giovedì 21 giugno 2018

internazionale 15.6.18
La mobilitazione delle donne scuote il Cile
Da aprile le studenti occupano decine di università per protestare contro un modello d’istruzione sessista. È il movimento più importante nella storia recente del paese
Di Marion Gonidec, Mediapart, Francia


Il 6 giugno, verso le undici di mattina, una ruspa avanzava lungo La Alameda, il viale principale di Santiago del Cile. Costruita dagli studenti e dalle studenti di architettura dell’università della capitale, la ruspa serviva a demolire simbolicamente il maschilismo e il patriarcato, rappresentati da alcune scatole di cartone per terra. Secondo il Coordinamento femminista universitario, all’ultima manifestazione per chiedere un’istruzione non sessista – la quarta in poco più di un mese – hanno partecipato circa centomila persone (15mila secondo il comune), e la maggior parte aveva meno di 25 anni. “Siamo le nipoti delle streghe che non avete potuto bruciare”, si leggeva su alcuni cartelli. Alcune donne indossavano passamontagna bordeaux, altre sfoggiavano il fazzoletto verde, simbolo della lotta per l’aborto libero, sicuro e gratuito portata avanti in questi mesi in Argentina. C’erano anche donne più anziane, come Norma Carasco, 76 anni. È arrivata con il marito e uno striscione: “Noi nonne sosteniamo le nostre nipoti”, c’era scritto in riferimento alla storia della lotta femminista cilena. “Abbiamo sofferto durante la dittatura, ma anche a causa di un patriarcato violento”, dice Carasco. “Dai primi movimenti studenteschi del 2006 non salto una manifestazione”. L’aborto per le cosiddette tres causales – in caso di stupro, di pericolo per la vita della madre o se il feto è incompatibile con la vita – è stato approvato nell’agosto del 2017, durante l’ultimo anno di governo della presidente socialista Michelle Bachelet, dopo una lunga battaglia. È stata un depenalizzazione parziale, che dopo quasi un anno ancora non viene applicata. In Cile questa nuova ondata femminista ha assunto dimensioni inedite grazie al movimento Ni una menos, nato in Argentina nel 2015 per protestare contro i femminicidi in America Latina. E anche grazie alle manifestazioni studentesche del 2006 e del 2011 per il diritto a un’istruzione pubblica e gratuita. “Alle rivendicazioni di allora abbiamo aggiunto quelle contro un modello d’istruzione sessista e discriminatorio”, spiega Lorena Astudillo, portavoce della Rete cilena contro la violenza sulle donne. “Oggi il femminismo è un elemento caratterizzante dell’identità politica latinoamericana. La critica del patriarcato riguarda tutti i settori della società e tutti i partiti, di destra e di sinistra”.
La mossa di Piñera
“No è no. Quale parte non hai capito? La N o la O?”, scandiscono le studenti cilene. A fine aprile, dopo le proteste scoppiate in Spagna in seguito alla sentenza di un tribunale sul caso di cinque uomini accusati di stupro di gruppo, un professore dell’Universidad austral, nel sud del Cile, è stato denunciato per molestie. Poi ci sono state altre denunce e testimonianze di stupri e abusi commessi da importanti funzionari e professori. Il movimento ha conquistato le roccaforti conservatrici della capitale, l’Universidad católica e la facoltà di legge dell’Universidad de Chile, di solito estranee a scioperi e occupazioni. Le donne chiedono, tra le altre cose, l’abolizione degli istituti pubblici non misti, ma anche l’introduzione di programmi scolastici che non raccontino la storia del paese solo dal punto di vista degli uomini. Secondo un sondaggio dell’istituto Cadem, la mobilitazione femminista ha il sostegno del 71 per cento della popolazione. Il 90 per cento delle donne cilene afferma di vivere in un paese maschilista e il 64 per cento degli uomini è d’accordo. A fine maggio il presidente conservatore Sebastián Piñera ha annunciato la creazione di un Programma per le donne, con l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze di genere. Secondo Astudillo, è una mossa “opportunista, perché non fa riferimento all’istruzione. Sono solo vecchi progetti di legge che il governo ha tirato fuori sperando di placare la rabbia. Oltretutto, lanciando il suo programma Piñera si è riferito alle donne dicendo ‘le nostre donne’. Ma noi non apparteniamo a nessuno!”

internazionale 15.6.18
Stati Uniti
Le sorprese delle primarie

“Le donne continuano a ottenere vittorie importanti in tutto il paese”, scrive Usa Today commentando le primarie che si sono tenute il 12 giugno per scegliere i candidati democratici e repubblicani alle elezioni di novembre, in cui si rinnoveranno tutti i seggi della camera e un terzo di quelli del senato. “In Virginia le candidate democratiche hanno vinto in quasi tutti i collegi dove si presentavano. In Nevada Susie Lee, attivista per il diritto all’istruzione, ha vinto in un collegio difficile. Questi risultati confermano quelli delle scorse settimane in Pennsylvania, Kentucky e Nebraska, e suggeriscono che l’attivismo a sinistra metterà a rischio i seggi di molti repubblicani.

internazionale 15.6.18
Non fiction
Di Giuliano Milani
Libri/La storia conta


Lynn Hunt History.
Why it matters Polity, 142 pagine, 12,95 dollari
Oggi studiare la storia serve più che mai. Lynn Hunt, storica delle donne e della rivoluzione francese, parte da questa affermazione per scrivere un pamphlet utile e appassionato. Le prime prove che fornisce sono tratte dall’attualità: i politici mentono sulla storia, ovunque si lotta su come scrivere i manuali, e i monumenti destano più conflitti che consenso. Per tutte queste ragioni bisogna tornare a riaffermare la possibilità di scoprire la verità storica, distinguendo i fatti, accertabili e destinati a rimanere stabili, dalle interpretazioni, ma mantenendo la consapevolezza che le verità che si stabiliscono potranno anche essere ridiscusse da un cambiamento di prospettiva, com’è avvenuto con la decolonizzazione. Il volumetto di Hunt prosegue con una breve ricostruzione del modo in cui si è studiata la storia nel mondo anglosassone dall’ottocento a oggi, che mostra la continuità nel fare di questa materia una pedagogia per le élite (come del resto avviene sin dall’antichità). A partire da questa considerazione, l’autrice in un capitolo conclusivo propone di far diventare la storia parte dell’educazione a una nuova cittadinanza, fondata sull’appartenenza non più solo a una nazione, ma alle tante sfere di cui siamo o ci sentiamo parte: da quelle più globali dell’ambiente, del clima e dei contatti tra culture a quelle più locali delle regioni e delle città in cui ci troviamo a vivere.

Saranno gli immigrati a salvare la sinistra?
l’espresso 17.6.18
Precari e schiavi, sinistra di domani
di Giovanni Tizian


Lavorano dall’alba al tramonto, “da sole a sole”. Senza schiavi africani - quelli che il ministro dell’Interno chiama “clandestini” - crollerebbe un intero comparto industriale. È su di loro, il primo anello della filiera, che l’agroindustria scarica i costi della crisi e della tirannia della grande distribuzione organizzata. Aboubakar Soumahoro, 38 anni, sindacalista dell’Usb, laureato in Sociologia a Napoli, ne è convinto. Aboubakar, del resto, prima di diventare avanguardia del movimento sindacale, è passato dal girone infernale dello schiavismo moderno. Umiliato sì, mai però prostrato ai piedi dei padroni italiani che lo ingaggiavano di volta in volta. Se chiedete a Soumahoro che cosa sogna, lui risponde con tono garbato ma deciso: «Giustizia sociale, dare voce ai lavoratori invisibili, agli ultimi, quelli schiavizzati dalla globalizzazione». Da sfruttato a sindacalista al fianco di altri sfruttati della piana di Gioia Tauro, in Calabria. Un’area ricca di agrumi, che arrivano sulle nostre tavole. Gioia, Rosarno, San Ferdinando, Rizziconi. In un raggio di appena 18 chilometri troviamo l’epicentro della schiavitù moderna. Non da oggi, ben prima che si accendessero i riflettori il 2 giugno scorso dopo l’omicidio del bracciante e sindacalista del Mali Soumayla Sacko. In quanti ricordano la rivolta del gennaio 2010? La scintilla fu l’ennesima vessazione subita da due africani di ritorno dai campi, bersaglio di giovani in cerca di fama criminale che li hanno colpiti con pistole ad aria compressa. Aboubakar combatte in questa trincea, dove il profumo della zagara si confonde a quello della povertà delle tendopoli e delle baracche dei braccianti africani. La piana dalle mille contraddizioni. Teatro di aspre lotte contadine e di una ’ndrangheta vorace. A resistere un tempo c’erano i comunisti guidati da Peppino Lavorato e Giuseppe Valarioti, dirigenti del Pci locale. Valarioti verrà ucciso nel giugno del 1980. Peppino Lavorato molto tempo dopo diventerà sindaco di Rosarno. Oggi c’è Aboubakar Soumahoro. «Nella piana abbiamo uno sportello dedicato ai lavoratori, italiani e stranieri», racconta all’Espresso, «li informiamo sui diritti sociali e sindacali. Il progetto va avanti da tempo e ha fatto emergere i loro bisogni reali. Questo è il territorio che ha eletto il ministro dell’Interno Matteo Salvini, leader di un partito, la Lega, che discriminava gli emigrati calabresi. Oggi il ministro può riscattarsi da quella vergogna, prendendo atto delle condizioni disumane di cui è ostaggio la manodopera, su cui si basa la più importante economia della regione». Soumahoro passa le sue giornate tra gli operai agricoli: «Li sindacalizziamo attraverso la rivendicazione di uguale lavoro uguale salario. Nella piana di Gioia Tauro, in piena stagione agrumicola, tra italiani e stranieri si raggiungono 4-5 mila unità. Chi è fortunato arriva a una paga di 100 euro al mese, dall’alba al tramonto per 2 euro l’ora. C’è persino chi riceve al posto del salario olio o pacchi di pasta. Il contratto di categoria, invece, prevede sei ore mezzo di lavoro, con straordinario per ogni ora in più». Così Aboubakar e i suoi compagni hanno iniziato a organizzare numerose assemblee, portando fuori dalle tendopoli-ghetto le persone. «Riunioni con 500 persone, in cui si parlano cinque lingue, italiano, francese, inglese, bambara, asanti. Abbiamo anche chiesto alla prefettura di istituire un tavolo permanente contro lo sfruttamento, al primo incontro - prima dell’uccisione del nostro compagno - c’eravamo solo noi. Assenti le aziende, i sindaci, gli assessori regionali. Una situazione drammatica, dalla quale si esce solo collettivamente. L’esempio di Giuseppe Di Vittorio è lì a ricordarcelo». L’illegalità, secondo Soumahoro, è figlia di una legge dello Stato targata Lega-ex fascisti: la Bossi-Fini. «Va abrogata, per liberare dalla schiavitù e dal ricatto i lavoratori stranieri». Un tema caro alla sinistra, ma a quella pre-Pd: dificile oggi trovare differenze tra centrodestra e centrosinistra, dice il sindacalista. «Le loro politiche poggiano sulla medesima filosofia di lavoro precarizzato. I rider delle consegne a domicilio guadagnano quanto un bracciante della piana di Gioia Tauro. E anche l’approccio al tema dei migranti è simile: gli accordi con la Libia ne sono la prova». Soumahoro immagina un grande blocco sociale. Unito da un comune denominatore, lo sfruttamento, le paghe da fame. «Bracciante e rider sono accomunati da salari vergognosi. Per questo è necessario immaginare un percorso comune, di una nuova classe operaia, ricomponendo il quadro parcellizzato di chi lavora senza diritti». Il 23 giugno a Reggio Calabria Soumahoro e il suo sindacato organizzeranno una manifestazione per ricordare Soumayla Sacko. Non ci saranno solo braccianti. Ma anche le categorie più lacerate dal precariato e dallo sfruttamento. In testa al corteo ci saranno i parenti di Socko, che hanno chiesto ad Aboubakar di proseguire la battaglia nel nome del compagno ucciso nel giorno della festa della Repubblica italiana.

l’espresso 17.6.18
Solidarietà. Sinistra. E “diritto di avere diritti”.
L’eredità di un maestro a un anno dalla scomparsa Quanto manca il militante Rodotà
di Luigi Manconi


Accade raramente che un “militante politico” (definizione che, pensiamo, non sarebbe dispiaciuta a Stefano Rodotà) attraversi la vita pubblica, e spesso da protagonista, sapendo combinare insieme con tanta efficacia conflitti politico-istituzionali ed elaborazione teorica e scientifica. Così la sua biografia intellettuale accompagna un percorso di conquiste sul piano delle libertà civili e, al tempo stesso, di intuizioni su quello delle nuove generazioni dei diritti. È utile, pertanto, partire da una citazione che gli era cara e che ispira il titolo di uno dei suoi libri più importanti. «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa»: con queste parole di Hannah Arendt si apriva qualche anno fa “Il diritto di avere diritti” (Laterza, 2012). A chi sia negato il diritto di avere diritti, è negata la stessa appartenenza alla condizione umana, ci dicono Arendt e Rodotà, il primo, fondamentale diritto dell’homo dignus. L’homo dignus è la nuova manifestazione della personalità umana nel costituzionalismo dei diritti di cui scriveva Rodotà: l’eguale dignità di ciascuno supera l’astrazione del vecchio individualismo liberale e riscopre la centralità della concreta esperienza della persona umana a partire dal suo corpo e dai suoi bisogni. Una nuova morfologia è la chiave interpretativa con cui Stefano Rodotà ci guida per le strade più impervie: la corporeità fisica o elettronica è il centro di attrazione di vecchi e nuovi diritti così come il corpo è il luogo della differenza delle persone e dei loro bisogni, tutte e tutti meritevoli di riconoscimento e di garanzia. Per chi ha fatto della lotta per i diritti la ragione del proprio impegno, Stefano Rodotà - scomparso il 23 giugno di un anno fa - è stato un maestro e un compagno di strada irrinunciabile, dalle battaglie per le libertà civili degli anni Settanta alle nuove frontiere dell’identità digitale e del post-umano, senza dimenticare l’impegno garantista che lo vide in prima fila nella promozione di “Antigone”, il bimestrale di critica dell’emergenza pubblicato da il manifesto alla metà degli anni Ottanta. “Il diritto di avere diritti” si apre con una riflessione sul “mondo nuovo dei diritti”. Rodotà, sulla scia di Bobbio, aveva interpretato la fine del Novecento come una finestra di possibilità per una età dei diritti. Già nel suo “Repertorio di fine secolo” (Laterza, 1992) si trovano i temi dei vent’anni successivi: un’agenda per una sinistra profondamente rinnovata, dalle nuove frontiere della democrazia al pluralismo culturale, una inedita concezione della privacy nell’era digitale e le problematiche del bio-diritto. Nel frattempo ulteriori sviluppi maturano in vecchi filoni di ricerca. Come quello sul «terribile, forse non necessario» diritto di proprietà (definizione di Beccaria), cui aveva dedicato una raccolta fondamentale di studi (“Il terribile diritto”, appunto) all’inizio del suo percorso di ricerca. Ricerca che gli consentirà, un quarto di secolo dopo, di elaborare una proposta di riconoscimento giuridico dei “beni comuni”. O, infine, l’approdo al “Diritto d’amore” (Laterza, 2015) di una antica critica dell’uso coattivo del diritto nelle relazioni familiari, critica che in Rodotà si rovescia in opportunità di riconoscimento della libera scelta di convivenza di coppie dello stesso sesso o di sesso opposto. Ecco, se volessimo definire il lascito di Rodotà per il proseguimento delle battaglie di libertà a cui ci ha introdotto o in cui ci ha accompagnato, innanzitutto si dovrebbe dire questo: se il diritto è un’arma a doppio taglio, ci sarà pure un verso da cui prenderla per ottenere più garanzie e più libertà. Dunque, la critica del diritto esistente, se non vuole essere messianica attesa di una rivoluzione improbabile e (spesso) liberticida, deve essere il fondamento di un diritto possibile, già oggi ricavabile con una lettura rigorosa dei principi e dei valori cui si ispirano la carta costituzionale e il diritto internazionale. Si pensi, per esempio, a quella lettura rigorosa dell’articolo 32 della Costituzione, che ha consentito di dar pace a Eluana Englaro e ai suoi familiari. È ancora la citazione di Hannah Arendt a ricordarcelo: la prospettiva dell’homo dignus è l’umanità dei diritti e dunque il loro universalismo, senza barriere né confini. Non a caso, dai suoi primi studi sulla proprietà fino a uno dei suoi ultimi libri, parola chiave nella lingua di Rodotà è la solidarietà: quel che ci tiene insieme, ognuno con la propria differenza, ognuno con la propria dignità. E lo spazio della umanità dei diritti non può essere rinchiuso nelle piccole patrie, non solo per i conflitti identitari che esse inevitabilmente generano tra chi vi appartiene e chi no, ma anche per la realistica considerazione che nel mondo globale, diritti e solidarietà si muovono in una dimensione globale. Non a caso, Rodotà resterà fino alla fine legato alla sua idea di un’Europa dei diritti, quella della Carta che contribuì a scrivere: un’Europa come attore istituzionale sovranazionale all’altezza della sida dei diritti umani nell’epoca della globalizzazione e dei grandi poteri privati su scala mondiale. Infine c’è l’agenda: i beni comuni, il diritto al cibo e alla conoscenza; il diritto all’esistenza, anche attraverso il riconoscimento universale di un diritto al reddito; l’autodeterminazione nelle scelte procreative e in quelle sulla propria vita; la tutela della riservatezza e della identità digitale e l’uso della rete per il rafforzamento della partecipazione democratica alle scelte di convivenza. Ciascuna di esse, ovviamente, aprirebbe uno spazio infinito di riflessioni e di iniziative, ben oltre le caricature che ne vengono date in alcune versioni politiche correnti. E ciascuna di esse, d’altra parte, consente di trascrivere ogni capitolo dell’elaborazione teorica di un intellettuale così curioso e innovativo, in uno specifico passaggio della storia italiana dell’ultimo mezzo secolo. Si pensi a un testo (del 1974!) dal titolo “Elaborazione elettronica e controllo sociale” (era l’epoca in cui i computer si chiamavano processori o calcolatori) che dice bene quale fosse la capacità di analisi di Rodotà delle trasformazioni in atto, in quasi alla preveggenza. Così, ogni tappa della sua elaborazione coincide, quando non anticipa, la sequenza delle mobilitazioni della società italiana intorno a cruciali battaglie di libertà. Rodotà, insieme ai radicali e a una parte della sinistra ancora riottosa, è lì, a battersi per il divorzio, l’interruzione volontaria di gravidanza, le garanzie nel processo e nell’esecuzione penale (ovvero quel garantismo che deve a lui e a Luigi Ferrajoli le poche espressioni di limpidezza politica e intellettuale conosciute in Italia), fino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e alla Dichiarazione dei diritti in Internet. E si pensi a una questione tanto circoscritta e altrettanto ignorata quanto simbolicamente dirompente come il riconoscimento anagraico della condizione transgender. Insomma, il pensiero di questo studioso così intellettualmente irrequieto ha contribuito più di tante manifestazioni collettive e di tante parole parlamentari a fare dell’Italia un paese più civile.

l’espresso 17.6.18
Libro
Quella libertà che fa paura
Carlo Levi indaga il sentimento che ha generato il fascismo
Di Mario Fortunato


È veramente una sorpresa leggere oggi “Paura della libertà” (Neri Pozza, pp. 154, € 15) di Carlo Levi (1902-1975), “poema filosofico”, secondo il suo stesso autore, scritto fra il 1939 e il 1940 nel nord ovest della Francia, a La Baule - mentre l’Europa cominciava quell’esercizio di autoannientamento definito Seconda guerra mondiale – ma pubblicato solo nel 1946, all’indomani del grande successo di “Cristo si è fermato a Eboli”. La riscoperta del testo (mai più ristampato come autonomo dal 1964) si deve a Giorgio Agamben che firma un’introduzione di poche e limpide pagine, in cui racconta fra l’altro come a suo tempo il libro sia stato malinteso o forse semplicemente non capito dall’intellighenzia comunista a cui pure Levi fu legato soprattutto negli anni Sessanta. In effetti, già nel suo tono direi sapienziale, nella scrittura misteriosa e avvolgente, Levi sembra provenire da un altro pianeta, rispetto al dibattito italiano delle idee nell’immediato dopoguerra. Né Gobetti né Gramsci sembrano presiedere a queste pagine, ma casomai (è un suggerimento di Agamben) Mauss e Durkheim. Levi individua nella “paura della libertà” – cioè nel segreto ma essenziale desiderio di schiavitù, che si annida nelle masse soprattutto metropolitane del XX secolo – il sentimento che ha dato luogo al fascismo (oggi, con la crisi del modello della democrazia rappresentativa, siamo a un passo dal medesimo clima emotivo). Per analizzare tale paura, lo scrittore si cala nei centri nervosi da cui il suddetto sentimento origina, trasformandosi in sistema: l’opposizione tra il sacro e il religioso, l’analisi dello Stato come idolo sociale, il ruolo della guerra quale nucleo originale della massa moderna, il linguaggio e la funzione dell’arte, l’idea della morte. Allo Stato-idolo, Levi contrappone lo “stato di libertà”: che corrisponde a una sostanziale fuoriuscita dal modello di sviluppo capitalistico che, secondo lui, non può che perpetuare «l’eterno fascismo italiano». La sua è una proposta di “libertà nelle passioni”, che mi pare oggi di un’attualità politica davvero, ma davvero sorprendente.

l’espresso 17.6.18
Saggio
Alchimia dei sogni
Cappozzo recupera i codici di interpretazione più diffusi nel Medioevo
Di Roberto Di Caro


Da Apollodoro a Kerouac, dalla tradizione arabo-islamica fino alla Smorfia napoletana, catalogare i sogni è dipanare il mondo, sviscerarne il senso attraverso i segni, svelarne le nascoste correlazioni, razionalizzare l’irrazionale: la realtà esterna, divino incluso, per gli antichi come per gli uomini del Rinascimento; l’individuo e l’inconscio, per il Novecento marchiato da Freud. Stupefacente è semmai, per la gioia degli innatisti, il fatto che «durante il corso di 3.200 anni dall’antico Egitto a oggi, l’interpretazione dei sogni è rimasta sorprendentemente coerente, dimostrandoci che nel momento in cui la razionalità viene disattivata l’essere umano si scopre uguale a se stesso». Così Valerio Cappozzo, direttore di Italianistica all’University of Mississippi, nel suo “Dizionario dei sogni nel Medioevo. Il Somniale Danielis in manoscritti letterari” (Olschki, pp. 416, € 35). Lo scorri e consulti con la stessa leggerezza con cui spulceresti la Smorfia per sapere che numero giocare al lotto, questo dottissimo lavoro di recupero di tutti i codici tra loro anche molto diversi che riprendono, traducono e integrano il testo oniromantico più diffuso e usato tra Medioevo e Rinascimento. Per scoprire, apriamo a caso, che «cholla vergine favellare anghoscia significa, chon putana iacere securità significa». In una vorticosa scorribanda tra sogni divinatori, scaramantici, profetici, danteschi e boccacceschi, rivelazione di Dio o inganno del Demonio, cabala, alchimia e tutti i possibili universi di simboli. Perché, come scriveva Leonardo da Vinci, «vede più certa la cosa l’occhio ne’ sogni che colla immaginazione stando desto».

l’espresso 17.6.18
Noi e Voi
Risponde Stefania Rossini


Cara Rossini, nel suo primo discorso al Senato il presidente Conte non ha degnato nemmeno di una parola la scuola. Bisognerebbe invece sfidare i sovranisti a far vedere se fanno sul serio proprio a partire dalla cartina di tornasole dell’insegnamento. Da loro ci aspetteremmo il ritorno a una scuola come fu pensata, non abbiamo paura a dirlo, da Gentile ma anche da Gramsci.
Giuseppe Cappello
In Francia si pensa al ritorno del grembiule nelle scuole elementari. È un abbigliamento che aiuta a sentirsi parte di una comunità e a osservarne le regole. Da bambino vivevo a Bari nel quartiere dei “signori”, la mia famiglia non era ricca, però quel grembiule nero col fiocco blu mi faceva sentire uguale agli altri, almeno ino al suono della campanella, quando mio padre veniva a prendermi a piedi e i miei compagni rincasavano in macchina e talvolta con l’autista. I grembiuli sono una “livella” come direbbe Totò, coprono indifferentemente capi da boutique e da mercatino.
Michele Massa

Sembra che il neo ministro dell’Istruzione abbia intenzione di eliminare i genitori dalle riunioni collegiali, perché la loro partecipazione sembra rivolta esclusivamente alla difesa incondizionata dei propri figli. Era ora che qualcuno pensasse di eliminare le imposizioni collegate ai Decreti delegati. In nessun’altra amministrazione pubblica è permessa la partecipazione di personale estraneo. È giusto che gli insegnanti riacquistino autorevolezza e che gli studenti riprendano ad assolvere agli obblighi scolastici come un tempo, rispettando le più elementari norme civiche e presentandosi nelle aule con abbigliamento adeguato.
Aldo Nicotra

Come sempre agli inizi di una legislatura, la scuola è al centro dei pensieri di quanti si aspettano misure che ne arrestino il lento degrado. E forse mai come questa volta, con il bullismo dilagante e la cronaca zeppa di episodi di violenza verso gli insegnanti da parte di alunni e genitori, se ne sente l’urgenza. Ma Conte, che al Senato ha omesso di parlarne, ne ha fatto cenno alla Camera soltanto per assolvere “la buona scuola” di Renzi. Così in assenza di proposte per il futuro, a molti non resta che guardarsi indietro per rimpiangere la riforma Gentile del 1923 che dette struttura al modello educativo fascista, per eliminare la presenza delle famiglie introdotta cinquant’anni dopo o per riproporre le rigide divise scolastiche. Tutte idee che in maniera frammentata vanno alla ricerca dell’autorevolezza perduta. Quando basterebbe restituirla di fatto ai protagonisti dimenticati della scuola, gli insegnanti, blindando la loro rispettabilità con preparazione, selezione, controllo e uno stipendio all’altezza di chi ha il compito di formare i futuri cittadini.

l’espresso 17.6.18
Il vetro soffiato
Eugenio Scalfari
Quel mistero chiamato energia
La vecchiaia indebolisce il corpo ma arricchisce la mente. E le domande si concentrano sui fondamenti della vita


La vecchiaia è allo stesso tempo una malattia e un arricchimento. Il corpo è assai più debole, i muscoli indeboliti, la spina dorsale a star dritta non ce la fa e se non ha un bastone e un braccio di una persona per appoggiarsi cammina piegato in due e muove pochi passi. Qualcuno sfugge a questi malanni ma è una realtà che la vecchiaia, specie chi ha varcato i novant’anni, mette a dura prova. L’arricchimento riguarda la mente, non sempre ma spesso. Soprattutto riguarda la memoria che registra balzi assai strani: di solito non ricorda il passato prossimo, ma quello remoto ti è sempre più chiaro e comprensibile, l’esperienza ti illumina i ricordi e dà un senso alla vita, non soltanto alla tua ma a quella di tutti i tuoi simili, specie se le loro gesta hanno costruito la storia. Ecco il punto: la storia. Si dice che essa sia comprovata da documenti di sicura attendibilità, altrimenti rischia di alimentare varie leggende che ciascuno racconta a suo modo. Ci fu la guerra di Troia? Ci furono gli eroi come Achille, Ettore, Aiace Telamonio, Odisseo? Ci fu il poeta Omero? Ci fu la bella Elena, una donna che seduceva amici e nemici? Ma questa non è la storia, è la mitologia. Il mito fa parte della storia ma soprattutto della fantasia e può aiutarci in un modo di pensare che si appoggia anch’esso alla vecchiaia. I giovani, secondo gli studi che hanno fatto e le scuole che hanno frequentato, conoscono i miti e possono anche esserne afascinati, ma la vecchiaia è in grado di dare ai miti un’altra intensità: vive il mito come un aspetto fondamentale della storia, ma non soltanto: della poesia, della musica, del pensiero e perino delle religioni. Può sembrare assai azzardato collegare le religioni ai miti ma non lo è: le religioni forgiano una nascita e prefigurano un Aldilà che dà un senso alla vita. L’ateo respinge la religione come una verità che non vediamo. Dopo la morte, per un vero ateo non c’è nulla. Ma questa’affermazione non spiega la nascita. I semi della vita. Non abbiamo alcuna prova dell’origine dell’Universo (o degli Universi). Non parliamo dei vari generi vitali: i vegetali, gli animali e della loro evoluzione. Parliamo di qualche cosa assai meno corporea: le onde magnetiche, le particelle elementari, le loro leggi, la loro provenienza. Questi sono i semi della vita che debbono avere una loro storia, la loro creazione, un loro Essere e il suo eventuale divenire. La vecchiaia, a differenza della giovinezza, è più vicina alla morte e questa vicinanza la spinge a porsi concretamente il problema del dopo e quello del prima. Ecco perché la vecchiaia che ha molte debolezze ha però uno “status” assai privilegiato. Chi morirà ha alle spalle la nascita. Tra questi due momenti c’è il pensiero. Viene da un corpo, da un organo del corpo; ha dunque un’origine corporea ma è privo di fisicità. Le onde? Certo. Le particelle? Certo. Tutto è collegato con il resto degli organi, delle cellule, degli atomi, degli organi atomici? Certo. Tutto è collegato, tutto è esistente, tutto è studiabile, comprensibile, almeno per il nostro genere. Ma anche per noi, come per un atomo, per una qualunque forma di energia, resta il mistero del principio e della fine, della nascita e della morte. L’energia: questo è il mistero. Noi vecchi, che di energia siamo pressoché sprovvisti, pensiamo che questo sia il vero mistero. La matematica forse; ma i numeri chi li ha inventati? Sono nati ma vivranno all’infinito, sia col segno più sia con quello meno. Ma se nessuno li pensa non esistono. Questo è tutto e questo è niente.