martedì 19 giugno 2018

Repubblica 19.6.18
Profezie avverate
“Erdogan affetta la democrazia come un kebab”
Parla l’analista Cagaptay: aveva predetto il destino della Turchia. Che domenica vota
di Marco Ansaldo


ISTANBUL Diversi anni fa Soner Cagaptay, studioso americano di origine turca, era uno dei pochi specialisti a essere convintamente e ostinatamente critico con Recep Tayyip Erdogan quando molti confidavano nella crescita di un Islam democratico, incarnato nella Turchia del nuovo leader. Cagaptay no. Aveva seri dubbi sulle sue reali intenzioni democratiche. Oggi la sua analisi ha finito per aderire a quel che il “Sultano” è diventato. Direttore del Programma di ricerca sulla Turchia al Washington Institute per la politica del Vicino Oriente, Cagaptay ha trasferito le sue tesi in un libro, ora in Italia, Erdogan, il nuovo sultano (Edizioni del Capricorno).
Lei ha anticipato quello che sarebbe successo. Come aveva capito il fenomeno Erdogan?
«Erdogan nei suoi primi anni aveva aderito al processo della Turchia in Europa. Parliamo dei primi anni 2000, lo si giudicava dai gesti e non dalle parole».
E quando cambia, invece?
«Dal 2007».
Quando, insieme con Fethullah Gulen, l’imam ora da lui accusato di aver ispirato il golpe fallito del 2016, estromette i militari dalle istituzioni?
«Comincia a deviare allora. Molti lo ritenevano un liberale, altri capirono che era un autocrate».
Quando lo diventa chiaro per tutti?
«Nel 2013, con la rivolta di Gezi Park. Prima aveva ingannato i liberali, la sinistra, i kemalisti, giocando a fare il democratico».
Ha ingannato o c’è stata una deriva?
«Ha affettato la democrazia come un kebab. E la democrazia, fetta per fetta, è diventata più sottile. Lo ha fatto come si affila la carne appesa al gancio, poco per volta».
Nel libro lo definisce «intelligente e astuto». Più abile di tanti leader occidentali?
«Come prototipo di politico populista, sì. Ha inventato un tipo di leader che rappresenta la gente contro il potere. Suggerendo che la Turchia fosse divisa, con l’idea dell’uomo comune, del turco anatolico, contro il turco “bianco”.
La nostra rivoluzione democratica si è risolta in un modo populista. Ha avuto successo. È stato il primo esempio di populismo dentro la democrazia».
C’è chi lo adora e chi lo
aborrisce. Perché è così divisivo?
«È amato per la crescita economica che ha portato. Perché ha tolto la gente dalla povertà. Poi c’è il lato oscuro: ha demonizzato e brutalizzato quelli che non votavano per lui: laici, sinistra, socialisti, aleviti, curdi. Se perdi questi, perdi la metà del Paese».
Il Sultano che Turchia propone?
«Una Turchia non così liberale e democratica, ma conservatrice e confessionale».
A 64 anni però è ancora un leader nel pieno delle forze, nonostante sia da più di 15 anni al potere. Quanto durerà?
«Fin quando non perderà la popolarità. Dipende anche dalla sua salute. E dalla situazione economica del Paese, in questo periodo non esattamente florida».
La sua gente lo vota perché gli ospedali ora funzionano e le case si possono finalmente comprare con il mutuo e non in contanti. I turchi ieri vivevano come siriani, oggi lo fanno come spagnoli. Non tutto è stato male, allora. È un Paese più ricco, al centro dell’attenzione mondiale.
Questo è dovuto a Erdogan, no?
«La sua eredità più brillante è sicuramente dovuta allo sviluppo economico. Il miglioramento sociale è evidente, così il welfare».
E togliere il potere ai militari, la cosiddetta anomalia turca per tanti decenni, è stato alla fine un bene o un male?
«Molti dimenticano che nel farlo il suo alleato è stato Fethullah Gulen.
Al termine di questa alleanza volevano entrambi il potere. E nel golpe del 2016 Gulen ha giocato un ruolo significativo».
Gulen era implicato nel colpo di Stato?
«Sì, i gulenisti hanno avuto un ruolo. E la battaglia fra Erdogan e Gulen non è ancora finita. Il loro network all’estero è forte».
Washington accoglierà mai la richiesta di Ankara di estradarlo?
«È molto difficile: per gli Usa mancano prove di colpevolezza».
Il rapporto Turchia-Usa sembra andare piuttosto male, persino peggio che con Obama.
Eppure Erdogan confidava molto nell’arrivo di Trump.
«Per ogni presidente americano Erdogan è un test di Rorschach (l’indagine psicologica usata per capire la personalità, ndr). Così fu per Bush, poi è toccato a Obama, ora a Trump».