Repubblica 18.6.18
Colm Tóibín “Solo la tragedia greca spiega le radici di tutto questo odio”
Agamennone,
Oreste, Clitennestra, Ifigenia: lo scrittore irlandese si affida a
Euripide per raccontare questi tempi di “fratello contro fratello”
di Leonetta Bentivoglio
Tutto
parte da un lampo di sangue: Clitennestra ha massacrato Agamennone e
viene invasa dall’odore della morte. Già conosce quella sensazione: con
l’uccisione del marito sta vendicando l’assassinio di sua figlia
Ifigenia, sacrificata agli dei dal padre Agamennone. Un delitto capace
di generarne altri, in un succedersi di orrori che, nella prosa limpida
di Colm Tóibín, acquistano la pregnanza della quotidianità. Gli antichi
eroi non sono più simulacri, ma esseri le cui logiche, passioni e
motivazioni somigliano a ciò che noi potremmo sperimentare. «Da quel
flash scarlatto s’avvia il mio ultimo romanzo», spiega Tóibín, autore
fra l’altro di The Master e
Brooklyn (fonte del premiato film
onomino del 2015). «Ogni trama inizia da una frase, da un’immagine che
diviene ritmo e melodia, per poi espandersi e strutturarsi», avverte lo
scrittore, che con La casa dei nomi, appena uscito in Italia per
Einaudi, s’imbatte nei giganti della grecità per sondare la natura viva e
presente dei miti.
Operazione sorprendente da parte di un celebre
cantore di esistenze spesso minute ed emarginate dell’Irlanda moderna. A
ispirargli l’impianto della Casa dei nomi, segnala, è stata soprattutto
la lettura d’Ifigenia in Aulide di Euripide, «una tragedia che ha
trasformato la mia prospettiva sulla vicenda di Elettra — sorella di
Oreste e figlia di Clitennestra e Agamennone, così come Ifigenia —
facendomela osservare dal punto di vista di sua madre». Facile leggere,
in quest’affresco privato percorso da rabbie, congiure, angosce e
lamenti, il pessimistico riflesso pubblico di una società svuotata da
ogni ideale. È come un viaggio progressivo nella caduta degli dei.
Mister
Tóibín, ne “La casa dei nomi” le figure della casata di Atreo si
muovono condotte da dinamiche perversamente affettive analoghe a quelle
di “normali” famiglie odierne. È rimasto immutato il nucleo relazionale
della famiglia?
«Mi sembra che il senso di smarrimento di Oreste e
l’alienazione di Elettra siano molto attuali, ma non ho voluto
enfatizzare quest’aspetto. Non m’interessava scrivere un manuale di
patologie familiari.
Comunque è chiaro che i membri della famiglia di cui parlo non si sentono a loro agio sotto lo stesso tetto».
Cosa l’ha attratta di questa storia?
«Viviamo
su un pianeta libero dai conflitti mondiali dal 1945, eppure pieno di
guerre civili. La Guerra Fredda ha scatenato lotte tra nord e sud in
luoghi quali la Corea e il Vietnam. Altre guerre sono state combattute
nei confini di una stessa nazione, vedi l’Irlanda e l’ex Jugoslavia. Da
questi due Paesi in particolare io scrivevo articoli, e mi turbava la
purezza dell’intimità che sentivo pulsare dentro tanto odio. Era come se
persone molto vicine fra loro si uccidessero per vendicarsi di colpe
precedenti».
Crede quindi che negli schemi dei rapporti sanguinari
fra i parenti delle tragedie greche si celi il germe di tutte le lotte
fratricide?
«Sì. Durante la guerra civile irlandese molte famiglie
si sono spezzate in due fazioni: fratello contro fratello, padre contro
figlio… Anche nella guerra civile spagnola si sono verificate fratture
tra congiunti. Nella Casa dei nomi mi sono preoccupato di non mettermi a
fare il predicatore, né di scrivere come se fossi il segretario
generale delle Nazioni Unite, ma ho esplorato la lentezza e la stranezza
con cui nasce la violenza concentrandomi sulle particolarità dei
personaggi e sui modi in cui monta il risentimento».
La miscredente Clitennestra s’interroga sulla totale scomparsa degli dei. È una metafora di quanto accade adesso?
«Sappiamo
che la forma del romanzo, dal Diciottesimo secolo in poi, non lascia
molto spazio a Dio né al sovrannaturale. È più condizionato dai bisogni,
dai desideri e dalle azioni degli umani. Tuttavia è evidente come lo
sfondo del mio libro, che considero totalmente contemporaneo, sia
dominato dall’idea che Dio è stato messo in ombra nell’Europa di oggi».
Perché fa parlare Clitennestra in prima persona? Anche Elettra usa l’io narrante, al contrario di Oreste.
«Oreste
è troppo giovane e inconsapevole per possedere la propria voce: non ha
alcuna strategia. Invece sua madre e sua sorella sono sospinte dalle
rispettive, potenti strategie».
Il rapporto tra Clitennestra e il
suo amante Egisto è cupamente voluttuoso mentre quello fra Oreste e
Leandro è tenero e solare. Lei è un esponente molto attivo del movimento
Lgbt: sembra che la sua identità omosessuale influisca radicalmente
sulla visione della coppia.
«Mentre scrivevo il libro lo sentivo
così colmo di negatività e violenza da volerlo bilanciare con
l’inserimento di belle immagini d’amore. La sezione su Oreste e Leandro
non si modella su alcun mito: l’ho inventata solo per rispondere a
quell’esigenza. Il legame tra i due giovani è dolce e innocente: l’ho
descritto non per esaltare le gioie di un’intesa omosessuale, ma per
creare momenti di luce nel buio. Avrei potuto raccontare in maniera
altrettanto armoniosa un amore uomo-donna».
Ha avuto riferimenti letterari nell’impresa di trasformare gli antichi in creature ravvicinate?
«Mi
è stato utile il romanzo di David Malouf Ransom (in italiano Io sono
Achille, ndr) che però, rispetto a me, è molto più fedele ai greci. Ma a
farmi ripensare a quei caratteri in un’ottica non distante dal nostro
mondo sono state soprattutto attrici come Fiona Shaw, in grado
d’interpretare le eroine classiche rendendole contemporanee.
Devo molto anche alla Medea di Pasolini con Maria Callas».