La Stampa 18.7.18
Spagnoli brava gente
di Domenico Quirico
La
brava gente, quella che si commuove, che prova la compassione depurata
di ogni secondo fine, che rifiuta di umiliare e di lasciarsi umiliare,
che dice «sì, è fatica e pena, non è facile, eppure così bisogna fare e
così faremo», ieri, a cercarla, la trovavi sul molo di Valencia Spagna
Europa Occidente. La brava gente… quello che noi italiani eravamo.
Perché c’è ancora, c’è sempre la brava gente, ferma su quel filo,
aggrappata a quel filo che più forte di un cavo di acciaio, afferrata
con le mani e con i denti a quel filo che è volontà di guardare a occhi
aperti la sciagura dell’Altro, di resistere, di credere, di piangere con
lui, di amare il suo dolore. Che è anche, sempre, un poco o tanto, il
tuo.
Ce lo siam portati dietro per secoli, noi, questa definizione
«brava gente»; ed era la medaglia più grande, le parole da scriver
sulla bandiera. Infatti qualcuno, gli arroganti, i decisionisti, i
mascelluti, che anche quelli ci son sempre e qualche volta sembrano
maggioranza, lo bestemmiava come il marchio della debolezza nazionale:
italiani brava gente! E inveiva a seppellirla, la nomea di «zerbini»,
sotto cumuli di violenze e di soperchierie.
Non so: forse le
nazioni e i popoli non hanno anima. Ma se c’è, quella era la nostra
anima di popolo provato dalla Storia e che sapeva da quel dolore suo
capire e compatire.
Adesso altri se lo calano addosso, con
orgoglio, un marchio di dignità e di appartenenza, la grande Lega
universale della pietà, senza spadoni twitter e bugie.
Sì. I
migranti ci hanno rivoltati come un guanto, hanno imposto con la loro
sola presenza l’obbligatorietà di una domanda: chi siamo? Cosa vogliamo
essere? Ci hanno tolto i veli della ipocrisia, della retorica, ci hanno
obbligato a dividerci fisicamente: di qua o di là, non c’è remissione.
Finalmente!
Gli xenofobi, quelli che hanno immancabilmente paura
di qualcosa, vivono assediati da qualche pericolo, i negri i gialli i
giudei i maomettani i capitalisti i boches la perfida albione… sono una
razza, da Drumont in avanti, sempre e soltanto uguale. Esiste un
universo del rifiuto, fermo, cristallizzato come una specie per cui la
fase della evoluzione si è chiusa. Ebbene di fronte a loro il
manicheismo è permesso, obbligatorio. Possono camuffarsi con
ragionamenti economici, affidarsi al cavillo leguleio, ma in fondo sono
sempre quello, un mondo soggettivamente insensibile, nessun margine di
fluidità, tremendamente, nello stesso tempo, forte e debole, prigioniero
della propria natura. Sono chiusi, per loro i giochi sono eternamente
fatti. Di fronte a tutto questo bisogna a un certo punto esimersi dallo
sforzo di interpretare, capire, modificare. Si può solo, risolutamente,
passare dall’altra parte.
La Migrazione li ha fatti emergere, con
strepiti e urla. Loro di là. E di qua gli altri, quelli che aspettavano
la nave «Acquarius» con i suoi naufraghi e le altre caravelle delle
«crociere» disperate che verranno. Non per inveire, ma per aiutare e
servire. E quelli che lavorano nelle organizzazioni umanitarie: per la
mia generazione era un sogno e un dovere, oggi sembra un reato da codice
e manette. Quelli che credono, obbligatoriamente, nell’unico diritto
che non è sminuzzabile in codicilli, che non si può diluire con l’acqua
degli azzeccagarbugli: il diritto dell’uomo astratto, di sopravvivere,
di fuggire, di essere libero. L’espressione spaziale di questa tensione
morale è il desiderio di scavalcare frontiere come se non ci fossero. La
brava gente è quella che sente ogni violazione del diritto universale
come un pezzo della propria condizione di uomo che salta via come una
scheggia. Non i buoni o i buonisti, i debolucci, i professionisti del
piagnisteo. No, gente dura, implacabile, determinata che sa che la
sofferenza altrui mi coinvolge e mi condanna, che non ho il diritto di
voltargli le spalle. Ieri erano sul molo di Valencia: purtroppo non a
Lampedusa o a Catania. Non perché non esistano anche qui. Perché l’hanno
vietato.