Repubblica 19.6.18
Cinquanta sfumature di 1700 anni fa
“Canta una danza in cui il microcosmo si unisce al macrocosmo, trasuda sessualità da ogni metafora
di Giuseppe Montesano
Quando
la mente e i sensi non erano entità separate, in India si scriveva “ La
storia di Siva e Parvati”, poema ad alto tasso erotico di iniziazione
ascetica e passione fisica. Tradotto adesso, ha ancora qualcosa da
insegnare
Un antidio appare nel perfetto mondo degli dèi
dell’India, sconquassando l’ordine cosmico: che fare? C’è solo una
possibilità di salvezza: il grande ?iva, distruttore e creatore,
libertino e ascetico, orribile e splendente, il grande ?iva che tiene
connesso il mondo danzando e calpestando tutto nella morte e danzando e
facendo rinascere tutto dalla morte, quello ?iva che come vero nome ha
“il nato da sé stesso”, deve innamorarsi di una donna e concepire con
lei il figlio che riporterà l’ordine nell’universo.
Così comincia
La storia di Siva e Parvati, un poema scritto in sanscrito 1700 anni fa
dal poeta Kalidasa e tradotto da Giuliano Boccali per Marsilio, un poema
che ci trasporta in un mondo in cui Eros, Religione e Pensiero erano
inseparabili. Per far cedere Siva il Tremendo, gli dèi affidano ad Amore
il compito di colpire con la sua freccia il dio mentre è vicino a
Parvati, la figlia del regale monte Himalaya appena passata
dall’infanzia alla giovinezza: “L’un l’altro premendosi, i seni
luminosi/della fanciulla dagli occhi di ninfea blu a tal punto
crebbero/che tra loro, bruni i capezzoli,/neppure lo spazio per il
filamento di una fibra di loto si sarebbe trovato”, Parvati che quando
cammina risplende: “Con i lampi levati dalle unghie degli alluci, quasi
emanassero appoggiandoli un bagliore vermiglio,/i suoi piedi acquisirono
sul suolo/la bellezza di ibischi non fermi in un solo luogo”: e chi non
si dannerebbe l’anima per quegli alluci smaltati? Per spingere alla
passione il dio, Amore suscita la Primavera in un tripudio di coppie di
api che bevono nello stesso fiore, di elefanti che si porgono bocconcini
di cibo a vicenda, di liane innamorate e accoppiate ai loro alberi: ma
tutto è vano perché Siva, sprofondato nella meditazione ascetica che
nega il desiderio, con uno sguardo riduce in cenere Amore. È allora che
Parvati decide di imitare Siva diventando anche lei una yogin che
medita: se amore è stato arso, lo yoga lo farà rivivere. Così la
coccolata figlia di re intraprende la via dell’ascesi e mette a rischio
bellezza e comodità: “Lei, che era afflitta persino dai fiori nella sua
chioma/scompigliati mentre si rigirava nel letto preziosissimo,/giaceva
appoggiandosi per cuscino alle braccia flessuose,/coricata sulla nuda
terra…”. La bellezza diventa fragile nelle privazioni ma non si spegne,
fino a quando Siva non è turbato dall’unione tra concentrazione yogica e
fascino seduttivo e si innamora di Parvati, celebrando le nozze nella
città di Himalaya dove in mezzo alle nevi regna l’eterna giovinezza:
“Dove nella notte le donne che, incuranti delle tenebre,/vanno a
incontrare gli amanti,/pur con il tempo di burrasca hanno la via
mostrata/dalla luminosità delle erbe magiche;/lì l’intera vita è tutta
giovinezza,/unica pena Amore, l’armato di fiori,/perdita di coscienza il
sonno/sorto dallo sfinimento del piacere;/dove gli innamorati, per via
dello sdegno delle donne,/le sopracciglia aggrottate, le labbra che
tremano,/le minacce deliziose delle dita,/non desiderano più la
riappacificazione…”. Ormai il poema a cui sembrano aver “posto mano e
cielo e terra” è diventato la celebrazione dell’eros che permea
l’esistenza, un eros che culmina nell’iniziazione all’amore di Parvati,
che con i suoi gesti canta il “vorrei e non vorrei” di Zerlina nel Don
Giovanni di Mozart: “La mano di ?iva il Propizio posata vicino al suo
ombelico/era da lei respinta con un tremito;/e poi da sé sole le sue
cosce scioglievano/completamente il laccio della sottoveste”; più
sottile di Zerlina, Parvati non brucia l’ascesa verso il sesso con la
fretta di una sveltina ma accresce l’ardore nella lentezza sensuale,
vuole che la sua bocca venga succhiata “ma senza morsi al labbro
inferiore,/e il segno delle unghie che fosse senza ferita,/che il gioco
d’amore col suo caro fosse tenero”: il sesso selvaggio non è il sesso
brutale, è una scienza che va appresa; finché, nella tenebra rotta dalla
luce lunare, non arriva l’insurrezione erotica nella coppia ormai di
uguali in cui l’amore senza limiti scorre come il sangue nelle vene e i
fiumi nel mare: “Come la sposa era innamorata del marito a lei
eguale/così il marito lo era di lei…/Da lei, divenuta in segreto
discepola/di Siva il Benefico che la istruiva nell’arte del sesso,/era
insegnato a lui quello in cui è abile una giovane donna,/che certo
rappresentava il compenso dell’allievo al guru...”. La passione erotica,
sviluppandosi dalla sua negazione attraverso l’ascesi, si è comunicata
dalla fanciulla in fiore a Siva il Distruttore e all’universo: le nozze
tra dèi e mortali sono nozze sacre, le nozze tra mortali lo specchio del
divino totalmente immerso nel corpo erotico della natura. E il poema di
Kalidasa canta una danza in cui il microcosmo si unisce al macrocosmo,
trasuda sessualità da ogni metafora, trasforma l’astratto in concreto:
anche la forma della poesia si erotizza, il gioco perpetuo del desiderio
guida il linguaggio, ogni gradino della discesa-ascesa erotica porta
dove si trova Amore: come scrisse Nietzsche, sempre al di là del bene e
del male. E invece dove ci troviamo noi, oggi, rispetto a questo
universo trascolorante e metamorfico in cui la mente e i sensi non sono
separati e i concetti più profondi sono disciolti come lacrime di umori
erotici nel mare del corpo? Nulla che ci riguardi ha più un contatto con
il potere di Eros che disordina e riordina la vita, nulla di ciò che
chiamiamo amore è pallidamente simile al vorticare lento in cui ci
immerge Kalidasa.
Proprio per questo il caleidoscopio del più
grande poeta dell’India andrà letto con ardore pensante, ringraziando
Giuliano Boccali per il regalo che ci fa con la traduzione della Storia
di Siva e Parvati e ripetendoci qual è il luogo in cui ci suggerisce di
andare lei che sa, l’allieva umana da cui anche il maestro divino deve
imparare: “là sta fermo il mio cuore, che ha per essenza unica
l’emozione:/chi ha l’amore come norma di vita non guarda alle censure…”.
La musica comincia quando il silenzio è più minaccioso, la vita accade
quando è sull’orlo di scomparire: Amore non è un dio facile.