventa la non risposta. E così, citando Mina, se «Telefonando potessi dire addio», la prima cosa a cui dire addio diventano proprio le telefonate

Il Fatto 21.6.18
Che il Pd non sia di sinistra lo dicono i fatti
di Luisella Costamagna


Caro Matteo Renzi, domenica è riapparso in tv dalla Annunziata, scamiciato in contesto bucolico, con grata fiorita alle spalle al posto dei “rampicanti” parlamentari, tanto da far balenare il definitivo ritiro a vita privata. Niente, non riesce proprio a farsi da parte, a creare quel vuoto di sé che – solo, forse – potrebbe generare nostalgia, desiderio, “in fondo, non era così male”, “se tornasse”…
Stavolta, almeno, capiamo le ragioni: col caos sullo stadio della Roma che lambisce anche i cinquestelle (i coinvolgimenti Pd ben più sostanziosi e Milano e Sala non menano più scandalo, complici gli omissis mediatici), e soprattutto la linea dura sui migranti e la chiusura dei porti, può tirare acqua al suo mulino, cercando di riconquistare quell’elettorato di sinistra fuggito da lei verso il Sol dell’Avvenire tra le stelle grilline.
Eccola dunque, in stile Giorgione Orto e Cucina, ma con la modernità degli hashtag da Benji e Fede, a menare fendenti contro Salvini il “bullo”, i 5stelle e i loro elettori che si sono fatti abbindolare da fascisti in camicia rossa.
Eccola twittare con spavalderia: “Un abbraccio affettuoso ai filosofi, attori, cantanti che ci dicevano: il Pd non è di sinistra, M5S invece si. Adesso vi guida Salvini, avete fatto la guerra al Matteo sbagliato #altracosa #inmezzora”. A parte il “sì” senza accento, non all’altezza di una (presunta) preparazione che nessuno ha messo in dubbio quando da Firenze fu elevato a Palazzo Chigi; a parte il vago riferimento a fantomatici “filosofi, attori, cantanti”, con cui voleva essere elegante, denotando in realtà i suoi di punti di riferimento: intellettuali e star system (con gli uni compresi nell’altro, visto che ormai sono passati dalle torri d’avorio a ripetitori e compensi tv), invece delle persone comuni che vivono nella realtà e non nei media; a parte tutto questo, sono qui per rassicurarla: il Pd non è di sinistra. So che molti elettori 5Stelle vengono da sinistra e hanno i capelli dritti a vedere Via Almirante o Via Dall’Italia ai migranti.
So che ora aspettano, incrociando le dita e aggrappandosi al contratto di governo, al premier Conte, ai diritti dei rider, al superamento delle ingiustizie commesse (tipo Jobs Act o legge Fornero) o alle cose non fatte (tipo taglio dei vitalizi) dal suo governo e dal Pd.
So che, se non sanno dove andrà il governo giallo-verde – se Salvini fagociterà Di Maio su immigrazione, rom, sicurezza, condono fiscale, contanti e via a “destreggiare” – sanno però che il partito che lei ha guidato alla disfatta, fiaccandone le anime più di sinistra, portate in dote al Nazareno da Berlusconi, Verdini, Alfano, e anticipando molte di queste misure (Minniti, l’aumento delle soglie sull’uso del contante, la voluntary disclosure…), era tutto fuorché di sinistra. Non che la piega destrorsa del Pd sia cominciata con lei – sarebbe attribuirle troppi (de)meriti – ma sicuramente lei ha tolto qualunque dubbio.
Caro Renzi, a dire “il Pd non è di sinistra”, sono i fatti, gli elettori e anche i suoi compagni di partito che, proprio per quella ragione, se ne sono andati. I 5Stelle? Vedremo. Nel frattempo sono finiti tra le braccia di Salvini perché lei, invece di farsi da parte, gli ha detto no. Dunque non sia umile, non le si addice: questo governo è anche (de)merito suo.
Un cordiale saluto.

il manifesto 21.6.18
Usa fuori dal Consiglio dei diritti umani, Netanyahu ringrazia
Usa/Onu . Il premier israeliano applaude alla decisione dell'Amministrazione Trump di abbandonare anche questo organismo dell'Onu. La sintonia tra Usa e Israele è totale. Intanto nuova fiammata di guerra a Gaza
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Grazie Trump ‎«per il coraggioso passo contro l’ipocrisia e le bugie del cosiddetto ‎Consiglio dei diritti umani dell’Onu‎». Il governo israeliano di Benyamin ‎Netanyahu ringrazia il presidente americano per la decisione di far uscire gli Usa ‎dall’organismo delle Nazioni Unite annunciata martedì notte dal Segretario di stato ‎Mike Pompeo e dall’ambasciatrice Usa al Pazzo di vetro Nikki Haley. Ne ha tante ‎di ragioni Israele per ringraziare l’Amministrazione Trump impegnata in un’opera ‎costante di demolizione delle Nazioni unite e del diritto internazionale. Dopo gli ‎attacchi alla funzione dell’Onu, il veto alla nomina di un palestinese (l’ex premier ‎dell’Anp Salam Fayyad) come inviato speciale per la Libia, l’uscita dall’Unesco in ‎appoggio alle posizioni israeliane, il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme ‎come capitale di Israele, il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv nella ‎città santa e l’uscita degli Usa dall’accordo sul programma nucleare iraniano, ora ‎giunge questo nuovo “regalo”.
 Per qualcuno è altro schiaffo dell’Amministrazione Usa al sistema delle relazioni ‎internazionali, che siano organizzazioni o accordi non in linea con le priorità ‎americane. In questo caso, come in tutti quelli elecati prima, sul tavolo non ci sono ‎le priorità americane bensì quelle israeliane, a conferma della completa sintonia tra ‎Washington e Tel Aviv.‎‏ ‏‎«Invece che occuparsi dei regimi che violano i diritti ‎umani quel Consiglio si è ossessivamente fissato con Israele, unica vera ‎democrazia del Medio oriente‎‎», afferma Washington. Sono le parole che hanno ‎usato i premier israeliani tutte le volte che il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu ‎ha criticato o condannato lo Stato ebraico. Le violazioni che commette Israele, ‎viene ripetuto, sarebbero inesistenti o comunque insignificanti rispetto a quelle ‎che avvengono in altri paesi della regione, quindi il Consiglio dovrebbe occuparsi ‎solo di quelle.
 Colonizzazione di territori occupati militarmente, arresti arbitrari, detenzioni ‎senza processo, confisca di terre, demolizioni di case, blocco di Gaza, uso della ‎forza contro i civili palestinesi in corso da 51 anni a questa parte sono cose da ‎nulla per Pompeo e Haley. Per loro il Consiglio dell’Onu è ‎‎«la fogna della ‎faziosità politica‎‎». ‎«Prendiamo questa decisione perché il nostro impegno non ci ‎permette di continuare a far parte di un’organizzazione ipocrita e asservita ai ‎propri interessi che ha fatto dei diritti umani una barzelletta‎», ha proclamato ‎Haley. La decisione era nell’aria da tempo, non è una sorpresa. Washington era già ‎uscita dal Consiglio per tre anni durante l’amministrazione di George W. Bush ma ‎era tornata a farne parte con Barack Obama. Gelida (e inutile) la reazione del ‎segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che si è limitato a fare sapere che ‎‎«avrebbe preferito che gli Stati Uniti rimanessero nel Consiglio‎», sottolineando ‎che ‎«l’architettura delle Nazioni Unite sui diritti umani svolge un ruolo molto ‎importante nella loro promozione e protezione in tutto il mondo‎».
 Nel frattempo la tensione resta alta lungo le linee tra Gaza e Israele. Netanyahu ‎ha avvertito che se i palestinesi invieranno ancora “palloni incendiari” da Gaza ‎verso il territorio israeliano ‎«Il pugno di ferro dell’esercito colpirà con ‎potenza…Siamo pronti ad ogni scenario ed è meglio che i nostri nemici lo ‎capiscano e subito‎». L’avvertimento è giunto dopo una nuova notte di lanci di ‎razzi palestinesi e di attacchi aerei israeliani (25 contro presunti obiettivi di ‎Hamas) che spingono Gaza verso un nuovo conflitto a quattro anni di distanza ‎dall’offensiva “Margine Protettivo”. I media israeliani, aiutati da quelli europei e ‎americani, preparano l’opinione pubblica internazionale ignorando il blocco di ‎Gaza che dura da 12 anni e parlando solo di “guerra degli aquiloni” in riferimento ‎ai lanci dei palestinesi che hanno provocato incendi in alcuni campi coltivati oltre ‎le linee di demarcazione. Pochi ricordano che l’intera fascia agricola di Gaza a ‎ridosso di Israele da anni è quasi inaccessibile ai contadini palestinesi sui quali i ‎soldati non esitano ad aprire il fuoco quando si avvicinano “troppo” alle barriere ‎di separazione. ‎

Il Fatto 21.6.18
A che ora doveva essere la rivoluzione?
Il Sessantotto - Fo e Parini rileggono la storia dei dieci anni che avrebbero dovuto cambiare il mondo
A che ora doveva essere la rivoluzione?
di Jacopo Fo e Sergio Parini


Esce oggi in libreria per Chiarelettere “C’era una volta la rivoluzione. Il Sessantotto e i dieci anni che sconvolsero il mondo” di Jacopo Fo e Sergio Parini. Ne pubblichiamo l’introduzione.
Brutta storia gli slogan. Con la scusa della rima (senza rima che slogan è?) ti costringono a essere un po’ troppo estremista, o ottimista. “Fascisti! borghesi! Ancora pochi mesi!”. Lo sapevamo che non era vero. Noi, saggi, eravamo convinti che ci sarebbe voluto almeno qualche anno. Ma così la rima non c’era. Comunque noi eravamo fermamente convinti che entro breve tempo ce l’avremmo fatta. La rivoluzione stava vincendo in tutto il mondo. Il Sessantotto era stato un’esplosione planetaria di rivolta contro la violenza, la povertà, lo sfruttamento e il colonialismo: America, Germania, Francia, Messico. Dalla Cina arrivava il messaggio che “ribellarsi è giusto”. Il Vietnam e Cuba dimostravano che il popolo, se è unito e combattivo, può fare il culo a chiunque, compresa la prima superpotenza planetaria. In Cile, per la prima volta in un paese sudamericano, le sinistre erano al potere. L’Africa era in rivolta. In Spagna e in Grecia si lottava duramente contro il fascismo. Ci sentivamo parte di un Movimento mondiale, in marcia inarrestabile. Vivevamo ogni corteo come un tutt’uno con l’offensiva dei vietcong.
L’universo era diviso in due. Di qua i buoni: noi. Di là i cattivi: loro, cioè i reazionari, che fossero insegnanti o “padroni”, fascisti o democristiani. O anche revisionisti. Come i russi, che avevano tradito il comunismo e ci avevano disgustato invadendo la Cecoslovacchia. O quelli del Pci, che sembravano più impegnati a darci addosso che a lottare con noi. Ci avevano provato, i revisionisti, a fare le riforme. Niente da fare, tutto era stato inghiottito dalla grande palude democristiana.
Prendiamo la scuola. Noi chiedevamo cambiamenti radicali. Eliminare il nozionismo e la selezione classista che permetteva di andare avanti negli studi solo chi aveva i mezzi culturali ed economici per farlo. Gli altri, fuori. Ben pochi non borghesi arrivavano all’università.
E il “potere” come aveva reagito alle nostre richieste (espresse all’inizio in modo molto educato)? In un solo modo: chiusura totale e repressione dura. Prima sospensioni e bocciature, poi espulsioni dalle scuole, polizia, manganellate, arresti, morti, fino alle stragi per fermare il Movimento studentesco e operaio.
Se questa è la reazione, rivoluzione! Volete la guerra?
E guerra sia!
Oggi lo sanno anche i paracarri che negli anni Settanta in Italia non c’erano le condizioni per fare una rivoluzione marxista. All’epoca noi non lo sapevamo. Potevamo fare qualcosa di diverso che tentare la rivoluzione, all’occorrenza, anche violenta? Certo. Gandhi in India c’è riuscito. I colonialisti inglesi sparavano e lui rispondeva con la non violenza. Un mito, ma in Occidente non ha mai attecchito gran che.
Eravamo cresciuti guardando i film western. Non c’era niente di più giusto che sparare ai cattivi. I nostri eroi erano Che Guevara e Mao. E poi non è che nasce un Gandhi ogni cinque minuti. In Italia non è mai nato.
E se è nato, non se n’è accorto nessuno.

La Stampa 21.6.18
Guido Viale, dal ’68 a Tsipras
Diario di un ribelle
di Claudio Gallo


Non è vero che il passato per sopravvivere dev’essere continuamente riscritto? Così, il ’68 è diventato (anche) un potente mito commerciale. Indifferente ai contenuti, il dio del business arruola chiunque alla sua causa, inondandoci di volumi dove nel titolo è già detto tutto. Dovendo dunque scegliere, il libro di Guido Viale Giorno dopo giorno. 1968-2018, 50 anni di nuovi inizi (pubblicato rivisto e aggiornato da Mimesis, pp. 223, € 15) è tra quelli da salvare. Prima perché l’autore è stato uno dei protagonisti del ’68 in Italia e poi paradossalmente perché più che soltanto un libro su quel periodo è un libro su un sessantottino che non si è arreso, la cui vicenda ci permette di vedere come le idee di quella stagione abbiano cambiato la società, come si siano evolute, come, in certi casi, abbiano fallito.
Come tante altre cose, il ’68 in Italia è cominciato (già nel ’67 in realtà) a Torino. Una delle parti più godibili del volume è la descrizione delle prime occupazioni di Palazzo Campana. Quando per la pressione della calca studentesca cede la porta del Rettorato, Viale è tra i primi a essere proiettato nella sala, davanti agli sguardi attoniti dei professori, allora ancora iscritti d’ufficio alla categoria dei semidei. «Di fronte a loro (…) il primo del gruppo ero proprio io. Non sapendo che dire avevo farfugliato: “La seduta è sciolta”». Così nasce un leader…
Impareggiabile, attraverso i racconti degli esami, è l’antropologia del barone universitario: dal luminare di letteratura che valuta lo studente da come scavalca con i «pattini» (i sottoscarpe in tessuto di una volta) il filo della sua imprescindibile stufetta elettrica, alle rare visite pastorali del celebre storico della filosofia seguito da un codazzo ossequioso di assistenti, come in un film di Alberto Sordi. Si ride per non piangere, stentando a credere che quelle cose accadessero veramente. Grazie a racconti come questi, si comprendono le radici dell’anti-autoritarismo di quegli anni, anche se poi la critica studentesca travolse l’idea stessa di autorità. Certo, è una materia spinosa, ma se giustificato e bilanciato, il concetto non si può cancellare senza un danno per la società, come si vede nello psicodramma della scuola odierna.
Da Lotta Continua alla stagione delle stragi di Stato che generò, almeno in parte, il terrorismo rosso, alle falle della cooperazione internazionale, ai temi della famiglia e della coppia, all’ecologia e all’immigrazione, il racconto arriva fino alla recente, amara esperienza dell’autore nella Lista Tsipras. Una cavalcata avvincente, grazie anche al candore di Viale che riesce a evitare le trappole del narcisismo, oggi fin troppo affollate di vittime consenzienti.

La Stampa 21.6.18
Basta soldi ai presidenti-dittatori
Se vogliamo aiutare l’Africa
dobbiamo finanziare le rivoluzioni
risponde Domenico Quirico


Caro Quirico,
oggi si parla troppo e troppo a sproposito del problema migranti. In realtà, l’unico modo per venirne a capo consiste nello sviluppo dell’Africa. Che non deve passare per la costituzione di una Cassa per l’Africa: abbiamo già visto come ha funzionato la Cassa per il Mezzogiorno, e basta e avanza.
Giuseppe Marchisio

Gentile Marchisio,
Lei tocca un tema importante. Sembra un ragionamento euclideo: aiutiamo questi sventurati nei loro Paesi, tonificandone le economie asfittiche e tutto filerà ad olio. Ci sono dettagli a proposito che ci rendono sospettosi come un topo frugato: perché lo sviluppo dell’Africa lo si finanzia, con grancassa e trombette, dagli Anni 60 ovvero dalla data delle finte indipendenze. Con milioni di dollari. L’unica cosa che si è sviluppata è l’ammontare dei conti in banca di presidenti dittatori rais soperchiatori in uniforme o boubou e delle camarille etniche, tribali e parentali che hanno gestito questi Stati in modo refrattario a ogni equazione di etica e diritto. Eccoli i produttori di migranti! Per carità!
Non è un problema lombrosiano di cleptomania o di difetto di cultura costituzionale dei «selvaggi». È la conseguenza di un rapporto assai losco tra noi occidentali e i nostri fedeli «alleati» di laggiù. Tali operazioni hanno un nome penalistico: complicità in truffa ed estorsione. Diamo i soldi per alleviare la fatica di vivere dei futuri migranti con ospedali, acquedotti, progetti agricoli o scuole, i presidenti intascano, e noi facciamo finta di non sapere. In cambio di questi beneplaciti padronali otteniamo appalti, concessioni minerarie e non, forniture. E obbedienza politica. I nostri amici in Africa sono i banditi da cui i migranti cercano di fuggire per non morire di fame e di corruzione. Siamo fermi a Fanon! Che se ne ristampino i libri! La Francia del moderno e simpatico presidente Emmanuel Macron, e dei suoi predecessori di destra e sinistra, fa scuola in questa materia fraudolenta. Invece di pagare i ladri, in Africa dovremmo finanziare le rivoluzioni.

La Stampa 21.6.18
“Con Erdogan ora siamo tutti più poveri”
Nella Turchia in crisi che sogna il ribaltone
di Marta Ottaviani


C’è chi già pensa al peggio, chi è rassegnato, chi si mette una mano sul portafoglio. La grande novità a quattro giorni da un election day già definito storico - si voterà -, è che dopo tanto tempo in Turchia c’è chi spera. Forse spera (e brinda) un po’ troppo. Che «il Reis», il presidente in carica Recep Tayyip Erdogan, possa al massimo concedere un secondo turno il prossimo 8 luglio, sembra il più razionale dei dati di fatto. Ma il popolo turco vive di emozioni e se da una parte l’opposizione, seppur ancora divisa, sembra per la prima volta determinata a rappresentare un’alternativa concreta agli islamici sempre meno moderati dell’Akp, dall’altra parte il presidente Erdogan non ammalia più come una volta.
Più ricchi, più poveri
Se quindi il capo di Stato non vincerà al primo turno, ma andrà al ballottaggio, sarà in parte merito di questa opposizione rinata, ma in buona dose demerito suo. O meglio, della situazione economica del Paese. L’economia turca, almeno stando ai darti sul Pil, continua a crescere. I dati del primo trimestre 2018 hanno segnalato un aumento del prodotto interno lordo del 7,4%, ma l’inflazione è tornata a due cifre e soprattutto il cambio su euro e dollaro è fuori controllo da parecchi mesi. «Si tratta di un problema molto grosso – spiega l’analista economico del quotidiano Birgun, Mustafa Erdemol -. Riguarda gli imprenditori, perché l’export turco è ad alta intensità di importazione quindi riescono a fare margini, ma molto meno su quello che vendono. I consumatori, poi, complice anche l’inflazione, vedono il potere di acquisto del loro stipendio diminuito. Tutto questo in una città, Istanbul, che negli ultimi cinque è diventata sempre più cara». A giugno, l’agenzia Standard & Poor’s, a sorpresa, ha ridotto il suo rating del debito sovrano della Turchia ponendolo nel cosiddetto «junk territory» (territorio spazzatura). Il ministro delle Finanze, Mehmet Simsek, ha reagito duramente, bollando la mossa come un modo per favorire gli speculatori e influire sul risultato elettorale.
Campagna a senso unico
E mentre Istanbul sembra diventata un città di saldi perenni, dove tutti i negozi offrono merce scontata e il traffico è reso ancora più caotico per le decine di cantieri aperti in città (stanno costruendo l’ennesima linea di metropolitana), la campagna elettorale continua, in modo palesemente sbilanciato. Ovunque è pieno di manifesti con la faccia del presidente Erdogan e scritte come «La Grande Turchia ha bisogno di un grande leader».
Alcuni ricordano anche il periodo in cui è stato sindaco di Istanbul, a sottolineare i progressi compiuti dalla megalopoli sul Bosforo. Ma dall’altra parte sono determinati, se non a vincere, almeno a fargliela seriamente sudare. Muharrem Ince, il candidato del Chp, il Partito laico e repubblicano, è più agguerrito del previsto e ha dimostrato di avere una certa predisposizione a stare in mezzo alla gente, cosa che per un leader turco è fondamentale. Il leader curdo, Selahattin Demirtas, sta confermando tutto il suo carisma nonostante si trovi in carcere e abbia fatto una campagna elettorale completamente virtuale, con messaggi scritti a mano e postati dai suoi avvocati e video registrati in cella con lo smartphone sempre dai suoi legali.
Infine, Meral Aksener, la prima candidata donna alla presidenza della Repubblica turca, è attestata in modo positivo nei sondaggi, nonostante abbia fondato un nuovo partito appena sei mesi fa. Che Erdogan questa volta passi al primo turno è molto difficile.
Fino all’ultima speranza
Intanto, nella Istanbul più europea ci credono, a costo di bruschi risvegli dopo un bel sogno. «Stavolta lo mandiamo a casa – afferma convinto un venditore ambulante di frutta a Okmeydani, quartiere dove vivono molti curdi e dove hanno trovato casa anche parecchi rifugiati siriani -. La gente è stanca e adesso sta venendo fuori che economicamente navighiamo sul nulla. I conti a fine mese iniziano a non tornare. L’era Erdogan è finita». C’è poi chi ne fa una questione molto più ideologica. «Prevedo un’affluenza molto alta – spiega Zeynep, fa volantinaggio per pagarsi parte degli studi –. Questa volta gli si rivoltano contro i giovani che lui dice di amare tanto».
Il più equilibrato di tutti, sembra il tassista, categoria che in almeno Turchia, fiuta in anticipo le tendenze nel Paese: «Ho sempre votato Erdogan. Questa volta non lo voto, perché mi ha stancato. Ma vince lui. Sicuro».

La Stampa 20.6.18
Sull’Himalaya il regno felice delle donne
dove mariti e amanti entrano solo su invito di
di Carlo Pizzati


Lungo le rive del lago di Lugu, in un angolino di Cina incastrato tra la provincia del Sichuan e dello Yunnan, da più di mille anni vive un popolo, arrivato da oltre le montagne, che venera i cani e la Dea dell’Amore, e le cui donne sono le incontrastate capofamiglia che si possono sposare solo in un «matrimonio che cammina».
A 13 anni le ragazze della popolazione Mosuo, che non è riconosciuta tra le 55 minoranze cinesi perché ha solo 40 mila membri, celebrano una festa che è anche un importante rito di passaggio. Quel giorno viene consegnata loro la chiave della «stanza dei fiori», una camera con entrata separata, nella casa materna. Lì la ragazza potrà portare gli amanti che vorrà, perché tra i Mosuo è sempre e solo la donna a scegliere i partner e mai l’uomo.
La sera, il compagno potrà passare la notte con lei, ma all’alba dovrà tornarsene a casa sua, perché né agli amanti, né ai mariti, quando poi arrivano i figli, è concesso di vivere con la moglie. Questa è la tradizione zouhun, o «il matrimonio che cammina».
Il sistema matrilineare
I figli vengono quindi cresciuti nella casa materna, sono responsabilità economica della matriarca e di zii e fratelli della moglie, in un sistema che non si può definire matriarcale, ma che viene considerato matrilineare poiché qui le donne amministrano e detengono le proprietà, mentre gli uomini continuano ad avere un ruolo di rappresentanza politica sia nel villaggio sia nei rapporti con le altre comunità.
Il mestiere degli uomini
Gli uomini sono solitamente in viaggio nei caravan che portano nei mercatini, giù a valle, i prodotti locali, oppure fanno i muratori, i pescatori e i macellai, mentre le donne hanno tutte le altre occupazioni.
Può sembrare strano, per chi è abituato a un sistema patriarcale o più tradizionale, capire i meccanismi dei Mosuo, ma sono più semplici di quel che può apparire. Quando la ragazza emancipata sceglie finalmente un partner fisso, la tradizione vuole che intrecci una cintura tutta per lui, che equivale un po’ a un anello nuziale. Solo che al giorno d’oggi, per il pegno d’amore, si opta per mazzi di fiori o addirittura uno smartphone.
In alcuni casi, si forma un legame forte tra i figli e il padre biologico, che non è però economicamente responsabile della prole, poiché lo è dei nipoti che vivono nella sua stessa casa materna. Ovvero: gli zii sono responsabili dei nipoti, non i padri. Ma il legame emotivo può benissimo esserci, anche se non c’è convivenza tra padri e figli. A volte non è così, ma non è un dramma. «Il mio primo marito era uno dei falegnami che costruiva la nostra casa. Ma dopo un po’, l’amore tra me e lui è svanito», spiega Yang Congmu, la Dabu o matriarca della famiglia, «e lui non voleva avere nulla a che fare con i figli. Quando l’amore se ne va, meglio tirare avanti».
La durata dell’amore
Poiché non c’è un legame di dipendenza economica da parte della donna nei confronti del padre dei figli, le relazioni hanno la durata che vogliono le donne. Se il padre non vuole più mantenere il legame, ci si rassegna senza drammi, e avanti un altro, questa è l’antica filosofia dei Mosuo.
«Mio nonno mi raccontava che discendiamo da un plotone di Gengis Khan che si innamorò del lago di Lugu e decise di fermarsi qui», racconta il giovane musicista Mosuo, Yang Zhaxi. Ma gli etnologi spiegano che i Mosuo discendono invece da una popolazione che emigrò dal Tibet nel 1000 dopo Cristo.
Il culto dei Mosuo è animista, si venera la Dea Madre, dea dell’Amore, Gan Mu, ma c’è anche un curioso culto dei cani. Secondo la leggenda, un tempo i cani vivevano fino a 60 anni e gli umani solo fino a 13. Le due specie si accordarono per scambiarsi la longevità. In cambio, gli umani avrebbero adorato i cani per sempre.
Ma anche qui le cose stanno cambiando. Al culto animista si è miscelato il buddismo tibetano. Ogni famiglia cede al monastero un figlio maschio che si fa monaco. Due anni fa è stata ultimata una nuova strada e anche un aeroporto non distantissimo che sta cominciando a far affluire i turisti. Così, già inizia a spuntare qualche albergo e i valori immobiliari sono aumentati per chi ha proprietà in riva al lago, da affittare ai turisti di passaggio.
Secondo la religione dei Mosuo, le antenate tornano in vita reincarnandosi nei neonati. E, se davvero così fosse, di questi tempi tornerebbero per vedere che il popolo leggendario delle matriarche Mosuo sta anch’esso, come il resto del mondo, adattandosi al mercato, tra le prime bancarelle di souvenir e le insegne degli hotel che spuntano sulle rive del lago di Lugu.

Repubblica 21.6.18
Usa
La politica sull’immigrazione
Dal “no” di Obama a The Donald ecco com’è nato il muro dei bimbi
Julie Hirschfeld David e Michael D. Shear

WASHINGTON Poco dopo l’insediamento di Donald Trump alla presidenza, il suo governo mise al vaglio una misura considerata da anni fondamentale per la lotta all’immigrazione clandestina negli USA. John F. Kelly, all’epoca segretario alla sicurezza interna, nel marzo 2017 dichiarò che, nel caso di famiglie arrestate nell’atto di entrare illegalmente nel paese, i bambini sarebbero stati separati dai genitori «al fine di scoraggiare ulteriori movimenti lungo questa rete terribilmente pericolosa».
Da più di un decennio, benché gli ingressi clandestini siano in generale diminuiti, di fronte alla recrudescenza stagionale del fenomeno i presidenti americani di entrambi i partiti politici sono stati spinti a studiare sistemi sempre più aggressivi per scoraggiare i migranti a intraprendere il viaggio. Ma per George W. Bush e Barack Obama, l’idea dei bambini in lacrime strappati dalle braccia dei loro genitori era semplicemente disumana — nonché troppo rischiosa politicamente — e lo stesso Trump, pur avendo fatto della lotta senza quartiere all’immigrazione uno dei punti di forza della sua campagna, si arrese a sua volta a quella realtà, bocciando pubblicamente la strategia. Alcuni esponenti dell’amministrazione Trump però non hanno mai rinunciato all’idea, a cominciare da Stephen Miller, consigliere politico di Trump. Il mese scorso, a fronte di un’impennata di ingressi clandestini, il presidente ha dato ordine di rinnovare gli sforzi per perseguire penalmente chiunque attraversi il confine illegalmente. «Nessuna nazione può praticare la politica di esimere intere classi di individui dall’osservanza delle leggi sull’immigrazione e dalle pene conseguenti» ha dichiarato Miller, nel corso di un’intervista la scorsa settimana dal suo ufficio nell’Ala Ovest.
«L’amministrazione ha semplicemente deciso di intraprendere una politica di tolleranza zero rispetto agli ingressi clandestini, punto». Jeh C. Johnson, che in veste di segretario per la Sicurezza interna è stato l’uomo di punta nella lotta alla immigrazione clandestina dell’amministrazione Obama, sostiene che la deterrenza in sé non costituisce una soluzione né pratica né a lungo termine del problema. «È un film che ho già visto e ho l’impressione che agendo così, con la politica di tolleranza zero e separando genitori e figli come deterrente, stiamo sbattendo la testa contro il muro», ha detto. E la sua tesi si basa sull’esperienza concreta.
Quando, all’inizio del 2014, si registrò un picco di migranti dal centro America, tra cui molti minori, il presidente Obama, l’antitesi del suo impulsivo successore, reagì a modo suo, dando vita a una gruppo interistituzionale alla Casa Bianca per decidere il da farsi.
I funzionari si incontravano nell’ufficio di Denis R.
McDonough, il capo di gabinetto della Casa Bianca, e convocarono varie riunioni nella Situation Room per vagliare le varie opzioni. «Le istituzioni lasciavano emergere ogni possibile idea — ricorda Cecilia Muñoz, massimo consigliere politico di Obama — compresa l’ipotesi di separare i genitori dai figli». «Ricordo che ci siamo guardati in faccia come a dire “Mica vorremo scegliere questa strada?”. Ci abbiamo riflettuto cinque minuti e abbiamo concluso che era una pessima idea. L’etica era chiara — è qualcosa che non ci appartiene». Fu Bush, che vantava esperienza diretta di gestione del confine in veste di governatore del Texas e aveva impostato la campagna presidenziale presentandosi come “conservatore compassionevole”, a dare avvio all’approccio di “tolleranza zero” nei confronti dell’immigrazione clandestina cui si ispira la politica di Trump. Nel 2005, Bush lanciò lungo una parte del confine del Texas l’Operazione Streamline, in base alla quale l’immigrazione clandestina veniva classificata come reato penale, incarcerando gli immigrati e accelerando le procedure giudiziarie per la loro immediata deportazione.
L’iniziativa diede risultati e fu estesa ad altre aree di confine.
All’epoca tuttavia in genere erano previste eccezioni per gli adulti con a seguito figli piccoli, minorenni e persone malate.
Subito dopo l’insediamento di Trump si avviò il dibattito sull’ipotesi di applicare l’operazione Streamline a vasto raggio, in quasi totale assenza delle limitazioni di cui sopra. Il dipartimento della Sicurezza interna sperimentò la strategia senza darne comunicazione, durante l’estate scorsa, in alcune zone del Texas. In privato Miller ha dichiarato che il ripristino della “tolleranza zero” sarebbe stato un potente strumento nell’ambito di un insieme molto limitato di strategie per impedire ai migranti di attraversare in massa il confine.
In aprile, dopo che il numero dei clandestini ha toccato l’apice, Miller è stato determinante nella decisione di Trump di incrementare la politica di tolleranza zero. Tecnicamente non esiste alcun atto dell’amministrazione Trump che imponga di separare gli immigrati clandestini dai loro figli. Ma la “politica della tolleranza zero” derubrica l’immigrazione clandestina come reato penale, comportando l’arresto degli irregolari. A quel punto i loro figli sono considerati minori stranieri non accompagnati e vengono portati via. A differenza dell’amministrazione Obama, il governo Trump considera tutti coloro che hanno attraversato il confine senza autorizzazione passibili di azione penale, anche quando si qualificano all’arresto come richiedenti asilo che temono di tornare in patria, che abbiano o meno figli con sé.
«Avere figli non rende immuni all’arresto e all’azione legale» ha dichiarato il procuratore generale Jeff Sessions in un discorso giovedì a Fort Wayne, Indiana.
Ha contribuito Katie Benner Traduzione di Emilia Benghi
© 2018 New York TImes News Service
Per il dem e Bush jr separare genitori e figli era disumano e insostenibile politicamente. Poi arrivò Stephen Miller consigliere di Trump

Repubblica 21.6.18
“La linea dura è una forma di pulizia etnica per un’America monocolore”
intervista a  Valeria Luiselli di Anna Lombardi


«Chiamiamo le cose con il loro nome: la stretta di Trump verso le famiglie di migranti è una forma di pulizia etnica. Quella che sogna il presidente è un’America di un solo colore». Valeria Luiselli, 34 anni, è la pluripremiata scrittrice messicana che ormai da più di 10 anni vive negli States. Autrice di saggi e romanzi, editorialista del New York Times, nel 2017 ha scritto il libro-inchiesta Dimmi come va a finire: raccontando storie di piccoli migranti incontrati nel tribunale di New York, dove lavora come interprete volontaria per un’associazione che si batte contro le espulsioni.
L’audio diffuso da ProPublica col pianto dei bimbi separati dalle loro mamme in un centro accoglienza in Texas sta sconvolgendo l’America...
«Da giorni non penso ad altro: sono appena passata davanti ad una scuola e sentendo le voci allegre dei bambini mi sono commossa.
Purtroppo in America i migranti sono i nuovi invisibili, sottoposti a trattamenti inumani.E sulla detenzione dei clandestini sta crescendo una sorta di industria»
Sta dicendo che qualcuno fa soldi sulla pelle dei bambini?
«I centri di detenzione, ma anche quelli di accoglienza come l’ex Walmart in Texas dove sono rinchiusi 2000 bambini, sono molto lucrativi: in mano ai privati, ricevono soldi da appalti statali.
Il principale appaltatore è proprio l’Ice, la polizia federale che si occupa di migranti. La cosa più sinistra è che sulla detenzione dei bambini si guadagna di più. Circa 42 dollari, rispetto ai 27 per il mantenimento di un adulto. In teoria perché hanno bisogno di più cura. La realtà è che sono posti terribili, mitigati solo dalla rara presenza di personale di buona volontà».
Lei lavora da tempo con bambini che rischiano di essere deportati. Cosa è cambiato nell’ultimo mese?
«Finora ho lavorato con bambini arrivati negli Stati Uniti da soli. Dal 2014 a ora, era quella la vera emergenza. Ricordo due bimbe guatemalteche di 5 e 7 anni entrate in America col numero della mamma cucito nel vestito: se c’era un familiare pronto a far da sponsor potevano sperare di essergli affidati. In realtà già Obama aveva reso le cose più difficili: accelerando per i bambini i tempi per la richiesta d’asilo e dunque dei rimpatri. Ma come si fa a chiedere a un bambino di 5 anni che ha attraversato da solo il confine se in patria la sua vita era a rischio? Non sanno nemmeno raccontarla la loro storia. Trump ha portato all’estremo le politiche di Obama. Ma i suoi giri di vite sono due. Una è appunto la brutale separazione delle famiglie di cui tutti stiamo parlando...»
E l’altro?
«L’altra è più sottile e per molti meno scandalosa. Ma a mio giudizio altrettanto pericoloso: finora le organizzazioni raccoglievano le storie dei bambini, mettendoli in contatto con i parenti, anche clandestini. Ora sono obbligati a passare tutte le informazioni all’Ice.
In pratica fornendo nomi e indirizzi di persone da arrestare: mettendo i bimbi nell’involontaria condizione di denunciare i familiari».
I bambini con cui lei ha parlato: come immaginavano l’America? E come vivono la realtà che poi trovano?
«Spesso sono consapevoli di arrivare in un paese che non li tratterà bene.
Sanno che saranno discriminati, che avranno difficoltà a scuola, che saranno cittadini di seconda classe.
Ma sanno anche che è meglio della situazione da cui fuggono. Molti teenager destano l’America: sono terrorizzati dalle gang come a casa, trovano lo stesso tipo di violenza. E di povertà»
Cosa succederà? Ora Trump ha annunciato la marcia indietro...
«Nessuno può dirlo. Non avevo mai visto nulla di simile in vita mia. Molta gente è indignata e ci sono cause in tutta l’America contro le detenzioni.
Quello che finora è stato messo in pratica non ha confini chiari: la stretta è stata portata avanti nelle pieghe della legge, senza confini chiari. Trump agisce in totale impunità. Da lui no, non mi aspetto nulla di buono».

Repubblica 21.6.18
Legittima difesa
Licenza di sparare ai ladri La Lega apre un nuovo fronte
Molteni: “Norma depositata. È la priorità”. Il Pd: “Così si inverte l’onere della prova”
di Silvio Buzzanca


Roma. Matteo Salvini ci prova anche sulla legittima difesa. « Cancellare l’eccesso di legittima difesa » , fa sapere dal salotto di Bruno Vespa.
Sigillo del leader della Lega sull’annuncio del sottosegretario all’Interno Nicola Molteni consegnato all’Huffington post: «Modificare quella legge non è una priorità, ma la nostra priorità. Ho già depositato una proposta di legge di cui sono primo firmatario».
Il testo, che ricalca quello della scorsa legislatura, concede il diritto di sparare a chiunque entri in casa, in negozio, in ufficio purché il proprietario abbia un porto d’armi e un’arma regolarmente denunciata. La nuova legge punta infatti a far cadere uno dei cardini delle norme attuali: oggi è legittima difesa solo se si reagisce in modo proporzionale alla minaccia. Sparare alle spalle di un ladro in fuga, disarmato, non può essere considerato un caso di legittima difesa. Secondo la proposta leghista, invece, il rapporto fra minaccia e difesa verrebbe meno e ci sarebbe sempre una « presunzione di legittima difesa».
La proposta di legge prevede anche una buona dose di carcere in più per chi commette un furto o un’intrusione, un aumento delle pene pecuniarie e un regime più sfavorevole al reo nel calcolo delle aggravanti e delle esimenti. La proposta leghista è un rovesciamento della legge approvata dalla maggioranza nella scorsa legislatura: quella che preveda una legittima difesa più “elastica” solo se il ladro entrava in casa nelle ore notturne. Un testo che non piaceva neanche a Matteo Renzi che non esitò a criticarlo e chiederne la modifica nel passaggio al Senato.
Contro quel testo la Lega condusse una guerra parlamentare: negli occhi dei presenti c’è ancora la scena finale del grande striscione che i leghisti esposero alla Camera al momento del sì. I grillini si accodarono. Ma con qualche malumore. Tanto che oggi Pippo Civati, di Possibile, ha buon gioco a far notare che nel 2015 Di Maio e Di Battista chiedevano restrizioni sull’uso delle armi.
Comunque Molteni ricorda che la legge è prevista nel contratto e vede la strada in discesa: « Con il ministro Bonafede c’è sempre stata grande intesa, per cinque anni anni abbiamo lavorato fianco a fianco in commissione ».
Ma Davide Ermini, deputato del Pd, relatore sulla legge della scorsa legislatura, avverte: «Quelli che si aspettano di poter sparare a chiunque resteranno delusi. I leghisti vogliono invertire l’onere della prova, ma non riusciranno a impedire che un magistrato si occupi comunque della vicenda».

Repubblica 21.6.18
Dopo l’Uruguay
Il Canada legalizza la marijuana per “uso ricreativo”
di Siria Guerrieri

Via libera del Canada all’uso ricreativo della cannabis: ieri notte, ora italiana, il Parlamento di Toronto ha approvato in via definitiva il provvedimento che liberalizza la vendita e il consumo della marijuana. Con 52 voti a favore e 29 contrari, il Senato ha detto sì al Cannabis Act, che permetterà ai canadesi di coltivare, acquistare e consumare legalmente le infiorescenze della canapa - entro alcuni limiti - a partire da settembre. Il Canada è il secondo Paese al mondo ad aver liberalizzato la fruizione della marijuana, dopo l’Uruguay. Il premier canadese Justin Trudeau ha commentato su Twitter: «Finora è stato troppo facile per i nostri ragazzi ottenere la marijuana, e troppo semplice per i criminali ricavarne profitto.
Oggi, abbiamo cambiato le cose».
Nel 2015 i canadesi hanno speso circa 4,5 miliardi di dollari per l’acquisto di cannabis illegale.