lunedì 18 giugno 2018

La Stampa 18.6.18
Calzolai, professori e bambini
Il popolo dell’Aquarius è a Valencia
di Francesco Olivo


Ogni volta che all’orizzonte si intravedeva una costa partivano le domande: «È questa la nostra terra?». Non lo era Malta, la Sicilia, nemmeno la Sardegna, né la Corsica. «Stamattina finalmente abbiamo potuto dire: ecco, questa è la Spagna. Siamo arrivati».
La traversata disperata e irregolare dell’Aquarius finisce alle 11 al molo numero 1 nel porto di Valencia. Nove giorni in balia di ogni ostacolo possibile: il gommone che affonda nel momento del salvataggio, il freddo di notte, il caldo di giorno, la bufera e le onde di quattro metri. E poi quella lite tra governi che nessuno capiva, ma di cui tutti hanno pagato le conseguenze. «Dopo lo stop dell’Italia in due hanno provato a lanciarsi in acqua, temevano il ritorno in Libia», raccontano i volontari.
Quando il peschereccio rosso spunta dietro al molo, cala il silenzio sulla banchina. Tutti ne hanno parlato per giorni, ognuno aveva un’opinione, ma ora nessuno sa più cosa dire: l’Aquarius è qui davanti. Fermi sul molo i volontari si commuovono, salutano, poi battono le mani. Le uniche voci si sentono dalla nave, sono canti africani di felicità, di liberazione.
Valencia ci ha tenuto a mostrare il suo volto migliore al mondo intero, «ma soprattutto a questi 629 naufraghi che l’Italia non ha voluto», racconta Marta, volontaria della protezione civile, che sistema gli scatoloni in un padiglione che si riempie di esseri umani a lungo in balia dei governi. Malta e Italia che litigano, il resto degli Stati che assiste e si schiera. E poi il socialista Sanchez che compie il gesto di solidarietà che, al tempo stesso, è uno schiaffo all’Italia, «e non un regalo a Salvini», come ripetono dal ministero degli Esteri di Madrid.
Le operazioni di attracco
Le operazioni di attracco delle tre imbarcazioni sono durate più di sette ore, dall’alba, quando è arrivata con un colpo di sirena la Dattilo della Marina italiana, poi a metà mattina l’Aquarius e infine la Orione, quando erano ormai le due del pomeriggio. A ogni arrivo salgono a bordo medici e infermieri, una prima visita rapida e poi lo smistamento: le donne incinte in ospedale, i minori senza genitori (più di 130) verso un centro ad Alicante, gli altri all’identificazione con la polizia. Il loro permesso di residenza dura 45 giorni, dopodiché «si valuterà caso per caso chi ha diritto all’asilo e chi no», precisa il governo spagnolo. Le autorità locali insistono per concedere a tutti lo status di rifugiati, ma la Spagna teme di creare precedenti, visto che in Andalusia gli sbarchi iniziano a essere massicci.
Gli abitanti di Valencia, con qualche eccezione, mostrano orgoglio per essere diventati «il porto aperto», dopo che altri nel Mediterraneo li hanno chiusi. «Benvigudes a casa vostra», recita un grande cartello in valenciano su una banchina, con traduzione in castigliano, francese, inglese e arabo. Niente italiano e non è un caso.
Tanti onori, quindi, per chi negli ultimi mesi ne ha ricevuti pochissimi. Ed è un eufemismo.
Quando erano a casa
A bordo dell’Aquarius si rincorrono storie normali, che in un attimo prendono una piega spietata. Niente di diverso da quello che in Sicilia e in Calabria gli operatori ascoltano da quasi un decennio, ma oggi il mondo ha gli occhi puntati qui. Normalissima era, per esempio, la vita di David un professore di inglese nigeriano, con eleganza, nonostante tutto, e buon portamento scalfito dalle torture subite in Libia. «Sono andato a Tripoli perché ho trovato un istituto privato di buon livello - ha raccontato agli operatori di Sos Méditerranée - un giorno tornando a casa sono stato sequestrato, portato in un campo di prigionia dove mi hanno chiuso e picchiato per molti giorni». La Libia ricorre nei racconti di tanti dei passeggeri sbarcati ieri: «Sono un calzolaio - dice il ghanese Mambie - nel mio Paese non trovavo più nemmeno il materiale per fare scarpe e cinture e sono arrivato ad Agadez e poi di lì a Tripoli, lì i neri come me non sono ben visti e mi hanno rinchiuso per sette mesi». L’unica opzione per sopravvivere era quella di scappare «anche se ho paura del mare, non mi pare vero di essere al sicuro, qui non mi faranno l’elettrochoc». Ibrahim è, invece, un tipo riservato, viene dal Senegal, ha 19 anni e andava bene a scuola, «ma mio padre è morto sul lavoro e i soldi non ci bastavano. Non ho detto a mia madre che avrei attraversato il Mediterraneo». Nel suo viaggio i guai sono cominciati in Burkina Faso e proseguiti più a Nord, «non posso dire cosa mi hanno fatto, mi vergogno a raccontarlo», dice abbassando lo sguardo.
«Sulla loro pelle»
Al porto di Valencia l’atmosfera è commossa, «eppure oggi si celebra una sconfitta - dice la presidente di Medici Senza Frontiere Italia, Claudia Lodesani -, l’Aquarius segna uno spartiacque. Il governo italiano canta vittoria, ma lo fa sulla pelle di questa gente, peraltro senza trovare una soluzione». Infettivologa, da poco tornata dal Sud Sudan, Lodesani risponde alle accuse alle Ong: «Ci chiamano scafisti, tassisti del mare, ma noi lavoriamo con la Guardia Costiera italiana. Se noi siamo scafisti, loro allora sono i coordinatori degli scafisti? È ingiusto solo pensarlo. La verità che la distinzione tra la Marina e noi operatori umanitari non ha senso». Le prese di posizione di Salvini però sono nette: porti chiusi alle Ong: «Noi in mare ci vogliamo tornare, lasciateci il tempo di capire come. Non possiamo escludere l’Italia, fosse anche solo per una questione geografica».
I comandi contraddittori
La conferenza stampa degli operatori di Medici senza Frontiere e di Sos Méditerranée (un network di diverse Ong) segna il momento più teso: «L’inazione dell’Europa è criminale - attacca Sophie Beau - hanno detto che questa era una crociera». Ci sarà tempo per ricostruire i fatti, anche se Nicola Stalla di Sos Méditerranée, ufficiale di coperta della Marina Mercantile, coordinatore delle operazioni di bordo della Aquarius, avanza dettagli su «quei due giorni in cui abbiamo girato su noi stessi in attesa di capire cosa fare. È stato terribile, Roma coordinava, il ministero dell’Interno ci ha indicato Messina o Trapani come porti di sbarco. Scegliamo Messina e ci dicono di aspettare per la conferma definitiva». Poi la svolta: «Due ore di silenzio, seguito da una discussione con Malta. È stato surreale. Avevo sentito parole mirabolanti da alcuni politici, ma non pensavo si arrivasse al punto di mettere in pericolo le vite umane».